Convegno "Carcere e territorio"

Percorsi di recupero e di reinserimento sociale delle persone detenute

Galliera Veneta (Pd) - 28 novembre 2003

 

Leonardo Signorelli, Direttore C.S.S.A. di Padova

 

Il trattamento del detenuto in misura alternativa Per quanto un Carcere possa essere operoso, pieno di buona volontà, attento al dettame legislativo, non può, né lo dovrebbe ope legis, assicurare un vissuto trattamentale che vada al di là del tempo medio-lungo di permanenza intramuraria. Trattamento diventa parola assertiva e pedagogica soprattutto all'esterno del Carcere o in quelle misure alternative-trattamentali che hanno a che fare ancora con il Carcere: articolo 21, semilibertà, permessi premio o la sanzione sostitutiva della semidetenzione. Misure queste che andrebbero difese anche quando falliscono, mi riferisco soprattutto ai permessi. Questi ultimi, infatti, non sono che delle iniziali prove trattamentali verso la libertà. La normativa penitenziaria vive il suo momento più pregnante e significativo quando segue (o insegue) questo processo-percorso. Il trattamento deve essere operato in funzione della vita libera. È trattamento quel continuo percorrere "strade" che portano la persona fuori dalle mura, attraverso azioni tentate-trattate quindi controllate. Solo alla fine la persona "trattata" ridiventa cittadino titolare di tutte quelle "potestà" che lo rendono veramente persona libera. L'esperienza così significativa, riportata in questo convegno, andrebbe ripresa e riproposta in altri Comuni. Chiediamoci però come uno sconosciuto paese di provincia abbia fatto un'esperienza che meriterebbe di essere pubblicata su riviste specializzate. Come mai questa esperienza non è stata colta, desiderata da città che hanno l'Università dal 1200? L'esperienza di Galliera sicuramente è nata dall'incrociarsi di diverse volontà: sicuramente dalla "pungolosa" operatività dell'educatrice Rosa De Marco; sicuramente dalla sensibilità del signor Sindaco Silvano Sabbadin, il quale è uno dei pochi Sindaci che ha creato tutte le condizioni affinché i suoi cittadini prendessero coscienza della tematica di questo settore della giustizia, procurando loro una ulteriore sicurezza territoriale. Il detenuto trattato dal consorzio civile di Galliera Veneta, infatti, diventa un detenuto conosciuto, quindi sicuro, quindi non recidivante. D'altronde la parola trattamento è una parola che diventa significante solo se viene riempita di operatività, altrimenti resta "flautus vocis". A questo, però, non possono essere chiamati sempre i soliti operatori del Carcere, del Servizio Sociale, della Magistratura di Sorveglianza. Sarebbe troppo comodo, semplicistico e inopportuno, perché il trattamento è chiamato a svolgerlo anche e soprattutto il cosiddetto consorzio civile, ma ultimamente di voglia di riappropriarsi di questa parola (trattamento) da parte della società civile, come ha fatto Galliera Veneta, se ne vede ben poca. In questi mesi ho avuto modo di osservare da una base privilegiata (la reggenza del C.S.S.A. di Padova) il "tempo" che gli operatori del Servizio Sociale spendono per attivare procedure di routine, che la legislazione da oltre 28 anni dà per scontate. Si perdono ore, se non giorni, per un intervento minimale con l'Ente Locale. A 28 anni, ripeto, dalla riforma i politici di turno dovrebbero sapere che il C.S.S.A. non è un'agenzia di volontariato a cui si può rispondere: vediamo..., forse…, dipende… Diventa una questione di rispetto delle regole penitenziarie di volersi o non volersi occupare scientemente di una fetta di un problema che appartiene alla società e quindi alle sue espressioni più alte: Comune, Provincia e Regione. Gli attori delegati, per quanto bravi e volenterosi, non possono fare nulla senza il rispetto di queste regole. Anche perché gli attori saranno bravi, ma sicuramente sono pochi, vergognosamente pochi e il lavoro viene continuamente e forzosamente rallentato, se non "fermato" da questa situazione oggettiva. La professionalità viene continuamente "violentata" dal non poter correttamente lavorare. Qualche giorno fa una collega del C.S.S.A. "anziana di servizio" mi diceva con simpatia, ma seriamente, che non voleva essere più chiamata a incontrarsi con persone proponenti progetti o percorsi risocializzanti. Non aveva tempo! Ne capiva l'importanza, ma aveva l'impellente necessità di gestire correttamente i casi in carico. Non poteva fermarsi, vi erano udienze fissate…non aveva tempo. Scusate questa non è violenza? D'altronde qualcuno potrebbe concepire un carico di lavoro per ogni assistente sociale di 160 fascicoli? È quello che accade al C.S.S.A. di Padova. In questi fascicoli ci sono storie di vita. Ci sono non solo persone che presentano difficoltà sociali, ma persone che con il loro comportamento hanno creato danni e che devono seriamente essere trattate. Persone che devono essere continuamente sollecitate a un sentire diverso attraverso modelli di intervento che sono propri del Servizio Sociale. Questo (il sentire diverso) ad esempio è il vissuto che si dovrebbe operare per l'attuazione del comma 7 dell' art. 47 O.P. che richiama l'affidato a adoperarsi, per quanto possibile, in favore delle vittime del suo reato. Questo impegno è fortemente voluto dalla Magistratura di Sorveglianza del Veneto. È voluto anche, e lo dico chiaramente perché ci crediamo, dal Servizio Sociale di Padova, ma la scarsità del personale non consente agli operatori di svolgere compiutamente il loro mandato. Inoltre la carenza degli operatori ci porta a non sentire i bisogni e le richieste di aiuto dei ristretti. Personalmente mi arriva una lettera al giorno da parte dei detenuti, sono piene di bisogni che andrebbero considerati, non sono desideri impertinenti, sono richieste pertinenti e del tutto legittime che andrebbero prese in carico. Ma quando ...? Ma come ...? Gli educatori invece di essere in 20 per i due Istituti, sono appena 5. Questo cosa importa a persone che hanno tutto il diritto di essere ascoltate -trattate. Ma quando. ..? Ma come. ..? La verità è che tutti gli attori del sistema Giustizia, siano essi operatori o Magistrati, sono pochi e lasciati soli. Ecco perché un convegno come questo, che tratta di come tutta la cittadinanza ha concorso per la riuscita di un esperimento proposto dal carcere, non dovrebbe essere solo un momento autocelebrativo, ma un percorso da esportare, che andrebbe ripreso da altri Comuni. Credete voi che nei prossimi giorni qualche Sindaco o Assessore telefonerà alla direzione del carcere o del CSSA per proporsi? Ma quando...? Ma come ...? Meglio credere alla prossima Befana. Rispetto alla povertà di mezzi e di operatori e al possibile/impossibile trattamento, bisogna ricordare che nel Carcere i detenuti non trattati sicuramente soffrono, ma la società (non subito perlomeno) non ne subisce le conseguenze... vi sono le sbarre, le mura. Nell'area penale esterna la mancanza di trattamento muove ulteriori reati con relativa immediata sofferenza della società. A questo punto dovrebbe essere facile capire che, per quanto si possa delegare continuamente il Carcere o il C.S.S.A alla soluzione dei problemi della devianza, senza lasciarsi sapientemente "contaminare", si creano le condizioni per un fallimento trattamentale della persona detenuta o affidata ai servizi dell'area penale esterna, mantenendo, riproponendo, se non addirittura creando tutte le condizioni per un'ulteriore recidiva. Problema questo attuale, reale sul quale bisognerebbe trovare il tempo per una ulteriore lunga riflessione. Una disamina dell'ultimo regolamento d'esecuzione (DPR 230/2000) ci porta a definire quale trattamento in ambiente esterno siamo chiamati a svolgere come Servizio Sociale. Interventi di diversa portata differenziano le diverse misure alternative. I commi n. 6 e 8 dell'art. 118 (regolamento di esecuzione) forniscono indicazioni che il Centro di Servizio Sociale deve ottemperare negli interventi in libertà, ma anche nei confronti delle persone ristrette negli Istituti. Ricordiamoci però che i soggetti osservati in libertà, che poi andranno in misura alternativa, costituiscono la maggioranza assoluta.Questo segmento importante di popolazione non è mai entrata in carcere, nemmeno come utenza in custodia cautelare. Va tenuto sempre presente che l'azione trattamentale del Servizio Sociale in ambiente esterno proviene da una decisione dell'Autorità Giudiziaria, che nell'ordinanza fissa una serie di prescrizioni al fine di consentire la fruizione del beneficio. Nell'affidamento in prova si definisce quanto sopra attraverso una sottoscrizione di un verbale che costituisce una specie di contratto tra condannato e Autorità Giudiziaria. La funzione trattamentale (aiuto e controllo) attribuita al Servizio Sociale è anche quella di rendere consapevole il condannato di dover far suoi questi obblighi contrattuali per il corretto mantenimento della misura. Per ultimo dobbiamo chiederci come società, quale modello di giustizia vogliamo concorrere a formare: quello meramente retributivo? Quello riabilitativo-riparativo? O invece magari sentire anche la necessità di integrare il paradigma trattamentale con quello conciliativo, così come sperimentato nella Giustizia Minorile. È da promuovere forse la tesi che auspica la transizione da Istituzione Totale a Istituzione Sociale, ovvero ad una forma di "comunità educante". Forse il motivo che ci porta ad essere qui è proprio credere in questo. Vi è molto da costruire per una Giustizia migliore, che rispetti la vittima, ma rispetti anche il reo. Con la speranza che tutto questo possa accadere, resta il mio, scusate Ma quando...? Ma come ...?