Salvatore Piruccio

 

Salvatore Pirruccio

Direttore della Casa di Reclusione di Padova

 

Innanzitutto volevo ringraziare il dottor Boscoletto per i temi trattati, molto forti, ma molto veri. Per quanto riguarda il problema che ha sollevato, abbiamo parlato col Prefetto, con gli assessori, con tutte le autorità cittadine, da ultimo con il direttore sanitario e con il direttore generale dell’ASL. Per completezza di informazione devo dire che il Ministero ha mandato un’informativa ai Provveditori, invitandoli a prendere contatto con gli organi deputati alla gestione della salute pubblica. Il Provveditore ha scritto all’assessore regionale per la Salute, sollecitando lo stanziamento dei fondi necessari per creare questo reparto carcerario in ospedale. Da parte mia solleciterò ancora una volta l’assessore regionale, il Prefetto e il direttore generale dell’ASL. Se dal bilancio della Regione si riuscissero a stornare questi due milioni di euro, i lavori potrebbero cominciare immediatamente. Ci batteremo sempre su questo punto perché per noi è assolutamente vitale, anche perché siamo consapevoli del disturbo che talvolta si reca ai cittadini quando si deve piantonare un detenuto in ospedale. Speriamo che le autorità preposte ci diano un aiuto nel risolvere questo problema. Certo non si tratta di riaprire quel repartino "bunker", assolutamente inadeguato, opportunamente chiuso qualche anno fa. Dobbiamo avere un reparto, come esiste in molte altre città, dove poter ricoverare e curare adeguatamente i detenuti. Non dimentichiamoci che nella Casa di Reclusione vi sono, mediamente, 700 detenuti, ma altri 250-280 sono nella Casa Circondariale: dunque si tratta di circa mille persone.

Tornando al tema del convegno, desidero affrontare l’argomento del lavoro, di fondamentale importanza per la rieducazione del condannato. Infatti a questo convegno sono stati invitati tutti i Sindaci della provincia di Padova per una sensibilizzazione all’ipotesi di stipula di accordi tra gli Enti Locali e l’Amministrazione Penitenziaria. Auspicavo oggi la presenza di un maggior numero di sindaci, in considerazione che nella provincia di Padova vi sono ben 104 Comuni. Invece sono intervenuti solo in due, che ringrazio per la loro presenza. Vuol dire che poi faremo gli atti del convegno e li invieremo a tutti i capi delle Amministrazioni Comunali.

Preliminarmente si deve considerare che i detenuti sono trattenuti nel circuito penitenziario per un tempo determinato e, allo scadere della pena, saranno restituiti alla società libera, in seno alla quale, dovranno reinserirsi osservando quelle regole di civile convivenza che precedentemente hanno violato. Se dobbiamo restituire il detenuto alla società, dobbiamo fare in modo che non rientri più in carcere, altrimenti il nostro lavoro vale ben poco. Il lavoro è l’elemento più importante per tentare questo reinserimento, insieme naturalmente alla famiglia, altro fattore essenziale. Le attività lavorative oggi non sono più quelle di una volta. Dalla riforma della Legge 354 del ‘75, il lavoro è stato previsto in funzione del dettato Costituzionale. Esistono dunque diritti e doveri per il detenuto. Non c’è più l’interesse esclusivo della Pubblica Amministrazione, come accadeva prima della legge 354. I regolamenti precedenti parlavano soltanto di attività occupazionali, non di lavoro penitenziario. Invece, in sintonia con la Carta Costituzionale, oggi l’ordinamento penitenziario prevede che il lavoro sia considerato un elemento rieducativo, dunque con diritti pari a quelli dei lavoratori esterni, anche se la retribuzione è leggermente inferiore, pari a due terzi dei contratti nazionali. Da ciò scaturiscono una serie di regole che il detenuto deve imparare ad osservare, visto che non le ha osservate prima. Il nostro compito è di far sì che lui impari ad osservare queste regole e in futuro, tornato sul libero mercato, sul territorio, possa riprendere una vita nuova.
Il lavoro penitenziario è sostanzialmente diviso in due grandi settori: il lavoro penitenziario intramurario e il lavoro penitenziario che si svolge invece al di fuori del carcere.

Quello intramurario è il più semplice da gestire, a cui accedono più persone ed è svolto alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria. Si tratta, però, di lavori sostanzialmente domestici, che non attribuiscono alcuna professionalità. Il detenuto, lavorando in carcere, non acquisisce competenze tali da poter essere utilmente spese quando ritornerà libero. Può acquisire una qualche professionalità solo quando il privato interviene all’interno dell’Istituto. Come abbiamo sentito poc’anzi dalle relazioni tenute dal dr. Boscoletto, dalla dr.ssa Pan e dalla prof.ssa Favero, esistono privati che, attraverso cooperative sociali, o ditte private, intervengono attivando laboratori ed officine, cercando di far imparare un mestiere a queste persone che un mestiere, probabilmente, non l’hanno mai avuto. Da ultimo, in seguito all’emanazione della legge Smuraglia, c’è stata una modifica nel rapporto lavorativo tra il detenuto e il datore di lavoro, nel senso che prima i reclusi erano esclusivamente assunti dall’Amministrazione, mentre adesso vengono assunti da un privato: dunque vi è un rapporto diretto tra il detenuto e la ditta che lo assume facendolo lavorare all’interno dell’istituto. L’Amministrazione Penitenziaria dà in comodato i locali. Nella Casa di Reclusione di Padova sono stati ricavati tre laboratori: nel primo, quello gestito dalla cooperativa Giotto, si fabbricano i manichini per l’esposizione di vestiti, una lavorazione molto apprezzata sul libero mercato; nel secondo laboratorio si effettuano assemblaggi di materiale per quadri elettrici, impianti idraulici ed altro e nel terzo assemblaggi di materiale per guard-rail ed altri componenti, a seconda delle commesse che le ditte ricevono.

Sostanzialmente il lavoro intramurario è tutto qui, non c’è altro. Certo queste ditte, dopo aver formato e addestrato il detenuto all’interno dell’istituto, possono assumerlo alle loro dipendenze all’esterno, o magari collocarlo nella rete che hanno sul territorio. Questo lo si fa sostanzialmente attraverso due misure: la concessione della semilibertà, oppure del c.d. articolo 21 dell’ordinamento penitenziario che consiste nell’affidare ad un detenuto un lavoro all’esterno del carcere. Sebbene non vi sia una grande differenza sulle modalità di esecuzione di queste due misure, esiste, invece, una differenza sostanziale sotto il profilo giuridico, nel senso che la semilibertà viene concessa dal Tribunale di Sorveglianza, mentre il programma dell’articolo 21 viene stilato dal Direttore dell’Istituto Penitenziario e poi viene sottoposto all’approvazione del Magistrato di Sorveglianza.
Oltre al lavoro che si svolge intra moenia, abbiamo quindi il lavoro esterno. Con queste due misure portiamo i detenuti fuori dal carcere affinché possano lavorare alle dipendenze sia di privati che di pubbliche amministrazioni. Con le pubbliche amministrazioni il discorso è un po’ diverso perché, come noto, la pubblica amministrazione può assumere i propri operatori soltanto a mezzo di procedure molto rigide. Tuttavia è possibile stipulare delle apposite convenzioni tra l’Amministrazione Penitenziaria e l’Ente Locale (il Comune, ad esempio).

Con quattro Comuni abbiamo già in atto queste convenzioni e sono Padova, presso cui abbiamo collocato tre detenuti, Limena dove lavorano due detenuti, così pure a Galliera Veneta e a San Giorgio in Bosco. Dopo aver stipulato la convenzione con gli Enti Locali, si attua all’interno dell’istituto, un processo gestito dagli educatori e da tutti quegli operatori che sono a contatto con la persona detenuta, per giungere alla redazione di un programma. Questo programma viene ovviamente approvato, come dicevo prima, dal Magistrato di Sorveglianza, che ha il controllo su tutti gli atti dell’Istituto penitenziario e, dunque, interviene in ogni fase conclusiva di ciascun procedimento amministrativo che si adotta a carico dei detenuti. Infine il soggetto viene collocato presso l’Ente Locale, presso il Comune in questo caso. Naturalmente, non potendosi far luogo all’assunzione, il Comune interviene garantendo quei servizi strettamente connessi alla vita lavorativa, quali il trasporto e la mensa; il detenuto viene nello specifico retribuito ancora dall’Amministrazione Penitenziaria che riceve dal Comune il rimborso delle somme che ha anticipato. Si tratta di una prassi che consente ai detenuti di lavorare presso le pubbliche amministrazioni. Con le ditte private questo non succede. La ditta, sempre per il tramite della direzione, retribuisce direttamente il detenuto.

Altra cosa che posso riferire riguardo a queste convenzioni fatte con gli enti pubblici, è che una nuova pagina si sta aprendo in questi ultimi mesi. Il Ministero della Giustizia sta adottando l’affidamento, ad enti pubblici e a cooperative sociali e non, di determinati servizi che prima svolgeva in proprio. Al momento stiamo sperimentando il confezionamento dei pasti da somministrare ai reclusi. I detenuti, assunti dalla Cooperativa Sociale Giotto, lavorano nelle cucine dell’Amministrazione, manipolando i generi vittuari che l’Amministrazione Penitenziaria fornisce per il tramite di una ditta appaltatrice. In futuro si potranno avere rapporti con l’ASL, con i Comuni, con altre grandi aziende anche a partecipazione pubblica. Non solo, ma dopo la sperimentazione del confezionamento dei pasti per i detenuti, si potrà estendere il servizio ad altri enti che non appartengono all’Amministrazione Penitenziaria; nel qual caso con l’incremento delle commesse di lavoro aumenterebbero le opportunità lavorative per i detenuti. Si può pensare, ad esempio, ad una casa di riposo, ad un ospedale o a qualsiasi altra istituzione, privata o pubblica, che si serve di ditte di catering.

Ho avuto intese con il direttore generale della ASL per l’apertura di un Call Center al quale potrebbe essere affidata la ricezione di una parte delle richieste che i cittadini avanzano all’ULSS.
Cerchiamo di percorrere strade diverse per occupare il maggior numero di persone detenute in attività produttive. I detenuti in carcere dovrebbero essere tutti addetti ad attività lavorative. Il fatto che il lavoro sia obbligatorio per il condannato, non implica una obbligatorietà di tipo afflittivo; è una obbligatorietà così come la prevede e la vuole la nostra Costituzione, cioè una opportunità emendativa.

 

 

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