L'opinione dei detenuti

 

Un progetto per sfondare il muro di indifferenza

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 15 giugno 2009

 

Vorremmo tornare sul progetto di prevenzione dei comportamenti a rischio, che vede coinvolti il carcere e molte scuole cittadine, perché è davvero un progetto "corale" a cui partecipano con passione detenuti, personale del carcere, studenti, genitori, insegnanti. Questa volta diamo la parola agli insegnanti, perché da come loro hanno vissuto questa esperienza si capisce quanto coinvolgente è stato questo progetto, e quanto è riuscito a "sfondare" quel muro di indifferenza che spesso pesa sulle giovani generazioni.

 

Porte chiuse e finestre da aprire

 

Organizzare un percorso didattico sul carcere, portare i ragazzi dentro un carcere è una bella sfida. I ragazzi sono lo specchio del loro tempo, manipolabili come e più degli adulti. Dunque va fatto con loro un lavoro controcorrente, è una navigazione rischiosa, piena di scogli affioranti. Potrebbero pensare, per prima cosa, che sia una proposta bizzarra: in quale modo mai la vita colorata, attraente e appagante di un adolescente di oggi potrebbe avere a che fare con quella sorta di buco nero che i ragazzi immaginano sia un carcere?

Rompere questa scorza di indifferenza, questo senso di estraneità è il primo problema da risolvere.

E poi arriva il secondo: se qualcuno in quel buco nero ci è finito, vuol dire che se l’è cercata… È la rassicurante logica dell’occhio per occhio, che ci libera da ogni dubbio e da ogni rischio. Il male c’é, ma è lontanissimo da noi, non ci riguarda, è chiuso in quel buco nero, a noi non succederà niente di simile: chi lo compie, quel male, è cattivo e merita la punizione. Punto.

Ed ecco il terzo scoglio: non è che preoccuparsi di chi è rinchiuso nasconde magari lo scopo di giustificarlo? Affiora il sospetto del buonismo, sospetto che diffida delle buone intenzioni, quasi volessero cancellare le colpe e aprire le porte ai cattivi, per farli uscire…

Questi diffusi stati d’animo nei ragazzi si rivelano essere una forte auto-difesa: si dà una soluzione semplice ad un problema complesso, come se bastasse cacciare via i cattivi per far scomparire il male. E se ci pensiamo bene, potremmo scoprire che questa logica della reclusione è anche tipica della società adulta: semplificante, liquidatoria, tende a chiudere le porte, annulla e dimentica.

Allora portare i ragazzi in carcere è cominciare ad aprire delle finestre mentali. Una finestra sui cattivi, intanto: leggendo i testi scritti dai miei ragazzi/e, dopo la visita in carcere, ho visto che ciò che li aveva maggiormente colpiti è stato scoprire la normalità di quegli uomini, ascoltare storie di vita quotidiana, seppure di una quotidianità drammaticamente inceppata. Non a caso la domanda ricorrente è sempre la stessa: che cosa li ha spinti a rompere la loro normalità, che cosa li ha fatti deragliare, visto che non si tratta di mostri, ma di uomini, solo uomini.

E poi un’altra finestra si apre su quell’umanità dolente che sono i familiari dei cattivi, altro pianeta dimenticato e messo in un angolo buio: i ragazzi hanno ascoltato storie di affetti interrotti e bruciati.

Ma la finestra più grande che si spalanca è quella sui ragazzi stessi: come in una stanza degli specchi, l’immagine degli uomini reclusi rimbalza sui ragazzi. Da qui la spinta a guardarsi dentro e scoprire che anche la nostra normalissima quotidianità potrebbe incepparsi, perché anche noi siamo portatori di pulsioni trasgressive, di lati oscuri che non ci siamo magari mai preoccupati di sondare, perché non sospettavamo neppure della loro esistenza. A questo punto possiamo dire di aver vinto la sfida: il solo aver compreso a 16 o 17 anni la complessità della nostra psiche è un traguardo. Da qui si può costruire qualcosa di buono.

 

Giuliana De Cecchi, insegnante di Lettere Itas Scalcerle

 

Un progetto per cercare di costruire consapevolezza

 

Vorrei partire da una constatazione: nella società, e quindi anche nelle scuole ovviamente, c’è una diffusa paura e un senso di insicurezza generalizzata, a cui si risponde pensando che le pene siano troppo morbide, che bisogna inasprirle, che le politiche devono essere più dure e repressive.

Questo è il punto di partenza ed è un punto molto forte e molto presente: la logica vendicativa della pena, che trascura completamente l’idea della pena come strumento per prevenire e rieducare.

Allora noi partiamo da questo punto per cercare di costruire consapevolezza. La consapevolezza nei ragazzi è il filo conduttore per ottenere alcuni obiettivi importanti, come quello di prevenire i comportamenti devianti, di conoscere in modo profondo e critico la realtà in cui viviamo, e magari di fare un’azione che abbia una utilità sociale.

Ecco allora che questa esperienza del progetto scuole-carcere alla fine si rivela straordinaria, e potrebbe essere portata a modello per le ore di educazione civica, che dall’anno prossimo saranno curricolari e presenti quindi in tutte le scuole, e si chiameranno di "Cittadinanza e Costituzione".

Su cosa si basa questa consapevolezza che cerchiamo di costruire? Il passaggio essenziale è proprio il confronto diretto con le esperienze di vita. E qui il progetto carcere diventa straordinariamente importante: attraverso questo confronto con detenuti, ma anche con operatori, con chi questa realtà la conosce e la frequenta tutti i giorni, cerchiamo di arrivare ad una consapevolezza molto più ampia, molto più critica di quello che è il problema della legalità, dei comportamenti a rischio, della violazione delle regole.

Dobbiamo costruire una forma di cittadinanza attiva e consapevole e cerchiamo di raggiungere questo obiettivo facendo acquisire ai ragazzi una visione corretta della realtà della devianza, di come si arriva a compiere determinati reati, da cui purtroppo nessuno può sentirsi al riparo, e cerchiamo di dare una visione altrettanto corretta di quello che è il nostro dettato costituzionale, di quell’articolo 27, che dice che lo scopo della pena non è solo quello di punire, ma anche quello di rieducare.

Noi il progetto l’abbiamo chiamato "A scuola di libertà", ed è un progetto che ha due versanti, uno rivolto verso gli studenti e uno rivolto verso i detenuti, cioè noi in un certo senso cerchiamo di insegnare la libertà agli studenti, la via per mantenere la libertà, e la via per riconquistarla a chi non ce l’ha più. Quindi cerchiamo di creare una doppia consapevolezza, da parte degli studenti quella che li può aiutare ad evitare di commettere reati e a mantenere una condotta socialmente accettabile, e per i detenuti una consapevolezza nuova, la cui conquista passa per una assunzione chiara di responsabilità rispetto al proprio passato.

 

Antonio Bincoletto, insegnante di Lettere Liceo Marchesi-Fusinato

 

Le testimonianze dei detenuti trasposte in immagini da studenti-artisti

 

L'Istituto statale d'arte "Pietro Selvatico" partecipa da anni al progetto carcere portando anche la sua specificità: le discipline artistiche. Per quanto riguarda la parte pittorica e grafica, i ragazzi sono stati invitati a "riflettere" visivamente su materiali, immagini, su tutto quanto l'impatto con le testimonianze dei carcerati, prima a scuola e poi in carcere, e gli approfondimenti letterari fatti poi in classe hanno portato a loro conoscenza.

Questo tipo di "conoscenza" ha subito un impulso particolare nei disegni e nei progetti .

Si sono decantate così sensazioni, che un po’ alla volta hanno preso forme precise. Rapporti tra le immagini in grado di stabilire un messaggio, poetico si, ma che incideva e insisteva e metteva a fuoco quel qualcosa che per il ragazzo ora era diventato "esperienza vissuta", una presa di coscienza che, dopo aver permesso di calarti in vicende così drammatiche, come sono quelle di chi sta vivendo l’esperienza di una carcerazione, ti fa capire che le persone possono, attraverso un lungo percorso, riconquistarsi la possibilità di ricominciare a vivere una vita libera, a patto però che lo sguardo su di sé sia autentico.

Così ogni allievo ha colto una parte, a volte solo qualche attimo di queste testimonianze di detenuti,

e attraverso uno sguardo e una lettura "critica" le ha trasposte in immagini. Per far questo si è prelevato a piene mani dal mondo dell'arte contemporanea e dalla stratificazione degli strumenti e delle materie impiegate tipiche del nostro tempo: collage, scritture reinventate, malte, colori velati...

I percorsi individuali sono inseriti all'interno di un book, che funziona come fosse quasi un diario, dove i singoli lavori sono stati ulteriormente elaborati a computer. Ora sarebbe bello che queste immagini venissero rese visibili nelle pubblicazioni dedicate a questo progetto, così che l'importanza sociale dell'iniziativa e lo spessore umano fossero agli occhi degli stessi allievi (che hanno lavorato parecchio) valorizzati e portati  a conoscenza di un pubblico più vasto possibile.

 

Le insegnanti di Discipline artistiche dell’Istituto d’arte P. Selvatico coinvolte nel progetto

Ornella Caldon, Silvia Gentilini, Mariella Pizzo, Federica Tavian

 

È stata Giulia Biscuola, studentessa dell’istituto P. Selvatico, ad aggiudicarsi il premio per la miglior opera grafica realizzata nell’ambito di questo progetto per le medie superiori; per le medie inferiori, il premio è andato a Federica Bigatto, scuola media Falconetto.

Da segnalare anche una straordinaria opera collettiva dei ragazzi del Selvatico, la scultura "Identità frammentate".

 

 

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