Il lavoro pRecluso

 

Prof. Giuseppe Mosconi Ass. Antigone di Padova

 

 

Grazie per essere qui e grazie per avermi invitato, sono sostanzialmente d’accordo con quasi tutto quello che ha detto l’avvocato Pinelli direi tutto, vorrei sottolineare un aspetto che mi sembra la sintesi delle sue osservazioni. Vedo qui tanti ragazzi, tanti giovani, tanti anche immigrati e non penso che la vostra esperienza, come persone che siete qui, sia così diversa dai ragazzi che stanno fuori. Come Università e come struttura per cui lavoro stiamo cercando di approfondire con delle indagini proprio questo tipo di realtà, cioè che chi entra in carcere condivide con chi è fuori dal carcere la stessa situazione di tanti che sono fuori, cioè la situazione di difficoltà di trovare un inserimento stabile, un inserimento che dia la possibilità di vivere in modo dignitoso e che questa difficoltà è legata al fatto che il lavoro è sempre più precario, è sempre più episodico. Rispetto a una situazione di difficoltà di questo tipo spesso si rivela più facile vivere un po’ di ritrovati, non voglio dire di espedienti ma insomma di attività collaterali al lavoro cosiddetto legale che facilitano una vita migliore. Ora in questo modo, in questo tentativo di trovarsi in una situazione di vita migliore, violando la legge c’è anche la disavventura, perché bisogna dire che pochissime sono qui le condotte illegali che vengono effettivamente perseguite, di finire anche in carcere che fa parte dei costi in qualche modo di una situazione lavorativa precaria. Allora il problema è proprio questo, se questo è il quadro di sfondo in cui si trova la realtà del lavoro oggi all’esterno nella società, il fatto di finire in carcere da al soggetto una identità diversa cioè, la sua rappresentazione da parte della realtà, della società, della stesa legge è tale da raffigurarlo come molto peggiore di quello che in realtà non sia, ovvero come una persona diversa dagli altri, cosa che nella sostanza non è così radicale. Diciamo che potrà aver avuto delle difficoltà in più o aver sentito maggiormente la suggestione di certi modi facili di risolvere la situazione di vita, ma se non teniamo conto che chi è in carcere è una persona sostanzialmente come tutti gli altri, che va considerata per le difficoltà che sta attraversando e sostenuta perché rientri sostanzialmente al livello della normalità fuori, una normalità che fatta di difficoltà, fatta di tensioni, fatta di possibili continui fallimenti, ci muoveremo sempre in una prospettiva distorta cioè in una rappresentazione di quelli che sono i problemi che non corrisponde alla loro sostanza e questa rappresentazione è un po’ artificialmente deformata da una visione che le leggi danno del comportamento illegale che tende ad attribuire alle persone una fisionomia sociale complessivamente negativa, cosa che nei fatti non è. Allora se si parte da questo punto di vista a me sembra che la legge SMURAGLIA, della quale mi impegno brevemente a focalizzare i suoi aspetti determinanti, sia anche qualcosa di estremamente positivo perché rendendo possibile, impegnando in qualche modo il mondo della produzione, il mondo del lavoro, a considerare con particolare attenzione le persone che sono in questa difficoltà all’esterno. La legge elenca le categorie di persone che trovano questo tipo di difficoltà per una situazione loro particolare, dal punto di vista del discorso che fa, i sociologi dicono dal punto di vista simbolico, praticamente definisce una politica di apertura, una scelta di fondo, cioè di far fronte ad una situazione di difficoltà con degli strumenti eccezionali, con degli strumenti di emergenza che coincidono con uno sgravio fiscale, cioè le imprese spendono meno per gli oneri che riguardano l’assistenza e la previdenza, quegli oneri che sono propri del rapporto di lavoro regolare. Questo è quello che la legge sostanzialmente dice, però una volta che questo principio è stato introdotto, mi pongo il problema di capire se l’introduzione di questo principio è fatta in modo libero, pieno, aperto tale da garantire pienamente i vantaggi previsti da questa scelta, oppure sotto sotto mi viene spesso da chiamarli lapsus legislativi, delle definizioni che nascondono una visione del problema di chi si trova in carcere come un problema ancora diverso dagli altri diversi cioè visto con favore ma con un po’ meno favore, questo è il punto. In effetti da questo punto di vista, quindi guardando semplicemente quella che i giuristi chiamano la lettera della legge, la lettera della norma, sinceramente colgono degli aspetti particolari che destano qualche perplessità. La prima cosa che io rilevo è il fatto che la possibilità di attivare delle attività di lavorazione in carcere passa, ed è inevitabile che questo avvenga tramite delle convenzioni con le amministrazioni. Però sul carattere di queste convenzioni, anche nel regolamento non si dice assolutamente nulla. Ora noi sappiamo che lavorare in carcere significa scegliere chi lavora, scegliere quanto lavora, scegliere che cosa fa, scegliere e decidere a che livello deve essere formato, definire come lavora, con che ritmi, con che orari, con quali condizioni, quanto viene retribuito e tutto il resto. Questi particolari si presume siano oggetto di una convenzione ma non si stabilisce nulla, non si fa alcun riferimento relativamente al tipo di contenuti che la convenzione dovrebbe definire. Quindi viene lasciato massimo spazio ai possibili contenuti delle convenzioni, questo significa che tutte le difficoltà che caratterizzano oggi il lavoro in carcere, che portano a questa bassissima percentuale di occupati, potrebbe pari pari riprodursi nel momento in cui avessimo delle convenzioni che li ratificano, solo il fatto che sia sufficiente dare lavoro per un mese ai fini di ottenere lo sgravio fiscale, sostanzialmente si mette in rapporto con questa situazione di continua turnazione, per cui si lavora magari tutti ma pochissimo nell’arco di un anno, per cui lascia spazio già implicitamente a questa possibilità. Le convenzioni potrebbero benissimo definire la situazione in modo tale da lasciare le cose esattamente come stanno o addirittura non definire niente, come spesso avviene sul piano delle definizioni normative così che poi a prevalere siano le situazioni di fatto ossia la situazione attuale. Questo è un aspetto che ritengo abbastanza preoccupante. Secondo aspetto che ritengo costituisca un limite della legge è che se è vero che la legge si ispira al principio dello sgravio fiscale, dell’alleggerimento delle spese per il datore di lavoro, così come è previsto per le altre categorie di cui la legge parla, per le altre categorie lo sgravio è totale, cioè per quelle spese le imprese non devono sostenere niente invece per i detenuti la quantità dello sgravio va definita ogni due anni attraverso degli atti normativi con il Ministero della Giustizia. Per questo dico che non c’è un favore pieno che mette i detenuti allo stesso livello degli altri soggetti socialmente in difficoltà ma li guarda sì con favore, ma con un po’ meno di favore. L’impresa quindi ha uno sgravio fiscale non assoluto ma diciamo contenuto, proporzionale alle decisioni che vengono prese. Un altro aspetto che può essere visto positivamente della legge è che questo sgravio fiscale è previsto anche per i percorsi formativi, anche se vengono attivati dalle cooperative o da parte delle imprese dei corsi di formazione. Quindi anche senza che la persona lavori ma semplicemente si stia formando, lo sgravio fiscale è previsto. Ma in vista di che cosa è previsto questo sgravio fiscale, giustamente si dice in vista del fatto che poi avvenga un’assunzione, quindi se poi ti assumo vengo facilitato, ma credo sia inevitabile nel momento in cui si parla di assunzione dopo l’iter formativo fare riferimento al carattere di questa assunzione e la legge lo prevede ed è un carattere assai limitato, cioè come dicevo prima per chi è in carcere si prevede un’assunzione per almeno un mese, che potrebbe poi alla fine essere un mese o qualche mese; all’esterno per sei mesi che permettetemi è abbastanza poco, perché non è che uno esce ed in sei mesi si costruisce una situazione solida di attività lavorative. Quindi anche questo incentivo, le attività formative combinate con il carattere dell’assunzione, si presenta abbastanza contenuto ed abbastanza limitato. Questi sono credo i limiti di una legge, sono tre articoli ed il fatto che in tre articoli si sollevino questi problemi, la dice lunga sul fatto che si poteva magari aggiungere qualche articolo in più e far la legge un po’ meglio, oppure lo stesso contenuto di detti articoli definirlo in modo più aperto, a volte le leggi dicendo meno decidono meglio. Noi dobbiamo ragionare sulla possibilità che questa legge sia efficace considerandone le condizioni di applicazione. La domanda che viene è elementare e spontanea: sono sufficienti questi incentivi per indurre le imprese a superare tutte quelle difficoltà che caratterizzano oggi il lavoro in carcere o meglio quali vantaggi le imprese hanno seguendo questa legge per decidersi ad attivare delle lavorazioni? Lo sapete voi meglio di me che una cosa è quello che dice la legge ed un’altra cosa è quello che avviene nei fatti. Io me ne occupo ogni giorno perché quello che faccio è studiare l’applicazione della legge nella società, la sociologia del diritto e quindi sono abbastanza attento per quel che riesco a queste cose. Allora, quello che dobbiamo chiederci è se ha vantaggio il datore di lavoro e per capire se ha vantaggio dobbiamo vedere quali sono le condizioni del lavoro esterno e torniamo al punto di prima, se oggi la prevalenza o la grande maggioranza di attività lavorative sono in nero, precarie, quindi senza oneri, senza regolarità. Questo è il lavoro che c’è fuori, ma perché andarlo a cercare dentro quando si trovano migliaia e migliaia di persone fuori disponibili a lavorare a queste condizioni? Quindi se questa è la realtà non è così automatico che una persona si senta incentivata ad andare a superare i limiti che derivano dal dover attivare delle lavorazioni interne con i conseguenti vantaggi. Secondo, in carcere ci sono delle difficoltà burocratiche, lo diceva prima la dott.ssa che rappresenta l’Ufficio per il Reinserimento Lavorativo, ci sono delle difficoltà burocratiche ma ci sono anche delle difficoltà strutturali cioè le infrastrutture, la possibilità di attivare ed inserire impianti, di avere spazi idonei, ambienti a norma di legge per un certo tipo di lavorazioni ossia tutta una serie di difficoltà pratiche che non facile siano superate all’interno dell’istituzione. Terzo, la qualifica di chi lavora dentro rispetto a chi lavora fuori, il lavoro oggi diventa un bene prezioso quando poche persone sanno fare quella cosa lì, allora si va in cerca degli specializzati che sanno fare quella cosa lì. Ma se le competenze sono così generiche, sono così facilmente intercambiabili quindi non si riferiscano ad una professione particolare è facile essere sostituiti. Torna il problema di prima cioè, o da chi è dentro arriva una competenza particolare che non ha facili sostituti esterni o altrimenti è difficile che si venga dentro a cercare questo vantaggio. D’altra parte il fatto che ci sia questa rotazione, che non ci sia la possibilità di controllare direttamente l’organizzazione del lavoro, ma ci sia un confronto con le condizioni che l’istituzione chiusa in quanto tale pone perché ha le sue logiche organizzative interne e quindi non rende facile la fruibilità dell’attività lavorativa, può rappresentare un altro problema. Questi sono problemi di carattere applicativo che potrebbero disincentivare l’appetibilità di lavorare all’interno del carcere. Se questa è la situazione io ritengo si debbano ridefinire alcune cose nel rapporto tra interno ed esterno, cioè la prima cosa a cui dovremo pensare è di non pensare al carcere come a qualcosa di chiuso, di limitato, che non comunica con l’esterno ma di affrontare il problema del lavoro in carcere come un problema che riguarda l’attività complessiva del lavoro nel territorio in cui il carcere è collocato. Quindi bisognerebbe adeguare la capacità di previsione, di analisi, di programmazione delle assunzioni lavorative in certi settori, in certe aree perché si possa dire certe cose si fanno fuori, certe cose si fanno dentro, cioè ci sia una fluidità in un quadro complessivo in cui le attività che si fanno dentro possano rientrare in quella che è l’immagine del lavoro o meglio la programmazione del lavoro, se di questo è dato parlare, con la situazione fuori. Ma poi è inevitabile che le cose funzionino dentro se funzionano bene fuori cioè, se all’esterno si riesce ad ottenere per quanto più rigorosamente possibile la regolarità dell’assunzione, allora è evidente che dentro la legge può rappresentare un vantaggio, ma se non c’è una contrattazione decisa per generalizzare la regolarità, per prosciugare le aree di lavoro irregolare, quel vantaggio non ci sarà. Ancora, se non si da a chi è dentro la competenza per essere concorrenziale, per cui sa certe cose che al di fuori non è facile siano organizzate, anche questo non si potrà raggiungere facilmente. Per concludere, l’ultima cosa che dico è che se non cambia il modo in cui viene visto il problema del detenuto come persona, come soggetto che fa parte di una situazione complessiva che riguarda l’intera società e che riguarda problemi che tutti condividono in quanto tali, siano essi dentro o fuori e non si fa un discorso di costi in senso sostanziale, non usciremmo da questo problema. Il fatto che si risparmi nell’attivazione del lavoro fuori mettendo in difficoltà le persone perché non trovano lavoro perché il lavoro è irregolare si traduce, non in un vantaggio dal punto di vista produttivo, ma in un elevatissimo costo sociale perché si creano poi problemi che alla società costano molto di più. Allora per prevenire il fatto che si debbano affrontare questi costi le cose andrebbero organizzate prima, andrebbero pensate prima facendo gli investimenti giusti, dando la possibilità alle persone di vivere nel maggior numero possibile in modo dignitoso cosicché la produzione, la produttività complessiva dell’attività sociale cresca e non discriminando poi tra chi si riteneva fosse improduttivo e si mette in deposito e lo si vorrebbe rendere produttivo poi in condizioni che sfuggono completamente di mano e non sono poi più razionalmente gestibili.

 

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