L'opinione dei detenuti

 

Pena più certa e pena più dura, o piuttosto pena più "rapida"?

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 17 novembre 2008

 

Si discute ogni giorno del fatto che nel nostro Paese chi commette reati si fa troppo poca galera, e in condizioni mai abbastanza dure. Noi vorremmo spostare il ragionamento su come dovrebbe essere una pena per risultare almeno non inutile, e lo facciamo con tre testimonianze da questo punto di vista "esemplari": il racconto di una pena quasi infinita, un uomo che ha accumulato più di cinquant’anni di galera vivendo in carceri piene di violenza e inutili; la testimonianza di un ragazzo straniero che ha vissuto tutte e due le esperienze, il carcere dell’ammazzare il tempo e il carcere del tempo utile; infine, la storia di un uomo che la pena ha cominciato a scontarla sedici anni dopo aver commesso il reato, troppo tardi perché possa servire a qualcosa.

 

Il racconto di un uomo che è stato "dentro" quasi 54 anni

 

Complessivamente ho fatto 53 anni e dieci mesi di carcere. Tutta una tirata ho fatto 32 anni 3 mesi e sei giorni, ma prima avevo fatto già 21 anni e 7 mesi, e avendone compiuti 74, potete immaginare che ho trascorso più tempo in carcere che in libertà.

Ho iniziato da minorenne. La prima carcerazione era il cumulo di vari reati. Feci 13 anni e 10 mesi poi evasi. Era il 1971. Furtarelli, oltraggi, resistenze, ero un ragazzo troppo vivace che usava la violenza per scappare ai poliziotti. L’ultimo reato per cui ho espiato 32 anni e 3 mesi era un omicidio compiuto quando evasi nel ’75. La persona che uccisi era un detenuto, evaso anche lui da un altro carcere. C’è stata una specie di rissa, lui è morto e l’hanno sepolto da morto. A me mi seppellirono da vivo, ma sono riuscito ad uscirne. Mi diedero l’ergastolo e 15 anni, poi in appello 30 anni. E perché ne ho scontati 32? Perché in carcere ho avuto altri processi, per risse e violenze fatte lì dentro.

In questi anni il carcere è cambiato moltissimo. Nel carcere di una volta il detenuto veniva chiuso in una cella per 23 ore al giorno e aveva un’ora d’aria al mattino. Ricordo che a Cagliari in una cella di 3,80 m x 1,80 m stavamo in tre con uno che dormiva col materasso per terra. Materasso che dovevamo arrotolare durante il giorno, usandolo come sedile per mangiare. Ricordo la sporcizia e gli insetti: cimici, pidocchi, zanzare (parliamo degli anni 50 sino agli anni 60). Allora le lenzuola le cambiavano una volta al mese, quando ti toccava il turno di fare la doccia, perché allora la doccia si faceva una volta al mese. Noi che eravamo i più giovani eravamo anche i più rivoltosi. Venivamo rinchiusi in celle di isolamento. E continuavamo a fare le rivolte e prendevamo altre condanne.

Del resto il carcere duro spinge e provoca rivolte. Il trattamento inumano, la sporcizia, la mancanza di qualsiasi "svago", la mancanza di lavoro... 23 ore chiusi in cella. Io ero un ribelle, non lo nego, e quando mi facevano delle prepotenze reagivo, e quando reagivo mi prendevano e mi legavano al letto di contenzione (che noi chiamavamo "la balilla", vecchia automobile di epoca fascista). Finché, legato, mi coprivano la faccia in modo che non potessi vedere chi avevo di fronte e mi pestavano. Io riconoscevo dalla voce chi mi picchiava e quando mi slegavano picchiavo quello che mi aveva picchiato e subito mi rilegavano e mi ripestavano... e via così all’infinito.

Se al detenuto non vengono date speranze, se lo si chiude senza prospettive, reagisce.

Non bisogna mai esasperare l’uomo che è oppresso. Se lo esasperi esplode. Se sei trattato da bestia, reagisci da bestia.

 

Mario T.

 

Quando un detenuto può migliorare, quando invece può solo peggiorare

 

Ho iniziato la mia carcerazione in Francia, quando avevo diciannove anni. Essendo così giovane mi hanno offerto un lavoro, inoltre frequentavo la scuola per imparare la lingua francese, e in questo modo mi era più facile la carcerazione. Cosi con il lavoro guadagnavo abbastanza per essere autosufficiente, questo significa che miglioravo in tanti punti la mia vita, ma l’esperienza francese si è interrotta dopo un anno per il fatto che sono stato estradato in Italia.

Quando sono arrivato in Italia, sono stato in carceri circondariali, dove la situazione era molto peggiore, nessuno mi ha detto come funzionava la galera e a chi dovevo rivolgermi per inserirmi in qualsiasi attività. In quei giorni che passavano senza fare nulla, sentivo che stavo cambiando dentro di me, non avevo più voglia di parlare con nessuno, perché già sapevo quello che mi dicevano. Così mi sono chiuso in me stesso e ho cominciato a pensare solo a che condanna avrei preso.

Stavo sempre in ansia perché non sapevo niente di nessuno, e tanto meno dove sarei finito. Dopo un paio di mesi ho visto che non c’era nulla da fare, cosi ho ripreso a fare sport, perché era l’unica cosa che riusciva a diminuire la tensione che sentivo crescere in me, e poi scrivevo lettere e leggevo, così mi passavano un po’ le giornate, ma peggioravo perché mi chiudevo ancora di più dentro di me. In queste condizioni mi accorgevo che mi stavo incattivendo e isolando, e non pensavo più al mio futuro ma solo ad ammazzare il tempo. Stavo sempre lontano da tutti perché avevo paura di fare del male a qualcuno, con tutta la rabbia che avevo dentro; e così passavo mesi senza la minima possibilità di partecipare a una attività, fin quando sono diventato definitivo e mi hanno trasferito nel carcere di Padova, dove ho trovato un’aria diversa.

Qui sentivo che potevo scontare la mia pena con meno sofferenza, perché tutte le persone che vedevo intorno a me erano diverse, e cominciavo a capire che speravano in qualcosa, e cioè nella opportunità di un nuovo percorso, un lavoro fisso, un inserimento nelle scuole. Queste sono le possibilità che fanno cambiare un detenuto da negativo a positivo.

Così mi sono ripreso e ho iniziato a frequentare le scuole, la redazione, ora sto anche lavorando, sono arrivato al punto che sento di dire che dentro di me la mia vita è migliorata, e non sono più così disperato e pieno di rabbia e rancore, ma sono pieno di speranza per un domani, in cui anch’io potrò riavere una vita vera.

Se un detenuto non ha nessuno che gli dia una speranza, da solo non può farcela, e finisce per chiudersi in se stesso, la solitudine cambia le persone in peggio, e questo non è un buon risultato per la sicurezza di tutti i cittadini.

 

Serghei Vitali

 

1991 inizio del processo… ordine di carcerazione dicembre 2007

 

1991 inizio del processo… febbraio 1998: sentenza della Corte d’appello e della Cassazione… condanna a sette anni per ricettazione… ordine di carcerazione dicembre 2007. Totale 16 anni e sette mesi per arrivare in fondo a un processo…

Questa non è una storia per sentito dire… questa è la storia, il percorso processuale di chi sta scrivendo… questi sono i tempi biblici a cui sono dovuto sottostare prima di potermi rilassare. Si avete letto bene, rilassare! Non dover più pensare a quando sarebbe finita, a come sarebbe finita. Sedici anni rappresentano un lasso di tempo assurdo, una quantità tale che fa scadere in un nonsenso il concetto dell’essere colpevole o innocente.

Sono in galera da un anno, quando invece, se la Giustizia di questo Paese avesse tempistiche normali o avesse rispettato il termine di 6 anni (che comunque pochi non sono!) ritenuto per legge congruo per concludere un processo, dovrei già aver scontato la pena inflittami ed essere fuori da almeno 4 anni. In realtà io sono stato condannato a 23 anni! 16 di attesa e 7 di espiazione! Un sistema che "si permette" di procrastinare senza colpo ferire fino a questo punto il momento dell’assoluzione o della condanna non ha insito alcun senso reale di giustizia.

Quando tutto ha avuto inizio ero sposato, con una figlia di poco più di 2 anni. Ora mia figlia ne ha 20 e mio figlio 16. Mia moglie mi ha seguito e insieme a me ha pagato in termini di sistema nervoso rovinato questa aberrazione, e i miei figli neppure riescono a comprendere come tutto questo sia possibile, avendomi sempre visto vivere una vita normale, nel rispetto delle regole. Ora si chiedono quanta superficialità e mancanza di senso di giustizia ci sia in questo sistema! Cosa direste se presentandovi a un colloquio di lavoro vi venisse detto: ok si può fare, non prenda impegni che le faremo sapere, e poi passassero 16 anni? Fareste lavori saltuari in attesa della risposta o iniziereste a pensare che non ha senso? Cosa direste se, dopo aver dato un esame o fatta un’analisi, vi facessero attendere 16 anni prima di darvi il responso? Bene, questo è quello che accade quasi "regolarmente" nel sistema italiano. Una perdita a volte totale del senso della pena, dell’idea di giusto processo, che è quello che avrei voluto, desiderato anch’io (a dir la verità dovrebbe essere un diritto imprescindibile), come tutti quelli nel mio stato e tutti quelli che attendono una risposta che non arrivi nel mezzo di un’altra vita, perche così ci si rimette tutti quanti, ci rimettono le regole, gli innocenti, i colpevoli, le famiglie, le istituzioni, ci rimette la società! Il sistema giudiziario italiano è riuscito a creare ciò che i fisici reputano impossibile, una macchina del tempo che porta tutto indietro.

 

M. L.

 

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