Il tempo libero in carcere

 

Convegno: "Il tempo libero in carcere"

Lodi, 8 novembre 2003

 

 

Intervento di Francesco Maisto (Sostituto Procuratore di Milano)

 

Il dottor Pagano, nel corso del suo felice intervento, ha fatto un riferimento ad un’epoca in cui svolgevo altra attività professionale, cioè quando non ero alla Procura Generale di Milano ma facevo il magistrato di sorveglianza. Faceva riferimento ai sotterranei di San Vittore, com’erano tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80.

Voi avete ben presente quale era il contesto politico – sociale del nostro paese in quegli anni: il periodo di terrorismo tutto induceva a pensare fuorché alle condizioni di detenzione di tutti i detenuti, quindi non soltanto dei detenuti per fatti politici. Ecco, l’oscenità e l’obbrobrio che rappresentavano i sotterranei di San Vittore, cioè l’isolamento di San Vittore, era una di quelle cose alle quali si addiceva l’espressione: "è fuori dalla grazia di Dio". Quale mente perversa ha mai potuto pensare a una situazione logistica di questo tipo!?

E, sembra strano e paradossale, fu proprio mandandoci i carabinieri che riuscii a far chiudere l’isolamento di San Vittore nei sotterranei, perché erano in aperta violazione di legalità. Quindi, lo Stato che tiene persone in detenzione in una situazione di estrema illegalità. Perché questo discorso ha a che fare con il nostro discorso, sul tempo libero dei detenuti, sulle iniziative all’interno degli Istituti di pena? Perché la questione del tempo e del tempo libero ha dei collegamenti inestricabili, non scindibili, rispetto alla situazione logistica delle condizioni di detenzione. È evidente che ho radicalizzato la posizione parlando delle situazioni di isolamento, che peraltro non era un isolamento giudiziario.

Allora, fatta questa prima affermazione, in tema di relazione tra tempo segregato e situazione logistica penitenziaria, posso riferirvi di due notizie che ho preso proprio ieri sera sul mio computer. C’è una e – mail che arriva da Milano e dice: Organizzato dal Dipartimento Diritti Civili - di un partito del quale non diciamo il nome -, a Milano, al Circolo della stampa, un convegno su "Certezza della pena e rispetto della dignità di ogni persona". Dove, naturalmente, per quel che poi si è dato di apprendere, quando si è parlato del rispetto della dignità di ogni persona, bisogna parlare anche dei custodi, non soltanto dei custoditi. Ed allora rientra nel rispetto della dignità anche il fatto che venga pagato lo straordinario alla Polizia Penitenziaria, se il problema è globale.

Certezza della pena. Si trattava di un importante convegno nazionale, ma quando si dice "certezza della pena" s’intende far riferimento non soltanto a una pena che arrivi con certezza, cioè si fa riferimento al tempo, cioè si vuole escludere una lungaggine processuale tale che il processo non finisca mai, tale che i cittadini non abbiano giustizia, anche le vittime dei reati.

Sicuramente nel concetto di "certezza della pena" c’è questo: che, entro un termine ragionevole si arrivi, se una persona è responsabile di un reato, ad una sanzione. Ma il concetto di "certezza della pena" contiene anche un’altra valenza, cioè il fatto che se ti condanno ad una certa pena, questa è immodificabile nel tempo e nello spazio. Cioè, se hai preso 30 anni, 30 anni te li fai tutti. Voi capite che, in questa visione della certezza della pena, se facciamo giocare questo concetto con il concetto di "tempo libero" e con la visione delle iniziative e delle attività all’interno degli Istituti di pena, il tempo libero ha delle valenze diverse rispetto ad un altro contesto.

Anche quando, prima ancora del Codice Rocco – che prevedeva la liberazione condizionale – il tempo della pena era certo, si poteva parlare di tempo libero, ma vivaddio, in situazione di regime tutti lavoravano e quando non lavoravano avevano del tempo libero. Non voglio fare l’apoteosi, ma almeno c’era una certezza in questo. Oggi non viviamo nemmeno in questa situazione.

Vedete che, a seconda di come si parla della pena, e in particolare della pena detentiva, ha una visione diversa il problema del tempo libero all’interno dell’Istituto di pena.

L’altra notizia, sempre di ieri. Un comunicato stampa che arriva da Rovigo, dalla Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, che dice: "In relazione alla proposta di riforma della legge quadro sul volontariato n° 266/91, avanzata dal ministro del welfare all’interno dell’osservatorio nazionale per il volontariato e denominata Norme in materia di organizzazioni di volontariato, si rappresenta da parte dello scrivete organismo della totale contraddittorietà della logica della suddetta proposta e di conseguenza la completa bocciatura della stessa. Perché sotto intende una cultura diversa da quella attuale che ha sostenuto il volontariato, che è quella della solidarietà e della gratuità del volontariato, mentre invece la proposta di legge la assimila alle logiche dell’impresa sociale".

Voi ora avete, come dire, due stelle polari per l’orientamento: certezza della pena e rimodellamento o revisione della logica della solidarietà e della gratuità del volontariato. Se le linee di orientamento sono queste, allora il discorso sul tempo libero in carcere va coniugato in una maniera completamente diversa rispetto a quello in cui siete stati capaci di coniugarlo fino ad ora. Perché fino ad ora vi eravate posti nella prospettiva che veniva dalla stella polare dell’articolo 27 della Costituzione – la funzione tendenzialmente rieducativa della pena – che passava attraverso la legge penitenziaria, con l’attività di osservazione e trattamento, che prevedeva la dislocazione degli spazi e del tempo – almeno come ambizione, come tendenza – fino al punto da passare attraverso la legge penitenziaria, che all’articolo 17 prevede: "La finalità del reinserimento sociale dei condannati e degli internati deve essere perseguita anche sollecitando ed organizzando la partecipazione di privati, di istituzioni o organizzazioni pubbliche o private all’azione rieducativa".

Vedete che lo spettro è ampio ma il range è precisissimo, cioè non si dà attività rieducativa se si è soltanto all’interno di una logica isolazionista, di chiusura totale rispetto al mondo esterno. Questa è la logica, quindi, della legge 354 del 1975, che è applicazione ritardata della nostra Costituzione. Sempre all’interno di questo apparato normativo, anche se con maggior ritardo, voi riuscite addirittura ad avere delle esplicitazione, perché se vedete il Regolamento di Esecuzione della Legge penitenziaria, emanato con Decreto del Presidente della Repubblica del 30 giugno 2000, vi trovate una formulazione importantissima ai fini del discorso che facciamo qui oggi, sul tempo libero. "Articolo 16, primo comma. Gli spazi all’aperto, oltre che per le finalità di cui all’articolo 10 della legge, sono utilizzati per lo svolgimento di attività trattamentali, in particolare per attività sportive, ricreative e culturali, secondo i programmi predisposti dalla direzione". Quindi una direzione che programma! Ogni Istituto deve avere una direzione che ha un programma: gli spazi vanno utilizzati in questa maniera, non è soltanto l’ora d’aria.

"Articolo 16, secondo comma. La permanenza all’aperto, che deve avvenire in spazi non interclusi tra fabbricati, deve essere assicurata per periodi adeguati anche attraverso le valutazioni del servizio sanitario e psicologico, accanto allo svolgimento delle attività trattamentali come strumento di contenimento degli effetti negativi della privazione della libertà personale". Questa è la visione del Regolamento. Addirittura al punto che: "La riduzione della permanenza all’aperto a non meno di un’ora al giorno, dovuta a motivi eccezionali, deve essere limitata a tempi brevi e disposta con provvedimento motivato, del direttore dell’Istituto, che viene comunicato al provveditore regionale e al magistrato di sorveglianza. Gli spazi di permanenza all’aperto devono offrire possibilità di protezione dagli agenti atmosferici". Regolamento di Esecuzione della Legge penitenziaria, a sua volta applicazione della Costituzione italiana. Tutto qui. Tutto si tiene o tutto si perde.

Non è possibile fare diversamente, perché chi crede veramente a questo discorso, a meno che sia un’ipocrisia o un formalismo, deve arrivare a queste conseguenze, altrimenti ci facciamo chiacchiere, sono solo chiacchiere. Perché è facile dire: "Noi siamo convinti del fatto che, se i detenuti non svolgono delle attività… o meglio, se non diamo loro la camomilla e i calmanti, diventano ancora più cattivi di prima…". Il discorso è concreto in questi termini: il nostro apparato normativo non ammette pannicelli caldi, è di un rigore estremo.

È paradossale ragionare di tempo libero all’interno degli Istituti di pena, non c’era bisogno che ce lo venisse a dire Sofri, in un editoriale di Repubblica. L’avevamo capito da tanto tempo: non esiste tempo libero all’interno degli Istituti di pena. Strutturalmente, per definizione, non c’è, perché ci dovrebbe essere tempo occupato e, comunque, dovrebbe essere caratterizzato da una libertà nel senso dell’autonomia e della disponibilità ma, essendo un tempo coatto, in cui io non posso scegliere, il tempo libero non esiste. Se serve per parlare tra di noi, per intenderci, per usare delle categorie, come a dire "c’è lo stop, ti devi fermare", allora ragioniamo così, però strutturalmente il tempo libero in carcere non esiste.

Esiste tempo segregato in cui si possono fare e si debbono fare delle iniziative, delle attività, mettere cioè in atto dei meccanismi che non siano desocializzanti, che non siano avvilenti, che non distruggano la personalità dell’essere umano. Questo va fatto, per avere un tempo diverso in carcere.

Io credo di essere un buon conservatore di carte e, tra le tante cose che ho tenuto, c’è uno dei documenti che i detenuti per fatti politici negli anni 80 fecero uscire da San Vittore. È un documento molto bello, al quale loro diedero il titolo "Il tempo segregato". Inizia così: "Che il tempo segregato sia un tempo diverso, con un suo fluire avulso dal tempo che socialmente scorre è dire una banalità. E così pure che la separatezza del carcere fa perdere il senso della realtà, perché essa si conosce soltanto vivendola, standoci soggettivamente immersi, avendo un punto di vista proprio, collegato qui ed ora, da cui sia possibile osservarla e viverla".

Non c’è bisogno di far ricorso ai detenuti. Provate a dire a un agente di Polizia Penitenziaria qual è la percezione che lui ha del tempo. Avete un riscontro immediato. Poi, certe volte, ci meravigliamo che dopo un po’ di tempo possa esserci anche una sorta di burnout, si possa anche andare un po’ fuori dalle linee. Ma noi lo sappiamo bene dove lo abbiamo sistemato, per quanto tempo ed a fare cosa? Allora, ci troviamo forse di fronte ad uno di quei mestieri usuranti e a rischio, oppure no? Questa è una cosa che va capita, prima di fare tutti i discorsi sulle vittime e sui carnefici.

Quello del carcere è un tempo diverso, è una situazione paradossale, piena di contraddizioni. Si potrebbe dire, però, con una ragionamento che si faceva anche negli anni 80: qual è, poi, il senso di questo tempo segregato, tempo prigioniero, se noi siamo prigionieri del tempo. È lo stesso ragionamento di fronte al quale mi trovavo negli anni 80, con i detenuti per fatti politici, i quali dicevano: "Tutto sommato è bene che il sistema penitenziario vada allo sfascio, perché l’alternativa, rispetto a noi in carcere, cos’è? Voi, liberi, che siete liberi solo apparentemente, perché siete carcerati nella società". C’è un libro, uscito abbastanza di recente, che dice "Scarcerare la società". È di scuola foucaultiana, ma qui bisognerebbe fare un discorso lunghissimo. Vedete queste contraddizioni: una società carcerata, perché si deve porre il problema di dove va il carcere… che vada allo sfascio!

Anche qui, tempo carcerato, e poi in fondo siamo prigionieri del tempo, con la piccola differenza però che essere prigionieri del tempo comporta una scelta comunque di volontà. Non è una cosa di poco conto, se io scelgo di essere prigioniero del tempo, perché posso anche scegliere di ritirarmi in un convento e di fare l’eremita, oppure di vivere 24 ore in adorazione. Ma faccio una scelta. Invece in carcere la scelta non c’è ed è giusto che non ci sia, perché deve essere tempo segregato: si tratterebbe poi di scegliere sulle diversificazioni del sistema sanzionatorio, di arrivare alla carcerazione soltanto nei casi d’assoluta necessità, e così via.

Noi abbiamo a che fare con un apparato normativo e con delle visioni della pena, più o meno fondate, più o meno scientificamente corrette, ma comunque ci sono degli archetipi, che ci portiamo dentro di noi e che esprimiamo quando parliamo della pena e del carcere. Ed allora, quando parliamo di tempo libero in carcere, noi dobbiamo fare i conti con la realtà, perché altrimenti diventiamo dei romantici illusi.

Quali sono questi archetipi, questi scenari, che ci sono sempre davanti a noi in tema di pena e di carcere? Io credo che un primo scenario e un primo slogan, molto rozzo, sia questo: in carcere si deve stare peggio. Cioè in carcere si deve stare male, perché altrimenti che carcere sarebbe, se non si stesse male: si deve stare male! In carcere si deve stare male perché il carcere deve essere sofferenza, dolore, espiazione, e così via. Apriamo e chiudiamo una parentesi sul fatto che nella visione anche cristiana della pena e del carcere tutto ciò non ci sia… basta soltanto citare il volume "Sulla giustizia", del Cardinal Martini, e l’ultimo, dell’anno scorso, "Non è giustizia", che ha molti interventi in materia carceraria).

Nella visione della pena secondo cui in carcere si deve stare male il tempo libero che senso ha? All’interno di quale logica ci andiamo a collocare? Se si deve stare male è bene che il tempo libero non venga organizzato, che non si faccia niente. Se si deve stare male! Male per male è meglio non spendere energie. Scommetto che, nessuno dei presenti in questa sala, penserebbe mai di sollecitare questa posizione, dicendo "sì, in carcere si deve stare male". Però quanti, in realtà, sotto sotto, dicono: "Se non proprio male, un pochino non farebbe male… se si stesse male". Con questa logica bisogna fare i conti, perché sono le idee non confessate che ci portiamo dentro.

C’è poi un’altra visione, un altro slogan: in carcere devono essere garantiti i diritti della persona umana. Immaginate un po’ molte delle carceri, o tutte le carceri americane, in cui c’è anche il problema della separazione tra fumatori e non fumatori e ci sono delle sottili questioni sulle quali interviene la Corte di giustizia. Poi, quando il problema è quello quotidiano delle luci accese, con deprivazione sensoriale, anche di notte, quella non diventa più una questione di garanzia dei diritti della personalità.

Secondo questa posizione vanno garantiti, semplicemente, i diritti della persona. È una posizione un po’ illuminista, una posizione se volete garantista e, su questa posizione, ne trovate tanti, di garantisti di destra e di sinistra: il carcere deve essere mera privazione della libertà personale. Questo e niente altro. In questa logica il tempo libero ve lo scordate. Questa è la seconda visione.

Ce n’è una terza, che fu espressa soprattutto negli anni 80 ed anche questa è inconfessata, può essere anche una riserva mentale di alcuni: lo sport, la sanità, il lavoro penitenziario, sono grimaldelli, perché il carcere dovunque lo attacchi riesci a scardinarlo. E, poiché ho una posizione abolizionista, perché la più esecranda delle istituzioni che possa esserci nel mondo e nella storia, che l’uomo abbia mai potuto pensare, anche se la attacchi attraverso il tempo libero in qualche modo riesci a distruggerla.

Una posizione che non è di mera deistituzionalizzazione, ma abolizionista. Cioè, passare attraverso dei filoni che sono apparentemente di contenuto ma che sono meramente strumentali, rispetto all’abolizione dell’istituzione. Una posizione anche molto teorizzata, nella prima metà degli anni 80, fino all’avvento dell’idea del carcere della speranza e della riforma Gozzini.

Quarta posizione: in carcere si deve stare meglio. Naturalmente questa posizione si scontra soprattutto con un’obiezione: se in carcere si sta meglio, va a finire che la gente, piuttosto di stare libera, vuole andare in carcere. È semplice, quest’obiezione. In realtà, la posizione credo voglia esprimere sostanzialmente questo: se il carcere deve essere peggio e si deve stare male sicuramente esprime una maggiore cattività. Ma vuole dire anche di più: non se io tratto il delinquente come agnellino lo faccio cambiare; poiché c’è un tipo di vita che è regolamentato ma è a livello di rispetto della dignità della persona umana – che è una posizione, diversa rispetto a quella della mera garanzia dei diritti – io pongo la persona in una posizione di sviluppo, di prospettiva. Non c’è sempre e solo il baratro, la barriera davanti, ma c’è una prospettiva di speranza. Cioè, è possibile, cambiando, che io possa fare qualcosa su di me e con gli altri, per gli altri, accettando delle regole che sono le regole che fino ad ora non ho accettato.

È la prospettiva della pena rieducativa, dell’Ordinamento Penitenziario, che mette in conto che non c’è una certezza della pena ma che ci sono delle alternative graduali alla pena detentiva, cioè che ci sono le misure alternative. In questa prospettiva ha senso fare il discorso sul tempo libero. Nelle altre il discorso sul tempo libero è viziato, ipocrita.

Termina il documento dei detenuti per fatti politici di San Vittore: "Bisogna riscrivere, tenuto conto di questi fattori, l’equazione tra tempo della pena ed entità del reato da riparare, dando valori moderni alla moneta che misura le due diverse grandezze che in ogni processo penale si vogliono equivalere. È un compito che appare inderogabile in tutta la sua evidenza".

Queste sono le cose che arrivarono a dire quando cominciarono a ragionare. Una prospettiva che, a trenta anni di distanza, credo si possa rilanciare perché è l’unica possibile. Sennonché c’è un però, in questo ragionamento: noi viviamo in una società nella quale ci sono dei valori condivisi? Ci crediamo veramente che la prospettiva, lo scenario, in cui muoversi è quello che, rozzamente, in carcere si deve stare meglio, nel senso che ho detto io? Non credo che ci sia una condivisione di questo valore. Non credo proprio.

Allora, credo che, pur dovendo difendere questo scenario, questo archetipo, questa prospettiva, per non essere degli illusi romantici bisogna interagire con gli altri tre scenari, cercando di volta in volta di smontare il giocattolino degli altri tre scenari, cioè di far capire come portano a dei paradossi, hanno delle contraddizioni, hanno addirittura delle aporie irrisolvibili, che portano verso la distruzione del sistema penitenziario. A meno che non si voglia fare della pura e semplice propaganda politica, ma noi non siamo qui a fare della propaganda politica.

Un punto, che è fondamentale, dovrebbe trovare posizioni comuni. Voi sapete che un’iniziativa, molto bella, che faceva in Cardinal Martini era la Cattedra dei non credenti. E ci fu un anno in cui il tema era "Figli di Cronos". Era l’undicesima cattedra dei non credenti. E nel chiudere queste conferenze, che erano tenute da laici, da rappresentanti di varie confessioni religiose, e così via, verso la fine, nella relazione finale, che poi è portata in questo libro, curato da Giulio Giorè, lui ebbe la bontà di riportare un’espressione fondamentale, tratta da un libro bellissimo, intitolato "Il sabato", di Abram Yoshua: "Ognuno di noi occupa una parte di spazio ed è il solo ad occuparlo, ma nessuno possiede il tempo, esso rimane per noi inafferrabile".

Se l’inafferrabilità del tempo resta pur sempre inafferrabile anche quando ognuno di noi occupa una parte di spazio ed è il solo ad occuparlo, mi chiedo quanto più diventi inafferrabile il tempo quando, invece, ciascuno di loro occupa una parte di spazio e non è mai il solo ad occupare quella parte di spazio, mai solo.

Ecco, allora, che un punto come questo deve necessariamente trasversalmente riuscire a superare tutti e quattro gli scenari che abbiamo detto. Certo, viviamo in una situazione di valori non condivisi. Io non vorrei arrivare ad una delle vignette di Altan, che fa vedere un magistrato con una toga e un cittadino, più o meno autorevole. E il magistrato dice, rivolto al cittadino: "La legge è uguale per tutti". E l’altro gli risponde: "Se cominciate con i diktat non c’è dialogo".

 

 

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