Convegno "Carcere e territorio"

Percorsi di recupero e di reinserimento sociale delle persone detenute

Galliera Veneta (Pd) - 28 novembre 2003

 

Isabella Xodo, docente alla C.R. di Padova

 

L'Alta Sicurezza si apre alla scuola Ho iniziato a lavorare nel carcere di Padova per una pura casualità: non sapevo cosa fosse un carcere, né avevo mai pensato di svolgervi alcuna attività filantropica. Diciamo che ero dell'opinione che "chi sbaglia paga", perché ho sempre creduto che l'esercizio della libertà si esplichi nella possibilità di scegliere tra bene e male, tra giusto e sbagliato, tra lecito ed illecito, assumendosene le responsabilità e pagando le conseguenze. Non avevo nemmeno quella curiosità, quella sorta di voyeurismo che coglie le persone quando sentono parlare di questo ambiente. Mi dissero che mi era stata assegnata una classe in A.S. credevo che fosse una delle sigle con cui la scuola individua i vari corsi di specializzazione. Scoprii che si trattava, invece, dell'alta sicurezza, uno dei circuiti differenziati, in cui si scontano reati per i quali è prevista una forma di detenzione particolarmente ristretta, che esclude tra l'altro, i contatti con i detenuti cosiddetti comuni, quindi anche la possibilità di frequentare le lezioni nella sezione destinata alla scuola. Il SETTIMO, per la prima volta, apriva i cancelli alla scuola e io ero uno di quegli insegnanti che avrebbero fatto lezione direttamente in sezione. Questa cosa scatenò le critiche più severe dei miei famigliari, per i quali il carcere resta il simbolo di un'onta da rifuggire sempre e comunque; e sollecitò le fantasie più torbide dei miei amici che vaticinarono per me situazioni al limite del dramma. Qualcuno di loro mi consigliò persino di comprarmi dei vestiti da indossare esclusivamente durante le lezioni, in modo da non contaminare la mia vita normale. Qualcun altro sollevò la questione di quanto fosse moralmente opportuno interagire con chi aveva violato la legge. Il giorno in cui sono entrata per la prima volta in quella stanza, trasformata all'occorrenza in aula scolastica, dopo essere stata perquisita da un agente serissimo e tremendamente nervoso, che non riusciva a capacitarsi di cosa ci facesse una bionda lassù e continuava a ripetere tra i denti: "HA' DA FINI' STA CUMMEDIA"; mentre aspettavo di conoscere la mia nuova classe, pensavo: "Che cosa dirò io, a questi" e guardavo fuori da quelle finestre rigate di rosso, un paesaggio che, avrei avuto modo di constatarlo in seguito, in nessuna stagione dell'anno riesce ad offrire un sollievo almeno per gli occhi. Poi, sono arrivati: 25 uomini dai 22 ai 53 anni, 25 paia di occhi che non potrò mai più scordare. Dietro ognuno di loro c'era molta più vita di quanta io non potessi immaginare e non sapevo se avevo gli strumenti. Eppure, in quel momento, ho capito cosa ero venuta a fare: ero, sicuramente, venuta ad insegnare italiano e storia, ma soprattutto ero io stessa, ancora una volta sulla strada della conoscenza: quella del carcere, della vita dell'uomo che ha perduto la libertà. Ero di fronte a quelli che la società non vuole, quelli che hanno sbagliato e non li vogliamo vedere. Ero di fronte al dolore che può, legittimamente, escludere la pietà. Normalmente rifugiamo dal disagio, dalla sofferenza; la malattia, l'handicap, la vecchiaia, le persone violate, abbandonate, povere ci creano imbarazzo…meglio voltare la testa e dimenticare in fretta…ma mentre andiamo oltre, la coscienza ci rimorde. Unica sofferenza di fronte alla quale la nostra coscienza può sgravarsi è quella del carcere: chi è là se l'è voluta. Punto. Fine. La nostra coscienza è già leggera. Allora ho guardato quei 25 uomini e gli ho detto che non avrei mai voluto sapere perché fossero lì; avevano un debito e lo stavano saldando e, per me, tanto bastava; in quello spazio, nelle ore destinateci, attraverso gli argomenti che abbiamo studiato, noi saremmo stati solo persone che riscattavano il tempo e se stessi dall'abbrutimento. Sentivo che non avevo più bisogno di strumenti speciali, né di progetti, né di mediatori culturali, dovevo solo applicarmi ai miei studenti e iniziare il cammino. Quello che ho visto da allora mi consentirebbe di scrivere questa relazione in 50 modi diversi, perché ogni giorno si è accesa una luce su un punto sempre nuovo di questa realtà angusta. Io che da sempre avevo vissuto in un contesto, in una famiglia, secondo dei modi, per cui lo STUDIO e CULTURA avevano un valore altissimo; che ero cresciuta, privilegiata, in essi, ho capito quale importanza avessero qui, dove servivano a SOPRAVVIVERE. Sopravvivere alla mancanza di libertà; ad una quotidianità che in ogni gesto ti nega la dignità, l'esercizio dell'essere uomini e persino il TEMPO. Il tempo della detenzione è irrimediabilmente perduto, sottratto alla vita, se non è dedicato a qualcosa che ti consenta di restare a galla. I miei studenti erano lì per dare un senso alle loro giornate, sfuggire alle ore e ore trascorse davanti alla TV o tra le pagine di libri che, alla fine, ti rimbombano nel cervello sempre più corroso dalla depressione. Erano una classe estremamente composita per età; per lingua, per inclinazione personale, per estrazione sociale, per conoscenze pregresse: l'analfabeta sedeva accanto a quello che parlava e scriveva correntemente quattro lingue, c'era chi parlava e scriveva solo in siciliano e il ragazzo albanese che ha già vinto due premi letterari… C'era Luciano, che da tutta la vita sognava di andare a scuola, perché lui era cresciuto per la strada, in una povertà che non guardava in faccia nulla. Ho visto le sue e altre dita stringersi maldestramente intorno alla penna, nello sforzo di imparare l'abecedario e caparbiamente dare tutto di sé per imparare a leggere e a scrivere. Ho visto la loro aria perplessa di fronte alla poesia e i loro occhi fuggire lontano, sulla scia della mia voce che ricordava altre voci... ho visto una volontà degna di ammirazione per mantenere il ritmo degli impegni scolastici nonostante tutto... ho visto questi uomini di azione accettare di misurarsi con questa prova di pazienza e di abnegazione. Non è semplice, in un ambiente dove la virilità non ammette cedimenti, accettare un confronto con chi è più bravo, più capace o semplicemente più dotato. Oggi, questa gruppo, ridotto nel numero dai trasferimenti e dalle scarcerazioni, è quasi arrivato al traguardo: dopo aver sostenuto in due anni quattro classi, così come prevedeva il progetto a cui la classe apparteneva, a luglio sosterrà l'esame di Stato e qualcuno degli studenti già pensa alla prossima scelta universitaria. Sembrano solo studenti normali: fanno studi di funzione, discutono di economia, di diritto, di letteratura e storia, con tutta la competenza di una classe di quinta alle soglie dell'esame di maturità. Io, adesso, ho meno paura del carcere e, quando vado in sezione, quel agente mi sorride e dice: "Buongiorno Prof".