Tina Abbondanza

 

Tina Abbondanza

 

Introdurrò un punto di vista, quello femminile, su tematiche sicuramente definite dall’appartenenza di genere e basato sulle esperienze e sulle riflessioni fatte dalle donne sul tema della sicurezza, tentando di introdurre nella discussione le contraddizioni che si celano dietro questa parola e provando a definirlo sia come relazione tra noi ed il mondo esterno, sia come rappresentazione di noi nel nostro mondo interno.

Credo che, in questo particolare momento storico, il fatto che sempre più spesso venga messa in crisi la sicurezza del pianeta (su cui non abbiamo gli strumenti e il potere di controllo), produca, a livello personale, una maggiore richiesta di sicurezze e di controllo su ciò che ci sta più vicino e si svolge accanto a noi. A questo maggiore bisogno di sicurezza, che chiamo di prossimità, in antitesi al senso di insicurezza globale, si risponde con i poliziotti di quartiere, i carabinieri fuori dalle scuole e con la necessità di aumentare il controllo e di mantenere le strade "pulite", private cioè di ogni possibile fattore di turbativa e di diversità. Per i matti si ripropongono i manicomi, per i tossicodipendenti solo le comunità terapeutiche, per gli immigrati i centri di permanenza temporanea prima dell’espulsione definitiva ed infine, per le prostitute che lavorano sulla strada. le case chiuse. Così la pulizia delle strade è fatta e gli onesti cittadini si sentono più sicuri, quegli stessi onesti cittadini che poi sono i clienti delle prostitute. Il lavoro e l’esperienza che ho fatto nell’associazione GIRAFFA (Gruppo Indagine e Resistenza Alla Follia Femminile Ah) che a Bari si occupa da tempo di donne straniere costrette a prostituirsi, ha svelato tutta l’ipocrisia e le contraddizioni del concetto di sicurezza e messo in evidenza i pregiudizi e le operazioni di lifting sociale e culturale che si nascondono dietro il reclamato bisogno di sicurezza.

Vi leggerò alcune frasi, scritte da una ragazza albanese ospite della casa rifugio gestita da "Giraffa": "Come si fa a raccontare di quelle persone che avevano un corpo, occhi, mani ma non avevano un cuore, anima, cervello? La noia sofferenza era invisibile per i loro occhi; non avevano mai nello sguardo il pensiero della dIstruzione di me, del mio corpo. Leggevo negli occhi di tutti gli uomini che mi pagavano, che mi stupravano, il loro dolore, la loro solitudine la disperazione che volevano cancellare".

Questa ragazza, con le sue parole, è riuscita a cogliere nel cliente, nell’uomo, un lato oscuro dell’insicurezza di oggi, il tentativo di esorcizzare l’incertezza (insicurezza di sé) nella relazione sessuale a pagamento, sostitutiva forse di una vicinanza e di uno scambio di emozioni e sentimenti, e forse spia dell’incertezza odierna del rapporto uomo-donna. Che l’insicurezza personale appartenga alle donne, definite da sempre fragili e insicure, è solo un luogo comune che non fa i conti con la crisi d’identità dell’uomo e che si esprime sia con l’aumento di richieste di prestazioni sessuali a pagamento sia con l’aumento della violenza all’interno della famiglia. Questo ultimo fattore ci impone quindi di ripensare al concetto di sicurezza enunciato prima come timore dell’incontro con l’altro, il diverso, lo sconosciuto.

Per le donne, il nemico, l’altro, non è quello che sta per strada ma è, spesso, il proprio compagno. L’80% delle violenze che le donne subiscono vengono commesse dagli uomini con cui esse vivono, gli stupri e i maltrattamenti avVengono in ambiente domestico, sono compiuti da persone vicine, conosciute e quindi il concetto dell’altro (quello che ci fa paura, quello che abbiamo bisogno di esorcizzare) va rimesso in discussione con tutte le implicazioni anche pratiche che questo comporta, Non servono poliziotti ne politiche di cambiamento di facciata per restituire il senso di sicurezza alle donne, ma una radicale intolleranza verso la violenza che si esercita nella famiglia e politiche attive di tutela e di cambiamento culturale.

Il detto "tra moglie e marito non mettere il dito" esprime in fondo la grande tolleranza culturale nei confronti della violenza domestica e sottende quella logica di accettazione e di impotenza nei confronti di quelle donne che vengono cronicamente esposte alla sopraffazione fisica e psicologica da parte del partner con cui hanno una relazione di maltrattamento, o di quelle tante donne che sono costrette ad avere rapporti sessuali contro la loro volontà e che non sanno o non possono ribellarsi. Che fare dunque per progettare e offrire servizi che tengano conto delle diversità, che producano risposte efficaci, miranti a dare risposte concrete al malessere, a produrre inclusione sociale piuttosto che emarginazione e solitudine?

Sono una psichiatra che lavora nel servizio pubblico e, nel centro di salute mentale che dirigo, ho creato (insieme ad altre operatrici) spazi di ascolto e di intervento per le donne che si rivolgono a noi, perché il problema dell’inclusione e dell’esclusione sociale per le donne passa attraverso la messa in discussione di pratiche e culture che non affrontano la specificità del disagio femminile, che precostituiscono la domanda e uniformano le risposte. Facciamo un esempio: spesso per chi si rivolge a noi ipotizziamo, quale obiettivo dei nostri interventi, il conseguimento di autonomia. Questa parola, dal greco auto-nomos, vuol dire imparare a mettersi le regole da se, regolarsi, Perché non parliamo e pratichiamo percorsi che portino all’autodetern1inazione? Perché ci fa paura il potere (dell’utente) e pensiamo che i progetti di inclusione sociale si basino sulla conformazione alle regole? Perché abbiamo tanta difficoltà a tenere in conto, sempre, il volere dell’altro, sia esso donna, matto, tossicodipendente, immigrato?

So che fa molta paura ed è difficile per gli "inclusi" vedere l’altro, il diverso, ed immedesimarsi con lui/lei perché è da questa immedesimazione che scaturisce una relazione d’aiuto che mette in discussione il concetto di potere. lo so, come donna e come operatrice, che l’unica strada possibile per avviare processi di inclusione sociale è la messa in discussione continua della posizione di potere: so che quando l’altro/a ha ed esercita il potere, le cose cambiano. Il concetto di potere cui faccio riferimento (che ci fa tanta paura), si rifà alla radice etimologica della parola - dal latino possum/potest - e nella concezione e nella pratica che ho sviluppato in questi anni è diventato il "poter essere" diversi senza che questo significhi disuguaglianza ed esclusione.

L’inclusione sociale dovrebbe essere uno scambio di poteri e saperi, e questo è possibile solo quando le donne, i matti. i consumatori di droga, gli immigrati privati di potere, di dignità, di voce, arrivano a declinare il verbo possum affermando "io sono, io posso". Se sapremo fare questo, se sapremo ascoltare per poi agire, se accetteremo la diversità come un valore positivo e non come disuguaglianza, forse il nostro operato produrrà inclusione e dignità, restituirà a noi e agli altri il senso della comune appartenenza al genere umano, ci farà sentire meno soli e soprattutto più uguali.

 

 

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