L'Opinione dei detenuti

 

Omicidi in TV

La stampa, gli impietosi assalti al dolore e la sua spettacolarizzazione

 

Stefano Bentivogli, Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Di fronte ad un fatto gravissimo come un omicidio ci sono molti modi di fare informazione, si possono sterilizzare i fatti facendone il più possibile cronaca, si può cercare di far conoscere per quanto possibile la vittima e l’assassino, far conoscere l’ambiente nel quale è maturato il crimine. Il tentativo dovrebbe sempre essere quello di informare, far capire, fornire comunque dei riferimenti che aumentino la conoscenza di un fatto grave che, in quanto tale, deve essere ben compreso per essere pubblicamente condannato.

L’informazione oggi arriva ormai principalmente dalla televisione ed è principalmente dentro il piccolo schermo, attraverso messaggi sempre più in tempo reale, che la gente si fa un’opinione, un’idea ed un sentimento nei confronti di quanto accade. La tendenza ormai generalizzata è proprio quella di essere sempre in diretta o quasi, c’è la paranoia di mostrare subito e soprattutto prima degli altri, quasi il fattore tempo fosse diventato l’unico indice di qualità del messaggio. Ma quando c’è stato un omicidio, capita di assistere a telegiornali - ma anche a programmi-contenitore pomeridiani - le cui modalità dovrebbero veramente cominciare a far discutere.

In genere ancora non si sa bene come siano andate le cose che già vengono tracciati scenari ed ipotesi su vittime e colpevoli, con le prime che purtroppo non sono più in vita ed i secondi che in genere sono o ignoti o già nelle mani delle forze dell’ordine. È difficile anche stare ai fatti, spesso non ci sono testimoni diretti e gli inquirenti tengono la bocca cucita per proteggere l’indagine… beh, qualche cosa scappa sempre ma mai che si sappia chi contravviene alla riservatezza che è comunque imposta.

Al giornalista televisivo avido di fotogrammi da sparare in faccia al pubblico non resta che inventare, o meglio creare, produrre comunque qualcosa a prescindere dal fatto che sia informazione o meno. Si apre la caccia ai parenti della vittima e, ben lontani dalla delicatezza e dal rispetto che si dovrebbe a persone così duramente colpite dalla perdita di un proprio caro, si procede alla produzione di servizi video che passano repentinamente dal cinismo alla stupidità.

"Come si sente?" "Quando lo ha visto l’ultima volta (riferito alla vittima)?" "Che cosa le ha detto?"…queste sono alcune delle domande rivolte spesso ai familiari di una persona assassinata il giorno prima.

A volte, perché non tutti cedono a questo obbligo a presenziare non si sa per chi e per cosa, i familiari non sono disponibili a dare in pasto alle telecamere il loro dolore, allora si passa più alla larga e, come ho visto di recente, si arriva ad intervistare l’amico del fratello della ragazza uccisa: qualcosa bisognerà pure mandare in onda. A quest’ultimo si chiede, visto che al cronista è andata buca con i familiari più diretti: "Ma che tipo di ragazza era?". E l’amico del fratello: "Bella, una bella ragazza con dei bellissimi capelli". In realtà continuano a far vedere la foto ed i capelli ormai li conoscono tutti, l’intervista non ha per niente pathos, occorre calcare la mano: "Hai incontrato il fratello? Cosa ti ha detto?" E l’amico: "Me l’hanno uccisa. Anzi, ha detto me l’ha uccisa".

Ma il massimo viene raggiunto quando ad una parente viene chiesto se hanno intenzione di perdonare i familiari dell’omicida… il giorno dopo il fatto.

Possibile che di una storia così assurda e grave si debba fare un uso così commerciale, che non ci sia alcun rispetto per queste persone oltre che per la vittima stessa? Tecnicamente vengono usate le stesse modalità dell’intervista gossip e non c’è un minimo di attenzione ai sentimenti di questa gente. Il loro stato d’animo viene sparato sullo schermo con primi piani e sottofondi musicali struggenti, quasi che quel dolore avesse bisogno di una colonna sonora, come nelle fiction. Invece quella è gente vera che soffre veramente e, a quello che è successo, prima o poi si dovrà tentare di dare una soluzione, non ci si potrà accontentare della lacrimuccia in poltrona e… avanti col prossimo filmato.

 

Quelli che si spacciano per i difensori delle vittime

 

Sì, perché di solito questi che si preoccupano dell’eventuale perdono a poche ore dal delitto, solo per ricordare a tutti che perdonare è praticamente impossibile, si spacciano per i difensori delle vittime contro uno stato che non le tutela ed una giustizia che è sempre dalla parte dei colpevoli.

In realtà è solo gente che fa i propri affari in maniera non tanto pulita, si presentano ai processi e si avventano di nuovo sui parenti per chiedere quale è la pena che l’imputato dovrebbe avere, pur sapendo che neanche la pena capitale potrà mai risarcirli per quello che hanno perso. Dimenticano che la pena non può essere proporzionale al bisogno di vendetta delle persone danneggiate, perché sennò avremmo delle differenze di trattamento tra chi uccide uno stimato cittadino e chi uccide un barbone senza nessuno al mondo.

Poi una volta spenti i riflettori, ad omicida condannato, spariscono lasciando il disastro provocato dal crimine peggio di prima. I danneggiati, illusi da tanta visibilità, restano con lo stesso dolore e lo stesso rancore, dal quale, a questo punto, troveranno sollievo ancora più difficilmente. I colpevoli, invece, si troveranno con una condanna spesso aggravata perché condizionata dai clamori mediatici creati solo per guadagnare ascolti.

Si tratta di reati che lasciano aperti grossi conflitti, che se non risolti, o almeno attenuati, danneggiano ulteriormente tanto i parenti delle vittime quanto i colpevoli. Non a caso c’è chi prova ad ipotizzare momenti di mediazione penale, ossia di spazi dove il dolore dei parenti, vittime anche loro, possa essere messo davanti ai colpevoli. Ma alla mediazione pochi si interessano perché non fa audience, e poi non è una cosa semplice né sempre realizzabile, comporta un’attenzione reale ai soggetti coinvolti con un’attenta presa in carico dei sentimenti di rancore ed odio da una parte, e dall’altra, spesso, di rimorso e di disagio per aver commesso qualcosa di irreparabile. Si potrebbe obiettare che questo non è il compito di chi fa informazione, ed in parte è vero, ma resta comunque ancora da capire quale senso abbiano questi impietosi assalti al dolore e la sua spettacolarizzazione. A me resta la sensazione che ormai non si sappia più come riempire i palinsesti, che il senso etico e la preparazione professionale dei giornalisti siano sempre più subordinati ad esigenze di cassa, il tutto a discapito di un’informazione che produca vera condanna sociale di questi eventi, ma anche riflessione. Quest’ultima non avviene mai con la TV dei sentimenti in diretta, chiusi in se stessi, ma con la scrupolosa conoscenza dei fatti e della dimensione umana di tutti i protagonisti della vicenda, e soprattutto con il rispetto assoluto di queste persone il cui dolore e la cui umanità non possono diventare merce da manipolare.

 

 

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