Sergio Segio

 

Il carcere oggi, tra indulto negato e leggi inattuate

 

Milano, 27 giugno 2003

 

 

Sergio Segio (Associazione Società InFormazione)

 

Prima, scherzando, ma non troppo, con il presidente Margara sulle scale ci dicevamo che ormai le abbiamo provate un po’ tutte in questi anni, non solo per l’indulto, ma per cercare di modificare in meglio la situazione penitenziaria. Forse ci rimarrebbe da fare solo lo sciopero del silenzio. Oggi potremmo stare tutti zitti e guardarci in faccia, perché è veramente l’ultima cosa che ancora ci manca da provare per vedere di scuotere la situazione. Magari lo faremo la prossima volta.

In questo caso forse è bene, anzi è doveroso scambiarci delle valutazioni sullo stato delle cose perché la situazione è obiettivamente grave. Margara diceva che forse c’è qualcosa che non va. Questo interrogativo ha bisogno di risposte perché se non ripartiamo da qui, se non capiamo dove sono i colli di bottiglia, se non capiamo dove sono le cattive volontà e dove sono le responsabilità, forse è difficile poter essere di nuovo, come è necessario, ottimisti. Perché al pessimismo della ragione bisogna sempre opporre l’ottimismo della volontà. Ma bisogna farlo a ragion veduta, quindi effettivamente è fondamentale confrontarci e interrogarci per capire delle cose. Anche perché è verissimo, ma è anche troppo semplice dire che è sempre colpa della politica, della politica sorda, della politica disattenta, della politica in altre faccende affaccendata. Questo è assolutamente vero, ma non basta né a descrivere la situazione né a capire in che direzione lavorare. Forse ogni tanto è anche necessario non essere tutti troppo d’accordo. Perché a parole, nei convegni, è molto facile. Ci si trova un po’ tutti d’accordo nelle valutazioni, anche perché parlare della cosa è un conto, operare nel quotidiano dentro le carceri, dentro le associazioni o dentro il sindacato è un altro conto. Bisogna capire quali sono le strozzature.

Sempre Margara citava la legge Smuraglia. Non so chi se ne ricorda, perché qui c’è anche un problema di memoria oltre che di capacità di comprensione, è nata in questa stessa sala, con queste colonne davanti che impediscono la vista.. Anche quella vicenda andrebbe riepilogata. È nata appunto qui, in Cgil, in Camera del lavoro di Milano, con don Colmegna, con Margara, con il senatore Carlo Smuraglia, che appunto in quell’occasione invitammo per la sua competenza giuridica. La legge Smuraglia è nata nel 2000 e, come dice Margara, forse qualcosina comincia a funzionare. Però, guardando l’altro lato della medaglia, si può dire che continua a non funzionare. Perché a distanza di due anni dalla sua applicazione molte cose non funzionano, le risorse non ci sono, sono scarse. La legge Smuraglia nella sua essenza, per come è nata, poi ci furono delle piccole modifiche rispetto alla prima stesura, fu depositata la prima volta in Parlamento addirittura a metà degli anni ’80. Quindi quella legge, che è una leggina piccola, dagli effetti preziosi per chi lavora e vive nelle carceri, ma tutto sommato non rivoluzionaria, ha impiegato ben 15 anni per essere approvata. E fu approvata solo perché in quell’occasione, in quel seminario, Smuraglia ci disse: "Questa legge è ferma da un po’ alla Commissione Giustizia, lì ci sono dei problemi maggiori, proviamo a farla passare dalla Commissione Lavoro di cui io sono presidente". Fu un’idea molto semplice, ma allo stesso tempo utile e geniale perché in effetti iniziò l’iter che poi portò alla sua approvazione, e anche lì ci vollero due-tre anni, non pochi mesi.

Questo episodio l’ho citato non solo perché siamo di nuovo qui e un pochino siamo sempre gli stessi e un pochino rischiamo di dirci sempre le stesse cose, ma per esemplificare la fatica, la difficoltà. Molto spesso sembra di essere qui a svuotare il mare con un cucchiaio. È utile e doveroso farlo, ma io credo che dobbiamo capire quali siano le cose maggiormente efficaci e possibili nel nostro lavoro. Quindi dobbiamo porci delle domande e possibilmente iniziare a delineare delle risposte. La situazione è tragica e credo che lo sappiamo tutti. Un editoriale di un quotidiano di ieri dice esplicitamente che la detenzione oggi è pura e semplice tortura. Questo quotidiano peraltro si chiama Libero e, come forse sapete, non è uno dei quotidiani più attenti alle questioni dei diritti, basta vedere come tratta la questione dell’immigrazione. Peraltro, non so quanti di voi lo sappiano, ma in Italia il reato di tortura in quanto tale non è neppure contemplato nel codice penale e anche questo è un interrogativo. Peraltro oggi, su Fuoriluogo, che è in edicola assieme a Il Manifesto, c’è un articolo di Patrizio Gonnella di Antigone specifico su questa questione che vi consiglio di leggere, perché anche questa è una grande battaglia di civiltà che dovrebbe non solo convincere tutti, ben più di quanto possano fare i temi del carcerario, ma soprattutto dovrebbe trovare binari parlamentari aperti e rapidissimi, non dico come il Lodo Maccanico-Berlusconi, magari un po’ più lenti, ma altrettanto certi della sua approvazione. Eppure questa legge non esiste.

Io non so proprio se è pertinente definire la situazione delle carceri come una situazione di tortura, come dice Libero. So però, e credo che lo sappiano tutti quanti quelli che conoscono il carcere dall’interno o anche dall’esterno, ma avendoci un minimo di rapporto, che in carcere ci sono generalizzate condizioni disumane e degradanti. In carcere ci sono quotidianamente realtà, situazioni, episodi in cui non solo vengono violati i diritti umani, ma vengono violate le leggi.

Il titolo di questo convegno lo avevo pensato qualche mese fa, ma in effetti è risultato attualissimo: L’indulto negato e le leggi inattuate. Ecco, troppo spesso nelle carceri risultano disapplicate le leggi, i regolamenti, il regolamento penitenziario: un altro nobile sforzo del presidente Margara e di Franco Corleone, anche quello è lì da due anni, ma non se sono visti mai, o quasi mai, gli effetti nelle condizioni materiali di vita nelle carceri. Un esempio su tanti. Sono veramente tante le leggi disapplicate, la legge sulle detenute madri, la legge sull’incompatibilità dell’Aids e delle malattie gravi e le condizioni di detenzione, potremmo veramente fare un elenco sterminato a partire dalla questione delle misure alternative che sono spesso disapplicate o, anche qui, applicate in maniera disomogenea a seconda della fortuna o della sfortuna, del carcere o della regione in cui il detenuto si viene a trovare. Io non so, ripeto, se sia pertinente e corretto definire tortura la situazione che i nostri detenuti vivono. Penso che comunque vada dichiarato che sono condizioni disumane, ma penso che si debba cominciare a dirlo, perché forse lo si dice un po’ troppo poco. Forse, giustamente, si ragiona su tanti altri aspetti altrettanto importanti di questo, ma si dice troppo poco che le condizioni in carcere oggi sono condizioni in cui vengono lesi i diritti umani e vengono violate le leggi. Nei mesi scorsi, facendo con quell’ottimismo della volontà di cui dicevo prima le iniziative a favore dell’indulto davanti alle carceri, davanti al Parlamento etc., in un’occasione avevamo detto che in questa situazione l’indulto - e non l’indultino badate, o l’indulticchio che alla fine è diventato - era da considerarsi una forma di risarcimento nei confronti dei detenuti per le condizioni in cui vivono nelle carceri. Non una clemenza, ma un risarcimento. Questo era vero l’anno scorso, due anni fa o tre anni fa, quando portavamo avanti la campagna per l’indulto, ed è tanto maggiormente vero oggi. Tanto più proprio in questi giorni. Addirittura quest’anno c’è un problema che negli anni scorsi non si aveva avuto l’occasione di conoscere: è quello che in alcune carceri addirittura manca l’acqua. In alcuni giorni non c’è l’acqua per dissetarsi o per lavarsi: Questo porta dei gravissimi problemi non solo di sofferenza, ma anche dei problemi sanitari, come è facile immaginare.

Il problema della sanità in carcere è un altro dei punti veramente dolenti. Una vera e propria emergenza, anche questa forse troppo sottovalutata e troppo poco discussa. Tra l’altro mi è arrivato questa mattina un materiale dal Coc, che è una sezione tra le peggiori in quanto a condizioni di vita, di San Vittore. Una lettera firmata da oltre 200 detenuti e questo mi sembra un fatto nuovo e importante: i detenuti che hanno il coraggio di firmare delle denunce con il proprio nome e cognome. Io credo che questo possa essere un esempio anche per dei pezzi di volontariato, dei pezzi di società civile che entrano nelle carceri, ma in qualche modo non sanno vedere o non vogliono vedere e quindi non sanno raccontare e non sanno quando occorre anche denunciare. A forza di fare cose giuste, meritorie, necessarie dentro le carceri, parlo del volontariato e delle associazioni, i corsi, la formazione, i teatri, i giornali etc., magari ogni tanto non abbiamo tempo anche per denunciare quello che vediamo. Ci sono talvolta delle situazioni in cui i volontari quando entrano in carcere fanno un po’ come le tre scimmiette: non vedono, non sentono e non parlano. Quindi la situazione delle carceri continua ad essere poco conosciuta e quindi poco capace di rompere dei pregiudizi a livello di opinione pubblica, che a loro volta sono uno schermo per la politica, per non prendere una serie di decisioni. Ma, dicevo, questa lettera mi ha fatto piacere riceverla perché è raro vedere delle denunce firmate con nomi e cognomi e qui ci sono 204 nomi e cognomi, in gran parte di immigrati, che sapete essere gran parte della popolazione penitenziaria e non a caso uno dei bracci più sfigati di San Vittore è denso di persone extracomunitarie. Bene, qui ci sono non solo dichiarazioni generiche, ma denunce precise. Ci dicono che dentro San Vittore, almeno in alcune sue parti, c’è un’epidemia di scabbia. Anche questo è un prodotto delle condizioni sanitarie. Non è solo un problema di tagli alla sanità, che sono veramente notevoli, questa ricca cartellina del convegno è un prezioso materiale e ci sono anche dati documentati regione per regione di quanto taglio c’è stato alla spesa sanitaria in carcere dal ’99 al 2002. Gli stanziamenti, a livello nazionale, sono scesi del 35%, sapete cosa vuol dire. Un terzo della spesa sanitaria è stata tagliata. Questo vuol dire che in carcere non ci sono le prestazioni infermieristiche, non ci sono le medicine, non ci sono i salvavita. Sempre da San Vittore, poco tempo fa, era venuta la segnalazione che non c’era l’insulina per i diabetici. Anche qui si è sostituito il fatto che il medico o qualcuno di buona volontà, a proprie spese, ha portato l’insulina per impedire che ci fossero casi gravi. Questo è successo anche per l’acqua. Lo ricorderete, nei giorni scorsi è uscita qualcosina, non molto perché questi temi non fanno notizia, è uscito qualcosina sui giornali che a San Vittore era mancata l’acqua. Bene, quale è stata la reazione immediata? Partita anche dal volontariato, per carità con le migliori intenzioni. È stata: facciamo appello al privato, agli imprenditori, regalateci l’acqua. Signori miei, questo sistema non va bene. Non va bene che ci sia sempre una supplenza da parte del volontariato, delle associazioni, del sindacato alle carenze delle istituzioni che devono essere quelle chiamate in prima persona a rispondere dell’applicazione delle leggi dentro il carcere, alla tutela dei diritti di chi dentro il carcere vive, di chi dentro il carcere lavora. Ecco io veramente qui, anche per evitare che alla fine ci troviamo sempre tutti d’accordo, ma non cambia mai niente, voglio fare anche questo appello a chi lavora nel carcere. Non facciamo come le tre scimmiette e non prestiamoci a supplenze che snaturano il volontariato e deresponsabilizzano chi dirige le carceri. Certo, se c’è un’emergenza in corso, è anche giusto farlo; ma contemporaneamente bisogna denunciare le carenze istituzionali. Bisogna fare come questi detenuti del Coc di San Vittore e di tante altre carceri, iniziare a cercare di far arrivare all’esterno denunce precise della situazione, ovviamente denunce fondate, circostanze reali, senza che questo faccia venir meno il lato costruttivo, il lato operativo, l’impegno quotidiano e formativo dentro le carceri. Ma ci vuole anche una rottura del muro di opacità che separa le carceri dalla città e dalla coscienza civile. Perché questa è una delle precondizioni per cominciare a rispondere sul perché ci sono cose che non vanno. Quindi c’è una rottura di opacità e, in alcuni casi, di vera e propria omertà che, secondo me, è responsabilità comune cercare di cominciare a avviare.

Dicevo prima, le responsabilità non sono solo della politica. Per carità, va detto: la politica di fronte a questi problemi è sorda. Siamo stati tra i primi a denunciarlo, io e Sergio Cusani che ci siamo fatti un sacco di giri a livello parlamentare, con i presidenti dei gruppi parlamentari, con le singole forze politiche, per cercare di trovare una possibile mediazione, una possibile convergenza sul problema dell’indulto e dell’amnistia. Quindi sappiamo quanta scarsa attenzione ci sia stata da parte di questo parlamento, ma, occorre dirlo, anche del precedente. È ben vero, come diceva Vanacore all’inizio, che questo Governo e questa maggioranza si stanno clamorosamente, con una faccia tosta notevole, confermando come coloro che fanno leggi a tutela dei forti e sono molto rigorosi e molto rigidi contro i deboli.

La battaglia per l’indulto, ve lo ricorderete, l’abbiamo cominciata nell’anno del Giubileo che era il 2000, quindi ci sono stati altri governi e altre maggioranze e altre dinamiche politiche che hanno portato anche nella scorsa legislatura a un nulla di fatto. Quindi anche qui ci sono responsabilità che è giusto sottolineare, perché se non capiamo dove sono le responsabilità, dove ci sono i difetti di lettura dei fenomeni, i difetti di volontà politica, non possiamo presumere di poterle modificare. Quindi c’è una resistenza della politica. La politica è un muro di gomma, la politica è troppo spesso cieca e sorda di fronte alle sofferenze di chi sta nelle carceri e alle difficoltà di chi lavora nelle carceri. Questo però è solo un pezzo del problema. Gli altri pezzi da mettere vicino, come dicevo prima ci sono anche responsabilità nostre, del volontariato, delle associazioni che troppo spesso non vedono e non dicono. Poi ci sono le responsabilità del mondo dell’informazione che troppo spesso vede solo i casi eclatanti di cronaca e non sa fare informazione in positivo, anche in quello che si fa nelle carceri. E qui ci sono i rappresentanti di alcuni giornali carcerari, di Ristretti Orizzonti di Padova, che è uno degli esempi secondo me migliori e più utili. Anche in queste condizioni che Libero definisce tortura e che comunque possiamo tutti definire di condizioni inumane e degradanti, dentro, con quell’ottimismo e quella tenacia della volontà di cui si diceva, i detenuti stessi e il volontariato sanno costruire cose degnissime e bellissime. Il sito di Ristretti è ricco di documentazione, non solo del giornale del carcere, ma di documentazione giuridica e legislativa, di atti di convegni, cioè del materiale che ci si aspetterebbe di trovare nel sito del ministero della Giustizia o nei documenti istituzionali. Quindi dentro le carceri, in questa situazione, si riesce comunque a essere attivi, propositivi e a fare cose veramente encomiabili e meritevoli.

Però c’è un deficit di informazione a livello di opinione pubblica, che è un altro dei colli di bottiglia, delle strozzature che impediscono un cambiamento in positivo della situazione. Anche su questo dobbiamo in qualche modo confrontarci, anche su questo dobbiamo trovare un modo di intervenire e di modificare la situazione. Certo, ci sono giornali o, più spesso, singoli giornalisti molto sensibili e molto attenti, ma il risultato nell’economia delle pagine, nell’economia della grande informazione, specie quella televisiva, non c’è e non si vede. Quindi a livello di opinione pubblica continuano a vivere o addirittura a incrementarsi pregiudizi, false immagini di quello che è il carcere, distorte immagini e pregiudizi di quelle che sono poi le realtà sociali che producono il carcere. Perché, signori miei, in carcere ci sono immigrati, ci sono tossicodipendenti, ci sono malati di mente, ci sono figure che compongono quel panorama dell’esclusione sociale. Quindi c’è da fare anche una lettura su cosa significhi questo. Sul perché succede questo e quindi se non ci sia da interrogarsi anche sul piano delle politiche sociali, quindi dello smantellamento del welfare e di tutta una serie di diritti sociali che non sono garantiti e che producono nuove carcerazioni. Quindi c’è anche un deficit, uno sforzo che tutti, per quanto è possibile dal nostro punto di osservazione e di lavoro, dobbiamo fare. Ma dobbiamo imparare a farlo in rete. Perché solo in rete si possono produrre risultati. C’è necessità di inquadrare anche il tema del carcere in una lettura più complessa. Io credo che un'altra delle spiegazioni sul perché le cose non funzionano, non migliorano, sta in una sorta di deficit culturale che c’è nella sinistra, nel centro sinistra, nell’associazionismo anche, che è quello di aver subito in questo decennio un pochino il paradigma culturale invece del centro destra, che è quello di enfatizzazione della sicurezza, che è quello del paradigma della tolleranza zero. Insomma ce lo ricorderemo questo, anche nell’ultima campagna elettorale, intendo quella nazionale, non quella delle amministrative, c’erano alcuni manifesti sul tema della sicurezza che se non si guardava qual era il simbolo di partito il contenuto era lo stesso. Allora io mi chiedo e vi chiedo se non ci sia anche un po’ da modificare la lettura con cui noi ci confrontiamo col problema del carcere e col problema dei diritti dei detenuti, col problema delle condizioni di lavoro nel carcere. Se non ci sia anche da fare uno sforzo per ritrovare un’autonomia di giudizio, di lettura, di produzione di senso e di cultura a livello di opinione pubblica, a livello sociale, da parte della sinistra perché diversamente sarà sempre destinato a essere rinchiuso in quella gabbia che mette davanti a tutto il problema della sicurezza, più o meno enfatizzata, e quindi a porre in secondo piano la necessità di capire che il carcere è un precipitato di processi sociali, di politiche sociali mancate, di tendenze che oggi portano il carcere a essere quel contenitore, come spesso ci diciamo nei convegni, di povertà e di esclusione sociale. Lo spiegava molto bene Massimo Pavarini, in un seminario promosso da Agesol qualche settimana fa, partendo proprio da quella che è la situazione negli Stati Uniti, dei processi che lui definisce di incapacitazione selettiva, finalizzati a togliere dai piedi tutte quelle figure che i processi di esclusione sociale e di impoverimento, di smantellamento del welfare, producono. In America, il 25% dei 2 milioni di detenuti (altri 5 milioni sono sottoposti a controllo penale all’esterno) è costituito da maschi afroamericani di età compresa tra i 20 e i 39 anni; il 12,9% di maschi afroamericani di età compresa tra i 25 e i 29 anni si trova in carcere. Il 28%, sono dati ufficiali, dei giovani afroamericani è destinato, nel corso della propria vita a finire in carcere. Questo significa delle cose, anche dal punto di vista del mercato del lavoro e dell’esercizio del diritto di voto, perché le statistiche sulla disoccupazione o i risultati elettorali sono falsati dal numero enorme di persone in carcere. Questo vuol dire delle cose in America, ma vuol dire delle cose anche da noi. Noi spesso diciamo e vediamo, leggevo le firme di questa denuncia di San Vittore, di quanti immigrati ci sono nel carcere. Non possiamo risponderci semplicemente che è perché gli immigrati delinquono di più. Adesso non voglio dilungarmi aprendo nuovi capitoli, ma ci sono tutta una serie di elementi che secondo me noi dobbiamo avere il dovere di capire, per porci degli interrogativi, per darci delle risposte che non siano però consolatorie. Che siano politicamente, culturalmente efficaci. Noi dobbiamo ritrovare una diversa e nuova efficacia per confrontarci con il problema del carcere e del penale. Questo centra molto anche con le cose di cui discuteremo questo pomeriggio. Questo pomeriggio noi presenteremo un appello, si chiama non a caso Dal penale al sociale: questo è il percorso politico che noi per primi, ma un pezzo di società dobbiamo saper affermare. Non solo dire nei convegni, ma saper affermare a livello sociale.

Questo appello in pochi giorni è stato sottoscritto da 1300 persone, tra cui molti operatori dei servizi pubblici. Ecco, questo è un esempio di come ci sia anche una coscienza a livello di operatori del sociale, una domanda di nuove strategie e di nuove proposte.

Finisco dicendo che anche a partire da questo appello, anche a partire da questo convegno, l’altra necessità, l’altra risposta operativa che dobbiamo darci, proprio a partire da oggi, a partire da qui per costruire e avere una efficacia diversa, quella di lavorare in rete, è quella di promuovere un Cartello di forze, di avere una capacità di mettere assieme dei pezzi, non solo nei convegni, ma nell’operatività quotidiana. Noi crediamo che oggi qui possa nascere, debba nascere un concerto non solo di volontà, ma di forze che si impegnano a andare avanti, non di convegno in convegno, ma da questo convegno, da questo momento, da questo fare politica, per stabilizzare un intervento politico, una capacità di lavorare in rete che dia risultati nel prossimo futuro.

Quindi, al di là delle parole, credo che la cosa centrale sia porci gli interrogativi che diceva Margara all’inizio, iniziare a delineare delle risposte, ma prenderci l’impegno di strutturare e rendere stabile una capacità di iniziativa tra tanti pezzi del sociale, del sindacato, del terzo settore, possibilmente anche delle forze politiche. Insomma, un lavoro che sia in grado di non renderci sconsolati ce pessimisti come siamo oggi. Pur se in parte non possiamo non esserlo, di fronte alla vera e propria beffa che è stata consumata con il voto in Senato ieri sull’indultino; una beffa consumata non solo nei confronti dei detenuti, ma di tutti coloro che lavorano in carcere e di un pezzo significativo di società.

 

 

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