L'opinione dei detenuti

 

La fatica di vivere "dopo la galera"

A cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 13 febbraio 2006

 

La fatica di vivere "dopo la galera"

Dopo carcere: una solitudine che non ti dà tregua

Il tempo perso in carcere non si recupera...

Spaventato tra le ombre del passato e le incertezze del futuro

La fatica di vivere "dopo la galera"

 

In questi mesi si è parlato molto di "recidivi", cioè delle persone che tornano a commettere reati, e li si è descritti come delinquenti incalliti, responsabili dell’insicurezza dei cittadini "regolari". Ma la realtà è ben più complessa, e le storie che riportiamo un po’ dovrebbero farcelo capire. La prima testimonianza è quella di un detenuto che racconta di come, uscito dal carcere, si sia trovato nella solitudine più totale, senza nulla che rendesse la sua vita un po’ più decente, e alla fine in carcere ci sia rientrato per non aver retto alla tentazione di cercarsi delle "scorciatoie". La seconda è la storia di uno che in carcere ci è finito più di una volta non per una vocazione a fare il delinquente, ma perché la droga è una schiavitù da cui non ci si libera facilmente, e dalla quale la galera non guarisce. La terza è di un ragazzo albanese che, come tanti immigrati finiti in carcere, non ha più un futuro, non è più capace nemmeno di sognare. Tutte storie difficili, nelle quali non è proprio possibile vedere soltanto dei "feroci criminali".

Dopo carcere: una solitudine che non ti dà tregua

 

La mia esperienza di tentativo di reinserimento dopo la galera è stata negativa, nel senso che ho fallito tutto, ritrovandomi con altri guai da aggiungere alla già corposa lista di cazzate commesse in tutta una vita. Quando sono uscito da qui ho provato a ricostruirmi un’esistenza in questa città. A Torino, da dove provengo, non restava più nulla che valesse la pena di essere ritentato. Mi sono cercato quindi un lavoro e un alloggio, il lavoro presso una cooperativa che aveva appalti in varie aziende del padovano, l’appartamento era un monolocale, con un affitto da rapina, dove comunque non facevo altro che dormire. Stipendio da fame e orario di lavoro più lungo, con gli straordinari imposti che comunque mi erano necessari per non restare senza una lira dopo sole due settimane dal giorno di paga. Lavoravo all’interno di un capannone, uno di quei posti con le luci sempre accese, dove si entrava al mattino col buio e si usciva a sera tardi di nuovo col buio. La domenica la dedicavo quasi solo a lavare gli indumenti che mi servivano poi durante la settimana. Dopo poco tempo ho deciso che così non potevo andare avanti, non scambiavo quattro chiacchiere con una persona, non avevo una relazione e vedevo il mio ritorno alla libertà non più come una conquista, ma come un sacrificio continuo.

Decisi allora di cambiare lavoro e finii in un noto mobilificio della zona. Tornavo a casa la sera e mi accorgevo di non avere costruito nulla, distrutto dal lavoro e neanche più la voglia di farmi da mangiare. Così iniziai a servirmi in un ristorante da asporto cinese, non certo perché io fossi un cultore di quella cucina, anzi, la odiavo, però non potevo andare avanti a pizza. L’ambiente di lavoro era fatto di apparenza e null’altro e le poche mie colleghe sopravvissute al business matrimoniale guardavano esclusivamente queste cose: io che andavo a lavorare col motorino ero tagliato fuori dal loro interesse. I pochi discorsi che mi capitava di sentire vicino alla macchinetta del caffè comunque non è che mi stimolassero poi molto, anzi, non vedevo l’ora di caricare il camion e andare a consegnare mobili per restare fuori anche solo dagli sguardi che mi sentivo addosso. La sera dovevo essere a casa entro le ventidue per i controlli e al mattino in piedi prima delle sei.

La routine è devastante per uno che ha sognato come me la libertà. Ci mancava poco che parlassi col televisore. Il problema che non ho valutato a dovere era proprio quello delle relazioni, se una persona non ha relazioni non vive, si inaridisce, e il suo dolore può sfociare in comportamenti sbagliati, la solitudine ti chiude gli spazi di vita semplici, in cui si può anche solo parlare con un amico di cui riesci a fidarti. Non potevo certo andare a confidare ciò che stavo vivendo al mio capo, non potevo mettere a conoscenza quelle persone di una verità della quale provavo vergogna, persone nei confronti delle quali vivevo quasi un senso di inferiorità. Il patatrac era vicino e non me ne rendevo conto. Ho iniziato a frequentare qualche locale e conoscere persone alle quali del mio passato non poteva fregare di meno, da qui al fatto di tornare a commettere dei reati il passo è stato breve.

 

Flavio Zaghi

Il tempo perso in carcere non si recupera

e non c’è modo migliore di star male che provare a farlo

 

Quando ho deciso di scrivere delle difficoltà che si incontrano all’uscita dalla galera, sapevo che sarebbe stata una delle cose più complicate che mi apprestavo a fare. Ecco, dedico lo sforzo che mi costa a tutti i mostri del crimine come me: i recidivi!

La mia carriera di "delinquente" è quella classica di chi ha avuto problemi di tossicodipendenza, con una valanga di piccoli reati, giusto quelli sufficienti a pagarmi la dipendenza da una sostanza illecita. Sì, perché non mi sono mai arricchito, anzi, se qualche soldo avevo messo da parte, l’ho dilapidato, contribuendo indirettamente a finanziare la criminalità, quella vera.

Potrebbe addirittura succedere che fra qualche anno salta fuori qualcos’altro per il quale devo essere processato, sì perché di tutte le denunce che ho preso, magari dopo vari anni ma la condanna è sempre arrivata in tempo per essere scontata. Verrebbe da pensare, quando si decide di chiudere tutti i conti con la giustizia e iniziare una vita diversa, che non si può più, che è troppo tardi. Questo capita a me per i tempi lunghi della giustizia, eppure ci sono quelli che riescono a mandare sempre tutto in prescrizione e comunque in galera non li incontri mai.

Per i recidivi come me, e sono tantissimi, iniziare a parlare del dopo carcere è davvero un azzardo.

Tutto da un momento all’altro può saltare e le sbarre torneranno a frapporsi tra me ed i miei progetti. Beh, una certezza però ce l’ho, che i miei problemi con la droga in carcere, nella migliore delle ipotesi, si congelano, pronti a scongelarsi non appena fuori mi ritroverò a gestire le stesse situazioni che ho lasciato.

Comunque il trovarsi fuori dal carcere è stato inizialmente fantastico, anni di astinenza da tante cose impagabili mi davano un senso di euforia, ma dopo un impatto entusiastico si comincia a fare i conti con la realtà, e si arriva presto a trovarsi soli ed insoddisfatti, soprattutto quando ci si è creati un po’ l’illusione di essere pronti a riprendersi parte del tempo perduto tra eroina, programmi terapeutici falliti e carcere. Il tempo perso non si recupera e non c’è modo migliore di star male che provare a farlo. Subito ci si accorge che qualcosa non funziona. Ci si sente un po’ senza età, mentre quelli della tua generazione fanno cose che tu non puoi fare perché non le hai costruite.

In carcere abbiamo passato anni in branda a vedere in televisione un mondo che vive di cretinate, che identifica la realizzazione di sé negli standard di spesa che uno riesce a mantenere, un mondo cinico negli affari e smielatamene falso nelle relazioni. Fuori invece ci si accorge che, a parte pochi privilegiati, tanta gente viaggia alle soglie della povertà o nell’indigenza totale.

Ma il dramma è nel non riuscire ad immaginare un mondo diverso e possibile, perché la prima cosa che ti salta agli occhi è che non interessa niente quasi a nessuno di quei pochissimi che, in un mare di reati impuniti e di gente che, nonostante le condanne, in carcere non ci finirà mai, il loro conto con la giustizia lo pagano fino in fondo.

 

Stefano Bentivogli

Spaventato tra le ombre del passato e le incertezze del futuro

 

Buttato sulla mia branda ascolto una musicassetta che mi riporta indietro nel tempo. Mi ricorda la mia gioventù, l’Albania, gli anni belli della mia vita, rivedo la libertà di una volta. Questa musicassetta è per me in carcere la cosa più preziosa del mondo, che però mi fa anche soffrire ogni volta che la ascolto, perché richiama alla mia mente proprio quel passato del quale vado fiero, contrariamente ad un’altra parte del mio passato – che mi ha anche portato qui – di cui mi vergogno e che vorrei seppellire, nascondere per sempre agli occhi di tutti.

Mi trovo solo, circondato dall’indifferenza, lontano da mia madre, che non vedo da 12 anni. Oltre a qualche lettera ed alla sua voce quando telefono, l’unico affetto che mi è rimasto è questa musicassetta, che nonostante tutto mi fa ancora sognare e mi fa provare tanta nostalgia e rabbia. Mi chiedo cosa ci faccio in questo posto, ed allo stesso tempo avverto tanta ansia nei confronti del futuro, e la rabbia che provo è tutta contro me stesso.

Mi guardo attorno e vedo solo solitudine. Detenuti italiani e stranieri uniti nella stessa sorte, a cullarci di illusioni di un futuro migliore.

In carcere si parla spesso del dopo-carcere, desideriamo che la società ci ascolti e ci interroghiamo sulle possibilità che avremo una volta espiata la pena: ci saranno anche per noi delle occasioni per rifarci una vita? La società ci accoglierà nuovamente? Molto spesso, purtroppo, nessuno trova una risposta. Il rifiuto, l’indifferenza, i pregiudizi, ci spaventano.

Tanti pensano che chi ha sbagliato deve pagare fino all’ultimo giorno con la galera. Forse, invece, sarebbe più conveniente per tutti che ci venisse tesa una mano, che si cercasse il dialogo, anziché isolarci dal resto del mondo e basta, ma ho la sensazione che la società sia diventata così intransigente da non credere più che un essere umano che ha sbagliato possa cambiare.

Perché una persona non viene valutata anche per ciò che è il suo presente? Il passato non si deve dimenticare, e va bene sono d’accordo, ma se incontro un amico gli chiedo come sta ora, e non come è stato dieci anni fa. Sono convinto che se una persona mi conoscesse solo sulla base del mio presente non avrebbe problemi ad offrirmi un lavoro, oppure a frequentarmi come amico, senza pregiudizi, ma una volta appreso il mio passato… beh, le cose cambiano.

Il problema è che quando le persone "perbene" incontrano un ex detenuto, gli atteggiamenti, anche quelli più cordiali come il sorriso, sono quasi sempre di circostanza, perché il reale pensiero è negativo e la possibilità di un vero reinserimento sociale resta, nella maggioranza dei casi, un miraggio.

Non importa che io sia buono o cattivo, che abbia imparato una professione o meno, che mi adegui alle regole del vivere civile oppure no, che abbia una famiglia in questo paese o che sia solo ed abbandonato. Ho sbagliato tanti anni fa e non esiste ragione che tenga: devo essere cacciato senza possibilità di appello. A me francamente sembra assurdo.

Altin Demiri

 

 

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