Giuseppe Fioroni

 

Université Européenne Jean Monnet – Bruxelles

Sede di Padova, Istituto ETAI - Scuola di Specializzazione in Criminologia

 

Seminario nazionale "Carcere e salute"

Padova, 17 maggio 2003

 

Onorevole Giuseppe Fioroni

 

Credo che per quanto riguarda il problema dell’assistenza sanitaria nelle carceri è uno dei nodi che hanno seguito una vicenda singolare, nel nostro iter parlamentare, nel nostro iter legislativo. Credo che la riforma della sanità penitenziaria sia l’unica riforma che non ha prodotto effetti. La riforma è del 1998, con la legge delega, che riorganizzava il servizio sanitario penitenziario, a cui hanno fatto seguito i due decreti del 1999, ma la sanità penitenziaria va avanti come se quella riforma non fosse mai stata scritta.

Quali erano e quali sono i principi della riforma? Cioè, il quesito che dobbiamo porci è se è possibile che un sistema sanitario come in nostro, che è un sistema di tipo universalistico, possa consentire che all’interno della stessa comunità e dello stesso paese ci siano cittadini che, rispetto all’articolo 32 della Costituzione, essendo posti in condizione di fruire dei servizi sanitari all’interno di una struttura diversa per luogo, sia messo in discussione che il loro diritto alla salute sia garantito in modo uguale a quello degli altri cittadini.

Partendo da questo presupposto abbiamo messo mano alla riforma, che non è stata attuata, ma che ancora esiste, e che cercava di ricondurre il diritto alla salute dei detenuti, come una normale erogazione del servizio sanitario nazionale, alla stregua di qualsiasi altro cittadino.

Può sembrare una cosa semplice da enunciare, ma è molto più complicata da realizzare. Però se non si risolve concettualmente, se non si riconduce la sanità penitenziaria all’interno del sistema sanitario nazionale, mancano tre aspetti: ogni triennio esce un Piano sanitario nazionale, che stabilisce quali sono gli obiettivi di salute da far realizzare ai nostri cittadini, che stabilisce quali sono gli obiettivi di salute da far realizzare ai nostri cittadini, che stabilisce di cosa hanno bisogno, chi li deve erogare, come devono essere erogati e, soprattutto, stabilendo gli obiettivi, stabilisce anche i meccanismi con cui si verifica il raggiungimento degli obiettivi stessi e si stabilisce anche il risultato in termini d’efficienza ed efficacia sulle prestazioni che sono state date.

Questa cosa nell’ambito delle carceri non avviene, perché il sistema sanitario penitenziario è sostanzialmente affidato a dei medici, sicuramente valenti, con un costo per persona che è quasi quattro volte quello che costa un cittadino normale, per ottenere prestazioni che sono diverse e, nella maggior parte dei casi, non idonee alla cura della persona che si trova in stato di detenzione.

Se voi andate ad analizzare qual è il personale dipendente che lavora all’interno delle carceri, vi accorgete che il numero dei medici è irrisorio, rispetto al numero dei detenuti. La maggior parte dei medici che lavorano all’interno degli istituti penitenziari sono medici delle A.S.L., o medici delle Università, a convenzione, o a contratto. La stessa cosa vale per il personale paramedico.

Con un costo procapite che è superiore a quello che il servizio sanitario nazionale spende per i singoli cittadini. Allora, il principio cardine della riforma era che il cittadino, prescindendo da dove si trova, doveva avere la salute garantita dal servizio sanitario nazionale, che doveva assumere su di sé la responsabilità di poter erogare le cure e le prestazioni ai cittadini che stanno all’interno delle carceri.

Questo meccanismo è stato sostanzialmente bloccato per due ordini di ragioni, da una parte l’ostracismo del ministero di grazia e giustizia e, dall’altra, ovviamente, il cambio di governo, avvenuto nel 2001, che ha vanificato questo processo di riforma. Per cui oggi, riguardo alla popolazione detenuta, noi non sappiamo qual è la domanda di salute, quindi non sappiamo di cosa hanno bisogno, non sappiamo se abbiamo risorse umane e strumenti adatti a dargli una risposta, non sappiamo che cosa è obbligatorio che lo stato gratuitamente gli eroghi.

Non è previsto, se non affidato alla buona volontà dei direttori, un principio di prevenzione, né di formazione. Per dirla in una battuta, quelli che stanno all’interno delle carceri sono al di fuori della programmazione sanitaria del nostro paese, per cui il direttore che se li prende in carico è anche quello che improvvisamente si deve fare carico delle loro esigenze sanitarie, capire i loro bisogni di salute, provvedere in qualche modo, con atteggiamento sicuramente attento, molto spesso un atteggiamento che non gli è proprio, che trasforma quello che è il diritto del cittadino ad essere curato in un diritto che gli viene erogato da chi, in quel momento, è direttore del carcere.

È una cosa diversa, quindi c’è un problema oggettivo, che i detenuti non stanno né negli obiettivi del piano sanitario nazionale, né ne conosciamo i bisogni di salute, né sappiamo se siamo idonei a dare risposte ai loro bisogni di salute. La loro salute è sostanzialmente tutelata da uno stanziamento economico, fatto a prescindere dalla conoscenza dei loro bisogni di salute, perché è complicato stabilirli - uno stanziamento fatto dal ministero della giustizia - ed è affidata, non all’articolo 32 della Costituzione, ma all’attenzione che dimostra un direttore di carcere, che indubbiamente è molto attento, ma trasforma un diritto in un’elargizione che può essere data sicuramente in modo diverso a seconda della struttura in cui si è detenuti.

Quando viene presentato, ogni anno, lo stato di salute del paese, non c’è una riga su una popolazione carceraria che è significativa. Cioè, noi non è che non sappiamo i dettagli, noi non sappiamo che malattie hanno, come ce l’hanno, che tipo di prevenzione abbiamo messo in atto, se la stiamo seguendo. Questo, se vi rendete conto, è un meccanismo sostanzialmente folle.

Allora, nei principi della riforma, posti nella legge 230, che non è stata applicata, c’era quello di garantire al cittadino detenuto gli stessi diritti che ha il cittadino fuori dall’istituto di pena, quello di far sì che il servizio sanitario nazionale se ne prendesse carico, affidando all’ASL di competenza le prestazioni che sono proprie del territorio e affidando all’Azienda ospedaliera le prestazioni che le sono proprie in caso di necessità o di emergenza.

La situazione, dal 1998 in poi, è peggiorata, perché si è avuta una trasformazione dei livelli appropriati di assistenza in livelli essenziali di assistenza. I livelli di assistenza sono le cose che il servizio sanitario nazionale deve dare per garantire la salute dei cittadini.

Fino al 2001, il termine usato era "livelli appropriati ed uniformi di assistenza", in che significa che, siccome noi non curiamo la malattia, ma curiamo il malato, in qualunque posto si trovi, dobbiamo essere in condizione di dargli le prestazioni che gli occorrono.

Oggi questo è cambiato, perché non si parla più di "livelli appropriati", ma di "livelli essenziali": da un punto di vista sanitario l’interpretazione può essere la stessa, è essenziale ciò che è appropriato, cioè do al malato non di più ma quello che gli occorre. In una visione di tipo economico, come oggi è portata la sanità italiana, cioè che la sanità è all’interno di un capitolo di spese, non all’interno di un capitolo di investimento nel bilancio dello Stato, perché non è ritenuta una risorsa, i livelli essenziali significa che, stabiliti i soldi che ho a disposizione, do il minimo che è indispensabile.

Tenendo presente questo aspetto, credo che non sfugga a nessuno che un sistema sanitario nazionale che taglia le risorse per i farmaci, ha reintrodotto i ticket, razionalizza la rete ospedaliera, sta di fatto virando da un sistema universale a un sistema misto di tipo assicurativo, lo spazio per farsi carico anche della popolazione che è detenuta, in uno stato sociale che viene concepito come compassione e come elargizione e non come diritto da tutelare, è facile che diventi come il soggetto che deve espiare e, in un livello essenziale, se non c’è possibilità di garantire nulla, se non l’emergenza, credo che questo trasformi drasticamente lo stato di sicurezza delle nostre carceri dal punto di vista della salute.

All’interno della legge c’è poi un altro aspetto che sembra banale, ma nel vigente ordinamento non è previsto che il detenuto nessuna informazione, se non la propria memoria di ciò che ha avuto e di che cure ha avuto. Non avviene una presa in carico quando entra in carcere, perché al medico del carcere non viene spiegato da nessuno che tipo di malattie ha avuto questo detenuto e come sta. E quando esce avviene la stessa cosa e il medico che lo riprenderà in carico ha quel buco fatto da 5, 10, 15, 20 anni, nei quali è stato dentro e nel corso dei quali non si sa né cosa ha avuto, né come è stato curato, né chi lo ha curato. E questo è un aspetto che incide in maniera pesante.

Anche lo stesso aspetto di garantire una educazione alla salute. Questi sono aspetti che all’interno del servizio sanitario nazionale figure diverse fanno e che, nel carcere, non possono essere fatte.

Questo è il quadro sostanziale all’interno del quale si muoveva e si muove ancora la riforma, che aveva passato, nel gennaio del 2000, le competenze alle A.S.L. per quanto riguardava la prevenzione, l’assistenza e la tossicodipendenza di coloro che hanno la libertà personale ristretta. Tutto questo ha avuto un passaggio anche di fondi, che erano quelli del capitolo di bilancio del ministero di grazia e giustizia, dati in carico al servizio sanitario nazionale. Tutto questo è stato attuato per tre mesi, nelle tre regioni che l’hanno fatto sperimentalmente, e poi sostanzialmente la riforma è stata bloccata.

Per cui oggi ci troviamo in presenza di un sistema sanitario che cura tutti, meno quelli che stanno in carcere, e non periodo in cui stanno in carcere hanno perso, sembra, il loro diritto alla salute. Questa non è una visione di allarme, questo è semplicemente il dato oggettivo che oggi si realizza. Poi possono anche essere curati, ma sono curati stando avulsi dal servizio sanitario nazionale, stando avulsi dai piani sanitari nazionali, dalla programmazione, dalla verifica degli obiettivi, dalla stessa formazione del personale sanitario.

Era stato avviato anche un obiettivo - salute che riguardava la sanità penitenziaria, perché avevamo ipotizzato alcuni aspetti. Intanto, se i cittadini che stanno nelle carceri tornavano ad essere, come tutti i cittadini, soggetti portatori di un diritto, che era quello di avere la propria salute tutelata, bisogna che i piani sanitari nazionali, come quelli regionali, prevedano di migliorare e di incentivare la qualità di salute all’interno dei penitenziari, perché se lo prevedono c’è anche un flusso economico e finanziario che sorregge lo sforzo per investire nella tutela della salute.

Seconda cosa bisognava studiare un livello organizzativo, perché non è possibile avere un sistema sanitario per ogni direttore di carcere, è difficile soprattutto averlo senza che vengano fissati gli obiettivi da raggiungere e senza verificare lo stato di efficienza e di efficacia. Mi ha molto colpito l’analisi che ha fatto il direttore, però poi a monte di queste strutture, la popolazione carceraria e gli istituti di pena del nostro paese sono multiformi e variegati e i livelli di assistenza sono affidati a un atteggiamento di tipo caritatevole, che è un’altra cosa, rispetto a un diritto che la nostra Costituzione prevede.

E poi la formazione degli operatori sanitari. Se il sistema sanitario penitenziario diventa un modo per far guadagnare qualcosa in più a chi già guadagna, o se viene considerato come il modo per dare una prima precaria occupazione a chi non lavora, significa considerare quei cittadini non degni della stessa attenzione che hanno coloro che stanno all’esterno. Quando invece serve, dal punto di vista dell’assistenza sanitaria, un personale che sia formato ad hoc, per la complessità delle patologie che stanno all’interno del sistema carcerario.

Nel frattempo, poi, è stata fatta la riforma della legge 328 sull’assistenza sociale, che coglieva anche lo stesso principio, cioè se noi abbiamo sancito il diritto del cittadino a fruire dei servizi sociali, evitando la monetizzazione, ma rendendoli come una rete di servizi alla persona, questo non cambia a seconda del luogo dove il cittadino sta. Quindi la necessità di fornire servizi, anche quello sanitario, naturalmente, dal punto di vista della sicurezza, studiato, concordato e concertato con l’amministrazione penitenziaria. Ma diventa difficile che la sanità penitenziaria sia affidata a un direttore generale esperto di logistica e con i criteri della segretezza, invece di essere affidata a chi è chiamato a pianificare lo stato di salute dei cittadini perché lo fa per proprio mestiere. E la stessa cosa avviene per i servizi sociali, che sostanzialmente, in nove decimi dei Comuni, sono affidati alla attenzione, o alla disponibilità, anche lì, dei servizi sociali comunali o dei direttori che dove si integrano lo fanno e dove non si integrano non lo fanno.

Eppure quel soggetto ha lo stesso diritto di un cittadino esterno ad avere questo tipo di attenzione. E la dimostrazione più palese, se ci pensate un attimo, è la pubblicazione del "libro bianco", che è quello nel quale ogni anno il governo fa la valutazione degli interventi nel sociale e prevede, per quanto riguarda le strutture di volontariato, la presenza all’interno delle carceri e non è previsto neanche un minimo di supporto a quelle organizzazioni che in realtà operano in carcere, nella concezione che chi sta in carcere deve espiare con la rinuncia anche a una parte dei diritti che ha, oltre alla privazione della libertà e al processo di rieducazione che dovrebbe avere e portare avanti.

Rispetto a questo, credo che in settembre si porrà la necessità di riprendere una scelta che è definitiva, tra il ministero della sanità e quello della giustizia, cioè o si sancisce che nel nostro paese esistono due tipi di popolazione, una la popolazione italiana e l’altra i detenuti, quindi il ministero della giustizia gestisce la salute di quei cittadini in virtù del fatto che prevale la logica della sicurezza, rispetto a quella della tutela della salute, come se le due cose non fossero conciliabili, anche se gestite da altri, e quindi si va a una divisione, oppure si riattiva questo processo di riforma, che era stato avviato ed erano state anche individuate le risorse e che ora è bloccato.

La gestione della sanità penitenziaria costa molto e dà, forse, non in modo proporzionale. È l’unica gestione del nostro paese dove non si entra per concorso ma, prevalendo il criterio della secretazione, si entra per scelta. Quindi questo stabilisce uno stato di privilegio, perché non si entra per una selezione, ma si entra perché si è ritenuti più idonei dal punto di vista della affidabilità e della sicurezza. In questo modo si spendono un quantitativo di miliardi che, a mio avviso, e anche ad avviso del parlamento, visto che l’ha votato più volte, si potrebbe garantire un sistema più omogeneo con quello dei cittadini, privando alcuni soggetti di privilegi, sia nella remunerazione aggiuntiva al proprio stipendio, sia nel momento in cui vengono scelti.

 

 

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