Antonino Cappelleri

 

Antonino Cappelleri

Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia

 

Anziché diffondermi nei soliti ringraziamenti, che do per sottintesi, dico soltanto due idee, molto veloci e sintetiche sul convegno, che è intitolato "Per una nuova cultura sul carcere".
Creare una nuova cultura sul carcere non è facile. Ed è logico che sia così. Il tema del carcere inteso come sistema di contenimento, di reazione rispetto a chi ha commesso reati è sicuramente spinoso, è un momento che la società tende a respingere, ad estraniare da sé, perché la prima reazione è chiaramente quasi di paura, comunque di repulsione della realtà che deriva da queste premesse.
Bisogna creare una nuova cultura sul carcere partendo dal dato fondamentale della Costituzione che impone che la pena sia tesa al recupero di chi è incorso in reati e di chi è stato sanzionato. Non è facile, dicevo, e qualunque cosa che deve venire ad imporsi, partendo da una posizione svantaggiata, necessità di un lungo lavoro, di un lungo travaglio, di forti basi, perché poi la fioritura dipende dalle basi solide, dalle radici solide che sono state poste. E le radici del lavoro di riaccostamento del carcere alla società, che, detto in altra maniera, credo significhi di reinserimento del condannato nel vivere civile, le radici siete voi, sia come operatori istituzionali sia come operatori sociali che supportano il tentativo che viene per primi portato avanti dagli operatori penitenziari. Ma non può prescindere dall’ausilio indispensabile anche delle strutture che vengono dalla società e la accostano al carcere, che sono le cooperative, che sono il volontariato in genere.
Quindi la nuova cultura, come qualunque dato culturale, a mio avviso passa da un crogiolo di impegno concreto sulle piccole cose - ho letto qui nelle piccole meditazioni del depliant, ed è vero, è così - passa dalla sperimentazione di strade che talvolta possono essere non proficue perché quelle imboccate di primo acchito possono non rivelarsi quelle giuste, devono essere perfezionate. C’è quindi da mettere in conto una percentuale di insuccessi, che però è funzionale al perfezionamento degli strumenti, al perfezionamento della crescita di una consapevolezza che è dovere civico che chi ha sbagliato venga aiutato a reinserirsi e venga invitato dunque a modificare la sua struttura per tornare dentro la società. D’altra parte, se la pena deve essere certa e se la pena costituisce anche una sofferenza, un castigo - e non c’è dubbio che la pena è questo - d’altra parte sarebbe incompleta anche l’utilità della pena se, finita questa, si reimmettesse nella società una persona che ha delinquito nello stesso stato personale di provenienza. In fondo la società non ne avrebbe avuto alcun vantaggio, perché il problema si ripropone.

Dunque la pena ha senso solo in quanto si tenti un approccio di recupero dell’individuo che vi è incorso. Sperimentazione quindi, impegno concreto quotidiano di tutte le componenti, momenti di riflessione e di pensiero quali sono i convegni come questo, che ogni tanto nel turbinare di tutte le attività che ci prendono, ci consentono di fermarci un attimo e riflettere. Mi veniva da pensare una cosa. Sapete che attualmente è in corso di realizzazione quel provvedimento semiclemenziale che è stato chiamato indultino. L’indultino è un istituto per il quale si sospende la pena nel massimo di due anni, consentendo al condannato di uscire dal carcere purché si sottoponga a determinate prescrizioni che assomigliano a quelle dell’affidamento in prova al sevizio sociale, che è la misura alternativa principale.

Bene, l’esperienza di applicazione di questo istituto ci vede - e il collega penso me lo possa confermare - abbastanza scoraggiati quanto all’efficacia, quanto alla centratezza di questo istituto, perché quel che dico è questo: noi misuriamo la riuscita di una misura alternativa, o anche la riuscita dell’indultino, da una cartina di tornasole che è costituita dal numero delle revoche delle misure che sono state ammesse. Mi sembra - mi corregga Gianni Pavarin se sbaglio - che ci avviamo ad avere un numero di revoche degli indultini circa doppio rispetto al numero di revoche che si verificano per le misure alternative.

Da questo io traggo questa riflessione: deve esserci un momento che genera una differenza così marcata. A mio avviso quello che porta a questa differenza è il retroterra da cui proviene una persona che viene ammessa all’affidamento, alla semilibertà, alla detenzione domiciliare da una parte e il retroterra della persona che viene a essere scarcerata per indultino. Perché mentre la prima ha "conquistato" la misura alternativa attraverso un percorso che è stato gestito dall’assistenza, dall’educatore, dai contatti con le strutture esterne, dalle promesse di lavoro eccetera. È una persona che viene quindi da un percorso che ha maturato nella intenzione di riaccostarsi a quei caratteri che sono tipici dei reinserimento sociale: lavoro, contesto familiare e così via. Invece tutto questo lavorio, che è il lavorio che fanno poi gli operatori penitenziari, viene saltato per così dire e ritenuto per legge con l’atto di clemenza che ammette il condannato all’indultino. All’indultino possono accedere anche persone che non avrebbero alcun titolo ad andare in misura di sicurezza, è sostanzialmente un misto di perdono clemenziale con le sovrastrutture delle misure alternative.
Allora, se il risultato è così diverso, e di qui traggo anche un conforto rispetto al sistema che faticosamente portiamo avanti, questo mi conferma nel fatto che, sia pure tra mille difficoltà, tra mille limitazioni, tra mille problemi di strutture carenti eccetera, il lavoro penitenziario in definitiva qualcosa produce. Perché se abbiamo un riscontro del fatto che la persona portata attraverso il meccanismo del trattamento rieducazionale si inserisce meglio rispetto alla persona che esce dal circuito carcerario semplicemente per un atto di clemenza, allora questo significa in concreto che tutto quell’impegno qualcosa evidentemente ha creato. Questo mi dice quindi, partendo dal basso e partendo dalle piccole cose, come, tutto sommato, sia pure con i mille limiti del nostro vivere, del nostro operare, evidentemente quello che offre una possibilità di rieducazione è un momento che vale, è un momento che produce.

Certamente non possiamo accontentarci. Il sistema va perfezionato e oggi siamo qui per pensare alle maniere possibili, siamo qui per coinvolgere il più possibile anche strutture esterne nel discorso di offerta rieducazionale. Quindi un pizzico di ottimismo, tutto sommato, ogni tanto può anche starci. Dico un’altra sola cosa e poi smetto immediatamente. Mi sono sempre anche crucciato di un’altra cosa. Mi piacerebbe, lo dico forse in maniera sfrontata, il ruolo dovrebbe indurmi a essere prudente, però siamo tra operatori del settore e quindi mi permetto di dirlo, mi piacerebbe un rilievo statistico di questo tipo, non è mai stato fatto che mi risulti, mi piacerebbe capire quanti condannati che portano la loro vicenda penale secondo la incarcerazione tradizionale, senza godere di misure alternative, recidivano, e mi piacerebbe poterlo confrontare questo dato con un altro, ossia quanti sono quelli che passando dalla misura alternativa ricadono nella recidiva.

Se avessimo questo dato avremmo una risposta dell’utilità, o anche dell’inutilità, dobbiamo essere pronti naturalmente a metterci in discussione, della nuova cultura del carcere come carcere teso al recupero e non solo al contenimento. È chiaro che dico tutto questo più a livello di battuta, mi rendo perfettamente conto che ci sono delle grossissime difficoltà per realizzare un sondaggio del genere, che, se basato su rilevazioni sbagliate darebbe dei risultati disastrosi perché fuorvianti. Pensiamo solo all’impatto sull’opinione pubblica. Però la butto lì soltanto come idea, forse fuori dal normale, ma come idea che è quasi un sentimento, sarebbe bello riuscire a capire quanto è utile il lavoro di questa struttura carceraria aperta e che passa attraverso le alternative penitenziarie. Forse pian piano, in Italia o all’estero in qualche maniera avremo qualche prima risposta orientativa e, se la risposta non fosse esaltante dal punto di vista della riuscita degli impegnativi, questa a mio avviso dovrebbe soltanto indurre ad un forte sforzo di perfezionamento dei sistemi attuali, perché magari può dipendere da imperfezioni che un determinato scopo non venga interamente raggiunto.
Finisco con una consapevolezza. In ogni caso non c’è alternativa al sistema delle misure alternative. Lo stesso ministro della Giustizia il mese passato, alla riunione che si tiene periodicamente dei Presidenti dei Tribunali di Sorveglianza, ha detto "non è possibile nell’attuale realtà italiana aumentare la capienza carceraria. Dunque più di questo che facciamo non è possibile fare dal punto di vista di pena contenitiva. Si gioca dunque - questo lo dice un Ministro che proveniva da una primitiva propria idea, invece molto rigida, molto rigorosa - si gioca tutto sull’efficacia e sul funzionamento delle misure alternative:" Dunque, volenti o nolenti, dobbiamo continuare a lavorare e a fare meglio.

Certamente lo facciamo con tutta la migliore volontà e con tutta la speranza che questo possa essere il più proficuo possibile.

 

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