Don Virgilio Balducchi

 

S.E.A.C. Triveneto - Conferenza Regionale Volontariato Giustizia

Sportello Giustizia di Rovigo - Ristretti Orizzonti

 

Meno carcere, più impegno sociale

 

Seminario sul volontariato penitenziario

(Padova, 3 - 5 luglio 2003)

 

Don Virgilio Balducchi (Delegato dei Cappellani della Lombardia)

 

Devo fare una piccola premessa. In questi giorni non ho partecipato al vostro lavoro, anche perché ero nel mio carcere a fare quello che faccio tutti i giorni e, quindi, alcune cose che dico possono essere molto ovvie. Parto da quello che voi mi avete chiesto e suggerito. C’è un esempio che, almeno a me personalmente, ha chiarito molto il modo in cui stare in vicinanza alle persone all’interno del carcere. Io ho avuto una persona in carcere, nel 1995 - 96, che a un certo punto, come è capitato anche a Francesco, è venuta in studio, dopo due anni che era in carcere. La settimana prima era andata a messa e mi ha detto, molto chiaramente: "Sono due anni che ti studio, adesso mi fido". Questa, secondo me, è l’indicazione più chiara che non ci sono degli schemi fissi, né se sei istituzione, né se sei volontario, né se sei persona detenuta. Ci sono molti percorsi. Ci sono percorsi che si agganciano velocemente, e ci sono percorsi di vita, invece, che hanno bisogno di una frequentazione e di una vicinanza molto lunga, anche perché molte persone, per esempio, hanno sperimentato che certe amicizie o certi affetti sono morti, quindi, prima di rifidarsi, ci vuole del tempo.

Questo è vero per tutti, è vero anche per i cappellani. Nel senso che i cappellani – vorrei chiarirlo molto bene – sono uomini come tutti gli altri e che hanno il loro modo di pensare, i vari modi di pensare, sono inseriti nelle loro Chiese, che hanno anche loro vari modi di pensare. E, quindi, concretamente, la costruzione di una vicinanza, di un cammino, dipende moltissimo dal modo in cui si sta assieme nelle storie.

Vi porto la mia esperienza personale, per farvi capire. La prima volta che sono entrato in carcere è stato a Torino, nel 1980, a trovare un ragazzo, che faceva parte dell’area dei dissociati e che aveva chiesto un incontro con un sacerdote attraverso una persona che per caso conosceva me, che lavoravo al Gruppo Abele. Guardacaso, quel detenuto non aveva chiesto di incontrare il cappellano, che pure c’era, nell’istituto. La prima volta sono entrato in carcere con i colloqui normali, come i famigliari. Mi ricordo l’attesa, lo spupazzamento dei bambini degli altri, perché piangevano, e l’incapacità di riuscire a comunicare con la persona, perché eravamo in un contesto nel quale i messaggi venivano molto disturbati anche dal punto di vista della voce. Questa è stata la prima esperienza. Venti giorni dopo sono andato a prendere un ragazzo, da portare in comunità, alle 15 del pomeriggio, ed alle 10 di sera mi hanno detto che quel giorno non usciva. Ero stato lì, fuori dalla porta, per sette ore ad aspettare per niente.

La mia conclusione, dopo quelle esperienze, era stata: "Io non andrò mai a fare il cappellano". Perché avevo interiorizzato, nella mia testa, che probabilmente il cappellano era troppo istituzionale e quindi troppo alleato con la struttura che io cercavo di abbattere. Della mia esperienza mi rimane, da una parte ancora l’idea che il carcere si deve abbattere ma, dall’altra, quella di esserci oggi per fare rispettare un diritto. Che è quello che qualsiasi persona che vuole credere ha diritto di farlo liberamente, perché nessuno prevede che sia privata di questo, come pena ulteriore. E credo di non dire niente di nuovo, ai volontari che il carcere lo conoscono bene, dicendo che anche su questo diritto non sempre c’è il rispetto, nonostante ci sia anche un cappellano.

Da questo punto di vista, dico che la fiducia va costruita e va conquistata, da tutte e due le parti. E non solo con le persone detenute, anche con i volontari e con gli altri operatori. Per quanto riguarda la formazione, purtroppo nella maggior parte dei casi un prete viene preso e piazzato a fare il cappellano, questo va detto fuori dai denti. Stiamo insistendo, con chi ha scritto quel documento, cioè con l’Ispettore, che almeno i cappellani più giovani abbiano un percorso di formazione in itinere. Per quanto mi riguarda, come responsabile della Regione Lombardia, come cappellani noi abbiamo una frequentazione di almeno sei incontri all’anno e un seminario di un giorno e mezzo, ormai da tre anni.

E abbiamo un rapporto di comunicazione molto alto, anche di scambio di esperienze di percorso. Quindi, tutti quelli che arrivano nuovi, di solito io li chiamo e poi gli invio tutti i documenti che abbiamo prodotto. Questo sta creando un livello di comunicazione e di formazione, almeno da quanto mi dicono loro, abbastanza buono. Tanto è vero che, quando il nostro Ispettore ci ha chiesto se volevamo fare dei percorsi di formazione a livello di nord, centro e sud, noi abbiamo detto – più di me, lo hanno detto gli altri cappellani - che ne avevamo già abbastanza di ciò che facevamo. Mi è dispiaciuto un po’, a dire la verità, perché vuol dire non mettersi nell’ottica che altri abbiano bisogno, invece, di sentirsi e di camminare assieme.

Allora, credo che non ci sia mai una formazione assoluta, c’è una formazione in itinere. Per esempio, nell’ultimo anno, noi cappellani della Lombardia, abbiamo lavorato esattamente sul ruolo del cappellano. Abbiamo fatto uno scritto, presentato anche ai nostri vescovi, in modo che anche loro comprendano meglio. Sono andato un mese fa a presentarlo a tutti i vescovi della Lombardia, che ci hanno dato delle indicazioni, che rielaboreremo, e poi i vescovi presenteranno i risultati a tutti gli operatori ecclesiali, in modo che il nostro lavoro non sia slegato dalle Chiese della Lombardia.

Sono d’accordissimo sul fatto che gli incontri iniziali siano molto funzionali, ma questo vale per tutti. Potrebbe valere anche per il cappellano che, quando entra in un carcere, può pensare che il suo compito sia semplicemente quello di amministrare alcuni sacramenti. Anche quello è funzionale al ruolo che tu hai quando entri. Come, la persona che entra in carcere, che sa che io ho un buon rapporto con gli educatori, viene a bussare alla mia porta per dirmi: "Fammi chiamare, per favore, altrimenti non me la cavo più".

Io credo, quindi, che all’inizio i rapporti siano chiaramente molto funzionali, da parte di tutti. Poi si dipende dal modo in cui si elabora, dal modo in cui si cammina, dal modo in cui ci si confronta, se le cose si modificano e se le cose procurano bene, sia al cappellano, sia alle persone detenute, sia alla società, sia alla Chiesa. E, questo, è tutto da verificare. Non può essere definito una volta per sempre.

Io sono mandato, in carcere, ad una comunità cristiana che vive in carcere. Questo è il mio mandato. Sono mandato, dal mio vescovo, ad una Chiesa che vive in carcere. Siccome io faccio parte di una Chiesa, non soltanto particolare, in carcere a Bergamo, ma della Chiesa di Bergamo, io sono anche sacerdote della Chiesa di Bergamo. Quindi, uno dei miei compiti è quello di mettere in relazione la Chiesa che c’è in carcere con le Chiese di Bergamo. Questo per quanto riguarda il mio ruolo di sacerdote – cappellano in carcere.

Per quanto riguarda la società civile, io penso che sono un cittadino come tutti gli altri e che lavora, con gli altri cittadini, per avere una maggiore giustizia. Non mi ritengo né più bravo né più buono di altri cittadini, io partecipo, come Caritas, all’Associazione "Carcere e territorio", per quanto riguarda tutto l’impegno sociale e politico all’interno della mia provincia e sono un membro dell’Associazione, come lo sono tanti altri. È chiaro che, all’interno della Chiesa di Bergamo, sono un referente per ciò che riguarda la giustizia. Da questo punto di vista, per la Caritas diocesana di Bergamo, sono il referente per i volontari cristiani della Chiesa di Bergamo. Questo non vuol dire che sono il coordinatore dei volontari del carcere di Bergamo, non ho mai voluto essere il coordinatore dei volontari del carcere di Bergamo, anche quando me l’hanno chiesto.

Lavoro anche, con le Associazioni cristiane e i volontari cristiani, all’interno del laboratorio Caritas "Carcere e giustizia", per un compito di assunzione, visto che da un po’ di anni lavoro nella Caritas diocesana.

All’interno del carcere di Bergamo ho chiesto ai volontari di eleggere un loro responsabile, riconosciuto anche dalla direzione. L’ultima volta che il coordinatore ha invitato i volontari a un confronto serio, per presentarsi in modo un po’ più coordinato, rispetto alla direzione, mi ha detto: "Vieni anche tu". Gli ho detto: "Sì, se mi inviti come cappellano, ma non sono un volontario". Se i volontari desiderano avere, alla loro riunione, anche il cappellano, m’invitano e io vengo. Non perché non ci volevo andare, ma perché si è compreso che i volontari e le loro Associazioni hanno un compito civile, da gestire in proprio, che non è il compito del cappellano, anche se so che alcune direzioni hanno demandato al cappellano di fare anche il coordinamento del volontariato. A me sembra un po’ scorretto.

Ogni cittadino ha le sue idee sulla giustizia, anche io ho le mie, e lavoro assieme ad altri cittadini perché la giustizia sia fatta. Questo, credo, dia un po’ anche l’indicazione di come potersi anche guardare meglio e come, in qualche maniera, ci si può rispettare nei ruoli diversi e nelle opinioni diverse per lavorare assieme, tutti, per qualcosa di più positivo.

Io do il mio punto di vista, che fa parte un po’ anche della storia che ho vissuto. Innanzi tutto, il mio sguardo non riguarda semplicemente il carcere. Io vado in carcere, ma il mio sguardo è su tutta l’amministrazione della giustizia, dentro e fuori. Credo che tutti sappiate che, è vero che ci sono 58.000 persone detenute in carcere, ma ce ne sono almeno 47.000 controllate fuori, sempre per motivi di giustizia. Senza contare tutto il discorso degli arresti domiciliari concessi dal tribunale, che sono altrettanti.

Il secondo metodo con cui opero mi è stato insegnato da un amico, che purtroppo ho accompagnato anche al cimitero, un amico di quelli un po’ "alternativi", che credo fosse la decima volta che entrava in carcere. È entrato nel mio ufficio, mi ha guardato in faccia e, probabilmente, ha letto che io avevo un gran desiderio di tirargli giù la testa, svuotargliela, mettergli dentro un altro cervello e ricollocargli la testa, perché forse la prossima volta non sarebbe tornato per l’undicesima volta in galera. E lui mi ha detto questa frase, che mi ha indicato il modo giusto con cui essere all’interno: "Io posso non credere al mio cambiamento, tu no, sennò fai a meno di andare a dire la messa, domenica". Questo dà l’indicazione di cosa vuol dire essere all’interno del carcere, come cappellano, ma anche come credente. La parola "fine" Dio non la mette su nessuno, e io non ho diritto di metterla su nessuno.

L’altro elemento che stavo tentando di spiegarvi è questo: che l’agire, anche all’interno della Chiesa, non è un affare privato, è sempre collocato in una situazione di cittadinanza. E, questa espressione "cittadinanza" ha, qualche volta, dei momenti di riconoscimento e, qualche volta, dei momenti di conflittualità, sia all’interno del carcere, sia al di fuori. Ma è una dinamica normale, è una dinamica che - per coloro che credono - il fondatore, Gesù Cristo, ha avuto per primo, e noi non dobbiamo essere delle persone che non la devono avere. Che ci siano dei conflitti, anche nella presenza del cappellano, o dei volontari, o nell’amministrazione della giustizia, è normale.

C’è un’altra indicazione forte, che mi viene da un messaggio che Giovanni Paolo II ha dato per la giornata mondiale del 2002: "Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono". Non sono cose diverse. Poi dovremmo entrare nel discorso che tanti fanno: perdonismo sì, perdonismo no, ma non lo approfondisco qui.

L’altro elemento che mi spinge è, in termine religioso "meditazione", in termine laico "riflessione sulle motivazioni che ti muovono". Io ho in mente soprattutto due cose, dal punto di vista prettamente cristiano: "visitare i detenuti", "liberare i prigionieri". Queste sono le due indicazioni che trovo nel vangelo. Però, nel vangelo, la prima non è "visitare i detenuti", la prima è "liberare i prigionieri". Chi legge il vangelo si incontra, prima, con il "liberare i prigionieri", poi, verso la fine, trova "visitare i detenuti". E, secondo me, non credo sia un caso, perché quando hanno scritto i vangeli non li hanno scritti per caso. E la prima è molto forte, per chi la vuol capire, perché poi all’interno della Chiesa ci sono pareri diversi sulla giustizia e sul modo di raffrontarsi.

"Liberare i prigionieri" viene detto da Gesù Cristo come uno dei segni che rendono presente in regno di Dio su questa terra. Quindi, per me, quando un detenuto esce libero, è un segno che Dio esiste. Che Dio sta facendo dei segni concreti. Ma credo che, questa cosa, almeno per me personalmente, è un segnale che c’è una possibilità di vita effettivamente forte.

Chiedo quindi ai volontari cristiani di non dimenticarsi questo, soprattutto a quelli che vanno dentro il carcere. Perché sennò si rischia di essere delle persone – non funzionali al carcere, perché credo che ormai siamo diventati abbastanza adulti un po’ tutti – che hanno semplicemente l’ottica di dire: "Io ti sto a fianco qui, perché sei qui, poi quando esci… affari tuoi!". Che può essere anche vero, se uno vuol farlo, ma non è vero se io non me ne occupo dal punto di vista della mentalità, di dove lui andrà a vivere. Non solo delle occasioni dove poter vivere, perché molte volte uno non ha nemmeno la casa dove andare, ma anche se trova una casa, come verrà accolto nel contesto dove andrà ad abitare? Verrà accolto in una certa maniera, invece che in un’altra, se quel contesto la pensa in una certa maniera, o avrà vissuto con la sua famiglia in una certa maniera.

E qui entra il discorso che tu accennavi, Francesco, sulle case di accoglienza. Anche su questo io ho fatto una certa scelta, non so se sbagliata: che i progetti di vita delle persone vanno accompagnati, seriamente, il più possibile nella normalità della vita. Se dovessi dirlo con uno slogan, lo direi in questi termini: "Meno case di accoglienza per i detenuti, più appartamenti di autogestione, per i detenuti". Per fare questo, però, bisogna che lavoriamo molto nelle nostre comunità, perché si assumano la responsabilità dell’accoglienza: in questo caso, non soltanto nei riguardi delle persone che escono dal carcere, o in misura alternativa, ma in generale delle persone che sono nello svantaggio sociale.

Per tradurre questa cosa in pratica, a Bergamo abbiamo lavorato molto - perché alcuni strumenti di accoglienza: comunità per tossicodipendenti, albergo popolare, alcuni dormitori, ci sono già, non dobbiamo inventarci niente – per avere degli appartamenti per i detenuti, collocati un po’ su tutta la provincia. Oggi ne abbiamo dieci, mediamente inseriamo trenta detenuti all’anno in questi percorsi di autonomia. Però l’idea che tentiamo di portare avanti è che ogni appartamento abbia due volontari di riferimento, che tra l’altro non entrano mai in carcere, almeno finora. Ce n’è solo uno, che fa il coordinamento, che entra in carcere. Questi volontari hanno lavorato, o continuano a lavorare, prima sul condominio dove è collocato l’appartamento, perché potete immaginare bene cosa può succedere quando si scrivono certe cose, e poi sulle comunità.

Stiamo progettando delle altre cose, che però sono sempre in questi termini. Due appartamenti di accoglienza, per le famiglie, dove possono andare anche i ragazzi, in permesso con la propria famiglia. Uno all’interno di una parrocchia, proprio sopra la casa del parroco, in una canonica. Ma lì bisogna vedere che cuore e che testa abbia il parroco, come sempre. Quell’appartamento viene seguito dalla gente di quella comunità parrocchiale. Noi facciamo da referenti, sia in entrata sia in uscita, ma chi segue è la comunità parrocchiale, non noi.

La stessa cosa la stiamo facendo con altre situazioni. Non so se qui c’è qualcuno delle San Vincenzo: con le San Vincenzo stiamo lavorando perché trovino la capacità di mettere in piedi un appartamento, che sia seguito da loro, per l’accoglienza.

Una delle sfide, per i volontari, secondo me è la mediazione penale. Credo che ne abbiate già discusso, anche qui, e aggiungo solo due indicazioni. Il lavoro dei volontari, o anche quello dei cappellani, di chi ci sta intorno, delle Chiese che sono sul territorio, è quello di preparare la mediazione, sennò sarà un fallimento.

L’altro elemento è che ci sia qualcuno che si prepari a fare, tecnicamente, la mediazione penale. Stiamo lavorando, un po’, anche per fare questo, nella Conferenza Regionale Volontariato Giustizia della Lombardia. È molto importante in primo passaggio, cioè il preparare le comunità e le vittime stesse a entrare in un’ottica di mediazione. Che non è un’ottica funzionale, è un’ottica di cuore. C’è qualcosa di più sostenuto, rispetto al modo in cui normalmente si fanno le cose. Per me, in questo momento, è la sfida più alta, non perché è di moda… non mi interesserebbe per nessun motivo, ma perché è una sfida alta, perché implica un cambiamento radicale del modo di fare giustizia.

 

Pier Giorgio Licheri (Presidente Nazionale S.E.A.C.)

 

Credo che gli spunti siano moltissimi. Don Virgilio ha risposto alle provocazioni, ha messo dei materiali a disposizione. Ora, se qualcuno vuole intervenire.

 

 

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