La salute appesa a un filo

 

Atti della Giornata di Studi

“Carcere: La salute appesa a un filo”

Il disagio mentale in carcere e dopo la detenzione 

(Venerdì 20 maggio 2005 - Casa di reclusione di Padova)

 

Presentazione della Giornata

Salvatore Piruccio (direttore della Casa di reclusione di Padova)

Ornella Favero (Direttore responsabile di Ristretti Orizzonti)

Stefano Bentivogli (Redazione di Ristretti Orizzonti)

Sergio Segio (Società Informazione)

Andrea Boraschi (Direttore dell’associazione A Buon diritto di Roma)

Alessandro Margara (Magistrato, presidente della Fondazione Michelucci)

Franco Corleone (Garante dei detenuti del Comune di Firenze)

Giuseppe Dell’Acqua (Psichiatra, direttore del DSM di Trieste)

Franco Scarpa (Psichiatra, direttore dell’O.P.G. di Montelupo Fiorentino)

Stefano Vecchio (Psichiatra, Dipartimento Farmacodipendenze Asl Napoli)

Gennaro Pastore (Psichiatra del Ser.T. di Secondigliano e Poggioreale)

Vito D’Anza (Psichiatra - Forum Nazionale Salute mentale)

Enrico Sbriglia (Direttore della Casa circondariale di Trieste)

Giorgio Concato (Docente Facoltà di Psicologia di Firenze)

Daniele Berto (Responsabile Ser.T. carcere, ASL 16 di Padova)

Lucia Castellano (Direttrice della Casa di reclusione di Bollate)

Catia Taraschi (Provveditorato dell’Amm. penitenziaria della Lombardia)

Giuseppe Pilumeli (Comandante della Polizia penitenziaria C.C. di Prato)

Don Daniele Simonazzi (Cappellano dell’O.P.G. di Reggio Emilia)

Francesco Bruno (Criminologo, docente all’Università La Sapienza di Roma)

Giuseppe Mosconi (Docente di Sociologia del diritto, Università di Padova)

Le conclusioni della Giornata di Studi

Intervista a Franco Scarpa, direttore dell'Opg di Montelupo Fiorentino

Dall’attenzione alla prevenzione, di Pietro Buffa (direttore della C.C. di Torino)

Gli atti completi della Giornata di studi in file word zippato

Presentazione della Giornata di Studi

 

Parlare di salute in carcere è in primo luogo entrare in una contraddizione violenta tra quello che è il concetto stesso della pena ed il significato del termine salute: lo stato di detenzione genera normalmente patologie dell’apparato digerente, cardiache, dermatologiche, depressione grave e tante altre, che fanno parte del conto da pagare solo per il fatto che la pena detentiva è il carcere e non si riesce neanche ad immaginare qualcosa di diverso da esso. Oggi nelle carceri mancano i farmaci, non esiste quasi attività di prevenzione, ci sono grosse difficoltà per i ricoveri ospedalieri, ma c’è un altro aspetto che comincia ad emergere in maniera veramente preoccupante, ed è il diffondersi di un disagio mentale allarmante. Il consumo di psicofarmaci, l’autolesionismo, la depressione, i suicidi, ma più in generale gli atti estremi e fuori controllo ai quali si assiste con una frequenza impressionante sono l’indicatore della vera situazione nella quale si eseguono le pene in Italia.

A cinque anni dal varo della riforma, che doveva trasferire le competenze della sanità penitenziaria al servizio sanitario nazionale e ancora non è stata completata, i problemi restano sempre gli stessi, con l’aggravante del sovraffollamento e del taglio di finanziamenti all’intero sistema.

Il carcere ammala il corpo, la mente ed il cuore, molti perdono il controllo, si fanno male, dilaga il disagio mentale in particolare tra i tossicodipendenti, ma anche tra tanti immigrati, ed i suicidi sono troppi rispetto a fuori. Ci sono giorni che sembra di essere all’inferno, anche gli agenti se ne sono accorti e faticano sempre più ad intervenire, a gestire la situazione. Psichiatri, psicologi, spesso solo consulenti, non riescono più a contenere la situazione che si è creata

C’è necessità di un presidio sulla salute mentale in ogni carcere, che svolga attività permanenti, che ripensi il trattamento e lo renda funzionale alla nuova realtà, che faciliti una presa in carico di tutti quei bisogni di cura a livello affettivo e relazionale, ancora assente dietro le sbarre.

Questo è un argomento chiave su cui chiamare al confronto tutti i soggetti che con il carcere hanno a che fare, evitando di trovarsi solo a discutere tecnicamente sulla salute mentale e di produrre interventi episodici che nulla cambiano. La salute mentale può diventare una delle strade per proporre un cambiamento sostanziale dell’esecuzione della pena, ormai troppo lontana nei suoi presupposti dalla realtà della gente che oggi si trova chiusa in carcere.

 

Salvatore Pirruccio

 

Volevo ringraziarvi perché siete intervenuti così numerosi per prendere parte ad un tema, quello di oggi: “Carcere: La salute appesa ad un filo”, un tema molto delicato, non solo per la cittadinanza, ma soprattutto per l’ambiente e per i detenuti che ospitiamo nelle carceri italiane. Per cui sarà un convegno-seminario molto interessante. A me non rimane che ringraziare, non soltanto voi che siete venuti più numerosi dell’anno scorso, ma anche i relatori che sempre molto gentilmente partecipano a queste iniziative, tutto il personale operante presso la struttura che questa mattina ha sopportato un lavoro enorme, però con molta professionalità: ho visto che siamo riusciti ad espletare le nostre operazioni in maniera molto celere.

 

Ornella Favero

 

Pur consapevoli che l’acustica, il luogo non è l’ideale per i convegni, per noi era molto importate fare entrare dall’esterno tutte queste persone e permettere a più di cento detenuti di confrontarsi su temi così importanti. Questo ci sembra molto più significativo che non avere un bel luogo per convegni fuori. Non sono solita fare dei ringraziamenti che portano a delle lungaggini, ma questa volta devo dire che abbiamo lavorato davvero assieme: noi, i volontari, i detenuti, gli operatori, gli agenti, gli educatori, la direzione. Insomma c’è stato un grande lavoro collettivo che indica che è molto importante un simile clima in un carcere. Ciò non toglie che i problemi che tratteremo oggi, cioè il disagio, lo stare male a causa delle situazioni nelle quali si vive oggi in carcere, siano scottanti dappertutto. Abbiamo deciso di scegliere un tema forse scomodo, difficile, eppure noi ci siamo misurati con grande fatica, nata proprio da un’esigenza di qui dentro, dalle persone che vivono questo disagio.

 

Stefano Bentivogli

 

Quando siamo partiti per discutere del convegno di quest’anno, in realtà non pensavamo assolutamente alla salute mentale. Ricordo che eravamo attorno al mese di dicembre ed eravamo molto propensi ad organizzare un convegno che parlasse della sanità in generale, con tutti i problemi che in carcere comporta una riforma con un passaggio alla sanità pubblica che è ancora a metà, e spesso non funziona; dei problemi seri di tutti gli istituti in Italia che partono dalla possibilità o meno di avere delle cure a livello farmacologico. Siamo arrivati a parlar d’altro, non perché il problema della sanità e quindi l’assistenza sanitaria non sia un problema grave, anzi ne approfitto per ribadire che anche quest’anno sicuramente avremo dei problemi quasi dappertutto, tranne dove le regioni si sono fatte minimamente carico di quella che è la mancanza di fondi per poter acquistare i farmaci. In realtà nel periodo in cui discutevamo di questo documento sulla sanità, c’era qualche cosa che ci ronzava nelle orecchie, qualcosa che comunque da tempo avevamo sotto agli occhi. Pensando ad esempio all’iniziativa che da qui è partita che riguarda il dossier sui suicidi in carcere. Quindi parlando di sanità siamo passati a parlare di salute perché tante cose non riuscivamo più a spiegarle, capirle, e avevamo bisogno di conoscerne altre in più.

Mi riferisco a quella che è la vita normale nelle sezioni, non esclusivamente di questo carcere, dove i suicidi sono stati anche ultimamente parecchi, ma un po’ in generale in tutte le carceri italiane dove sono frequenti i fatti di autolesionismo, dove ad una certa ora della notte iniziano a suonare i campanelli, iniziano le discussioni, le urla, molto spesso dopo un po’ arriva una barella, a prendere le persone e portarle via. Di fronte a queste cose abbiamo deciso che bisognava andare a capire di più, senza dover parlare necessariamente di salute mentale, di affrontare tutte le situazioni di disagio in termini psichiatrici, cioè non siamo di fronte necessariamente a tanti pazzi, anche perché con questa logica spesso si rischia di andare ulteriormente ad escludere, segregare, allontanare delle persone che, nel caso dei detenuti, sono già abbondantemente lontani dalla società.

Ci siamo chiesti però se non c’era veramente qualche altro problema che bisognava iniziare a prendere in mano: ad esempio la possibilità per i detenuti di esprimere in maniera corretta i propri bisogni ed essere ascoltati, cosa che è sempre più difficile, e poi abbiamo riscontrato, non molto lontano da noi, un atteggiamento che non ci è piaciuto, cioè quello di iniziare a considerare gli atti di autolesionismo, necessariamente episodi di manipolazioni, di simulazioni. Gli atti violenti presi sempre con una lettura molto, molto morale, trattati come atti malvagità, cattiveria, i suicidi sembrano invece, alla fine, incidenti.

Ecco, noi questo tipo di lettura non l’abbiamo mai accettata, però abbiamo deciso di capire qualcosa in più, di andare a vedere cosa in Italia si sta facendo: cercando, informandoci, ci siamo resi conto che bisognava anche iniziare ad avere più attenzione per quello che succede fuori dal carcere, perché ci siamo trovati a discutere di tanti casi eclatanti di cronaca recente, dove la questione della sanità mentale era centrale, e mi riferisco di minori, quali Erika e Omar, al caso Jucker e a tanti altri. Tante altre persone sono inserite nel circuito penitenziario normale, eppure gli O.P.G. esistono, ma che ruolo hanno? Cosa si fa? Cosa sono realmente gli O.P.G. oggi?

Siamo andati anche a visitarne uno, io personalmente sono andato in permesso a Montelupo Fiorentino, quindi ad intervistare il direttore, a vedere cosa si fa. Ecco, fuori abbiamo scoperto un’altra cosa, che la questione della sanità mentale non è, diciamo, una prerogativa del carcere, ma  anche  all’esterno esiste una situazione di cui  si capisce sempre meno. Siamo oramai ad anni e anni da quella che è stata la legge Basaglia, la sensazione che abbiamo, e non solo noi, è che il carcere stia diventando un ulteriore contenitore di quanto fuori non si riesce a gestire. Mesi fa mi è capitato, proprio mentre parlavamo di queste cose, di leggere addirittura un articolo di Demond che faceva un’analisi sui carceri francesi e che diceva esattamente la stessa cosa, quindi non è un problema solamente nostro.

Infine la questione del rapporto con l’esterno: se è vero che non è il carcere necessariamente quello che produce disagio mentale, ma  che spesso o quasi sempre lo accentua, c’è un problema che viene da fuori, ma c’è anche un problema che poi dal carcere va fuori un’altra volta, quindi continuare a non pensare al carcere come luogo di cura, che ripeto, può significare trasformarlo nell’ennesimo manicomio, è un investimento per chi sta fuori. Perché un carcere che manda fuori persone sempre più squilibrate è un carcere che crea insicurezza; e che il carcere e le persone che ne escono non siano comunque soggetti tali da rendere insicura ed ostile la società esterna, è un interesse primario di tutti di noi detenuti. Con questo vi saluto e vi auguro una giornata interessante.

Le conclusioni della Giornata di Studi

 

Il carcere, lungi dall’essere un luogo di cura, è piuttosto la malattia. La Giornata di Studi “Carcere: La salute appesa a un filo”, dedicata ai temi del disagio mentale, ha messo al centro dell’attenzione il malessere di chi vive in galera e di chi ci lavora, di fronte al fatto che il carcere è oggi diventato un contenitore di disagi dove, sempre di più, vengono a scaricarsi sofferenze di ogni genere, di persone che perdono, spesso e prima di tutto, il benessere psicofisico. Quando si parla di “aprire” il carcere si pensa per lo più alla necessità di renderlo più trasparente, di mettere con più forza in contatto il dentro e il fuori. A Padova invece abbiamo sperimentato (ma non è la prima volta) una apertura più decisa e coraggiosa: per un giorno, nella Casa di reclusione sono entrate seicento persone – psichiatri, operatori, associazioni, studenti –, hanno parlato con molti detenuti, discusso di un tema, quello della salute mentale, che sembra assumere sempre più rilievo nelle nostre sovraffollate galere.

La Giornata di Studi è stata organizzata per porre all’attenzione di tutti con forza il tema della salute mentale in carcere, che è una questione fondamentale per chiunque si occupi, a qualsiasi titolo, di esecuzione della pena e reinserimento sociale. La salute mentale però è un argomento troppo spesso delegato alla sola psichiatria, quindi ai tecnici, e resta relegato ad un circuito difficilmente accessibile, pur essendo di vitale importanza per la crescita civile della società in tutti i suoi ambiti. Inoltre, il disagio e le privazioni che le persone vivono in carcere, che possono produrre anche danni psichici e relazionali (basti pensare alla deprivazione affettiva e sessuale), abbisognano in prima istanza di attenzioni umane e sociali, più ancora che di saperi tecnici e professionali. Vale a dire che, a nostro giudizio, il disagio psichico il più delle volte non è preesistente, ma semmai una risultante della pena reclusiva.

Deve essere insomma chiaro che, assai spesso, il carcere, lungi dall’essere una medicina o un luogo di cura, costituisce piuttosto la malattia. Il carcere è oggi diventato un contenitore di disagi dove, sempre di più, vengono a scaricarsi sofferenze di ogni genere, di persone che perdono, spesso e prima di tutto, il benessere psicofisico. A questo il sistema penale, a volte in maniera colpevole, non è preparato. Quando abbiamo organizzato questo appuntamento avevamo sostanzialmente il bisogno di capire meglio un problema urgente che pareva del tutto sottovalutato. Ci siamo invece resi conto che c’è molto interesse e che esistono iniziative sperimentali che andrebbero promosse ed estese in tutto il territorio nazionale.

Ci sono poi questioni sulle quali è ora che il legislatore intervenga e produca riforme che siano al passo con i problemi oggi più scottanti: il rapporto tra psichiatria e legge penale è sicuramente uno di questi. E così pure il superamento di un concetto di pericolosità sociale, non a caso introdotto dal codice fascista, e dei suoi effetti penalizzanti, stigmatizzanti ed escludenti.

Questi in sintesi i punti principali sui quali questa Giornata di Studi ha inteso rilanciare l’attenzione e chiede interventi concreti:

 

La sanità mentale quale elemento importante in fase di giudizio e i necessari risvolti nell’esecuzione della pena

 

Allo stato attuale sono troppi i casi dove il delitto viene giudicato con poca attenzione nei suoi risvolti psichiatrici. Di mezzo c’è sempre il conflitto tra la responsabilità del reo e la sua capacità di intendere e di volere, che per le nostre norme attenua od elimina la punibilità. C’è troppa attenzione da parte della società solo ed esclusivamente ad arrivare a condanne pesanti, senza capire bene la personalità ed i disturbi dell’imputato, e lasciando poi le persone in balia del successivo disinteresse, in fase di esecuzione della pena, riguardo la cura e l’effettiva attenuazione della pericolosità sociale. Sono troppi i casi dove i responsabili di delitti efferati, in questa logica, vengono custoditi nel circuito penitenziario ordinario all’interno del quale non è strutturato alcun servizio continuativo di osservazione e cura specifica.

 

Carcere e O.P.G. come luoghi di attenzione e di cura

 

L’attuale strutturazione del sistema penitenziario, e l’uso che ne viene fatto, rischia in troppi casi di non diventare opportunità di cura del disagio mentale di chi vi accede. In linea generale la tipologia delle persone che oggi sono in carcere è quella di portatori di sofferenze (tossicodipendenti, immigrati, ma anche responsabili di delitti commessi tra le mura di casa o a sfondo sessuale). Gli atti di autolesionismo, i suicidi e tante altre situazioni critiche sono all’ordine del giorno nelle sezioni dei penitenziari. A questa situazione si provvede spesso trasferendo i detenuti da un carcere all’altro o inviandoli in osservazione presso gli O.P.G.: un diverso tipo di presa in carico di questi disagi sarebbe possibile intervenendo senza psichiatrizzare ciò che è impegnativo gestire, e invece chiarendo definitivamente il ruolo ed il contesto dell’intervento psichiatrico. In alcuni O.P.G. esistono esperienze di cura ed inclusione nel tessuto sociale, di rifiuto della segregazione totale e di collaborazione con gli enti, le istituzioni e le associazioni del territorio. In questa direzione è forse possibile dare nuovi indirizzi di intervento ad un ambito, quale quello penale, dove la legge Basaglia stenta ancora ad essere attuata.

 

I gruppi di attenzione e le azioni preventive contro il rischio suicidiario e gli atti di autolesionismo

 

Esistono in Italia esperienze pilota di gestione del disagio mentale in carcere e di prevenzione del rischio suicidiario e degli atti di autolesionismo. Torino, Milano, la Toscana in generale da tempo sono attive con progetti che, nonostante le difficoltà e le condizioni insopportabili per il sovraffollamento in cui si svolgono, danno i loro frutti. Sono esperienze che coinvolgono operatori penitenziari, enti locali, volontariato, terzo settore. Occorre a questo punto chiedere che, su tutto il territorio nazionale, vengano attivate iniziative analoghe, e che vengano date dall’amministrazione penitenziaria priorità e risorse a questi progetti. Andrebbero inoltre promosse e facilitate le esperienze di autoaiuto tra i detenuti, attraverso momenti formativi mirati. La prima prevenzione del rischio del suicidio è costituita dagli spazi e opportunità di socialità tra gli stessi reclusi, troppo spesso invece sacrificati dall’organizzazione interna, dalle carenze di personale e dai regolamenti degli istituti.

 

Le convenzioni con i Dipartimenti di Salute Mentale

 

Il problema della sanità mentale in carcere non può continuare a essere affrontato senza un collegamento e un ruolo attivo dei Dipartimenti di Salute Mentale. Occorre coinvolgere a pieno titolo, e in conformità con la riforma della sanità penitenziaria, chi è in grado di seguire i pazienti dentro e fuori dal carcere in maniera continuativa e costruire sempre più opportunità di decarcerizzazione che consentano la cura in contesti più consoni di quanto possa essere il carcere, anche il più attenuato. Le convenzioni tra D.S.M. e Amministrazione penitenziaria diventano un passaggio indispensabile da promuovere e costruire.

 

La qualità della detenzione: non solo segno del livello di civiltà delle istituzioni, ma anche investimento per produrre possibilità di risocializzazione e quindi sicurezza sociale

 

Se è vero che il carcere non è il solo responsabile del disagio mentale, lo è altrettanto che le attuali condizioni in cui viene eseguita la detenzione concorrono fortemente ad acutizzarlo e favoriscono esiti tragici. Il sovraffollamento, la carenza di personale e di mezzi, influiscono in modo pesante sull’attuale situazione. A ciò si aggiunge la centralità della logica afflittiva a discapito di quella risocializzante, il riproporre troppo spesso esigenze di sicurezza lontane dalla reale pericolosità delle persone che vi sono sottoposte: tutto ciò rende “folle” il vivere in carcere.

Questo modo di far eseguire le pene, ancora poco civile, non è stato finora pagante né come retribuzione per le vittime dei reati né per la sicurezza sociale. Oggi il carcere rende alla società persone sempre più squilibrate e diventa quindi un volano di insicurezza per tutti. La salute mentale, durante e dopo la detenzione, è una questione ancora troppo trascurata o addirittura ignorata, e tanti allarmanti atti di autolesionismo, suicidi e anche episodi di recidiva di persone rimesse in libertà necessitano di un’azione di stimolo e di proposta che porti ad iniziative concrete, continuative e condotte con un lavoro di rete tra carcere e territorio.

 

L’invito che esce da questa Giornata di Studi è:

 

a promuovere queste iniziative ovunque, regione per regione, a partire da un monitoraggio nelle carceri riguardo ai fattori principali che sono all’origine del disagio mentale (con l’individuazione delle sezioni che vivono in uno stato di maggior abbandono anche all’interno di uno stesso carcere)

a creare una rete stabile di scambio di esperienze mirata a consolidare questo tipo di attività, a occuparsi della formazione degli operatori e a diffondere modelli di convenzioni con gli enti locali e di collaborazione con il territorio utili a promuovere un’attenzione continua al disagio mentale in carcere e più prospettive di assistenza e cura fuori dal carcere

 a rilanciare la proposta di legge sull’affettività in carcere, elaborata a Padova nel 2002, sulla base della considerazione che la negazione degli affetti e del sesso è uno dei principali motivi di disagio e di sofferenza per le persone detenute e per le loro famiglie.

 

In questo senso Ristretti Orizzonti realizzerà un numero speciale sulla salute mentale con lo scopo di diffondere il lavoro fatto in questa giornata e costituirà un archivio con la documentazione utile, affinché in ogni realtà sia possibile avere materiale per progettare interventi, proporre convenzioni, trovare i contatti giusti con chi già opera.

 

Inoltre, come Federazione nazionale delle realtà che producono informazione sul e dal carcere, metteremo al centro delle nostre attività nel prossimo periodo l’osservazione delle condizioni sanitarie nel sistema penitenziario e ci attiveremo affinché su questo vi sia una più decisa e continuativa attenzione da parte dei media, attraverso una lettera aperta a tutti i direttori dei quotidiani e delle testate giornalistiche e radiotelevisive.

 

 

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