Carlo Alberto Romano

 

S.E.A.C. Triveneto - Conferenza Regionale Volontariato Giustizia

Sportello Giustizia di Rovigo - Ristretti Orizzonti

 

Meno carcere, più impegno sociale

 

Seminario sul volontariato penitenziario

(Padova, 3 - 5 luglio 2003)

 

 

Carlo Alberto Romano (Vicepresidente Ass. "Carcere e Territorio" di Brescia)

 

Prefiggendomi l’obiettivo della esportabilità della buona prassi, accetto volentieri di parlare della nostra esperienza che, peraltro, ovviamente non può essere esemplare. È una delle esperienze che sono possibili praticare, non è la migliore, ma potrebbe essere un’idea anche per qualcun altro. Sono un criminologo che, anziché appassionarsi più alle vicende della psiche criminale, si è appassionato alle vicende del carcere.

Questo ha implicato, grazie alla possibilità di poter svolgere attività accademica, la scissione della mia professionalità nella parte didattica e nella parte riguardante la ricerca. Ed è per questa ragione che vorrei assolutamente commentare la ricerca che è stata presentata questa mattina.

Mi complimento con l’equipe che l’ha posta in essere e condotta a termine, perché è stata realizzata con intelligenza; il campione è ben rappresentativo, le domande sono state ben poste e, da ricercatore, non posso che essere contento del risultato raggiunto. Alcuni dati, però, mi hanno francamente colpito e, su questi, vorrei svolgere un piccolo commento insieme a voi.

Ora, mi spiace che sia andato via il provveditore, perché alcuni passaggi del suo discorso avrei voluto commentarli in sua presenza anche perché  non vorrei che si credesse che nelle mie parole fosse nascosta una vis polemica che, in effetti, c’è.

Egli poc’anzi ha detto: “il carcere funziona”… insomma, gli operatori lavorano bene e fanno tutto quello che è possibile.

Come si può dire che il carcere funziona, quando i dati relativi al tempo totale trascorso in carcere ci dicono che un 50% del campione vi è dentro da almeno 5 anni? Come si fa a pensare ed affermare questo? O cancelliamo l’articolo 27 della Costituzione, o il carcere, in realtà,  non funziona…

Tra l’altro, la durata della pena, nel 50% dei casi, è comunque inferiore ai 3 anni, e quindi conferma quel dato di tendenza che già conosciamo, ma questo aggrava la situazione: significa che, pure in presenza di pene non particolarmente lunghe e, quindi, facilmente sostituibili con delle misure alternative, la risposta elettiva continua ad essere il carcere, che costruisce impressionanti percentuali di recidiva e, quindi, non funziona.

Alcuni altri dati che mi hanno colpito. Quello relativo alle misure alternative: è vero che avete chiesto di parlare di misure alternative a chi è in carcere e, quindi, a un campione negativo, in tal senso, ma un 50% di coloro che hanno risposto, comunque non ha usufruito di alcuna misura alternativa. È una percentuale troppo alta. È una percentuale sulla quale dobbiamo lavorare tutti: amministrazione penitenziaria, volontariato, enti locali. È impensabile che noi abbiamo ancora una percentuale di questo genere, tra l’altro in presenza di un dato successivo che ci dice che le condizioni oggettive per l’accesso alle misure alternative sono precluse solo al 22% del campione. Quindi, evidentemente, questo iato, questa scissione, va colmata. E va colmata in che modo? Anche con il volontariato, anche con la partecipazione della comunità esterna.

Interessante il dato dell’alta percentuale di coloro che effettuano colloqui con i volontari: quasi un 50% delle risposte. Molto interessante in tipo di intervento richiesto: morale, economico… a me ha colpito, in special modo, il 14% che preme per una sensibilizzazione verso la società esterna. Questo è un punto fondamentale, perché aldilà delle operazioni di inferenza diretta sulla condotta del detenuto, sulle aspettative del detenuto, sulle possibilità del detenuto, noi abbiamo l’assoluto e prioritario compito di incidere sulla communis opinio. Questo non possiamo mai dimenticarcelo e, questo, ci chiedono anche i detenuti, che se ne sono resi conto, perché quell’episodio che citava prima il provveditore, della difficoltà a trovare alloggio per l’ex detenuto, e che lo ha colpito tanto, per noi è la normalità!

Quotidianamente ci troviamo di fronte ad episodi di questo genere. In questo caso, sarà stato ben risolto con una telefonata a chi di dovere, ma non è questo il modo esemplare per risolverlo. Il modo per risolverlo è quello di convocare le assistenti sociali del Comune, le assistenti sociali dell’ASL, e di informarle di questo problema, in modo che se il detenuto vi si reca e ha sulla carta di identità la residenza in Via Due Palazzi non vi sia una preclusione a partire dall’istituzione stessa, perché questo accade. Certo che il singolo caso viene risolto, portandolo per mano dall’amico, che ha il sottoscala o il garage che in qualche modo vuole essere riempito, ma non è questo il modo di risolverlo, dobbiamo avere in mente obiettivi più alti e su questi dobbiamo riuscire a lavorare.

Scusate se sono molto drastico, ma credo di essere stato chiamato per questo.

La collaborazione con il volontariato, da parte dell’Amministrazione penitenziaria, che ancora il provveditore ha prima richiamato, mi vede favorevolissimo, peccato che qualche anno fa non fosse così sentita, come esigenza, e che ci fosse una sorta di unidirezionalità, in questo senso. Quindi, ben venga l’appello, ben venga la collaborazione, speriamo anzi di poter trovare ancora nuove strategie operative sinergiche, cercando ovviamente di dare ognuno il proprio contributo.

Vorrei portarvi un esempio.Io mi occupo anche di didattica e pensavo, in qualche modo, di poter fare qualcosa di utile occupandomi degli esperti ex articolo 80. Molto brevemente, sapete che in carcere entrano gli esperti, per l’osservazione, che è compiuta sia da personale penitenziario di ruolo, sia da personale assunto con una forma di collaborazione, che è quella sancita dall’articolo 80 dell’Ordinamento penitenziario. Per diventare esperti, appunto ai sensi dell’articolo 80 dell’Ordinamento penitenziario, il Regolamento penitenziario prevede che vi sia un accesso validato da una Commissione alla quale partecipino dei docenti universitari. Poiché per quanto consta alla mia esperienza, ho notato che gli esperti ex articolo 80 sono e continuano ad essere abbastanza digiuni delle necessità di territorializzazione della pena, di contatto con la comunità,  pensavo che  questo fosse un modo per cominciare ad incentivare, nei loro confronti, una volontà di  appropriarsi di questa enorme disponibilità del territorio. Ho perciò mandato una lettera al dottor Bocchino, provveditore della Lombardia,  e al dottor Ziccone proponendomi come volontario per entrare a far parte della Commissione. Mi si dirà: per carenza di fondi non possono permettersi un docente universitario. Gratis! Chiedevo solo ed eventualmente il rimborso spese perché, fortunatamente,  posso permettermelo e volevo dare il mio contributo in questo modo.

Motivando in diverso modo, i due Provveditori mi hanno detto: “No, grazie, facciamo da soli”. Questo mi ha colpito molto, ed è un segnale che in qualche modo a volte alle parole non si fanno seguire i fatti. Non ha colpito tanto la mia professionalità: capirete, non è che cambi molto se vado a fare gli esami agli esperti ex articolo 80, oppure no. Mi ha colpito come rappresentante del privato sociale, perché era una collaborazione che nasceva dall’Associazione “Carcere e territorio”, dal volontariato, non certo dall’Università, per la quale… già è difficile dare vita ai Poli, figurarsi le collaborazioni sulle consulenze! Questo mi ha colpito e in qualche modo, devo dire, mi ha ferito: probabilmente ha ferito anche la mia componente narcisistica, ma soprattutto  ha ferito la mia aspettativa di vedere l’amministrazione penitenziaria capace di proiettarsi al di fuori delle solite anguste mura.

Parlando invece dell’Associazione “Carcere e territorio”, che è la ragione per la quale sono stato chiamato, voglio portarvi alcune altre brevi riflessioni. E parto, innanzi tutto, da una constatazione: le risorse, alle quali abbiamo fatto riferimento in precedenza, non ci sono,  sono difficilmente reperibili, sono in qualche modo un’araba fenice, per noi che ci occupiamo di carcere. È vero, ci sono delle difficoltà a trovare risorse, ma è anche altrettanto vero che si può fare un utilizzo intelligente delle risorse disponibili.

Siamo riusciti ad allestire uno Sportello per l’integrazione lavorativa dei detenuti con 12.000 euro per due anni. Siamo riusciti ad allestire un corso di formazione per operatori del reinserimento con 5.000 euro. Siamo riusciti ad allestire un progetto di housing, che comprende tre appartamenti, facendo un lavoro d’interscambio con l’azienda locale residenziale pubblica, con un contributo di 30.000 euro. Ora, non ditemi che sono cifre enormi con le quali chiunque sarebbe riuscito ad allestire programmi di questo genere. Non lo dico per dire “come siamo stati bravi”, capitemi bene! Lo dico per dare coraggio, per dire che c’è la possibilità di lavorare, di ottenere risultati senza avere grandi disponibilità. Bisogna metterci l’impegno, questo impegno, quello scritto nello slogan dell’incontro di oggi: meno carcere, più impegno.

L’impegno è anche la capacità di andare a tirare la giacca dell’amministratore pubblico, dell’amministratore locale, il quale certamente non si sogna, se non c’è un particolare interesse personale o una particolare sensibilità, con tutti i problemi di far quadrare il bilancio che già ha, di andare a pensare anche alle problematiche del carcere che, tra l’altro, politicamente non rende e che crea anzi conflittualità di carattere politico, per la particolare situazione, i titoli dei giornali, e tutte le cose che sappiamo benissimo. Però bisogna farlo, perché qualche cosa si riesce a trovare e, con qualche cosa, si riesce a lavorare. Si possono allestire anche progetti di discreto valore, di discreta portata. Certo, non sono i numeri che sarebbero stati possibili realizzare a Viterbo e a Padova con quel corso sull’arteterapia che ha salvato tante vite, ma qualcosa di tangibile si può fare.

La nostra storia nasce nel 1997, dall’intuizione dell’allora Presidente del Tribunale di Sorveglianza, il dottor Zappa, che è tuttora Presidente dell’Associazione “Carcere e territorio” di Brescia. Egli ebbe un’intuizione, a mio modo di vedere, geniale. Non solo a mio modo di vedere, ovviamente: Zappa è persona conosciuta da tutti coloro che si occupano di diritto penitenziario. Per me è un padre, dal punto di vista professionale, oltre che un tesoro dal punto di vista umano, la cui escussione quotidiana è una fortuna che mi è stata affidata.

Zappa immaginò una realtà che si ponesse al secondo livello, rispetto al volontariato penitenziario. E qui riprendo la sollecitazione, di prima, fatta da Francesco, cioè la distinzione fra l’attività del colloquio e l’attività dell’associazionismo, percepita e rimandata dagli stessi detenuti. L’una cosa non annulla l’altra, ma debbono restare distinte; proprio su questo punto credo che la nostra Associazione funzioni bene. Tant’è che l’attività di volontariato, che esiste ed è veicolata dalla Caritas locale, è rimasta, ha una propria indipendenza, una propria autonomia, ma confluisce, assieme a molti altri attori sociali, nell’Associazione. 

“Carcere e territorio” si è posta quindi a un secondo livello, fa da collettore, rispetto alle realtà, alle parti che lavorano all’interno del carcere e si pone come interlocutore unico – questa credo sia la nostra vera forza – rispetto alle istituzioni, rispetto alla Provincia, rispetto al Comune, rispetto alla Regione. Questo dà la possibilità di operare in modo intelligente, evitando la frammentazione delle risorse e la frammentazione dell’operatività, che è un altro grave rischio. Perché non vi è solo il rischio della frammentazione delle risorse, ma anche della frammentazione della operatività: in un contesto nel quale vi è l’assoluta penuria di educatori, vi sono  le difficoltà di l’operatività concreta che ben conosciamo,  il fatto che  i volontari non siano fra loro coordinati, che  le cooperative sociali agiscano in modo disgiunto, che le cooperative sociali, i volontari e chi si occupa di assistenza, fra di loro non interloquiscano può ulteriormente peggiorare la situazione. Tutto ciò creerebbe un grave danno.

Invece, se si riesce a fare questo, il vantaggio è enorme. Bisogna sedersi intorno a un tavolo, trovarsi periodicamente, ci vuole qualcuno che abbia la forza di portare i vari attori intorno al tavolo, ma se si riesce a fare, le risorse che continuano ad essere poche, in qualche modo diventano sufficienti per poter gestire una strategia d’intervento intelligente. Questo è il secondo livello.

“Carcere e territorio” si è occupato di tre aree, sostanzialmente: formazione, supporto e promozione. Sulla formazione non mi dilungo, perché, come in qualsiasi altra realtà, c’è un bisogno periodico di formare le forze nuove che vogliono lavorare in carcere e un  bisogno  costante di aggiornare chi ci lavora già, magari riuscendo anche a rinnovarne la motivazione e rendendo conto degli aspetti di mutamento dello scenario giuridico. Sappiamo tutti cosa significhi il burnout, che cosa significhi la difficoltà di continuare, la frustrazione, etc., etc., ma dobbiamo dire tra di noi anche quali sono gli elementi che ci fanno proseguire, le soddisfazioni, gli elementi di gratificazione. Se parliamo sempre delle difficoltà a un certo punto ci si stufa anche di continuare a sentirle.

Sul supporto, abbiamo lavorato sul versante lavorativo, che ci premeva e ci preme molto. Abbiamo edito pubblicazioni. In tal senso, apro una parentesi, non siamo all’altezza del sito di Ristretti Orizzonti, ma abbiamo aperto anche noi un nostro web site,  www.act-brescia.com, sul quale poniamo on line tutti i nostri documenti. Siamo assolutamente convinti che la divulgazione dell’informazione sia elemento sine qua non, per la prosecuzione del lavoro, per l’esportazione delle buone prassi e questa è stata infatti una delle prime cose che abbiamo fatto. Sul versante del lavoro, ci siamo impegnati sulla stesura di Documenti formali che coinvolgessero le realtà locali e, questo, ha generato un Protocollo firmato con la Provincia di Brescia, alla quale hanno partecipato numerosi attori sociali, di diverse categorie, dagli imprenditori, quindi datori di lavoro, alle categorie sindacali, al Tribunale di Sorveglianza, al C.S.S.A., all’Amministrazione penitenziaria. Il quale progetto, pur con qualche stento,  perché se no sembra che tutto funzioni a meraviglia,  ha partorito lo Sportello di integrazione lavoro, affidato all’Associazione “Carcere e territorio.

Poiché poteva essere rischiosa la gestione dello Sportello sulle proprie spalle, che poi sarebbero state quelle dei volontari che afferiscono all’Associazione e del sottoscritto, è nata l’intuizione di agganciarsi a chi si occupa già di integrazione lavorativa, ma se ne occupa secondo una prospettiva che è confacente ai nostri obiettivi. Per questa ragione abbiamo trasferito il nostro incarico, attraverso un’ulteriore convenzione, ad un Consorzio territoriale di cooperative sociali. Questo ha fatto sì che si potesse escutere tutta la rete delle cooperative sociali, che sono, come ben sapete, il partner elettivo dell’Amministrazione penitenziaria per il reperimento delle opportunità lavorative, perché è inutile che stiamo a contarcela, gli imprenditori non danno lavorazioni, non danno posto di lavoro, se non in casi assolutamente sporadici, illuminati, ai quali plaudiamo, ma che costituiscono un’eccezione. A tutt’oggi il partner elettivo, dal punto di vista lavorativo, per il lavoro dei detenuti e il lavoro in misura alternativa, sono le cooperative sociali. E per fortuna ci sono quelle, ma il problema è che quelle sono sature e non riescono a colmare la differenza che, invece, la “Smuraglia” si sperava avrebbe potuto smuovere nei confronti della sensibilità degli imprenditori profit. Meglio che ci chiariamo fin da subito: ciò non è accaduto.

La “Smuraglia” doveva incentivare, e ha incentivato, ma assai poco.

E qui sì, sono d’accordo con il dottor Ziccone, che l’ha detto chiaramente: non è un fallimento, perché forse la normativa avrà dei margini di miglioramento, ma sicuramente speravamo in qualcosa di meglio. Probabilmente, e qui richiamo in campo le nostre responsabilità, c’è stata anche, da parte nostra, una certa lacunosità nel diffondere le informazioni relative alla “Smuraglia”, una certa lacunosità nel coinvolgere gli imprenditori: non era neanche facile; solo per capire la normativa della “Smuraglia” ci vuole un po’ di tempo e molta attenzione.

Dicevo, firma di uno specifico Protocollo con un Consorzio di cooperative sociali per la gestione dello Sportello.

Recentemente, sempre su questo versante, si è aggiunto anche l’editing di un volume, pagato dalla Provincia stessa, sul lavoro infra ed extra murario, con un vademecum per gli imprenditori, sociali e no, che intendano assumere detenuti ed ex detenuti. Questa, naturalmente, è una delle possibili risposte. Ve ne sono altre.

Sempre sul versante supporto, ci siamo occupati del problema alloggiativo che, come abbiamo sentito e come sappiamo bene, è un problema di grande rilevanza. Da questo punto di vista, la scelta è stata quella di offrirsi come interlocutore alla Regione Lombardia che ha, nel proprio bilancio, una quota di capitolo messa a disposizione per il carcere e per il reinserimento dei detenuti e che, per una serie di ragioni, tendeva ad esaurirsi, per così dire, nella provincia milanese, che sapete essere un po’ il grande collettore delle risorse della regione, anche per la presenza di un numero di detenuti estremamente elevato.

Dopo esserci consultati è partita una delegazione di questa Associazione, è andata in Regione e, devo dire, con buon successo, è riuscita a portare a casa un discreto risultato, un contributo specifico per l’housing. Contributo di cui non ha beneficiato soltanto l’Associazione, tra l’altro, perché ne hanno beneficiato anche altri Comuni della Provincia di Brescia, per interventi di housing per detenuti e, questo, ci ha fatto veramente piacere. È ormai un anno che il progetto è partito, grazie ad un accordo convenzionale con l’A.L.E.R., l’Azienda Lombarda per l’Edilizia Residenziale, che funziona in questo modo: i soldi che ci dà la Regione, noi li veicoliamo per la ristrutturazione di alcuni appartamenti, che era il modo per ingolosire l’Azienda di Edilizia Residenziale, altrimenti gli appartamenti era difficile ottenerli, perché le necessità sono tante e tutti hanno da sistemare persone disagiate. Noi sistemiamo tre appartamenti che sono in cattivo stato, con 30.000 euro non si poteva fare molto di più, e l’ALER  li vincola  per un numero di anni che abbiamo definito in cinque, al fine di utilizzo per i detenuti ed ex detenuti.

Abbiamo lavorato, abbiamo messo a punto un regolamento che garantisse anche eventuali distorsioni applicative, e siamo riusciti a partire, nei tempi previsti, con il progetto. Ad oggi gli appartamenti sono a pieno regime, quindi stiamo lavorando con soddisfazione anche su questo versante.

Sempre sul versante supporto, non abbiamo potuto non riconoscere quello che veniva prima definito il retaggio storico del volontario, che dava un piccolo aiuto economico a chi esce dal carcere e non ha nemmeno il necessario per comperarsi un biglietto ferroviario; abbiamo così istituito una sorta di prestito etico, chiamiamolo così, pomposamente, che,  si badi bene,  è su cifre molto limitate,  quelle che sono nella possibilità del nostro bilancio; contrariamente ad alcune richieste che ci venivano anche dall’esterno,  è però prevalsa la tesi del prestito. La somma erogata deve rientrare; con la massima tranquillità, con tutte le facilitazioni, ma deve rendere l’idea dell’impegno, nostro e di tutti i beneficiari, soprattutto per il loro interesse.

Sul versante del supporto abbiamo investito anche dal punto di vista culturale. Su questo, sono estremamente deciso: non capisco perché, quando si parla di investimenti culturali da parte delle amministrazioni locali, si tende a pensare che tanto in carcere basta mandare lo spettacolino, o chi di passaggio, perché tanto non essendoci niente da fare, c’è molto tempo disponibile,  e quindi qualsiasi cosa entri è tanta manna.

È una cosa che mi ha sempre dato molto fastidio; ritengo l’aspetto culturale elemento trattamentale degno almeno quanto tutti gli altri.

In forza di questa convinzione,  siamo riusciti, quest’inverno, ad allestire un programma culturale che, devo dirvi, senza modestia, è stato di notevole spessore. Abbiamo portato artisti di notevole rilievo per dei concerti di musica classica nei due istituti penali della nostra città. È stata un po’ una scommessa, perché francamente anche il programma era piuttosto difficile e non vi nascondo che, quando sono andati in scena temevo che potesse risultare una scelta un po’ azzardata; invece è stato un grande successo, è stata una cosa che mi ha fatto particolarmente piacere, è stato dato il giusto risalto sugli organi d’informazione e, soprattutto, è stata ottenuta la promessa da parte del Comune  di Brescia, che è compartecipe dell’iniziativa, a ripeterla nei prossimi anni ed anche a incentivarla.

Io ritengo che, se non ci  avessimo creduto per primi noi, non ci sarebbe stata questa iniziativa. Ecco perché vi dicevo:  per prima cosa dobbiamo andare noi a tirare le giacche, poi le cose si possono fare. In una stagione teatrale, che viene messa in scena presso il teatro cittadino, non è così impensabile portare una rappresentazione anche in carcere…

Infine, la promozione, che è stato il punto sul quale, forse, abbiamo cercato di muoverci con maggiore profondità. Come vi dicevo in precedenza, quella risposta del questionario, data dai detenuti, mi ha particolarmente colpito e mi ha confortato, nella convinzione che non vi possa essere alcuna iniziativa se il territorio non risponde, dal punto di vista culturale, a un pregresso stimolo. Voglio farvi un esempio, per farvi capire bene.

Noi, addetti ai lavori, chiamiamo “benefici penitenziari” le misure alternative… giusto? Personalmente sono anche giudice del tribunale di sorveglianza, come esperto, quindi sono  abituato ad usare questo termine, insieme ai colleghi magistrati, insieme agli avvocati, insieme a tutti gli operatori.

I “benefici penitenziari”…li chiamiamo. Ma come dice giustamente il Dr. Monteverde, e voi l’avete riportato su Ristretti Orizzonti: “Finché noi continuiamo a chiamarli benefici penitenziari, non possiamo pretendere che la gente capisca che cosa sono”.

La gente li intende come un premio, li intende come un modo di non scontare il castigo, li intende come un modo di non eseguire la pena e, allora, non possiamo pretendere che li accetti.

E quindi siamo noi che sbagliamo. Noi dobbiamo far capire che le misure alternative sono un modo “alternativo”, ma degno, assolutamente degno, di scontare la pena.

Anzi, ancor più degno, se noi sappiamo metterci dentro il valore del modello riparativo, quel valore che dà senso alla pena prevista dall’articolo 27 della Costituzione.

Il modello rieducativo è un fallimento, dobbiamo dircelo, perché le cifre sono queste: il 50% degli intervistati è stato in galera più di 5 anni, e allora il modello rieducativo ha fallito.

Dobbiamo insistere sul modello riparativo, che tenga anche conto dell’altro attore presente nello scenario del nostro sistema penale, la vittima, che è ignorato completamente dal modello rieducativo, che non se ne è mai interessato.

Il modello riparativo acquista dignità, acquista corposità, proprio, per esempio, con il settimo comma dell’articolo 47 dell’Ordinamento penitenziario, il quale prevede che  nelle prescrizioni  impartite all’affidato vi sia un obbligo di adoprarsi in favore della vittima. E, allora, ecco che le misure alternative diventano un modo più degno, più utile, più intelligente di scontare la pena, comunque più del carcere.

Però, su questo, non c’è chiarezza, anzi c’è confusione. Leggete i titoli dei giornali, sulla vicenda dell’omicida dell’orefice di Milano: se ricordate cosa dicevano ieri… oggi si è scoperto che è andato in casa di un’amica perché sta male, probabilmente è malato terminale. (NdR dopo pochi giorni rispetto a queste dichiarazioni , il condannato di cui si parla è deceduto).

A parte il valore intrinseco della vicenda, siamo alle solite: un permesso che non rientra, una semilibertà che non rientra, un affidato al quale viene revocata la misura… titolo! Novecentonovantanove che seriamente lavorano, portano a termine i loro impegni, danno un senso alla loro pena… ignorati!

Siamo alle solite, però io dico che è anche colpa nostra, perché dobbiamo noi per primi riuscire   cambiare il modo di percepire la pena.

Io cerco di farlo nelle mie possibilità. Come sanno bene gli operatori del carcere di Padova, ove siamo già andati,  tutti gli anni porto i ragazzi del mio corso universitario a visitare un carcere, perché un conto è leggerlo su un libro, un conto è vederlo, che cos’è un carcere.

Quest’anno siamo stati alla Giudecca.

Sapete, per me, qual è la miglior gratificazione? La sera, quando rientro, con il pullman o con il treno, sentire i ragazzi che mi dicono: “Professore… grazie, Lei ci ha tolto dei pregiudizi”. Questa, per me, è la migliore gratificazione. Questo io avrei voluto ottenere, quando ho chiesto ai  Provveditori di entrare nella Commissione per la valutazione degli esperti.

Noi dobbiamo sfatare i pregiudizi, siamo in grado di farlo, e “Carcere e territorio”, nella sua opera di sensibilizzazione, quotidianamente cerca di farlo. Dateci una mano e facciamolo tutti insieme.

 

 

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