Toy Racchetti

 

Società senza informazione

I media, i diritti e gli esclusi

Venerdì 21 giugno 2002 - Milano

Toy Racchetti, di Facce & Maschere

 

Una cosa che avevo pensato di dire, nell’introduzione di questo intervento, è una citazione di Fulvio Colombo, che scrive: "è un mondo fondato sulla differenza, fra estraneità e inimicizie, fra diversità e antagonismo, fra le pretese di alcuni e le necessità di tutti, è una valle inesplorata, in quella valle ci sono gli altri, qualcuno ha insegnato invano ad amarli, qualcun altro persegue ad indottrinarvi a distruggerli". Mi sembrava particolarmente stimolante da raccontare.

Un po’ la difficoltà che c’è, per chi in quella valle non ci deve scendere, di starci e di lavorare, non per gli altri, ma di lavorare con gli altri, insieme. Facce & Maschere credo che rappresenti, da questo punto di vista, un tentativo, per ora al decimo numero di pubblicazione, un obiettivo modestamente riuscito, con ancora tanta strada da fare.

Tuttavia, credo che fin dal primo numero (questa è una caratteristica, una peculiarità che si ritrova anche nell’ultimo, se poi andate a scorrere gli articoli presenti sul giornale), il 90% circa di quello che c’è scritto è scritto direttamente dalle persone che ci sono in carcere.

E anche l’idea, la progettazione di questo giornale, non è frutto delle nostre menti un po’ perverse, o di prevenuti di onnipotenza di operatori, di volontari che vorrebbero parlare di Dio, ma l’idea proprio di produrre qualcosa di discreto, che fosse veicolato proprio dall’interno della struttura carceraria di S. Vittore, ma anche all’esterno, che potesse parlare al mondo della normalità, è venuta proprio sullo stimolo, su input delle ragazze detenute nella sezione femminile di S. Vittore.

È iniziata nel 1997 questa avventura e anche il titolo, Facce & Maschere, fu un’intuizione: una ragazza sudamericana che disse "In carcere si possono incontrare tante facce vere, come altrettante maschere, tante persone che nascondono la propria faccia dietro una maschera".

I motivi del per cui uno si nasconde dietro ad una maschera sono infiniti, anzi molto spesso sono motivi dettati dalla sopravvivenza, dalla necessità, dal bisogno, piuttosto che maschere costruite dalla rappresentazione sociale della persona detenuta, che viene in qualche modo introiettata e, quindi, poi riproposta.

Ci pensate che la valle - sempre usando la metafora di Colombo - non è una valle sperduta su qualche monte strano, è una valle incastonata nel pieno centro della città di Milano, contornata da case, attraverso la quale si passa quasi tutti i giorni. Tuttavia è una vale molto spesso inesplorata, una valle nemmeno vista, nemmeno considerata, ignorata.

Tutto ciò ha qualcosa di stranamente inquietante, se si pensa che all’interno di una valle ci sono migliaia di persone, di donne, di uomini, di bambini, una comunità che soffre di disagi diversi, molteplici, più o meno disperati, disagi che vanno alle persone detenute, ma forti disagi anche per chi ci lavora, come operatori penitenziari, operatori dei servizi all’interno della struttura.

Ecco, tutto questo, nonostante caratteri anche drammatici, molto spesso contornati anche da tragedie individuali, tutto questo non fa notizia e la cosa ancor più inquietante è l’accettazione: nel cuore di Milano è una cosa accettata, come normale, tollerata, ignorata, tranne quando, come diceva Corleone nel suo intervento, "In quella valle passa per pochissimo tempo qualche personaggio illustre e, allora, tutti ad accorrere per vedere cosa succede".

In un contesto di questo tipo è molto difficile riuscire a costruire ponti con l’esterno e proprio dall’esterno c’è anche una sorta di difficoltà ad accettare, ascoltare, quello che viene da lì, cioè una riproposizione delle sofferenze.

Nonostante questo credo ci sia un valore da riconoscere alle esperienze che restano, se volete, anche un po’ di nicchia: il valore dell’esperienza individuale di chi, attraverso l’auto - racconto, esperimenta dimensioni diverse da quelle che quotidianamente deve subire all’interno dell’istituzione totale. Nell’istituzione totale subisci una situazione di scomunicazione, di costrizione al silenzio. Ricordo una frase di un bellissimo libro di Vincenzo Ruggero che parlava del carcere come di un insieme, di una moltitudine di solitudini rumorose. Il rumore non è comunicazione, è una cosa ben diversa. La produzione di rumore, però, è abbastanza fine a se stessa, sterile. Allora è importante il tentativo di passare dal rumore alla comunicazione, quando comunicazione diventa storia individuale, raccontata attraverso il confronto con gli altri, perché i momenti di progettazione del numero di giornale sono la raccolta delle storie individuali, su cui diverse persone si confrontano, si ascoltano, si riconoscono e condividono anche aspetti comuni. La storia individuale diventa una storia collettiva, una storia spesso di un diritto collettivamente calpestato, negato o, speriamo, ancora da conquistare.

Per concludere, dico solo questa cosa, questa esperienza di Facce & Maschere, ha potuto proseguire fino ad oggi perché siamo riusciti in qualche modo a raccattare, qua e là, qualche soldino pubblico, attraverso il finanziamento della Sottocommissione carceri del comune di Milano prima, poi inserendo Facce & Maschere all’interno di un progetto più generale, il "Progetto ecosalute" all’interno del carcere, un progetto che raggruppa numerosissime associazioni e che gode di un finanziamento del fondo carcerario per la lotta alla droga. Questi finanziamenti hanno dei tempi, finiscono e il futuro è sempre molto incerto. Da questo punto di vista potremmo porci, tutti assieme, il problema di come garantire la sopravvivenza delle voci che vengono dal basso.

 

Sergio Segio

 

Un salto sulla strada: Carlo Giorgi, di Terre di mezzo, uno dei due giornali di strada qui presenti, che ci parlerà della sua esperienza e magari darà qualche suggerimento.

 

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