Lorena Orazi

 

Associazione "Diritti umani - Sviluppo umano" di Padova e Associazione "Antigone"

Il difensore civico per le carceri

 

 

Lorena Orazi

 

Il nostro intervento su immigrati, carcere e diritti, si articola in due parti: la prima muove dalla constatazione di una sostanziale conformità della legislazione italiana in materia penitenziaria con le norme di diritto internazionale dei diritti umani, una conformità che, però, tradotta in termini di concreta applicazione presenta delle debolezze sotto il profilo della garanzia soprattutto per i detenuti immigrati di cui proveremo a dare qualche esempio nella seconda parte, cercando altresì di individuare nelle lacune riscontrate l’ambito di azione possibile di un Ombudsman penitenziario.

L’art. 1 della 354/75, contenente norme sull’Ordinamento Penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, dopo aver riaffermato che il trattamento penitenziario deve essere ispirato al principio della umanizzazione della pena e deve assicurare il rispetto della dignità della persona, in conformità dell’art. 27 della Cost., precisa che esso "è improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazione in ordine alla nazionalità, razza e condizioni economiche e sociali, opinioni politiche e a credenze religiose" della persona reclusa. Un’affermazione importante, che contiene in sé un valore programmatico che si rivolge a tutti gli operatori in vario modo coinvolti nella gestione della vita delle persone private della libertà, ma non sufficiente a superare le obiettive e spesso enormi difficoltà, che ostacolano un effettivo paritario trattamento tra il detenuto italiano e il detenuto straniero. Questa disposizione è in linea con quel principio generale di "non discriminazione" contenuto in vari documenti internazionali tra cui la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo del 1950; accordo internazionale con cui gli Stati contraenti si sono impegnati ad assicurare il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali sanciti nella Convenzione a tutti gli individui sottoposti alla loro giurisdizione ed in modo non discriminatorio. Con particolare riferimento all’istituzione penitenziaria tale principio è affermato nella raccomandazione 3 (87) del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa contenente le rinnovate regole penitenziarie europee in cui all’art. 2 si legge che " le regole devono essere applicate con imparzialità. Non si deve operare discriminazione alcuna, in particolare in relazione alla razza, al colore, al sesso, alla lingua, alla religione, alle opinioni politiche o di altro genere, alla nazionalità o all’estrazione sociale, alla nascita, alla situazione economica o ad ogni altra condizione. (...)" Con uno sguardo al quadro internazionale dobbiamo anche ricordare le varie raccomandazioni e suggerimenti del CPT che si è occupato in varie occasioni dei detenuti immigrati. Ad esempio nel 7° rapporto generale sulle attività svolte dal Comitato nell’anno 1996 alcune raccomandazioni sono state dirette agli Stati affinché ai detenuti immigrati vengano assicurati alcune garanzie fondamentali, quali la possibilità di informare della propria situazione una persona da loro indicata, di avere un avvocato e di essere visitati da un medico; il diritto ad avere delle spiegazioni scritte nella propria lingua, o in una lingua comunque dal detenuto compresa, contenente le procedure loro applicabili ed i loro diritti; ma anche la possibilità di mantenere contatti con l’esterno ed in particolare poter telefonare e ricevere visite di parenti e rappresentanti di organizzazioni di particolare rilievo. Questo, pertanto, anche se la descrizione è molto approssimativa, rappresenta il contesto all’interno del quale dobbiamo pensare agli immigrati ed in particolare agli immigrati detenuti. Una realtà che a livello statistico, attualmente rappresenta negli istituti penitenziari italiani, circa il 20% del totale della popolazione ristretta che si aggira intorno alle 49.000 unità, come a un insieme di soggetti portatori di diritti nonostante la loro condizione transitoria di persone sottoposte a misure privative della libertà personale. A questo punto è legittimo chiedersi se quanto previsto dalle leggi trovi rispondenza concreta nella realtà detentiva degli stranieri reclusi. La risposta a un tale interrogativo non può che mettere in evidenza le difficoltà di garantire un effettivo trattamento paritario tra detenuti stranieri e italiani; argomento sul quale però sarebbe troppo lungo soffermarsi. Prima di provare ad esaminare delle situazioni concrete vorrei fare una considerazione di carattere generale per evidenziare che i detenuti immigrati nel loro insieme, sono soggetti più deboli di fronte alle istituzioni e, a maggior ragione, in una istituzione totale come il carcere.

Questa considerazione riguarda, da un lato, la condizione di particolare "isolamento" che gli stranieri in carcere vivono come elemento aggiuntivo di afflittività della pena, un isolamento spesso linguistico che condiziona molto il passaggio di informazioni (da notare che la presenza di un’interprete è prevista durante la fase di convalida dell’arresto e del processo, mentre in carcere ci si avvale dell’interprete solo per le telefonate che i detenuti effettuano alle proprie famiglie mentre nulla è previsto per i contatti con gli operatori che lavorano nell’istituto), culturale che condiziona la capacità a "comprendere" le informazioni fornite, affettivo e di relazioni con l’esterno; dall’altro lato la difficoltà o la mancanza di attitudine dei detenuti stranieri a pensarsi, a percepirsi come soggetti titolari di diritti. Ma quali sono, a titolo di esempio, i fondamentali diritti che con maggiore difficoltà vengono assicurati e quindi le situazioni più esposte a rischio di violazione?

Ritengo di poterne identificare almeno tre, che mi limiterò ad enunciare, per lasciare poi la parola alla mia collega che descriverà i modi contraddittori tra il livello di garanzia formale della legge e la difficoltà di garanzia sostanziale di ciò che la norma prevede. In primo luogo il diritto alla difesa è garantito dal nostro sistema, in linea con le carte internazionali sui diritti umani, anche ai non abbienti con la difesa di ufficio e con il gratuito patrocinio. Ma quanto si sentono assistiti i detenuti stranieri e quale è la percentuale di essi che riesce oggi ad accedere al gratuito patrocinio? In secondo luogo il diritto al rispetto della propria vita familiare e, in senso lato, alla conservazione dei rapporti con i propri cari che, generalmente, nel caso di detenuti stranieri, si trovano molto lontano e sono raggiungibili solo telefonicamente. A questo proposito, l’amministrazione penitenziaria, con le attuali procedure, non riesce a garantire una effettiva possibilità ai detenuti stranieri di mantenere contatti con le proprie famiglie e telefonare nei propri Paesi di origine è, in genere, molto difficile se non impossibile. Su questo punto dovrebbe essere ricercata una forma di collaborazione efficace e strutturata con le varie autorità Consolari e rappresentanze diplomatiche anche per promuovere la loro cultura ed avere informazioni sui loro cittadini. In terzo luogo il diritto all’assistenza religiosa e la corrispondente libertà di professare la propria religione.

Un diritto questo riconosciuto, come tale, all’art. 26 della legge 354/75 in conformità di patti e norme di diritto internazionale ed in particolare con le regole penitenziarie europee ai nn. 47 e 47. Il problema è costituito dalla concreta possibilità per i mussulmani di avere assistenza religiosa in considerazione del fatto che nella religione islamica non esistono figure assimilabili in toto al Ministro di culto, riconoscimento necessario dalla attuale normativa per poter accedere negli istituti penitenziari e garantire l’assistenza religiosa. Quanto ho appena enunciato vuole essere solo una esemplificazione di come la normativa italiana preveda dei diritti per i detenuti che, in base al principio della non discriminazione si estendono a tutti; diritti che però spesso fanno fatica a diventare realtà e ad essere garantiti dalle amministrazioni statali interessate in modo effettivo e sostanziale. Mi chiedo allora se lo spazio di azione di un difensore civico in ambito penitenziario possa essere proprio questo; ossia operare con la capacità di individuare quegli scollamenti tra la norma e la sua applicazione che si sostanziano in vere e proprie violazioni di diritti fondamentali ed intervenire affinché si recuperi il senso del bene giuridico tutelato dalla norma, in un’ottica di tutela non relativa, come diceva il professor Feest nel suo intervento, ma di protezione e, aggiungerei, di promozione.

 

 

 

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