L'opinione dei detenuti

 

Occorre attenzione vera per chi ha subito un reato

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 26 maggio 2008

 

Tanta speranza dal messaggio del Capo dello Stato

 

Anche il Presidente della Repubblica, probabilmente preoccupato dal clima di odio che sembra dominare nel nostro Paese, ha capito l’importanza della Giornata di Studi "Sto imparando a non odiare", che si è svolta il 23 maggio nella Casa di reclusione di Padova, perché ha mandato un messaggio con queste parole: "Il tema del rapporto tra gli autori e le vittime del reato accoglie in sé una pluralità di implicazioni etiche e giuridiche che riflettono l’esigenza del coniugare la certezza della pena, la funzione rieducativa della detenzione, il rispetto e la tutela della parte offesa. A tali questioni la giornata di studi saprà offrire un contributo di riflessione e di aperto confronto tra istanze diverse che necessitano di segnali forti di responsabilità e speranza. Nell’augurare il pieno successo dell’incontro, il Capo dello Stato invia a tutti gli intervenuti un cordiale saluto".

 

Occorre attenzione vera per chi ha subito un reato

 

Tutto era cominciato proprio da una lettera al Capo dello Stato inviata dalla redazione di "Ristretti Orizzonti", che diceva: Gentile Presidente, siamo un gruppo di persone detenute, che lavora nella redazione di "Ristretti Orizzonti", una rivista realizzata da detenuti e volontari nella Casa di reclusione di Padova.

La nostra redazione ogni anno organizza una Giornata di studi che porta all’interno del carcere, a confrontarsi con i detenuti, centinaia di persone, operatori sociali, magistrati, avvocati, studenti, insegnanti. Quest’anno abbiamo scelto di dedicare la Giornata di studi al complesso rapporto tra autori e vittime di reato.

Non solo nelle nostre storie di vita, ma anche nel lavoro della redazione sempre più spesso ci troviamo ad affrontare la questione della responsabilità di fronte al reato con grande difficoltà e sofferenza. Poi qualche mese fa abbiamo incontrato Olga D’Antona, che ci ha parlato di come cerca di convivere con il dolore per la perdita del marito, senza coltivare un sentimento di odio. Per non odiare ci vuole dignità e grande forza morale, ma sappiamo che non tutti ci riescono. Tanti di noi sono finiti qui dentro perché, logorati dall’odio, hanno deciso di "risolvere" i propri problemi facendo del male ad altre persone oppure facendosi giustizia da sé, quindi abbiamo bisogno di ragionare su come il sentimento dell’odio troppe volte si trasformi in un moltiplicatore di violenza. Per questa ragione crediamo importante che altre persone come Olga D’Antona portino la loro testimonianza per insegnare a tutti che è possibile imparare a non odiare e che è fondamentale imparare ad ascoltare le vittime.

Sappiamo che il tema del rapporto tra autori e vittime di reato è delicato e che non basta ragionare sull’odio, ma bisogna parlare della violenza, del reato, del concetto di responsabilità, e avere il coraggio di affrontare anche questioni spinose: se, per esempio, una persona che si è macchiata di reati di sangue possa o no apparire in televisione o avere un ruolo pubblico di rilievo. Il lavoro in redazione ci ha insegnato ad accettare il confronto, in tutta la sua complessità e durezza, perché conosciamo l’importanza della capacità di imparare a dialogare, invece che seguire i propri istinti e chiudersi nella propria rabbia".

 

Da quella lettera è partita poi l’iniziativa, che ha portato nel carcere di Padova Olga D’Antona, moglie del giurista ucciso dalle Brigate Rosse nel 1999, Manlio Milani, che ha perso la moglie nella strage di Piazza della Loggia a Brescia, Andrea Casalegno, il cui padre, il giornalista Carlo Casalegno, è stato ucciso dai terroristi nel 1977, Silvia Giralucci, anche lei rimasta orfana per l’omicidio del padre ad opera delle Brigate Rosse, Giuseppe Soffiantini, l’industriale vittima per mesi di un feroce sequestro. Quelli che seguono sono gli interventi di due detenuti, che hanno spiegato il senso e l’importanza dell’iniziativa:

 

Un Convegno per ascoltare la voce delle vittime

 

Bisogna pensare che la riflessione sul proprio reato non è per nulla scontata in carcere. Per quanto riguarda la storia della redazione di Ristretti Orizzonti, indipendentemente dai singoli percorsi di ognuno, si potrebbe dire che tutto è iniziato alcuni anni fa, con una mail arrivata al nostro sito, che diceva: "Egregio signor ladro, sono già stato derubato quattro volte e per capire meglio vorrei un po’ parlare con te…". Con quel pluriderubato, Alberto, è iniziata una lunga corrispondenza, e quello è forse stato il primo contatto vero che abbiamo avuto con una vittima di reato.

Nel frattempo il progetto carcere-scuola prendeva sempre più piede e i continui incontri con i ragazzi, che ci mettono sempre di fronte alle nostre responsabilità, ci hanno obbligato a confrontarci con loro, parlando delle nostre esperienze personali. E proprio all’interno di questi incontri ci sono stati due avvenimenti che hanno rappresentato due tappe fondamentali nel percorso che ci ha portato ad oggi.

Per prima c’è stata la storia di una ragazza che ci ha raccontato come, da quando le erano entrati i ladri in casa, non si fosse più sentita tranquilla in quel posto che prima riteneva sicuro e come, in un certo modo, la qualità della sua vita fosse molto peggiorata, poi la storia di una professoressa, Elena, che ci ha raccontato cosa avesse voluto dire per lei trovarsi ostaggio in una rapina in banca.

Queste testimonianze ci hanno costretti a riflettere su come tutti i reati lasciano una loro impronta, molto spesso indelebile, nella vita delle vittime. Ci siamo quindi trovati a discutere di vittime di furto, di rapina, di reati di sangue, arrivando a capire che tutti, in un modo o nell’altro, avevamo provocato non solo un danno, quanto piuttosto dolore e distruzione nella vita di qualcuno.

Infine, lo snodo cruciale è stato l’incontro con Olga D’Antona. Lei, infatti, con sicura difficoltà e con grande coraggio, ha accettato di confrontarsi con noi in carcere, portandoci tutta la sua sofferenza personale, e lasciando in ognuno di noi un nuovo modo di vedere le cose. A questo proposito mi sento in dovere di chiederle scusa per la fatica e per il dolore al quale l’abbiamo sottoposta, chiedendole di partecipare alle nostre iniziative, ma dopo averla ascoltata non potevamo fare a meno di lei, perché quell’incontro è stato il momento fondamentale, da quel pomeriggio del 4 gennaio 2007 è cambiato qualcosa.

Ecco, è proprio attraverso queste tappe che abbiamo ritenuto che fosse arrivato il momento di organizzare un convegno sulle vittime, che, col procedere dei ragionamenti, è diventato un convegno con le vittime, fino ad essere, alla fine, il convegno di ascolto delle vittime.

 

Marino Occhipinti

 

La strada di cambiamento percorsa da tanti di noi

 

Quello che più mi sta a cuore è spiegare cosa vorremmo che venisse fuori alla fine di questo incontro, ma prima di tutto voglio dire che è motivo di orgoglio vedere la lunga strada di cambiamento che è stata percorsa da me e tanti come me. E pensare che fino a qualche anno fa non mi ero mai fermato a riflettere su come poteva e come doveva essere il rapporto con le vittime, perché è un argomento di cui qui dentro ci si abitua a non parlare mai!

Questa lunga esperienza di carcere mi ha insegnato che quel muro alto che ci circonda, oltre a impedire di fuggire da qui, ci separa anche da tutto il resto, compreso il dolore di chi è fuori, e finisce per impedire a chi sta dentro di vedere la sofferenza che ha causato. E più alte sono le mura, più difficile è, per chi sta in galera, capire chi è la vera vittima. Noi abbiamo iniziato a conoscere la sofferenza delle vittime quando qualche volontario è entrato in questo carcere, ci ha tirati fuori dalle celle e ci ha fatti ragionare, e poi ha portato dentro anche le persone che potevano raccontarci cosa significhi essere vittima. Dunque la mia speranza è che questo incontro ci allontani per qualche ora dai pensieri della galera e ci faccia conoscere la vostra sofferenza, guardando i vostri volti e ascoltando le storie delle vostre vite distrutte per causa nostra.

Credo sia la prima volta che dal carcere nasca una necessità così forte di dialogo. Noi siamo solo un gruppo di detenuti e ci riteniamo fortunati di avere intorno un volontariato così capace che ci ha accompagnati a dialogare con voi. Ma non vogliamo che questa Giornata rimanga solo un caso eccezionale, e ci auguriamo fortemente che, alla fine di questo incontro, i partecipanti si impegnino a costruire qualcosa che dia continuità al lavoro iniziato. Oggi siamo tutti barricati dietro le nostre sofferenze, mentre vorremmo che voi e noi potessimo smettere di essere preda della paura e del desiderio di vendetta. Il dialogo non deve finire qui. Dobbiamo continuare a parlare insieme.

Ovviamente, nelle aule dei tribunali parla la legge. Ed è giusto così. Ma dopo che la giustizia ha punito il colpevole, è fondamentale dialogare e cercare di far parlare la ragione e l’intelligenza. Altri modi non ci sono per educare e per insegnare che uccidere, sequestrare, rapinare e rubare è un male che ha conseguenze che non si esauriscono con gli anni di carcere scontati, e sappiamo che né la pena di morte, né le religioni hanno mai dissuaso dal farlo. Mi rendo conto che è difficile, ma soltanto se ci parliamo possiamo imparare a guardare la sofferenza che abbiamo prodotto e ad assumerci davvero le nostre responsabilità.

 

Elton Kalica

 

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