La salute appesa a un filo

 

Atti della Giornata di Studi

“Carcere: La salute appesa a un filo”

Il disagio mentale in carcere e dopo la detenzione 

(Venerdì 20 maggio 2005 - Casa di reclusione di Padova)

 

Gennaro Pastore

 

Io lavoro nelle carceri napoletane ogni giorno. Ogni giorno entro a Poggioreale e a Secondigliano, e, quando capita, anche nell’O.P.G. di Napoli. Sono un operatore pubblico, un operatore dell’ASL, dirigo questo servizio dedicato ai tossicodipendenti detenuti, lavoro in un carcere ogni giorno e sento l’esigenza forte di esprimere le sensazioni positive di stare qui in questo posto. Quando sono entrato, a un certo punto mi è venuto in mente una cosa che si dice: “Le città si riconoscono da come organizzano i giardini zoologici”. Io credo che le carceri si riconoscano in tanti modi: uno dei modi per riconoscere le carceri è vedere le pareti di questi luoghi ed entrare in questo lungo corridoio, dove sicuramente passano i detenuti, e dove anche per loro è riservato un modo di utilizzare queste pareti con colori, con espressioni artistiche, con modalità che cercano di alleggerire questo cemento, questi ferri, questa luce. In qualche modo fa bene a chi come me lavora in situazioni di estrema difficoltà, di estremo degrado, è una grossa consolazione: me la riporterò nella situazione difficile napoletana. Una grossa consolazione è oggi non riuscire a capire tra di noi, tra di voi, chi è operatore e chi è detenuto, questo penso che sia un momento di alta qualità dell’iniziativa.

Io vengo da Napoli, e Napoli è una città purtroppo all’ordine del giorno per quanto riguarda le emergenze sociali, per quanto riguarda le emergenze di criminalità e potete immaginare le carceri napoletane cosa rappresentano.

A Poggioreale o a Secondigliano esistono 2000 detenuti a fronte di una capienza di 1100 posti. Il primo paradosso viene confermato: Poggioreale è la discarica sociale, il filtro della lavatrice, è praticamente il punto di raccolta del drop-out, del welfare, ma anche del drop-out dei servizi, e noi come ASL abbiamo organizzato, speriamo in maniera dignitosa, un’accoglienza ai tossicodipendenti, anche se siamo davanti a grosse contraddizioni perché ci troviamo ad osservare, a diagnosticare, a individuare momenti di patologia molto seria, non ultima quella della sofferenza mentale.

E così come il detenuto è malato, ci accorgiamo che il carcere è malato perché non ha risorse, non ha strumenti. Pensate che, se entra a Poggioreale un detenuto sofferente di patologie psichiatriche, se va bene questa persona vedrà lo psichiatra entro le 48-72 ore successive al suo ingresso, se va bene vedrà lo psichiatra entro 3 giorni. Lo psichiatra prescrive una cura che potrà fare entro le 12-18 ore dalla visita e sicuramente, è certo per quanto riguarda le carceri napoletane, questo paziente psichiatrico non avrà la cura che da cittadino libero faceva tre ore prima dell’arresto a casa sua o al suo Dipartimento di salute mentale, quindi non troverà alcun tipo di continuità.

Il carcere è malato, in questo modo assiste o cerca di assistere le persone, penso che l’abbia detto Corleone prima, è una cosa importante. Il carcere sembra che stia lì a garantire la richiesta di sicurezza, la domanda di sicurezza che viene da una società sempre più allarmata, sempre più indifesa. Invece il carcere restituisce insicurezza, questo è il paradosso. Paradossalmente il carcere restituisce insicurezza. La domanda che volevo fare, e veramente mi avvio alla conclusione del mio intervento, è: “Quale psichiatria serve in carcere? Quale psichiatria serve per i detenuti?”. Prima si parlava di Bolzaneto, non è un caso che nelle operazioni del G8, del Global Forum, insomma dei fatti di Genova, sia stata utilizzata la medicina penitenziaria, che ha un grande limite. Io non so se esistano colleghi di medicina penitenziaria, ma in qualche modo nessuna forma di intervento di medicina può trascurare anche un certo tipo di esigenze di controllo e di custodia. Ecco, in carcere non serve una psichiatria penitenziaria, non serve una psichiatria poliziesca, nel senso che serve una psichiatria che vada effettivamente incontro ai problemi e alle esigenze del detenuto.

Serve una psichiatria che funga da cuneo, che cerchi di frapporsi fra la sofferenza del soggetto e i continui stimoli disgreganti che l’esperienza detentiva comporta. Serve una psichiatria che sappia in qualche modo prendere a prestito un’esperienza delle dipendenze, delle tossicodipendenze, capire che il concetto è quello della riduzione del danno. Deve esistere una psichiatria che sappia in qualche modo limitare i danni in attesa di tempi migliori, in attesa di tempi ancora più efficaci e concreti. Serve soprattutto una psichiatria che accompagni il diritto dal fuori al dentro, perché, ripeto, i pazienti psicotici che il giorno prima facevano le loro terapie, le loro cure nel loro quartiere, devono essere accompagnati anche all’interno e avere anche la possibilità di farle anche in carcere. Ma fondamentalmente serve una psichiatria che sia soggetto pubblico, il soggetto penitenziario non può essere anche un soggetto sanitario, è una contraddizione in termini. Prima si parlava che questo tipo di discussione deve portare anche a capire come il carcere, come l’idea e il concetto di pena, debba andare incontro a delle trasformazioni. Questa è la mia conclusione: io credo che una delle trasformazioni possibili, e oggi lo stiamo vedendo qua dentro, una delle trasformazioni del carcere, sia quello di convivere con altri soggetti pubblici, con altri pezzi di Stato che siano presenti all’interno a garantire diritti fondamentali.

 

 

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