L'opinione dei detenuti

 

Il caso Izzo: una gravissima, inquietante storia individuale

 

Marino Occhipinti, ergastolano - Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Un solo Angelo Izzo, oltre che per l’umanità e per la nostra società, può diventare molto pericoloso anche per quelli che in galera stanno cercando nuove strade e nuovi obiettivi per non tornare a delinquere.

 

Come non interrogarci, noi della redazione di Ristretti Orizzonti, sul caso Izzo? Più che sulla sua vicenda personale, sul modo più corretto – privo sia di coinvolgimenti, sia di pregiudizi – per affrontare dal punto di vista dell’informazione una situazione tanto spinosa. Una storia individuale che, per quanto gravissima e inquietante sotto molte prospettive, rischia di mettere seriamente e ingiustamente in crisi un intero sistema: quello dell’espiazione della pena, che in Italia è tra i più civili al mondo. E non stupisce che, sull’onda emozionale, i media abbiano invocato l’abolizione di misure alternative alla detenzione come la semilibertà.

Non discutiamo sul fatto che quella di Angelo Izzo resta una posizione indifendibile. Condannato all’ergastolo per un omicidio con stupro e sevizie commesso nel 1975 (un fatto noto come il massacro del Circeo), dopo aver inutilmente tentato di evadere varie volte, nel 1994 approfitta di un permesso premio per fuggire in Francia. Quando viene arrestato, pochi mesi dopo, è armato e dichiara alle telecamere di essersi preso una vacanza. Alcuni mesi fa gli è stato concesso il regime della semilibertà.

Il massacro del Circeo è rimasto negli annali della cronaca nera italiana. Ma, oltre al suo delitto più "famoso", a sconcertare è la storia giudiziaria di Angelo Izzo nel suo complesso. Anche se quasi mai creduto o ritenuto attendibile, Izzo durante la sua carcerazione gioca anche la carta del pentimento. Non quello intimo e profondo della coscienza, che non è mai barattabile con benefici materiali, ma un pentimento di convenienza. Si autoaccusa di altri sette omicidi, rispetto ai quali non vengono comunque trovate prove né riscontri, e di numerosi altri reati. Si presenta a deporre a importanti processi, ovviamente come testimone d’accusa ma, nonostante gli imputati fossero altri, alla fine a guadagnarsi qualche condanna per calunnia è proprio lui. È il curriculum giudiziario di Izzo uno dei pochi elementi certi di una torbida vicenda che lo vede ora responsabile - lo ha confessato - del duplice omicidio, commesso mentre lavorava in regime di semilibertà, di una ragazzina di quattordici anni e della madre.

Di fronte a un caso tanto cupo che difficilmente ammette mezze misure nei giudizi, la reazione di molti di noi è stata tuttavia una (forse banale, ma difficilmente confutabile) constatazione di un dato di fatto: "La recidiva nei casi di omicidio è bassissima: come si può pensare di limitare o addirittura di abolire i benefici come permessi e semilibertà perché una sola persona ha sbagliato, quando ce ne sono altre migliaia che rigano dritto e proprio grazie alle misure alternative si reinseriscono nella società?". Tutti però siamo stati ugualmente d’accordo su un altro, opposto, dato di fatto: "È fin troppo ovvio che quando accadono fatti del genere, la semplice statistica perde ogni valore. L’episodio cruento prende il sopravvento, annulla anni di fatiche. E poi vallo a spiegare a chi si è visto uccidere un figlio che la statistica degli assassini recidivi è quasi pari allo zero".

E’ il classico dilemma che si presenta puntuale come corollario di ogni fatto eclatante (non molti, se ci pensiamo bene) di cronaca nera. A offrirci lo spunto per valutare la vicenda senza inutili emozioni, è stato, in modo del tutto inatteso, il ministro della Giustizia Roberto Castelli. Un "inedito" Castelli che ci ha sbalorditi per la pacatezza dei toni usati durante una trasmissione televisiva, nonostante siamo già in piena campagna elettorale e la lotta al crimine sia da sempre il cavallo di battaglia del suo partito. Al contrario, invece di tranquillizzare gli onesti cittadini promettendo loro tanta sicurezza e tanta galera per chi commette reati, il ministro si è limitato ad ammettere che sì, nel caso di Angelo Izzo qualcosa non ha funzionato (ovvio), ma "che assieme all’acqua sporca non bisogna gettare anche il bambino". Non solo: ha perfino implicitamente suggerito che il caso Izzo si può mettere da parte, perché per un Izzo ci sono centinaia di detenuti che, proprio perché hanno vissuto sulla propria pelle il disagio, riescono meglio di chiunque altro ad aiutare chi si trova in difficoltà e quindi a svolgere lavori sociali (come faceva Izzo in un centro d’ascolto).

Quei condannati che avvertono il bisogno di dare un senso alla propria vita lavorando in funzione degli altri

Caso Izzo a parte, appunto. Che qualcosa non abbia funzionato è innegabile. Sull’abbaglio preso e sull’inopportunità di assegnargli una mansione delicata all’interno di una associazione attiva in ambito sociale hanno concordato tutti e ahimè, per quanto possa valere il mio parere, non posso che allinearmi a tale opinione. Ma che cos’è, esattamente, che non ha funzionato? Secondo un’analisi (sempre televisiva) del criminologo Massimo Picozzi, Izzo è uno psicotico con turbe sessuali e come tale non andava messo a contatto con altre persone portatrici di problematiche forti, anche di origine sessuale. Tali erano infatti alcuni dei frequentatori del centro di ascolto di cui Izzo era uno dei responsabili.

Picozzi ha poi evidenziato una stortura di non poco conto: la patologia psichiatrica di cui è (o era) affetto Izzo non sarebbe mai stata curata perché, ai tempi del processo, quindi quasi un trentennio fa, fu dichiarato pienamente capace di intendere e di volere. E, si sa, le persone sane non si possono curare. Un impianto normativo, quello relativo alla salute mentale, che andrebbe quantomeno rivisto, magari tenendo conto di una recente statistica americana: la recidiva per chi si macchia di crimini come quelli commessi da Izzo, i reati a sfondo sessuale, raggiunge la percentuale abnorme dell’ottanta per cento.

Non sono io a dover processare Angelo Izzo, è un compito che spetta ai giudici. A quegli stessi giudici che devono decidere autonomamente e a ragion veduta quando, e con quali modalità, una persona condannata, anche per reati gravi, può iniziare un percorso di inclusione sociale. Sempre mettendo da parte il caso Izzo, mi vengono in mente decine di persone che si sono macchiate di reati gravi, anzi gravissimi, persone ora libere – ex terroristi, ergastolani o comunque detenuti che hanno trascorso decenni in carcere – che dopo aver terminato di scontare la loro condanna si sono impegnati o hanno continuato un impegno già intrapreso nel sociale. Sono tanti, e rappresentano un esempio di come il caso Izzo sia davvero isolato e anomalo. Non solo: quanto più grave è il reato commesso, tanto più la maggior parte dei condannati avverte il bisogno di dare un senso alla propria vita lavorando in funzione degli altri, nel tentativo di colmare il proprio dolore e con la volontà di risarcire in qualche modo le persone alle quali si è arrecato un danno e la società stessa che ci circonda.

Emblematici e rappresentativi sono gli esempi di tre detenuti che conosco molto bene perché hanno fatto parte della redazione interna di Ristretti Orizzonti fino a poco tempo fa. Ora sono ammessi all’articolo 21 dell’Ordinamento penitenziario, norma che prevede la loro uscita dal carcere ogni mattina per recarsi a lavorare per poi fare rientro in istituto la sera. Lavorano nell’ambito di attività sociali, dopo essersi fatti le ossa in redazione imparando a occuparsi un po’ meno di se stessi, come fanno di solito, per necessità, tanti detenuti, e un po’ di più dei problemi di tutti. Non fanno gli assistenti sociali ma, affiancati da volontari e operatori, mettono a disposizione degli altri l’esperienza appresa in carcere, ed è una esperienza che può, anzi che deve servire anche a tante persone che vivono nel mondo "libero", se non altro per aiutarle a riconoscere ed evitare situazioni senza via d’uscita, che per chi vive in condizione di disagio sono un pericolo sempre presente.

Il clamore sul caso Izzo si va spegnendo. Ma il caso resta troppo articolato e complesso per non finire per essere banalizzato e schematizzato dai mezzi di informazione. Con il rischio di azzerare, o almeno di porre ulteriori freni, alla concessione dei già limitati benefici penitenziari. Un solo Angelo Izzo, oltre che per l’umanità e per la nostra società, può diventare molto pericoloso anche per quelli che in galera stanno cercando nuove strade e nuovi obiettivi per non tornare a delinquere. Uno sforzo che ha, come "effetto collaterale", una società davvero più sicura.

 

 

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