L'opinione dei detenuti

 

Ci siamo anche noi, a testimoniare il disastro delle carceri

(Numero speciale on-line di "Ristretti Orizzonti" realizzato per aderire alle iniziative

in corso contro il disastro carcerario e la disattenzione della politica)

 

Editoriale: Ci siamo anche noi, a testimoniare il disastro

 

Ma le 60mila persone detenute meritano veramente di stare tutte dentro?, di Marino Occhipinti

 

Figli di un Dio minore: la morte in carcere di un detenuto che con il carcere non doveva proprio essere "compatibile", di Flavio Zaghi

 

Le leggi emergenziali contro la mafia continuano a castigare chi non è affatto mafioso, di Elton Kalica

 

Se il carcere diventa un nuovo manicomio, di Stefano Bentivogli

 

Contumacia: una vecchia legge poco garantista ha portato in galera un sacco di gente, di Mauro Cester

 

Il disastro carcerario e la disattenzione della politica, intervista a cura di Ornella Favero e Stefano Bentivogli

Ci siamo anche noi, a testimoniare il disastro, editoriale della Redazione di "Ristretti Orizzonti"

 

Quando Sergio Segio ha lanciato il suo appello "Il disastro carcerario e la disattenzione della politica", la redazione di "Ristretti Orizzonti" nella Casa di reclusione di Padova voleva in qualche modo "esserci", dare un segnale, fare qualcosa di concreto rispetto al ruolo che si è assunta, che è quello di agire come "motore" delle realtà dell’informazione dal carcere, che tentano faticosamente di darsi strumenti per essere più efficaci e tempestive sulle notizie.

La prima cosa che ci è venuta in mente è stata di usare il mezzo che conosciamo meglio, la scrittura, per testimoniare ancora una volta quanto disastrose siano davvero le condizioni di vita nelle carceri. È nato così questo "Speciale Ristretti" ondine in cui alcune persone detenute hanno cercato di raccontare le molte cause del sovraffollamento, quelle di cui si parla meno. Perché che in carcere ci siano tanti immigrati e tanti tossicodipendenti è chiaro a tutti, meno chiaro è: che le misure alternative spesso vengono concesse col contagocce; che le leggi "emergenziali" agiscono ancora in modo nefasto, allungando enormemente certe pene; che la Giustizia ha tempi eterni e colpisce a volte persone che riescono a difendersi poco, o anche per niente, come per le condanne in contumacia; che leggi come la Bossi-Fini stanno cominciando ora a far vedere i loro tragici effetti (nell’Istituto Penale Femminile della Giudecca ci sono donne condannate a due-tre-quattro anni di pena per il "reato" reiterato di clandestinità).

E non dimentichiamoci, per favore, che "incombono" sulle carceri ben altri disastri: il disegno di legge Fini sulle tossicodipendenze e la ex Cirielli che punisce molto più duramente la recidiva, senza distinguere fra criminali incalliti e tossicodipendenti alla disperata ricerca della roba, potrebbero davvero far esplodere definitivamente le nostre galere.

 

Ma le 60mila persone detenute meritano veramente di stare tutte dentro? E se ci devono stare, a quali condizioni?, di Marino Occhipinti

 

Che le carceri scoppiano lo troviamo oramai scritto ovunque e sempre più spesso. Noi detenuti lo sappiamo bene, dal momento che il disagio del sovraffollamento lo viviamo quotidianamente sulla nostra pelle, e lo sanno altrettanto bene anche i cittadini liberi, che per tutta risposta invocano la certezza della pena senza però avere la minima idea di quale sia la composizione della "popolazione detenuta" ed il grado di pericolosità di chi sta dietro le sbarre.

Eccezion fatta per alcune "categorie" di reclusi, quelli veramente "feroci ed incalliti" che hanno lunghe condanne da scontare e per i quali la detenzione appare necessaria, la popolazione carceraria è composta da un 30 per cento circa di tossicodipendenti e da un altro 30 per cento di stranieri. Persone, queste, che hanno commesso reati più per disperazione ed emarginazione che non per "animo criminale".

Circa 10-12mila delle 35mila persone che scontano una condanna definitiva (le altre sono in attesa di essere giudicate, quindi presunte innocenti) hanno una pena inferiore ai tre anni. Alcune migliaia, addirittura, sono a pochi mesi dal fine pena, e l’esiguità della condanna lascia presumere che non siano di una pericolosità tale da essere per forza "lasciate" in carcere fino all’ultimo giorno. Potrebbero essere ammesse ai benefici penitenziari se soltanto disponessero di un lavoro e di una famiglia, come nel caso degli stranieri che, si sa, non hanno risorse né tantomeno affetti: quelli li hanno lasciati al loro Paese quando sono partiti in cerca di maggior fortuna, proprio come hanno fatto molti italiani qualche decennio addietro.

Le misure alternative alla detenzione potrebbero veramente rappresentare un valido rimedio contro il sovraffollamento carcerario. Tanto per fare un esempio, le statistiche dicono che i reati commessi durante la fruizione della semilibertà o dell’affidamento in prova al Servizio sociale sono prossimi allo zero, i più bassi in Europa. Perché allora ci sono zone d’Italia in cui i benefici vengono concessi con il contagocce? E se il modello della Casa di reclusione di Padova (e relativa magistratura di Sorveglianza), dalla quale ogni mattina escono a lavorare oltre 60 persone che puntualmente la sera rientrano a dormire, venisse "esportato" anche nel resto della Penisola?

In fin dei conti non si tratterebbe di "liberare" criminali di chissà quale spessore, quelli rimangono in carcere lo stesso (a scanso di equivoci e "conflitti d’interesse": sono detenuto da 11 anni e non ho quasi nulla di cui lamentarmi), ma persone che, nel giro di breve tempo, la libertà la riacquisterebbero comunque. Concedendo loro una misura alternativa alla detenzione si permetterebbe di avviare un percorso, controllato e sostenuto, che avrebbe anche e soprattutto una funzione anti-recidiva: una recente ricerca del Gruppo Abele ha evidenziato che il 12 per cento di recidivi è costituito da persone passate attraverso le misure alternative, mentre il 61 per cento da chi non ha mai lasciato il carcere fino alla fine della pena. Segno che il solo carcere, senza l’offerta di opportunità trattamentali e di un graduale reinserimento, serve a ben poco. Anzi, in molti casi logora e magari distrugge ciò che di positivo la persona aveva fuori: la famiglia, gli amici, il lavoro…

Il problema del sovraffollamento è sì il più impellente da risolvere, anche perché dal numero esagerato di persone detenute rispetto ai posti realmente disponibili dipendono tutta un’altra serie di difficoltà. Come si può pensare di "contenere" tanti reclusi nello spazio in cui dovrebbero essercene 20mila in meno? E non è soltanto – nonostante si tratti di un problema drammaticamente "serio" – una questione legata esclusivamente alla ricettività, agli spazi vitali nudi e crudi. Quali attività "trattamentali", e di istruzione o lavorative, si possono svolgere in un carcere costruito e "calibrato" per ospitare 80 persone se invece ve ne sono stipate 250? (Non si tratta di un’ipotesi fantasiosa né artatamente esagerata: l’istituto appena descritto è la Casa circondariale di Padova, il "giudiziario", ma di realtà simili sparse per l’Italia ve ne sono molte altre).

 

Le cose cambierebbero davvero se la permanenza in carcere venisse riservata soltanto a chi non può ancora fruire delle misure alternative alla detenzione

Come si può pensare di rinchiudere per anni una persona "in cattività", senza offrirle condizioni di vivibilità almeno accettabili e dignitose, e poi sperare che una volta uscita segua la retta via e diventi improvvisamente rispettosa delle regole di civile convivenza? La galera dovrebbe rappresentare anche un "momento" in cui gli operatori penitenziari "agganciano" la persona che ha sbagliato, e con questa cercano di "lavorare" per costruire qualcosa di diverso, ma per fare ciò occorrono anche gli strumenti e le risorse – umane ed economiche – di cui attualmente gli istituti di pena italiani, sempre a causa del sovraffollamento, non dispongono. Se la permanenza in carcere venisse riservata soltanto a chi non può ancora fruire delle misure alternative alla detenzione, forse la pena diventerebbe veramente rieducativa e quindi utile per chi sta dentro e, in proiezione futura, anche e soprattutto per chi sta fuori.

Se si considera che ogni anno le persone detenute aumentano mediamente di 2-3000 unità, che sono in via di approvazione proposte di legge come la "Cirielli" – che inasprisce le pene e riduce i benefici penitenziari per i recidivi – e che le risorse destinate al pianeta carcere subiscono continue contrazioni, se ne deduce che il sistema carcerario è prossimo al collasso. La situazione è insostenibile ora, che nei penitenziari italiani sono rinchiuse circa 60mila persone, e cosa succederà tra un paio d’anni, quando nella migliore delle ipotesi i detenuti da gestire saranno almeno 5mila in più?

Infine, che dire del nuovo Regolamento penitenziario, che dopo oltre 5 anni dalla sua approvazione giace in buona parte inapplicato, alla faccia dell’acqua calda o addirittura della doccia in cella? In molte carceri del Sud Italia, dove non si guarda tanto per il sottile, soprattutto d’estate l’acqua si accontenterebbero semplicemente di averla, calda o fredda che sia poco importa.

Scontare una pena detentiva significa essere privati della "sola" libertà. Non si capisce allora in quale contesto rientrino tutte le altre "privazioni" giornaliere non previste da alcun regolamento né legge dello Stato. E dividere in dieci persone lo spazio previsto per tre o quattro, magari con la "turca" a vista (nello stesso ed unico locale dove si mangia, si dorme e si vive chiusi per 22 ore al giorno), con i letti a castello a tre piani, senza un briciolo di lavoro e con un sistema sanitario penitenziario che non lascia proprio tranquilli, con una "giustizia lumaca" ma inflessibile che magari arriva dopo dieci anni dal reato, quando i "problemi" sono oramai superati… beh, le "privazioni supplementari" sono tante e non da poco.

 

Figli di un Dio minore: la morte in carcere di un detenuto che con il carcere non doveva proprio essere "compatibile", di Flavio Zaghi

 

Leone Simonato è morto; era stato in carcere anche qui a Padova e forse qualcuno si ricorderà ancora di lui, in quanto non passava certo inosservato, pesava infatti oltre duecento chili. Si è spento nel Centro clinico del carcere di Parma dove stava scontando la sua pena. Ultimamente era arrivato a pesare duecentosettanta chili. Sembra che sia morto a causa di una grave insufficienza cardio-respiratoria, dovuta proprio allo stato di obesità che gli era causato da una grave disfunzione ormonale.

Leone Simonato qui a Padova era riuscito ad ottenere l’incompatibilità con l’ambiente carcerario, e pensare che allora, nel duemila, stava ancora discretamente bene, in quanto le gambe lo sorreggevano e quindi riusciva a camminare. Ultimamente invece le sue condizioni si erano aggravate e non camminava neanche più. Doveva scontare una somma di condanne per un totale di dodici anni e nove mesi di carcere per una serie di reati, quali truffa e ricettazione. Si sono chiuse così la sua vita e la sua storia, con un piccolo trafiletto sul Mattino di Padova e nient’altro. Di lui tutti si dimenticheranno in fretta, di lui si ricorderanno solo i suoi familiari. Queste cose, questi fatti, non dovremmo invece dimenticarli così in fretta.

Io ricordo bene quando, tempo fa, è stato arrestato Callisto Tanzi, patron del Parma-calcio, presidente della Parmalat. Anche lui era accusato di truffa come Leone Simonato. Tanzi però si era anche macchiato del reato di bancarotta fraudolenta ed esportazione illecita di capitali all’estero, lui, Callisto, ha lasciato qualche migliaio di famiglie sul lastrico, praticamente in mutande. È stato arrestato e condotto in carcere, dove però è rimasto molto poco perché è stato quasi subito tradotto in ospedale e successivamente, con un tempismo da record-man, i suoi avvocati gli hanno fatto ottenere gli arresti domiciliari, in una sorta di reggia con campi da tennis, piscina, parco e quant’altro. Per Callisto il regime carcerario era incompatibile già da subito, talmente incompatibile che non risultava adatto al suo stato di salute nemmeno il Centro clinico del carcere, infatti i giudici ne hanno disposto il trasferimento in una clinica privata, dove un’équipe medica era in grado di garantire per la sua salute e dove Callisto poteva comunque continuare a tenere un livello ed una qualità di vita che qualsiasi cittadino può solo arrivare a sognare.

È brutto essere figli di un Dio minore. È comprensibile ed è anche del tutto normale che un poveraccio come Leone Simonato non sia neanche da mettere a confronto con un Callisto Tanzi. Quella scritta che è stampata nelle aule di giustizia però non dice questo, lì sta scritto che la legge è uguale per tutti. Faccio appello quindi affinché quella scritta, che in certi casi risulta quasi ingiuriosa, venga rimossa in tempi celeri perché è un insulto alla giustizia e sa tanto di presa per il culo. Ministro Castelli: lei che è sempre così attento e preparato in materia di giustizia e di problemi dei detenuti, le vede queste cose? Perché ogni volta che uno di una elevata estrazione sociale viene incriminato, si ammala ancora prima che gli venga notificato il mandato di cattura? Perché noi, figli di un Dio minore, dobbiamo crepare di carcere in carcere?

I problemi per Leone Simonato però non sono ancora finiti, infatti, vista la sua mole, si è dovuto fare costruire una cassa da morto su misura in grado di contenere le sue voluminose spoglie, resta ora da vedere se la bara che è stata costruita entrerà o meno in un normale loculo cimiteriale. La società quindi dovrà risolvere ancora quest’ultimo problema per liberarsi di Leone. Io comunque resto dell’idea che sicuramente si poteva risolvere tutto prima e meglio, e forse Leone Simonato sarebbe ancora in vita. Addio Leone, eri uno di noi.

 

Le leggi emergenziali contro la mafia continuano a castigare chi non è affatto mafioso, di Elton Kalica

 

Cos’è che ha portato al sovraffollamento? La tossicodipendenza e la povertà, l’immigrazione clandestina e il passaggio dello spaccio di droga in mano agli immigrati sono senz’altro degli elementi che contrassegnano il carcere d’oggi, ma forse di eguale peso è da considerarsi l’aumento sproporzionato delle pene che si è verificato negli ultimi quindici anni. Le carceri italiane hanno subito un cambiamento profondo negli ultimi dieci anni, e ciò è dovuto non soltanto all’ingresso massiccio degli immigrati e dei tossicodipendenti, ma anche alle leggi emergenziali fatte per combattere la criminalità organizzata. Queste norme, ritenute necessarie nel periodo nel quale vennero istituite per fare sentire il peso dello Stato in un momento in cui questo sembrava traballare, oggi continuano, come per un effetto domino, a castigare moltissime persone che poco hanno a che fare con la sfida mafiosa alle istituzioni. Ho avuto modo di vedere le sezioni di Alta Sicurezza a metà degli anni novanta e credo che rispecchiavano davvero fedelmente quella che era la realtà di allora in materia di lotta alla criminalità. Io ero l’unico albanese e, circondato da detenuti siciliani, calabresi, napoletani e pugliesi, ascoltavo storie di maxiprocessi fatti di trenta, quaranta, ottanta e spesso cento imputati, processi dai nomi più fantasiosi, come Nord-Sud, Count-Down, Wall-Street, Autoparco, Terra Bruciata, e sentivo discutere sulle imputazioni di decine d’omicidi, di centinaia di chili di stupefacenti, di sequestri di persona a scopo di estorsioni-multimiliardarie, così come immancabilmente arrivavano condanne di decine di ergastoli e centinaia di anni di carcere. La sensazione era comunque che, tra i tanti che finivano in questo tipo di sezioni destinate a criminali pericolosi, ce ne fossero diversi che in realtà erano lì solo perché provenienti da regioni del sud o semplicemente perché rimasti intrappolati in operazioni di polizia talmente grosse che alla fine non erano più in grado di distinguere il piccolo delinquente da chi invece faceva veramente parte di un’associazione criminale con ruolo determinante.

Da qualche anno a questa parte la situazione delle sezioni di Alta sicurezza rispecchia un’altra realtà, ben diversa, ma che per alcuni aspetti è simile. Soprattutto nel Nord Italia non ci sono più i maxi-arresti di mafia, ma blitz che portano all’arresto di gruppi di immigrati albanesi o di rumeni. Ci sono stranieri arrestati in gruppi di dieci, quindici o trenta persone: succede anche che sono parenti costretti a vivere ammassati nello stesso appartamento, e non tutti dediti ad attività criminali, ma se uno di loro traffica in droga e armi rischiano tutti di essere condannati per associazione a delinquere di stampo mafioso.

La forma in cui vengono costruiti i processi è sempre quella, fare terra bruciata intorno ai criminali, arrestando parenti, amici e favoreggiatori; i nomi delle operazioni della polizia continuano ad essere ugualmente fantasiosi, ma le accuse non somigliano a quelle che venivano imputate nei maxiprocessi di mafia o n’drangheta. Nei casi di traffico internazionale fatto da stranieri, spesso si parla di etti e raramente di chili di sostanze stupefacenti, mentre nei casi di sequestro di persona a volte si tratta di storie disperate che hanno come oggetto qualche migliaio di euro, pochissime sono le accuse anche di omicidio.

La logica quindi è ancora quella dell’emergenza mafia dove a pene altissime ed al carcere duro veniva offerta un’unica via d’uscita: la collaborazione con lo Stato, il pentitismo.Il metro di misura continua ad essere lo stesso usato per quei personaggi che avevano dichiarato guerra allo Stato, quindi le condanne non cambiano, ma in questi casi spesso gli accusati sono stranieri giovani, non poche volte si tratta di incensurati, ben lontani comunque dalle realtà criminali per le quali vennero emanate le leggi emergenziali.

C’è chi da tempo si chiede se queste leggi abbiano una validità, sempre che l’avessero avuta in passato, perché sono impianti normativi che in nome della pericolosità del reo e dell’associazione criminale al quale questo appartiene, fanno tabula rasa o riducono drasticamente tante parti del trattamento penitenziario, e in nome della sicurezza riducono fino ad eliminare la flessibilità della pena, che spesso rappresenta un valido stimolo a cambiare atteggiamento nei confronti del proprio passato. Ma vorrei insistere sul rischio ulteriore di arrivare troppo spesso, e troppo facilmente, alla dichiarazione di pericolosità sociale ed all’applicazione dell’art. 4 bis, senza possibilità di revoca, e questo poi solo per dare una risposta ad una società spesso ingiustamente spaventata dallo straniero, come lo è stato in passato per il condannato che proveniva da alcune aree del sud.

Anni fa essere un condannato del sud significava automaticamente appartenere alla mafia, oggi lo stesso rischio lo corrono tantissimi giovani stranieri che spesso rischiano di pagare in modo veramente eccessivo i loro reati, solo perché si consolida sempre più l’ingiusto stereotipo del migrante che necessariamente quando sbaglia è uno spietato criminale pericoloso per sempre.

Molti però continuano a credere che, in realtà, la pena non venga scontata interamente, perché intervengono benefici e misure alternative che ridimensionano in qualche modo le altissime pene alle quali si è condannati. Anche il Magistrato che emanò la mia sentenza subito dopo, alla vista dei miei genitori che piangevano, aggiunse, "…tanto non se li fa tutti". La verità è che me li devo fare tutti e che per le leggi emergenziali (il già citato 4 bis) non avrò in nessun caso accesso ai benefici. Queste leggi, oltre ad aver inasprito le pene, hanno anche posto l’obbligo che le stesse siano espiate interamente sino all’ultimo giorno di carcere, a dispetto di ogni concetto di rieducazione o reinserimento nella società.

 

Ma siamo proprio arrivati al punto che la paura di non essere in grado di contrastare la criminalità che viene dall’estero legittimi un atteggiamento spesso sommario nei confronti di tutti gli stranieri?

Le leggi emergenziali emanate all’inizio degli anni novanta hanno riempito le carceri, e continuano a farlo tutt’oggi, di persone condannate a lunghissime pene, e obbligate a espiarle fino all’ultimo giorno: con l’unica differenza che ieri erano italiani, mentre oggi sono stranieri. Eppure dopo un decennio di questa strategia contro la criminalità organizzata italiana ci si dovrebbe essere resi conto dei limiti evidenti di queste leggi. Leggi che, se hanno avuto in passato qualche minima utilità, hanno avuto anche degli "effetti collaterali" quali la strumentalizzazione della collaborazione con la giustizia, che ha permesso la rimessa in libertà di gente che continua ad essere pericolosa veramente. E poi soprattutto hanno decretato l’arresto di una spinta riformatrice dell’intero sistema penitenziario, che continua ad essere inadeguato sia nei confronti dell’esigenza di sicurezza sociale, sia di quella di una maggior civiltà ed umanità nei confronti dell’esecuzione della pena.

La logica dell’emergenza è diventata ormai solo un ostacolo alla crescita civile di questa società, perché si perdono di vista le persone nascondendole dietro la loro nazionalità, rendendole esseri senza futuro e senza sogni, una condizione di disagio aggravata dal sovraffollamento, sulla quale sarebbe invece necessario un passo indietro ed un recupero della logica della concessione di opportunità per tutti.

Non è continuando a rispondere alle paure della gente libera facendo finire in carcere, in alcuni casi ingiustamente, e marcirvi dentro sempre più cittadini stranieri che si danno risposte serie agli inarrestabili flussi migratori. Tanto più che questi flussi non nascono dalle strategie di espansione ed internazionalizzazione dei fenomeni criminali, nascono piuttosto dalla povertà e dalle guerre le cui responsabilità, volenti o nolenti, coinvolgono tutti quanti a prescindere dal luogo d’origine, dalla religione e dal credo politico.

 

Se il carcere diventa un nuovo manicomio…, di Stefano Bentivogli

 

Che il carcere stia diventando un raccoglitore di disagi diversi, ma tutti caratterizzati dalla volontà di esclusione e di segregazione che la nostra società esprime, è ormai un dato di fatto. Parlare di carcere è ormai parlare solo in modo limitato di illegalità e di criminalità, è più facile sentir parlare di tossicodipendenze, di stranieri, di persone emarginate che per la loro condizione perdono qualsiasi contatto con la società civile.

C’è poi un fenomeno sempre più presente nell’ambito della detenzione che è quello del disagio psichico. Di questo si parla solo ultimamente e se ne parla male. Vengono forniti dati che improvvisamente fanno apparire le carceri come piene di malati mentali: fino a qualche anno fa non se parlava neanche.

La realtà è che il carcere, questo carcere sovraffollato, non solo raccoglie le persone che, sofferenti di disagio psichico, non vengono sufficientemente curate dai servizi sanitari, ma mette tanti altri esseri umani, il cui equilibrio mentale è precario, in condizione di esplodere.

Di qui realtà di detenzione che assomigliano sempre di più ad ospedali psichiatrici, dove l’azione più incisiva nei confronti di chi soffre è la somministrazione di psicofarmaci associata, invece che a momenti relazionali che aiutano la persona, all’isolamento e all’ozio totale.

In carcere oggi chi non è sufficientemente strutturato a resistere si lascia andare all’abulia totale, oppure lancia segnali di sofferenza che in genere si traducono in atti di autolesionismo o suicidi.

Questo è uno degli aspetti più drammatici della detenzione oggi, ed è un cane che si morde la coda perché il recludere sempre più persone di questo tipo genera sovraffollamento, che è il primo grande ostacolo che poi si incontra nel momento in cui si cerca di operare per curare le persone.

Arrivati a questo punto dell’analisi ci si ferma: sebbene la cultura e la legge del nostro paese apparentemente siano indirizzate ad escludere la segregazione per tutte quelle persone che soffrono di disagio mentale, succede però che, attraverso il carcere e l’amplificazione da parte dei media di una pericolosità sociale che non c’è, si torna a rinchiudere, ad escludere e ad isolare.

Sono poche in Italia le realtà penitenziarie che si fanno carico del disagio mentale e soprattutto sono quasi inesistenti le occasioni di cura all’esterno per tante persone sofferenti, attraverso misure alternative alla detenzione. Ad andare poi a verificare i reati dei quali molte persone di questo tipo si sono macchiate c’è da restare sorpresi di come spesso il loro livello di pericolosità reale sia basso, eppure restano in carcere, e di rado accedono a quelle misure alternative che, essendo in molti casi considerate dei benefici, difficilmente vengono concesse perché il comportamento del detenuto non viene ricollegato in alcun modo agli aspetti del disagio di cui soffre.

Quante sono queste persone sofferenti che necessitano di cure da somministrare in condizioni diverse dalla detenzione? Sono anche loro sovraffollamento inutile, e infatti basta vedere che dove il Dipartimento di Salute Mentale è presente ed interviene dentro le carceri, maggiore é la possibilità di costruire percorsi alternativi al carcere, che abbiano sicuramente maggior efficacia e che soprattutto evitino nuove forme di segregazione, che ci riporterebbero ad un nostro passato, superato da anni di battaglie e da una legge come la 180, la legge Basaglia, che è in vigore ma che spesso è del tutto disattesa.

 

Contumacia: una vecchia legge poco garantista ha portato in galera un sacco di gente. Ora quella legge è cambiata, ma quante persone sono ancora dentro ingiustamente!, di Mauro Cester

 

La vicenda di Mohamed S. può essere quella di qualsiasi altro detenuto o persona libera che viene condannata in contumacia magari solo sulle tracce di un alias e sembra che di questi casi ormai le carceri siano strapiene, con tutti i problemi che ne derivano.

Intanto va detto che la condanna in contumacia avviene quando l’imputato viene giudicato in sua assenza, o perché non gli è arrivata l’informazione che c’è un procedimento a proprio carico (è successo a volte di persone considerate irreperibili e che invece si trovavano in carcere), oppure non è comparso all’udienza. Quasi sempre questi processi si svolgono in modo superficiale, perché manca la presenza delle parti e il contumace, quasi sempre viene assistito da un avvocato d’ufficio che, generalmente, non ha le basi per garantire una giusta difesa, con la conseguenza che non solo l’imputato può venire ingiustamente condannato, ma che ciò avviene addirittura con il massimo della pena.

Mohamed è un borseggiatore algerino, mai stato condannato per reati gravi, e anche questa volta è stato preso in flagranza di reato per furto. Dopo due giorni di carcere è stato portato in tribunale dove è stato processato per direttissima e condannato alla pena di otto mesi. Dopo sei mesi, quando ormai stava terminando di scontare la sua pena nel carcere circondariale di Gorizia, gli è arrivato un provvedimento di esecuzione di pene concorrenti, complessivamente di anni otto e giorni ventisette, di cui lui dice di non essere a conoscenza nemmeno delle accuse, non essendo mai stato sottoposto ad un fermo in merito, e di non essere stato informato sui fatti.

È ovvio che non è in discussione l’innocenza o la colpevolezza di Mohamed, il problema resta comunque quale sia stato il livello di garanzia di difendersi che gli è stato garantito, e per gli stranieri questo livello è sempre bassissimo, inesistente in moltissimi casi. Abbiamo a che fare con persone di cui ormai si fa una categoria che nel circuito giudiziario e penale diventano dei numeri, prima di procedimento penale poi di matricola. Spesso non si rendono neanche conto che la lentezza e l’inefficacia del sistema giustizia italiano non fa sconti e non dimentica, è un rullo compressore che nel momento in cui procede è inarrestabile.

Così da Gorizia è stato trasferito immediatamente presso la Casa di reclusione di Padova perché la condanna superava i cinque anni, limite massimo per poter stare in un carcere circondariale, dove lavorava in modo continuativo, guadagnando quel poco che gli permetteva di sopravvivere e, magari, coprire le spese per scrivere ai propri familiari. Attualmente questi non sono nemmeno a conoscenza del suo trasferimento perché Mohamed non ha i soldi per scrivere una raccomandata.

Leggendo il suo provvedimento sono stato colpito dal fatto che le condanne sembrano spropositate, infatti è stato condannato ad oltre otto anni per i reati di falso di identità, tre furti, disturbo e danneggiamento. Parlando con lui, mi ha detto che nella data in cui aveva il processo per il falso d’identità, si trovava in carcere a Como e non gli era arrivata notifica, nemmeno per la traduzione per presenziare al processo. L’ufficiale della matricola di Gorizia, visto il provvedimento, gli consigliò di fare immediatamente ricorso. Purtroppo, Mohamed capisce poco l’italiano e soprattutto non conosce la legge italiana che non ammette ignoranza e, se per noi italiani con tanti anni di esperienza e di galera alle spalle non è facile comprendere il significato dei vari articoli di legge, figuriamoci per lui.

Mohamed aveva dieci giorni di tempo per presentare l’impugnazione, cosa che però lui non sapeva e, anche se l’avesse saputo, non avrebbe avuto nessuno in grado di potergliela scrivere.

O si hanno i soldi per pagare un avvocato serio che segua le pratiche, oppure qualche "Santo in paradiso", sotto forma di carcerato italiano, che mastica legge e che abbia la generosità di farti l’istanza, altrimenti ti arrangi e la giustizia fa inesorabilmente il suo cammino.

Esistono tantissimi problemi risolvibili qua dentro, uno di questi è quello di Mohamed, che continua a guardare e riguardare il provvedimento emanato nei suoi confronti, del quale non riesce a farsi una ragione continuando a chiedersi il perché. Lui ormai è diventato un numero di riferimento di un documento che elenca reati ed anni di galera, anni esageratamente tanti solo perché per quelli come lui, e sono molti, non è stato possibile difendersi durante il processo, ed ora non c’è nessuno che si metta al lavoro per limitare i danni fatti, probabilmente addirittura per correggere gli errori commessi.

Troppo spesso mi capita di vedere le "carte" di detenuti stranieri che hanno dell’inquietante, anni ed anni di galera per reati non gravi, spesso condannati in contumacia, impossibilitati poi ad intervenire sulla propria situazione quando sono in esecuzione penale, perché non sanno leggere, scrivere, talvolta addirittura parlare la nostra lingua, e penso poi con un po’ di vergogna ai "nostrani" imputati eccellenti che a colpi di parcelle ai migliori avvocati i processi non li fanno neanche.

I tanti Mohamed sono una parte del sovraffollamento delle nostre carceri, ma attorno alla detenzione di molti di loro si respira un senso di ingiustizia ed una rassegnazione che fanno star male, perché il carcere per loro non è una passeggiata, non lo è per nessuno, al contrario per tutti, e per loro in particolare, è una sofferenza micidiale, che abbrutisce, rovina, ed a volte uccide.

 

Il disastro carcerario e la disattenzione della politica, intervista a cura di Ornella Favero e Stefano Bentivogli

 

"È giusto dire che questo carcere è fuori legge". Ed è da questa constatazione drammatica che è partito l’appello di Sergio Segio a riprendere l’iniziativa e a ribellarsi a quella negazione dei diritti e della dignità delle persone detenute, che avviene ogni giorno nelle carceri italiane, ormai sovraffollate oltre ogni possibile umana sopportazione. A Sergio Segio abbiamo chiesto che cosa ancora si può fare, nei pochi mesi che restano prima dell’inizio della campagna elettorale, per cambiare una situazione, che sembra davvero precipitare verso un disastro annunciato.

 

I numeri parlano chiaro, oggi in Italia ci sono circa 60.000 detenuti, mai stati così tanti. L’appello che avete lanciato ha un titolo molto esplicito: "Il disastro carcerario e la disattenzione della politica". Qual è il senso di questa iniziativa?

Il senso di richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e di chi ha il potere e il dovere di decidere, ovverosia di cambiare la situazione penitenziaria, sul fatto che dietro a quei numeri ci sono altrettante persone, cioè persone a cui troppo spesso vengono negati o compressi i diritti, compresi quelli minimi relativi al fatto di vivere in condizioni decenti dentro al carcere dove sono rinchiuse, spesso anche semplicemente in attesa di giudizio.

I problemi che aggravano la situazione, e che affliggono chi vive in carcere, ma anche chi ci lavora, si sono stratificati nel corso degli anni e sono arrivati oramai ad un livello che noi riteniamo pericoloso. Per questo abbiamo atteso dopo l’estate, dopo questo periodo che come sempre vede aggravarsi la sofferenza e i disagi dentro le carceri, per riprendere la parola e dire a voce alta che non se ne può più e che la politica deve intervenire. Quindi l’appello è alle forze politiche e al governo attuale, in questo scorcio di legislatura, a portare avanti alcune delle proposte di legge che sono ferme, spesso da anni, come la proposta di legge sull’affettività, o quella sulla costituzione dell’ufficio nazionale del Garante dei detenuti. Solo questa legge potrebbe dare potere reale ai garanti che meritoriamente sono stati nominati da alcuni comuni, province e regioni, ma che rimangono un fatto simbolico perché non hanno addirittura neppure il potere di entrare in carcere e verificare qual è la situazione.

Ma l’appello è anche rivolto alla prospettiva dell’immediato futuro, dato che tra poco si terranno le elezioni, quindi ci saranno delle forze politiche che si candideranno a governare nella prossima legislatura, alle quali chiediamo che prendano già da ora degli impegni precisi su quelle che saranno le scelte, le politiche, le destinazioni di risorse che esse vorranno fare nel 2006.

Ecco, noi chiediamo da subito che ci sia una presa di posizione chiara, ma anche possibilmente già da ora delle scelte che vadano sia pur progressivamente a rendere più decenti le condizioni di vita nel carcere, e soprattutto a cambiare la prospettiva, a cambiare rotta rispetto alla linea che è stata sin qui seguita, che è quella di costruire nuove carceri e sostanzialmente di penalizzare dal punto di vista della sanità, del lavoro, delle opportunità concrete di risocializzazione la popolazione detenuta.

 

Il 2005 è anche una scadenza importante: cinque anni fa è entrato in funzione il nuovo regolamento penitenziario, che contiene alcune innovazioni, alcune promesse. Il nuovo regolamento si dava dei tempi, entro i quali apportare alcuni cambiamenti all’interno delle carceri: cinque anni, appunto. Franco Corleone, il garante per i diritti delle persone private della libertà personale di Firenze, ha proclamato uno sciopero della fame, che altre forme di protesta ci possono essere? Che strada si può scegliere per tentare di incidere in qualche modo su una realtà che sembra irrimediabilmente bloccata?

Franco Corleone già da una settimana sta digiunando, sia su questioni specifiche legate al suo ruolo, che purtroppo non può esercitare a pieno titolo, di garante dei detenuti a Firenze, sia per rilanciare il discorso sulle leggi non fatte che potrebbero migliorare la situazione. Tra l’altro comincerò anch’io un digiuno, perché abbiamo pensato di fare una staffetta per portare avanti digiunando questa sensibilizzazione e questa mobilitazione. Ma oltre al digiuno all’interno di questo complesso di iniziative ci saranno in maniera articolata anche altre forme di sensibilizzazione, dei sit-in davanti ad alcune carceri, delle conferenze stampa, dei volantinaggi.

Insomma, penso che non è importante in che modo si porta avanti questo tipo di iniziativa centrata sui problemi del carcere, è importante che queste iniziative in qualche modo si generalizzino, è per questo che spero che il mio appello possa servire per costruire proprio una catena, una rete di adesioni, di disponibilità, di iniziative in varie città d’Italia, per avere una maggior forza e quindi un maggior ascolto a livello di forze politiche, ma anche a livello di opinione pubblica.

Anche qui però non si può non essere pessimisti se badiamo al fatto che, come sempre, la grande stampa è totalmente disattenta su questi temi, non solo sulla nostra iniziativa ma in generale sui problemi del carcere.

In questi giorni per altro sciopereranno anche gli agenti di custodia, eppure anche di questo non c’è traccia sui giornali, Corleone è già stato ricevuto dal Presidente della Camera Casini, al quale avevamo scritto una lettera proprio per sollecitare che in questo scorcio di legislatura, nelle poche sedute parlamentari che rimangono, un minimo di spazio fosse dato anche ai problemi carcerari e alle leggi carcerarie, intendendo ovviamente quelle che porterebbero un beneficio alla popolazione detenuta e non quelle come la salva-Previti, che temiamo possa continuare invece il suo iter, o la legge Fini sulle droghe, insomma leggi che sarebbero devastanti perché porterebbero a un notevolissimo incremento del numero dei detenuti. Ecco, Casini ha ricevuto Corleone ma anche di questo non c’è traccia sui giornali, nonostante il Presidente della Camera, al quale vogliamo attribuire un minimo di fiducia, si sia preso un impegno verbale a insistere presso i capigruppo delle forze politiche affinché nel calendario parlamentare un po’ di spazio venga dato anche a questi provvedimenti, di cui sollecitiamo la discussione e l’approvazione.

Ma bisogna anche puntare all’effettiva applicazione di leggi già esistenti, che invece sono state disattese. Il regolamento penitenziario è senz’altro una di queste, quel nuovo regolamento che faticosamente ha visto la luce grazie al grande lavoro di Alessandro Margara, ma anche alla determinazione di Franco Corleone, allora sottosegretario alla giustizia. Di nuovo si può dire: fatta la legge, trovato l’inganno, perché quel regolamento è rimasto lettera morta e proprio in questi giorni scadono i cinque anni che la legge prevedeva per l’adeguamento strutturale degli istituti di pena, e ci risulta che la gran parte delle carceri questo adeguamento non l’abbia fatto, quindi le condizioni di vita sono ancora quelle precedenti, e comunque assolutamente non rispettose dei diritti dei detenuti. Ecco, tutto sommato crediamo che in qualche modo ci sia necessità, per quanto possibile, per quanto è nelle nostre deboli forze, di una nuova capacità di iniziativa per rompere questo muro di gomma di una politica sorda, di un mondo dei media assolutamente disattento, e per dare un nostro piccolo contributo per cambiare rotta, perché il carcere così non ce la fa più, i detenuti sono stanchi di parole, sono stanchi di questo eterno ping pong che si fa sulla loro pelle.

 

Ci sono paesi come la Russia, che noi riteniamo probabilmente molto più arretrati del nostro, dove il diritto all’affettività, cioè la possibilità per le persone detenute di incontrare i loro cari in condizioni di intimità, è riconosciuto da anni: quattro volte all’anno, per tre giorni, un detenuto può appunto stare con la famiglia, la moglie, i figli senza controlli visivi. Non è allora il caso, dato che c’è pochissimo tempo fino alla fine della legislatura, di cominciare davvero a impegnare sui programmi i due schieramenti, perché fra poco ci saranno le elezioni, e solo un impegno chiaro ci permetterebbe dopo di chiedere al nuovo governo di mantenere le promesse fatte...

Noi vogliamo sperare che questa iniziativa innanzi tutto cresca e coinvolga un sempre maggior numero di persone in diverse città, ma uno dei suoi obiettivi sicuramente è quello di costringere a sedersi attorno a un tavolo le forze politiche, affinché nei loro programmi di governo futuri tutto ciò trovi veramente posto, e lo trovi in modo non formale, non retorico, ma con un impegno preciso che le forze politiche si prendano nei confronti di questa situazione drammatica delle carceri.

Sicuramente l’affettività è un problema importantissimo e anch’esso purtroppo è oramai stratificato oltre che dimenticato. Non possiamo tra l’altro evitare di dire che anche nel nuovo regolamento penitenziario del 2000 all’inizio erano state previste delle norme specifiche che garantissero questi spazi di affettività per i detenuti, e allora il Consiglio di Stato ritenne proprio di depennarle rimandando alla necessità di una nuova legge in materia, quindi su questa questione siamo ancora un po’ all’anno zero.

In altri paesi, e non solo in Russia, questi spazi, questi diritti, perché vanno chiamati per quello che sono, sono garantiti da sempre, anche in paesi che reputiamo meno democratici del nostro. Da noi non c’è il diritto all’affettività, ma non c’è neanche il diritto ad avere dei colloqui decenti con i propri famigliari. Tra l’altro, in quest’ultima legislatura, e anche questo non lo sa quasi nessuno se non coloro che lo patiscono sulla propria pelle, c’è stato un giro di vite anche sotto il profilo della censura sulla corrispondenza dei detenuti. Quindi, anziché andare avanti in direzione di una norma di maggior civiltà, in questi anni in realtà stiamo andando terribilmente indietro anche sul piano dei diritti che già in qualche modo prima esistevano, o quanto meno formalmente erano ratificati, e quindi risalire questa china è molto più difficile, ma non di meno e anche per questo noi chiediamo, in particolare al centrosinistra che si dichiara più sensibile ai temi delle parti più deboli della società, di prendersi degli impegni precisi riguardo a questi contenuti, a queste modifiche legislative, e noi digiuneremo affinché dopo le elezioni gli impegni che riusciremo a fare in qualche modo inserire nei programmi elettorali vengano effettivamente mantenuti.

Non possiamo infatti anche qui dimenticare che la linea di spostare tutte le risorse sull’edilizia penitenziaria era già appartenuta al precedente governo del centrosinistra, ed è stata poi ripresa dal ministro Castelli, e non possiamo dimenticare neppure che i Cpt, ossia quelle terribili strutture in cui vengono rinchiusi gli immigrati, erano stati già introdotti da un governo di centrosinistra, anche se poi sono stati peggiorati dal centrodestra. Ecco perché è fondamentale chiedere da subito impegni chiari ai due schieramenti.

 

 

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