La salute appesa a un filo

 

Atti della Giornata di Studi

“Carcere: La salute appesa a un filo”

Il disagio mentale in carcere e dopo la detenzione 

(Venerdì 20 maggio 2005 - Casa di reclusione di Padova)

 

Daniele Berto

 

Buongiorno e grazie per avermi dato possibilità di replica. Ne approfitto anche per portare i saluti della direzione generale della ASL 16 di Padova che rappresento in questo momento in questa sede. La nostra esperienza con il carcere, con le carceri di Padova, è un’esperienza che ormai è abbastanza lunga. L’impegno della ASL, per quanto possibile e con i mezzi che abbiamo, è un’esperienza che si porta avanti con impegno per quel che è possibile, ripeto. Noi sappiamo una cosa, che in carcere si può vivere in modo diverso: abbiamo visto tante carceri in Italia e abbiamo visto che le carceri dove funziona meglio anche l’aspetto della salute, sono quelle carceri dove ci sono tante attività, non solo tanti psichiatri o tanti psicologi, ma tante cose da fare. Ora questo potrebbe contrastare con l’organizzazione del carcere, perché crea problemi alla Polizia penitenziaria per l’aspetto proprio organizzativo, ma le carceri con tante attività sono carceri più sane, carceri più tranquille da un punto di vista organizzativo.

Noi non vogliamo venire qui e parlare oggi di “salute appesa a un filo” e fra due anni parlare di salute appesa a una corda, speriamo che si possa parlare in modo diverso di salute. Ho chiesto di poter dire due parole rispetto a quello che è stato detto questa mattina sulla doppia diagnosi. La frase che mi ha colpito molto è stata quella di una attività fatta sulla pelle dei tossicodipendenti, una ricerca fatta sulla pelle dei tossicodipendenti. Ho inteso che con la scusa di produrre risultati scientifici sono stati utilizzati i tossicodipendenti carcerati. Questo non è, non corrisponde all’intento del comitato scientifico di questa ricerca di cui io faccio parte assieme ad altre persone, ma non corrisponde anche per un motivo molto semplice, che avevamo, abbiamo ancora adesso perché questa ricerca è in corso in 21 carceri d’Italia. Abbiamo un super visore etico che non può essere tacciato d’incompetenza, questo super visore etico è don Ciotti, che ha voluto entrare in questa ricerca per dire: “Voglio vedere quello che fate, voglio vedere come lavorate per i tossicodipendenti e con i tossicodipendenti che possono avere una doppia diagnosi”, e ha verificato tutto l’iter di questa ricerca dando il suo benestare.

Ora, don Ciotti non è incompetente sul piano etico, per lo meno per me, per la mia etica non è una persona incompetente, allora che cosa è successo, che cosa si è voluto fare con questo intervento, che è stato fatto qui a Padova, che è in corso anche alla Casa circondariale e che è in corso in altre 21 carceri in Italia? L’intento era semplicemente questo: sappiamo, ed è un dato di fatto, che circa il 35% dei tossicodipendenti in Europa, non solo in Italia, hanno un problema di diagnosi anche psichiatrica. Questi tossicodipendenti non carcerati, non si sapeva nulla sui tossicodipendenti carcerati e quindi non si sapeva nulla sul loro trattamento, questi, ripeto, rischiavano di entrare in carcere e qualsiasi cosa dicessero venivano bollati: “Tanto sei tossico”. Qualsiasi disturbo, qualsiasi ansia, qualsiasi situazione anche vagamente psicopatologica, veniva etichettata in riferimento alla tossicodipendenza. Allora, visto che nulla era stato fatto, siccome c’è chi dice che è meglio qualcosa piuttosto che nulla, abbiamo messo a punto una ricerca che ha prodotto i risultati che ha prodotto; non del 75% come è stato detto questa mattina, ma il 50% delle persone che abbiamo visto in carcere, tossicodipendenti, aveva una qualche problematica di natura psichiatrica o psicopatologica o anche semplicemente psicologica, non riconosciuta dagli altri operatori del carcere. E quindi se non riconosciuta, non è trattata.

Allora se non è trattata significa che siamo di fronte alla malasanità, se uno ha una patologia che non viene trattata, e se questo significa lavorare sulla pelle dei tossicodipendenti carcerati, noi abbiamo lavorato non in questo modo, ma con l’ottica di fare in modo che qualcosa che non era visto, qualcosa che non era prima fatto. Abbiamo allargato, come avete sentito, questa cosa, e per fortuna 21 carceri italiane stanno applicando questa metodologia e oltre mille tossicodipendenti carcerati in Italia hanno un trattamento o farmacologico, o di sostegno, o in alcune carceri anche psicoterapico, che prima non c’era. Questo era il senso della ricerca e questo è il senso che noi vogliamo dare per fare sanità nel carcere: aiutare nelle operazioni che prima non erano state proposte. Il problema vero è quello che più volte è stato citato: necessitiamo tutti quanti noi di una collaborazione più attiva da parte dei dipartimenti della psichiatria che in qualche modo devono entrare a collaborare e a lavorare all’interno del carcere. Scusate per questa precisazione ma ne sentivo la necessità anche a nome di quegli operatori che hanno lavorato su questa cosa e a nome di quei detenuti che ci hanno dato una mano nel lavorare in questo modo.

 

 

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