L'opinione dei detenuti

 

Ragioniamo su come prevenire davvero i reati

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 25 maggio 2009

 

Prevenire è meglio che imprigionare: sembra così facile dirlo, e invece nella realtà, spinti da una informazione spesso aggressiva e superficiale, si ricorre sempre più di frequente a punizioni più dure e a tanto carcere, invece di ragionare su come prevenire davvero i reati. Proprio la voglia di ragionare su questi temi ha dato vita, venerdì 22 maggio in carcere, a una straordinaria giornata di studi che ha portato a confrontarsi, con chi in carcere ci vive e ci lavora, cinquecento persone, fra cui moltissimi insegnanti e studenti, coinvolti da anni in un progetto di conoscenza tra scuole e carcere. Raccontiamo tre testimonianze, di un detenuto, di una ex detenuta e di Paola Reggiani, sorella minore di Giovanna, la donna aggredita a Roma da un cittadino romeno il 30 ottobre 2007 e morta due giorni dopo, dalle quali emerge il bisogno che l’informazione sia davvero orientata alla ricerca del senso profondo, vero e preciso di ogni storia, nel rispetto della dignità delle persone e dell’esigenza di cogliere la complessità, l’unicità di ogni vicenda umana, invece di appiattirla in una banale semplificazione della realtà.

 

È difficile fare i conti con i propri reati

 

Cinque anni fa, quando abbiamo cominciato quest’avventura del progetto con le scuole, ero assolutamente convinto che agli studenti dovevamo limitarci a raccontare il carcere, evitando accuratamente di parlare dei nostri reati. Ora, a ragion veduta, ammetto che questa mia convinzione era dettata dal timore dell’idea che gli studenti si sarebbero fatti di me: ebbene sì, ero spaventato dalla reazione e dal conseguente giudizio dei ragazzi davanti alle parole "omicidio ed ergastolo", e temevo che rivelando la ragione della mia detenzione non avrebbero più visto in me una persona ma solo i reati che ho commesso.

Poi però ho capito che il silenzio sui nostri reati, oltre ad una mancanza di fiducia e di apertura verso chi aveva accettato di venirci ad ascoltare, lasciava il progetto quasi incompiuto, come un bel puzzle senza un tassello fondamentale. Ho quindi preso coraggio e man mano che gli incontri proseguivano sono finalmente riuscito a dire – seppur con molto disagio – che sono condannato alla pena più severa, l’ergastolo, per aver commesso il reato peggiore che esista, l’omicidio.

E, almeno per me è così, è estremamente difficile fare i conti con i miei reati, e cioè ammettere di cosa sono responsabile, davanti a persone che con la galera e con la mia quotidianità non hanno nulla a che fare – in questo caso intere scolaresche che ti schiacciano alle responsabilità e che in quanto a domande non fanno tanti complimenti (perché sei in carcere, per quale reato, perché l’hai commesso, non potevi pensarci prima?).

Proprio questo compito, però, mi ha aiutato a prendere una sempre maggior consapevolezza di ciò che ho fatto, tenendo anche conto che nelle sezioni del carcere di tutto si parla meno che delle questioni personali e del perché si è detenuti.

Il progetto con le scuole mi ha poi obbligato ad affrontare anche altre questioni legate al reato, infatti agli studenti, ai loro insegnanti e ai loro genitori, perché a volte entrano anche i genitori, non racconto i "dettagli" della mia storia – che potrebbero solamente soddisfare la morbosità e null’altro – ma piuttosto cosa le mie scelte hanno comportato: la distruzione e la devastazione nelle persone a me vicine, nei miei cari, in altre persone e in altre famiglie…

Racconto cosa vuol dire aver seriamente compromesso l’esistenza delle mie figlie, spiego come ci si sente ad aver miseramente fallito come padre e nella vita, e quanto difficile sia convivere col peso della mia coscienza, e a forza di ripetermelo sono arrivato, pian piano, a provare davvero orrore per quel che ho fatto.

 

Marino Occhipinti

 

Il coraggio di mettersi a nudo di fronte agli studenti

 

"Cara Paola, siamo ormai abituati a sentir parlare di ragazzi o uomini (italiani o stranieri) che finiscono in carcere, ma molto raramente di donne.

Sentire la testimonianza di qualcuno che è finito in carcere per spaccio forse non è così avvincente come sentire la storia di un pazzo omicida, ma forse è la cosa migliore che carcerati o ex carcerati, come voi, possano fare nei nostri confronti, perché a questa età ben pochi di noi uccidono, ma molti di noi si mettono sulla cattiva strada del fumo e della droga.

Inoltre è stato un gesto molto apprezzabile e d’esempio, come tu ti sia completamente messa a nudo di fronte a noi... Grazie! Io penso che non sarei stata in grado di farlo, come forse non sarei neanche riuscita ad affrontare il carcere; e l’ultima cosa che avrei fatto sarebbe stata quella di parlare della mia esperienza! Una volta uscita da lì avrei solo cercato di dimenticare…"

Questo è il tono di una bella lettera che una ragazza di 3a media, dopo un incontro con i detenuti nell’ambito del progetto "Il carcere entra a scuola. Le scuole entrano in carcere", mi ha scritto. E l’ha scritta perché ha "sentito" la nostra sincerità, il nostro sforzo nel parlare di un’esperienza, quella del carcere, così devastante.

La scelta di continuare a "vivere" il carcere anche dopo essermene "liberata", perché ho finito di scontare la mia pena, ha un motivo preciso: sono stata arrestata quando mia figlia aveva l’età di questa ragazza e mi sono persa una parte importante della sua vita. Quella con le scuole, oltre a essere un’esperienza di crescita, di arricchimento, di "esame di coscienza" per me, mi permette di capire cosa pensano gli adolescenti, quali sono i loro dubbi, i loro pregiudizi, sui reati, le pene, il mondo carcerario, i detenuti, la giustizia. Questo mi ha aiutato a comprendere, almeno in parte, cosa può essere passato per la testa di mia figlia, ora ventitreenne, che ha visto finire sua madre in carcere. Ed è quasi per sdebitarmi, quasi per dare a qualcuno quello che non ho potuto dare a lei, che racconto la mia storia ai ragazzi, perché un’esperienza negativa, messa a disposizione degli altri, può assumere un senso nuovo.

Tutto ciò ha avuto una conseguenza insperata: mia figlia ha capito. Ha capito il mio sforzo per "espiare", ha capito che sua madre forse non è poi così "malvagia", ha capito che quello che le ho portato via non potrà più riaverlo, ma che forse qualcun altro potrà ricevere un piccolo aiuto proprio attraverso quello che invece a lei ha tolto tanto. Certo, me lo chiedo tutti i giorni: è giusto che mi perdoni? È giusto che mi "rimetta" il debito che avrò sempre nei suoi confronti? Se sia giusto o no non lo so. Quello che so è che lei si sta riavvicinando a me, con molta prudenza come è nel suo carattere, ma lo sta facendo e questo è ciò che mi riempie di felicità più di qualsiasi altra cosa.

 

Paola Marchetti

 

Giornalisti, rispettate la dignità del dolore

 

La cosa che mi ha ferito di più e su cui ho espresso il mio disagio dopo l’aggressione a mia sorella è come il fatto è stato raccontato dai media. L’informazione non capiva la nostra scelta, il desiderio di poter vivere, come persone e come famiglia, il nostro dolore senza parlare pubblicamente, e il bisogno di poterlo fare senza doversi giustificare. Perché come famiglia non avevamo voglia di parlare, e quindi abbiamo dovuto affrontare la difficoltà di dover in qualche modo arginare l’intervento dei media. Ma la domanda che mi veniva spontanea a proposito dei giornalisti è "Sono tutte persone laureate, non dovrebbero conoscere determinati linguaggi e comprendere che cosa significa un no?". E da lì allora veniva la rabbia di non poter vivere con riservatezza questa cosa, e poi di dover subire l’imprecisione con cui vengono raccontate vicende come questa, perché è importante raccontare con precisione ed evitare la superficialità e la strumentalizzazione, e invece quello di mia sorella è stato un caso strumentalizzato dai media e dalla politica. E poi ancora ricordo la difficoltà di dover difendere i mie genitori da una notizia così grave, visto che il primo annuncio che è stato fatto alla televisione, alle tre del pomeriggio, quando i miei fratelli erano appena arrivati in ospedale e non sapevano assolutamente niente, era che mia sorella era morta. È morta invece due giorni dopo. Questo ferisce, ferisce tanto quanto l’aggressione a mia sorella.

Ma sono state dette altre cose non vere, che mia sorella è stata vittima di uno stupro, e grazie a Dio non è successo. Quello che mi piace sottolineare è l’importanza del rispetto delle persone coinvolte in vicende come queste, il rispetto nel raccontare cose vere e documentate, il rispetto della dignità del dolore. Ricordo anche che quando doveva esserci il funerale di mia sorella, prima ne è stato celebrato un altro ed è stato detto dal sacerdote che si doveva fare una liturgia più breve, perché poi bisognava lasciar spazio all’altro funerale, quello di mia sorella, che era molto importante… Si torna sempre lì, anche in questo caso: la dignità, il rispetto che non ci sono. Perché un’altra cosa che contava in quel momento, e che non c’è stata, è proprio il rispetto di mia sorella. I giornalisti insistevano, ma come potevamo andare lì davanti ai microfoni a dire qualcosa? Noi avevamo il diritto di vivere questa cosa come famiglia, come persone colpite da un dolore, avevamo solo la necessità di curare le nostre ferite.

 

Paola Reggiani

 

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