L'opinione dei detenuti

 

In cella diventa sempre più difficile trovare la forza di vivere

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 22 marzo 2010

 

 

Di suicidi siamo costretti a tornare a parlare, perché tra fine febbraio e inizio marzo due persone si sono tolte la vita nella Casa di reclusione di Padova. È successo in un carcere molto migliore di tanti altri, e questo deve farci riflettere: oggi non esistono più carceri «decenti», perché il sovraffollamento e la mancanza di personale, che possa seguire le persone e segnalare quando stanno male, rendono invivibili anche gli istituti di pena dove prima si poteva contare su una carcerazione dignitosa e rispettosa della legge. La nostra piccola proposta è che almeno si faccia tutto il possibile per rafforzare i legami delle persone detenute con le famiglie, rendendo più libere le telefonate, ampliando i colloqui.

 

Sorrentino è morto perché era isolato

 

Sono uno dei primi detenuti che ha conosciuto Giuseppe Sorrentino, appena è arrivato al carcere di Padova e si è iscritto alla scuola superiore Gramsci. Nei primi tempi ho passato anche qualche ora di socialità con lui e l’altro suo compagno di cella d’allora. E adesso che lui è morto, mi domando se questa tragedia si poteva evitare. Ricordo che Giuseppe è venuto quattro anni fa nella nostra sezione studenti, e frequentava il primo anno, la frequenza non era costante perché doveva seguire i suoi processi, e questo l’ha allontanato sempre più dal mondo scolastico. Poi ha cominciato ad agitarsi nella cella. Faceva cose insolite e assumeva dei comportamenti strani, come urlare, ululare e parlare da solo fissando i pochi oggetti che si trovavano nella sua cella. Ha trascorso così più di due anni, chiudendosi sempre di più. Però, finché era nella nostra sezione, riuscivo sempre ad avvicinarmi allo spioncino della sua porta blindata e scambiare qualche parola con lui. Solo che il suo comportamento ha fatto sì che si creasse sempre più ostilità da parte dei detenuti della sezione. E come se non bastasse questo, qualcuno ha diffuso la voce tipica carceraria che Giuseppe aveva cominciato a collaborare con la giustizia, e cioè che era un «infame». Questo ha fatto sì che anche quelle poche persone che scambiavano con lui qualche parola, compreso me, si sono allontanate, isolandolo totalmente da ogni comunicazione con i detenuti. Comunque, abbiamo provato a dire a più di una persona che si doveva fare qualcosa per quell’uomo, ma ci hanno risposto che quello simulava e qualcun altro ci ha detto di fregarcene, tanto è un «infame». Poi, l’unica soluzione che hanno saputo trovare è stato il trasferimento nella sezione dei «protetti», gli «isolati», e qualche breve ricovero in ospedale. E io che sono stato arrestato per una spiata, e condannato a più di 20 anni di carcere, avrei forse qualche motivo di essere arrabbiato e di mettermi contro una persona simile. Però ormai ho un’età per cui ho visto e passato così tante cose, che non ho più alcuna voglia di giudicare le persone, e tanto meno di odiare qualcuno che, così come me, si trova in questo luogo di sofferenza. Poi, siccome lavoro nel magazzino del carcere e porto a tutti i detenuti la fornitura minima di prodotti per l’igiene, ormai sono abituato a non pensare più a cosa uno ha fatto. Per me sono tutte persone. È anche per questa ragione se, circa dieci giorni fa, mentre facevo il solito giro delle sezioni, quando ho visto Sorrentino nella barberia a farsi tagliare barba e capelli, nonostante fosse sorvegliato da due agenti sono entrato dentro cercando di scambiare due parole, ma lui è rimasto seduto a guardarmi fisso senza rispondermi. Ho visto tristezza e rassegnazione nel profondo dei suoi occhi, e mi è venuto d’istinto di accarezzargli la fronte, come se fosse un fratello minore. L’ho salutato e sono andato via riprendendo il lavoro. Non so se avrei potuto fare o dire altro, ma oggi penso a lui e mi chiedo se potevo fare di più, se potevo un po’ cambiare quel suo mal di vivere. Fatto sta che un essere umano è morto tra l’indifferenza di molti, me compreso. Spero solo che Dio ci perdoni.

 

Milan Grgiç

 

L’indifferenza delle istituzioni

 

L’indifferenza delle istituzioni di fronte ai suicidi sta diventando contagiosa Era la mattina di domenica 7 marzo. Una mattina identica a tante altre che si vivono in carcere. Erano più o meno le nove e mezzo e io mi trovavo a chiacchierare con un altro detenuto all’ingresso del nostro reparto. Eravamo appoggiati al cancello e di fronte, a distanza di due metri, c’è un altro cancello che costituisce l’ingresso ad un altro reparto. All’improvviso, dall’altro reparto si è sentito suonare un campanello d’allarme di quelli che abbiamo tutti nelle celle, e le urla dei detenuti che chiamavano gli agenti. Subito ci siamo resi conto che era successo qualcosa di grave. Così siamo rimasti a guardare il corridoio per capire qualcosa di più. Un agente partì di corsa e si fermò nella cella che indicavano gli altri detenuti, diede un’occhiata veloce dentro, ritornò indietro di corsa e andò al telefono per chiamare rinforzi. Nel giro di pochi istanti arrivarono altri quattro o cinque agenti, e tutti insieme entrarono nella stanza in questione. Uno di loro uscì dalla stanza e corse via per ritornare dopo pochi minuti in compagnia del medico e di alcuni infermieri, che si diressero velocemente nella stanza dove già stavano gli altri agenti. Noi che eravamo rimasti per tutto il tempo vicino al nostro cancello a guardare il via vai del personale, non avevamo ancora esattamente capito cosa era successo. Dopo qualche minuto vedemmo uscire tutti dalla stanza, il medico, gli infermieri e gli agenti, che ripercorrevano il corridoio nella nostra direzione e, mentre ci passavano vicino facendo commenti, sentimmo la parola «morto». Dopo un po’ sono arrivati il direttore del carcere e anche il cappellano. Poi è stato il turno del magistrato che sicuramente era un pubblico ministero, e infine è arrivato un carrello che trasportava una bara grigia, che ha portato via il cadavere del detenuto facendo calare il sipario. Tutto questo è successo in poco meno di due ore, ma più che la rapidità con cui quella persona se ne è andata via dal carcere e da questo mondo, quello che mi ha colpito in quella circostanza è stata l’indifferenza totale di quasi tutti noi davanti a un fatto così tragico. Io sono rimasto a guardare ma dentro di me ho sentito stringersi il cuore perché, a prescindere da chi fosse e cosa avesse fatto, era pur sempre una persona umana e un detenuto come noi. I suicidi ultimamente sono numerosi e forse è dovuto a questo se oggi sembrava quasi che il fatto di suicidarsi in carcere sia diventato una cosa normale. Tanto normale che mentre il carrello con la bara ha portato via il cadavere, stava arrivando in reparto un altro carrello, quello del vitto. Ormai era giunto l’orario del pranzo e sono corsi tutti, piatti in mano, a ricevere la propria porzione di pasta, e a nessuno la tragicità di quanto era appena successo ha tolto l’appetito. E a distanza di appena qualche ora, nessuno parlava più di quel fatto. Ma forse non deve nemmeno sorprendermi tanta indifferenza davanti alla morte da parte di noi detenuti, dato che siamo stati abituati all’indifferenza dai nostri governanti che, davanti ai settantadue suicidi dell’anno scorso, non hanno preso ancora alcun provvedimento per risolvere il problema angosciante del sovraffollamento, e la loro indifferenza forse sta contagiando pure noi.

 

Antonio Floris

 

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