La salute appesa a un filo

 

Atti della Giornata di Studi

“Carcere: La salute appesa a un filo”

Il disagio mentale in carcere e dopo la detenzione 

(Venerdì 20 maggio 2005 - Casa di reclusione di Padova)

 

Franco Corleone

 

Il problema della salute in carcere lo definisco come il diritto fondamentale perché previsto dalla Costituzione, e diritto esigibile più facilmente di altri che anche per i cittadini liberi siano difficilmente esigibili. Il diritto alla salute, proprio per il legame che ha con la vita e la morte, come abbiamo sentito dalle relazioni, è un diritto che deve essere esigibile e tutelato e deve realizzarsi. Come si concilia il diritto alla salute con un carcere malato e che produce patologia? Questa è la contraddizione evidente che credo sentano addosso tutti quelli che lavorano in carcere e quelli che ci lavorano subiscono pesanti pressioni da tutti i punti di vista. Approfitto per fare una parentesi: tra ieri e oggi si è scatenata un’aggressione alla direttrice, alla Polizia penitenziaria del carcere Pagliarelli per questi colloqui che avrebbero prodotto chissà quali imprese criminali, ma lo scandalo per quella aggressione da parte di queste vestali del 41 bis, lo scandalo vero è che non è applicato il regolamento di cui si diceva prima e si fanno i colloqui ancora con il vetro divisorio e i muretti. Noi dobbiamo abbattere quei muri, i colloqui devono essere altro. Certo che se non si riesce ad abbattere i muretti, altro che affettività!

Ecco, questo fatto che del carcere si parla per criminalizzare chi ci lavora, per dire che ci devono essere controlli impossibili, o si decide per esempio che si toglie il diritto alla difesa ad alcuni detenuti, e allora forse il problema è risolto, ma pensare di mettere le barriere per i colloqui, vuol dire avere un tasso di disumanità pazzesco. Torniamo allora al punto della salute, del carcere sovraffollato e del carcere che crea patologie, ma soprattutto su una base che riguarda la composizione della popolazione detenuta. Cioè si mettono in carcere persone che non dovrebbero starci. Poi, come in un laboratorio, come se i detenuti diventassero topi o cavie, si fanno studi su come scoprire che in una situazione patologizzante si sta male e si muore, via via ci si ammala e si hanno disturbi della personalità.

Noi dobbiamo decidere se vogliamo fare delle azioni per impedire che entrino in carcere persone che non debbono starci, o se vogliamo coltivare gli esperimenti di alcuni psichiatri che vogliono darci lezioni sulla doppia diagnosi che rischia di diventare il nuovo grande affare. Quindi si fanno queste ricerche sulla pelle dei tossicodipendenti, dei detenuti e si distruggono le relazioni, questi sono i punti che abbiamo davanti. Io sono contento che ci sia il direttore del carcere di Trieste Sbriglia, perché spero che lui metta una buona parola perché la proposta di legge che vuole criminalizzare il consumo anche della cannabis, non vada avanti.

Perché dico questo? Perché se già oggi oltre il 39% dei detenuti è in carcere per fatti che sono in relazione con la violazione della legge 309 sulle droghe, se passasse quella legge etica, ideologica, noi avremmo l’esplosione del carcere. Forse l’unico merito che quella legge potrebbe avere, è quello di farlo letteralmente esplodere. L’unico modo di far forse crollare i muri. Però io penso che dobbiamo fermarla, perché se già oggi siamo al 39% che cosa succederebbe poi? E d’altronde i dati sono terrificanti. Ne abbiamo sentiti stamattina di dati drammatici, ma io ne dico un altro: che una sola legge, fra le 50.000 che ci sono nel nostro ordinamento, produca più del 40% dei detenuti è già una pazzia. Ma facciamo altro! Facciamo la politica della riduzione del danno; facciamo 1000 cose ma non la galera, perché la galera produce più danno delle sostanze stesse. Dobbiamo dirlo, e se non siamo d’accordo su questo è un pasticcio. In questi anni, nonostante il referendum del 1993, che poi non ha cambiato nulla perché l’impianto della legge è culturalmente quello proibizionalista, tanto che l’onorevole Mantovani dice: “Ma la legge Jervolino-Vassalli prima del referendum a noi stava bene”, con quella legge in 15 anni sono stati scontati, fatti cioè in carcere, non meno di 225.000 anni, e ho fatto dei conti al ribasso.

Altro che doppia diagnosi dobbiamo fare, la tripla, la quadrupla dobbiamo fare, ma a chi ha prodotto questa mostruosità, perché questa è una pazzia, che per il consumo di sostanze si produca questo disastro sociale. Quindi la questione delle droghe, della tossicodipendenza diventa questione criminale e non sociale. Questo è lo stravolgimento della logica, questa popolazione detenuta crea delle relazioni nel carcere che sono difficili per chiunque. Perché una popolazione detenuta debole che non ha neppure capacità di contrattazione per difendere i propri diritti o la propria vita, è una popolazione che crea delle relazioni per cui il carcere non appare più come un luogo duro, ma rischia di essere ma molto debole. L’infantilizzazione è sempre una minaccia, cioè il carcere, luogo di istituzione totale duro, eppure luogo dove si fanno tutte le cose con il diminutivo: la domandina, la richiestina, il permessino… Sembra un asilo d’infanzia, però non funziona perché è un luogo dove c’è il ricatto, e d’altronde è l’unico motivo per il quale si accetta di vivere in queste condizioni. Un altro genere di popolazione detenuta forse non accetterebbe questo.

Allora io penso che questo quadro provoca quelle patologie che abbiamo sentito, con conclusioni che credo affronteranno Franco Scarpa e Giuseppe dell’Acqua e gli altri: una di queste è l’O.P.G., la sopravvivenza del carcere–manicomio.

Margara ed io siamo stai sconfitti su molte questioni, lui è stato colpito anche da fuoco amico, però il problema che sugli O.P.G. incombe la ripresentazione, futura memoria, della proposta per il superamento degli O.P.G., sta lì, non riguarda più solo i 1200 che sono internati, come quelli di Castelfranco Emilia. Internati, non detenuti. Perché non sono capaci di intendere e volere, e il fondamento della proposta di legge sulle droghe di cui paventiamo l’approvazione ha un fondamento manicomiale, che è quello che la sostanza è così potente e annulla le capacità di intendere e volere delle persone e le riduce a cose da salvare, e le può salvare solo chi ha la verità e il modello morale di imporre e costringere attraverso il carcere, la casa lavoro, la redenzione, perché l’obbiettivo è salvare l’anima. Se poi qualche corpo rimane in fondo al pozzo pazienza, l’obiettivo era troppo alto. Ecco, allora come si mette assieme carcere, tossicodipendenza ed O.P.G.?

L’O.P.G. mi preoccupa oggi perché può diventare il modello in cui ricoverare gli alcolisti, i tossicodipendenti con doppia diagnosi, e che passerebbero quindi dal carcere al carcere manicomio. E si torna quindi al fatto di misure di sicurezza definite quali pericolosità sociale, e d’altronde chi ripete continuamente i reati è recidivo e pericoloso socialmente, e allora anche qui sull’O.P.G. quale strada piglieremo? Quella del superamento o quella scivolosa per cui la nostra sola fortuna è di  avere dei direttori degli O.P.G. che sono tutti straordinariamente bravi e impegnati, come moltissimi degli istituti penitenziari? Se non avessimo questa realtà di operatori, noi avremmo delle condizioni non solo intollerabili, ma ancora più gravi. Ebbene abbiamo questa fortuna, però il loro lavoro è quello di rendere l’O.P.G. meno carcere e più ospedale, ma in questo più manicomio. Cioè quelli che la legge Basaglia ha chiuso.

Ecco la contraddizione vivente su cui dobbiamo lavorare, ecco un programma riformatore che, a mio parere, dovrebbe affrontare questi nodi: il problema della salute si affronta tornando alle cifre di detenzione fisiologiche e non patologiche e quindi diritto penale minimo, un Codice penale che affronti i reati della società contemporanea, i reati ambientali, i reati, finanziari, quelli dei colletti bianchi, le truffe. E non invece mettere in carcere persone che hanno bisogno di un altro sostegno, che è quello di Welfare rinnovato nella società. Altrimenti certo dovremo fare la sanità pubblica in carcere perché, penso che dobbiamo superare la separatezza del carcere e dare trasparenza. L’episodio di Bolzaneto e a Genova durante il G8, è estremo e dimostra come in quell’occasione il ruolo di una medicina corporativa e chiusa ha dato avvallo ad operazione da piccolo lager.

Ecco, capisco anch’io che dobbiamo spiegare alle regioni che se vogliono assumersi questo compito devono sapere che devono spendere il doppio di quello che l’Amministrazione penitenziaria spende oggi per la salute. Non possono pensare di spendere meno o a zero costi. Allora: riforma dell’applicazione del regolamento, vivibilità, affettività, superamento degli O.P.G., ecco questo è un piccolo passo. Certo poi c’è il Codice penale, per la cui riforma  si continuano a fare commissioni: prima la Pagliaro quando avevamo i pantaloni corti, poi la proposta Ritz, poi la commissione Grosso, adesso quella Nordio, ma alla fine bisognerà farlo un Codice: dopo quello del 1931 che rimane il modello alto di pensiero giuridico ma diverso da quello che noi pensiamo sia oggi necessario. Io penso che, se il compito è quello di fare delle riforme, il problema sarà soprattutto quello di gestirlo con delle persone capaci, altrimenti farà solamente dolore aver fatto la legge per l’incompatibilità per i malati di HIV, e poi leggere che muore una detenuta perché ha avuto un’infezione di varicella.

Si fa la legge per le detenute madri e i bambini continuano a restare in carcere. Si fa la legge e il regolamento e continuano ad esserci tutte le cose che mancano, anche i pulsanti che servono per accendere e spegnere la luce in cella, e così via nell’elenco delle inadempienze. Quindi a rischio la legge Smuraglia per il lavoro che viene con difficoltà applicata. Bisogna fare delle riforme ma anche avere una feroce determinazione per l’applicazione a cominciare, certo da questa questione della salute, ma avendo ben presente qual’è il modello della penalità che noi vogliamo inventare per il futuro, probabilmente anche il carcere come penalità, che è solo quella di togliere la libertà, è un modello vecchio. Certo non dobbiamo tornare alle pene corporali, il carcere paradossalmente è stato un modello di civilizzazione, ma noi oggi dobbiamo fare un passo in avanti e quindi pensare che ci sia anche una giustizia riparativa, di impegno sociale per molti reati, non attraverso il passaggio delle misure alternative, ma immediatamente riparative e quindi un legame con la società per colmare in parte la ferita sociale. So che forse un modello del genere può diventare un luogo duro, severo, di severa risocializzazione per chi, un numero ristretto, probabilmente in carcere ci deve stare e non in questo ruolo di supplenza e che, con un po’ con durezza forse eccessiva, abbiamo chiamato discarica sociale.

 

 

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