L'opinione dei detenuti

 

Gli stranieri nel nostro paese sono "meno uguali"

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti

 

Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 12 ottobre 2009

 

Gli stranieri nel nostro Paese sono "meno uguali" degli altri davanti alla legge La ricerca "La criminalità degli immigrati: dati, interpretazioni e pregiudizi", dice che il "tasso di criminalità" degli immigrati regolari in Italia è solo leggermente più alto di quello degli italiani (tra l’1,23% e l’1,40%, contro lo 0,75%) ma, se si tiene conto della differenza di età, risulta uguale a quello degli italiani. Non c’è quindi alcuna corrispondenza tra l’aumento degli immigrati regolari e l’aumento dei reati in Italia. C’è un clima di sospetto e di paura che ha reso le leggi sempre più dure verso i migranti, oggi la condizione di irregolarità porta direttamente in carcere. E poi al momento del processo gli stranieri sono sempre "meno uguali" degli altri

 

La colpa di chi non ha un permesso

 

Dopo aver visto per anni tante trasmissioni televisive incitare alla paura, stiamo oggi assistendo all’applicazione del nuovo pacchetto sicurezza e alle sue conseguenze pesanti nella vita di tanti migranti. Questa concretizzazione delle teorie più rigide di prevenzione e sicurezza secondo me non ha un fondamento razionale ed è anche razzista.

Il carcere si sta riempiendo di stranieri, alcuni sono condannati per il reato di clandestinità, altri stanno scontando pene per altri reati, ma visto che l’aggravante della clandestinità non permette più nessuna attenuante, c’è il rischio che le sentenze si traducano per molti in parecchi anni di galera. Le misure alternative al carcere, come la semilibertà che ti permette di lavorare fuori durante il giorno, sono concesse solo ai pochi stranieri che grazie a punti di riferimento sono in grado da trovare lavoro, la maggior parte sconta quindi la pena in galera fino all’ultimo giorno, con l’unica prospettiva di ricevere alla fine un foglio di via e cinque giorni di tempo per abbandonare l’Italia.

Ho visto diverse persone uscire di qui determinate a non tornare nel proprio Paese, che non offre nient’altro che miseria, e poi ritornare in cella perché arrestate per non aver abbandonato il territorio. Le condanne sono al massimo di un anno e mezzo, succede spesso che qualcuno ne cumuli più di una e ciononostante non ho ancora visto nessuno stancarsi e decidere di ritornare a casa di propria volontà.

Si preferisce rimanere nella clandestinità lavorando in nero (oppure commettendo reati) per mandare soldi a casa, nella consapevolezza che quei soldi possono costare anche anni di galera, ma ritornare alla povertà del proprio Paese è un’idea che piace a pochi. I vari pacchetti sicurezza servono a incrementare in maniera esponenziale gli arresti dei cosiddetti irregolari e aumentare il numero di detenuti, ma non svuoteranno mai l’Italia dagli immigrati. Le carceri stanno scoppiando, ho sentito dei politici dire che la colpa della disastrata situazione penitenziaria è degli extracomunitari.

Mi domando allora come mai si continuano a riempire le carceri di stranieri che non hanno fatto male a nessuno, e la cui unica colpa è quella di voler vivere in queste terre. Se il problema delle carceri sono i clandestini detenuti bisognerebbe smettere di arrestarli e allora noi, che abbiamo commesso reati gravi e dobbiamo espiare una condanna sensata, potremmo farlo davvero e i politici non sarebbero più costretti a trovare qualcuno da colpevolizzare.

 

Salem Rachid

 

Processo di 3 giorni e 21 anni di galera

 

Da ragazzo ho cercato in tutti i modi di avere un visto di lavoro per venire in Italia in regola, però questa si è rivelata una impresa impossibile, così ho attraversato il mare su un barcone con destinazione Lampedusa: un viaggio pericoloso ma fortunato, visto che siamo arrivati vivi. Dopo due giorni di attese fra questura, per l’identificazione, e ospedale, per le escoriazioni e le ferite ai piedi, mi diedero un foglio con l’ordine di lasciare il paese.

Io invece andai a Palermo in cerca di lavoro, ma era difficile perché non capivo una parola di italiano, e soprattutto non avevo nessun documento, così ho accettato la proposta di un mio connazionale di vendere piccole dosi di droga. Per qualche mese è andato tutto liscio, finché un gruppo di nostri paesani è venuto a minacciarci per vecchi rancori. È così iniziato il disastro di una faida violenta tra di noi, un giorno, durante una lite, hanno tagliato la faccia al mio amico, sfigurandolo definitivamente.

Il desiderio di vendicarci di quella violenza ci ha oscurato la mente, presi dalla rabbia cieca abbiamo perso il controllo e qualcuno ha colpito con il coltello uno di loro su un punto vitale, causandone la morte. Subito dopo il mio ingresso in carcere è venuto da me il pubblico ministero per interrogarmi, il mio avvocato di fiducia mi ha consigliato di non dire niente e, siccome non parlavo la lingua italiana, sono rimasto in silenzio.

Il giorno dopo venne a trovarmi in carcere una signora, appena iniziò a parlarmi cercai di spiegarle che non parlavo l’italiano, lei rimase a guardarmi per un po’ e poi se ne andò. Al mio ritorno in cella chiesi chi era e mi dissero che era la psicologa. Ritornò facendomi ancora domande, ma io non capivo, e così il mio isolamento e il senso di abbandono crescevano sempre di più dentro di me. Dopo un anno arrivò il giorno del processo e andai in tribunale, dove trovai i miei coimputati e un interprete di nazionalità marocchina che facevo fatica a capire, così come lui non capiva me.

Il processo durò tre giorni di dibattimento tra avvocati e pubblico ministero, io mi sentivo come un pacco appoggiato in un angolo, mentre altri litigavano sul mio destino. L’interprete cercava di spiegarmi, ma io capivo meno della metà delle cose che diceva. Al terzo giorno il giudice mi chiese di parlare, ma l’interprete non capiva bene il mio dialetto tunisino, tanto che traduceva solo le parole che capiva e ignorava il resto. Alla fine del processo il traduttore mi disse che ero stato condannato a ventuno anni di reclusione.

Non avevamo capito niente di quello che era stato detto e l’avvocato non aveva fatto nulla per separare le responsabilità, ci sembrava tutto una truffa perché ci avevano condannato tutti e tre per omicidio, mentre noi sapevamo che non volevamo uccidere e che solo uno di noi aveva perso la testa. Durante i mesi che seguirono la condanna, l’avvocato è venuto a trovarmi in carcere diverse volte, promettendo di difenderci meglio al processo di appello. Ma quando arrivò il giorno, appena entrato nell’aula del tribunale con i miei coimputati, ci è venuto incontro dicendoci che il procuratore generale, se patteggiavamo e rinunciavamo alla difesa, ci toglieva cinque anni.

Con il mio italiano migliorato, gli chiesi cosa ne pensasse di questa offerta, e lui ci disse che non ci poteva garantire niente se facevamo un processo normale e che dovevamo prendere i cinque anni di sconto patteggiati. Ma noi non abbiamo capito il senso del patteggiamento e volevamo che si distinguessero le responsabilità, così abbiamo deciso di andare in dibattimento, invece non è successo niente altro che una ripetizione del primo grado e dopo tre giorni ci hanno confermato i ventuno anni. Adesso sono passati undici anni e penso che, se avessi conosciuto meglio la lingua e le leggi dello stato italiano, forse avrei capito cosa si è detto durante il processo, forse avrei potuto raccontare la mia storia come sto facendo con queste righe, e forse la Corte si sarebbe mostrata più clemente con noi.

 

Said Kamel

 

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