Carlo Alberto Romano

 

Carlo Alberto Romano

 

 Sono fortemente convinto che oggi il territorio sia l’unica delle risorse percorribili. Prendo spunto da una frase che a me piace ricordare frequentemente, una frase di Bobbio del ‘74, precedente alla riforma penitenziaria; Bobbio stava scrivendo una prefazione ad un testo e, nel farlo, sviluppò questa riflessione: “Attenzione, perché il carcere si pone due obbiettivi: uno di essere deterrente e l’altro di essere rieducativo”; e lo scrisse, badate bene, prima del 75. “Impossibile riuscirci, perché tanto più è deterrente tanto meno sarà rieducativo; ed anche tanto più riuscisse ad essere rieducativo, tanto meno sarà deterrente.”

Questa frase mi ha colpito molto e credo che, in qualche modo, giustifichi l’attenzione che la nostra Associazione ed io personalmente rivolgiamo al territorio come possibile fonte per, ripeto, trovare un senso all’esecuzione penale. Non che ciò debba significare l’abbandono delle politiche carcerarie, del trattamento e di tutto quello che ne consegue, per carità, abbiamo assolutamente l’obbligo morale di continuare a percorrere questa strada, ma credo che, per certi aspetti, un concetto che si applica molto al settore delle politiche degli stupefacenti, cioè quello del contenimento del danno, possa essere introdotto anche nell’ambito carcerario; contenimento del danno da frequenza del carcere. Il territorio invece ha molte altre possibilità, e ne ha, credo, ancora in potenzialità.

Qualche anno fa, e mi scuso se non è recentissimo, l’Associazione Carcere-Territorio di Brescia fu invitata a svolgere una ricerca su una delle misure alternative di cui ci occupiamo oggi, e nello specifico sulla semilibertà. Questa è una misura di cui mi piace parlare, che ha una sua connotazione anche dal punto di vista ideologico con alcuni riferimenti ad altri Ordinamenti, una sua storia precisa, un suo utilizzo particolare; anche se oggi è assai frequente pensare alla semilibertà come allo strumento che si utilizza quando non è possibile applicare, al di la dei presupposti giuridici, l’affidamento. In realtà credo che la semilibertà possa avere una sua connotazione ed una sua ragione d’essere, ma non è sempre possibile individuarla; in questa ricerca fatta sulla semilibertà, si delinearono, nel territorio del Tribunale di Sorveglianza di Brescia, sia pur su un campione non particolarmente rappresentativo, alcuni aspetti che vale la pena di riportare, perché strettamente connessi al territorio.

Da questa ricerca emergevano due modalità di svolgimento della misura alternativa della semilibertà: la prima vissuta da soggetti ben inseriti nel contesto territoriale di appartenenza, che usufruivano di contatti con la propria famiglia e la propria abitazione, usavano addirittura mezzi propri e accedevano ad opportunità di lavoro presso imprese private, evidentemente contattate grazie alla rete di conoscenze che di solito hanno gli autoctoni. L’altra relativa invece ai soggetti privi di riferimenti alloggiativi e spesso anche affettivi. L’unica possibilità di uscire dal carcere per tali soggetti, di solito non indigeni, risulta essere rappresentata dalla presenza delle cooperative sociali. Voi sapete che l’elemento lavoro è fondamentale per la concessione della semilibertà, e in questo senso costituisce riferimento elettivo il mondo della cooperazione sociale, del volontariato per quanto riguarda il tempo libero, e della rete dei servizi pubblici offerta dal territorio, per gli aspetti alloggiativi.

Allora gli interventi strategici, secondo me, devono indirizzarsi a supporto delle carenze che spesso impediscono a questo secondo sottogruppo di usufruire del beneficio, procurando invece le stesse opportunità disponibili per il primo. Una prima realtà che emergeva dalla ricerca era quindi l’esistenza di questi due sottogruppi tra i soggetti che potevano accedere a questa misura, e su questo varrebbe la pena di svolgere qualche riflessione, perché se il trend di concessione della semilibertà è quello che conosciamo, evidentemente su ciò ha influito anche la connotazione che è venuta a crearsi in questo periodo di tempo, cioè la ripartizione dei “candidati semiliberi” in queste due sotto aree.

Anche  perché non è difficile immaginare, rispetto all’universo degli stranieri detenuti, in quale delle due aree vadano a collocarsi; e ciò rende conto del perché questa misura, al di là di qualche situazione “felice” come Padova e Venezia, sia estremamente poco utilizzata.

D’altra parte sappiamo anche come esistano due tipi di offerta di lavoro: quella proveniente dall’impresa privata, di tipo “profit”, per intenderci, che è sollecitata o direttamente dal lavoratore o da suoi referenti e che agisce per una rete di conoscenze informali che sono state attivate. Tra l’altro ciò mi conferma nell’opinione che gli obiettivi che si proponeva la legge Smuraglia non siano ancora stati adeguatamente raggiunti, anzi credo che rispetto agli imprenditori “profit” ci sia ancora un bel po’ di strada da percorrere.

L’offerta proveniente dal mondo della cooperazione sociale si rivela invece strumento duttile e assolutamente idoneo per questo genere di misura alternativa, non discriminatorio tra l’altro, e permette anche, attraverso la rete di contatto tra le cooperative sociali e il mondo dell’associazionismo, di individuare quella serie di risorse occupazionali, alloggiative e di uso del tempo libero che sono necessarie per agevolare questa seconda sotto-categoria di detenuti che possono accedere alla semilibertà.

Oltre a questi due aspetti emergenti dalla citata ricerca si è imposta anche la lettura del ruolo del volontariato, quale fondamentale trait d’union  nell’ambito delle misure alternative. Quando parlo di volontariato non mi riferisco solo al volontariato penitenziario, ma a tutto quel mondo che afferisce alla comunità interna, proveniente dalla comunità esterna; mi riferisco cioè a tutti coloro che in qualche modo interagiscono con gli operatori penitenziari per far fronte alle necessità dei condannati, i quali hanno bisogno del reperimento di una serie di risorse per poter accedere alla misura stessa. Quindi volontari, cooperazione sociale, servizi sociali e volontari penitenziari, perché si possa pensare, per esempio, al ruolo di un dormitorio, o di strutture analoghe, per poter avere un riferimento alloggiativo.

Ciò significa un’interazione forte e feconda, da parte di tutte le espressioni territoriali dell’associazionismo. Queste relazioni tra l’altro hanno anche l’obiettivo secondario, ma non meno importante, di impedire che il condannato, che svolge la misura alternativa della semilibertà, la viva come un momento a tenuta stagna, cioè del tutto avulso dalle proprie vicende di vita.

Se vi ricordate la distinzione che ho operato poc’anzi direi che i detenuti autoctoni, che sono nel proprio mondo, che vivono le proprie relazioni, questo momento, seppure transitorio, possono viverlo come propedeutico per un ritorno ad un contesto che ben conoscono e in cui sperano di rientrare. La seconda categoria finisce invece per vivere la misura alternativa come un momento, appunto, a tenuta stagna, completamente diverso dalla realtà che conosce e che auspica di poter tornare a frequentare in breve.

La possibilità che la misura alternativa venga svolta in una rete positiva di relazioni e contatti, secondo il mio punto di vista, tende ad abbattere questo rischio, ricollocando il contesto di esecuzione della misura alternativa in un ambito che, in qualche modo, permette al condannato di intravedere spiragli per il proprio futuro.

Uno degli strumenti di maggior potenzialità integrativa è dato dalla formazione; la formazione sarebbe infatti in grado di individuare le grosse potenzialità del territorio, ma sono costretto ad usare il condizionale perché credo che l’indicativo in questo senso possa  essere applicato solo in alcune realtà. La formazione scolastica e professionale potrebbe dunque essere l’anello di congiunzione con il mondo del lavoro esterno e con le autentiche risorse espresse dal territorio; potrebbe costituire un elemento fondamentale in questo passaggio, e dicendo ciò penso ad una realtà come quella dalla quale io provengo, dove vi è un tasso di disoccupazione grandemente inferiore a quello nazionale, e addirittura inferiore a quello medio della nostra regione; praticamente è quasi inesistente, esiste solo una disoccupazione fisiologica con una forte richiesta di professionalità specifiche.

Se, attraverso la formazione professionale, si riuscisse ad individuare la risposta alla domanda di queste professionalità specifiche, è indubbio che anche la possibilità di avere maggiori offerte di carattere occupazionale dal mondo imprenditoriale profit, che finora si è dimostrato un po’ sordo a questo richiamo, aumenterebbe e di conseguenza aumenterebbe la possibilità di concessione, da parte del Tribunale di Sorveglianza, della misura alternativa stessa...

Quindi, in qualche modo, la formazione professionale verrebbe ad avere quel ruolo potenziale di grande capacità d’implementazione delle misure stesse, che in questo momento non vedo idoneamente perseguito. È evidente che ciò potrebbe essere di soddisfazione anche per gli imprenditori, perché l’individuazione di specifiche tipologie professionali, in grado fin da subito di evitare lunghi tempi di ammortamento per l’inserimento del condannato, permetterebbe di integrare professionalità già definite rispetto al mercato del lavoro locale.

Infine cito fra gli elementi descrittivi delle misure alternative gli aspetti di carattere culturale, sui quali non posso non ritornare. In questo senso ancora una volta individuo l’associazionismo come l’elemento capace di costituire la vera testa di ponte verso il mondo penitenziario.

Se continuiamo a chiamare le misure alternative “benefici penitenziari”, come facciamo noi operatori, come fanno i componenti del Tribunale di Sorveglianza, o gli operatori penitenziari, non possiamo pretendere che  vengano riconosciute loro la piena dignità e potenzialità di esecuzione della pena che invece meritano; noi per primi dobbiamo evitare, a mio giudizio, di chiamare con questo termine le misure alternative perché ciò crea nell’opinione pubblica un’idea distorta, come se il beneficio fosse un modo di eludere la richiesta afflittività della pena; dobbiamo pensare ad un modello culturale nel quale la misura alternativa riprenda piena dignità, come da normativa e regolamento, anche attraverso una serie di accorgimenti; per esempio l’applicazione concreta e pratica del settimo comma dell’articolo 47, quindi un’apertura verso quegli aspetti di giustizia riparativa, che sono necessari per transitare verso il futuro della esecuzione della pena.

Ma questo sforzo e cambiamento di carattere culturale lo possiamo fare soltanto se gli operatori dell’associazionismo, quelli professionali, quelli volontari, quelli penitenziari, la Magistratura saranno in grado di fornire un’adeguata ed idonea testimonianza della capacità assoluta delle misure alternative di costituire oggi l’elemento risolutivo del problema dell’esecuzione della pena. Il territorio, attraverso le misure alternative, possiede una grande potenzialità; speriamo riesca a sfruttarla adeguatamente.

 

 

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