Emergenza suicidi. Se la pena diventa condanna a morte di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 settembre 2025 Il carcere è un luogo che dovrebbe togliere la libertà per un certo periodo di tempo, ma non la vita. Eppure, nelle ultime ore il Paese ha contato altri tre nomi sulla lunga lista dei morti in cella: due casi a Rebibbia e una giovane di 26 anni a Sollicciano. Un fine settimana di morte che porta il conteggio dei suicidi tra i detenuti a livelli che non possiamo più considerare numeri “fisiologici”. La 26enne di Sollicciano - originaria della Romania, entrata in carcere circa un anno fa - è stata trovata impiccata all’alba nella sua cella. Era in corso un’ispezione da parte del comitato europeo sulla tortura, e appena il giorno prima nella stessa sezione era scoppiato un incendio che aveva intossicato agenti penitenziari: scene che dicono tutto sul livello di degrado in cui vive chi è rinchiuso. L’avvocato della ragazza ricorda l’ultimo incontro, e il soccorso è stato inutile. A Rebibbia, nei giorni precedenti, si sono tolte la vita una donna di 52 anni con una storia di dipendenze e, poche ore dopo, un altro detenuto nel reparto G12. Anche qui la scena si ripete: isolamento, una pena ancora lunga da scontare, relazioni esterne sfilacciate, scarsa continuità delle cure. Le cronache non descrivono solo la morte: raccontano il silenzio che ci arriva dietro, la desolazione quotidiana. Questi fatti non sono incidenti isolati. Siamo già - secondo i conteggi di associazioni e sindacati - in anni segnati da un numero di suicidi tra i più alti degli ultimi decenni: nel 2024 i suicidi nei penitenziari italiani hanno toccato quota 91; nel 2025 la conta continua ad aumentare, con 61 casi. Le associazioni che monitorano la realtà carceraria parlano di “emergenza” e di “estate nera”. Dietro ogni suicidio c’è una storia riconoscibile: fragilità psichica, dipendenze, solitudine, paura, il peso di processi lunghi, la perdita dei punti di riferimento. Ma non basta elencare i singoli casi: bisogna leggere i dati e i rapporti che li spiegano. Le ricerche scientifiche indicano con chiarezza quali sono i fattori che alzano il rischio di suicidio in carcere: una storia di tentativi precedenti, ideazione suicidaria nel periodo di detenzione, disturbi psichici non adeguatamente curati, dipendenza da sostanze - e situazioni legate alla stessa esperienza carceraria come i mesi immediatamente successivi all’ingresso in istituto o i periodi in regime di isolamento. C’è chi, studiando l’Italia per anni, ha cercato di separare ciò che è causa diretta da ciò che è contesto aggravante. Un’analisi su un periodo di più anni ha evidenziato che tra i fattori di rischio rilevabili ci sono disturbi psichici preesistenti la carcerazione, il rimorso per il delitto commesso, la previsione della condanna e la condanna stessa; quella stessa ricerca, però, non ha trovato una relazione statistica semplice e univoca tra sovraffollamento e suicidio come rischio diretto. Ma la lettura dei rapporti ufficiali e delle associazioni mostra un quadro diverso quando si guarda all’insieme: il sovraffollamento, la carenza di personale, l’assenza di servizi sanitari e di presa in carico psichiatrica trasformano il carcere in un amplificatore di fragilità. In poche parole: il sovraffollamento forse non manda al suicidio da solo, ma rende più probabile che chi è vulnerabile trovi le condizioni per farlo. Le ispezioni e i rapporti delle associazioni che lavorano nelle carceri spiegano bene la catena di responsabilità che porta alla tragedia: posti letto oltre la capienza regolamentare, sezioni dove non sono garantiti nemmeno i tre metri quadri per detenuto, lunghe liste d’attesa per visite e percorsi terapeutici, carenza cronica di psicologi e operatori, turni massacranti per la polizia penitenziaria. Sono elementi che sommano stress, rabbia e disperazione. I numeri parlano chiaro: a fine agosto erano 63.167 le persone detenute, con un tasso di affollamento reale che ha raggiunto il 135,5%. Se il dato scientifico non riconduce tutto al sovraffollamento, il quadro complessivo che emerge da Garante, Antigone e dai dossier specializzati è questo: la qualità della vita carceraria - l’accesso alle cure, la gestione delle persone con disturbi psichici, la possibilità di mantenere legami affettivi, le condizioni materiali delle celle, la presenza di personale adeguato - fa la differenza tra la sopravvivenza e il gesto estremo. I rapporti chiedono misure chiare: più psicologi, percorsi di trattamento per le dipendenze, formazione degli agenti per il riconoscimento precoce del rischio suicidario, e - prima di tutto - politiche che riducano la pressione numerica sulle celle. Sul piano politico il dibattito non è solo tecnico. C’è chi invoca interventi strutturali e immediati - riduzione del sovraffollamento, aumento degli organici, reti territoriali per misure alternative - e c’è chi respinge la correlazione fra sovraffollamento e suicidi come un nesso semplificato. Il deputato Fabrizio Benzoni (Azione) ha parlato senza mezzi termini: “Non possiamo più accettare che la detenzione si trasformi, per molti, in una pena di morte” e ha chiesto al ministro della Giustizia di assumersi responsabilità concrete. Sul fronte opposto, il ministero ha dato risposte che molti ritengono insufficienti, e la discussione politica si è spesso trasformata in schermaglie invece che in piano d’intervento. Su questo punto la voce di Vittorio Manes, ordinario di diritto penale all’Università di Bologna, intervistato su questo giornale da Simona Musco, non lascia margini di ambiguità: “Il principio di umanità delle pene è un valore primordiale per la civiltà del diritto. Afferma che lo Stato non può mai rispondere al crimine replicando alla violenza con la violenza, alla brutalità con la brutalità, al sangue col sangue”. E sottolinea che è da questo canone che le condizioni delle nostre carceri sono oggi profondamente distanti. Così come, sono ormai quasi 30 giorni che Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino è in sciopero dalla fame per scuotere il parlamento affinché metta subito all’ordine del giorno il tema delle misure deflattive. Le raccomandazioni internazionali non lasciano spazio a equivoci: il Consiglio d’Europa ha messo nero su bianco linee precise per garantire la tutela della salute mentale dietro le sbarre, sottolineando che senza servizi specialistici e senza continuità di cura non c’è possibilità di prevenire tragedie. Non sono parole di principio, né slogan ideologici: sono indicazioni che, se applicate, fanno davvero la differenza tra la vita e la morte. Da anni le associazioni che si occupano di carcere ripetono gli stessi punti. All’ingresso di un detenuto occorre prevedere uno screening obbligatorio, e non una tantum: va ripetuto nelle prime ore e nei primi giorni, il momento più critico, quando la disperazione può diventare gesto estremo. Chi arriva con una terapia già in corso deve poterla continuare senza interruzioni, perché una brusca sospensione farmacologica è un detonatore pericoloso. C’è poi la questione, mai risolta, delle risorse umane. Psicologi, psichiatri, operatori sanitari sono troppo pochi rispetto alla popolazione detenuta, e il risultato è che interi istituti vivono senza una reale presa in carico. L’appello è sempre lo stesso: aumentare il personale e stabilire un ponte stabile con i servizi territoriali, così che l’assistenza non si interrompa al momento della scarcerazione, quando la fragilità rischia di esplodere di nuovo. Ma nessuna cura regge se il carcere resta una polveriera di corpi ammassati. Per questo le organizzazioni chiedono misure concrete contro il sovraffollamento: applicare alternative alla detenzione per i reati minori, accelerare i processi, rivedere quei criteri che tengono in cella chi potrebbe scontare la pena in altro modo. 61 suicidi: il grido delle prigioni (e il silenzio di Nordio) di Angela Stella L’Unità, 9 settembre 2025 Sessantuno: è il numero dei detenuti che si sono suicidati dall’inizio dell’anno nelle nostre carceri. Domenica una reclusa di origini rumene di soli 26 anni si è tolta la vita impiccandosi all’alba nella sua cella del carcere fiorentino di Sollicciano; sarebbe stata scarcerata fra circa un anno. Come denunciato da Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, nel carcere fiorentino “sono complessivamente ‘stoccati’ 565 detenuti, di cui 73 donne, in 358 posti disponibili (+158%), peraltro gestiti da meno di 400 agenti, quando ne servirebbero minimo 622 (-36%)”. Sabato un detenuto si era tolto la vita nel carcere di Rebibbia, a Roma. L’uomo, di 50 anni circa, si sarebbe impiccato. Nella notte di giovedì della scorsa settimana era stata una donna a togliersi la vita a Rebibbia femminile. Anche lì il tasso di affollamento è del 150 per cento, con 377 detenute presenti, a fronte di 251 posti effettivamente disponibili, come reso noto dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasia. Numeri che rispettano il trend nazionale: al 31 agosto 2025 i detenuti nelle carceri italiane sono 63.167, seicento in più rispetto a quelli di luglio. Il tasso di overcrowding ha raggiunto il 134 per cento, con circa 16mila persone che non hanno nemmeno un posto letto regolamentare. Quando nel 2013 la Cedu condannò l’Italia con la famosa sentenza pilota Torreggiani il sovraffollamento era al 151 per cento. Di “strage di Stato” ha parlato, invece, Aldo Di Giacomo, del sindacato di polizia penitenziaria Fsa-Cnpp per il quale “la tesi della ‘ineluttabilità’ dei suicidi che il ministro Nordio ha più volte sostenuto è scandalosamente smentita da questa nuova recente scia di sangue. Come è scandalosamente smentito un impegno del ministero fatto di task force e di piani (sulla carta) che non hanno prodotto alcun risultato. Noi non vogliamo sentirci complici nella ‘mattanza’ e con sempre più forza chiediamo interventi urgenti”. Tutto questo accade esattamente nel silenzio della maggioranza parlamentare e del Ministro Nordio. Da via Arenula continuano ad arrivare comunicazioni riguardanti stanziamenti di milioni di euro per la formazione e il reinserimento dei detenuti. Benissimo. Tutto è utile. Tuttavia nessuna parola dal Guardasigilli sulla situazione drammatica delle carceri. Nordio ormai è impegnato full time nella campagna a favore della separazione delle carriere e contro la magistratura. Non pensa ad altro. Al festival del cinema di Venezia, dopo la proiezione delle prime due puntate di ‘Portobello’, la serie tv firmata da Marco Bellocchio che attraversa l’incubo giudiziario di Enzo Tortora, ha sostenuto che “il magistrato che sbaglia deve cambiare mestiere”. Molto probabilmente un modo per alzare la tensione. Mentre dal Forum di Cernobbio ha dichiarato: “Noi faremo di tutto per cercare di convincere i colleghi magistrati che sarebbe un disastro se accettassero l’invito, come già fatto in Parlamento da parte del Partito democratico, di allearsi a loro in una sorta di campagna contro il governo”. Concetto condivisibile; tuttavia insieme ad esso nessun accenno a quello che avviene, quasi ormai quotidianamente, dietro le sbarre. Ossia uomini e donne che si legano il cappio intorno al collo e si uccidono mentre la loro vita è nella responsabilità dello Stato. Forse sarebbe il caso che Nordio tornasse a visitare le carceri. Nel 2022 aveva effettuato due visite, nel 2023 solo una, nel 2024 sette, quest’anno, fino ad ora, due. E il resto della politica? Oggi ripartiranno i lavori nelle commissioni del Senato e solo nei prossimi giorni si capirà se il disegno di legge per deflazionare la popolazione carceraria, che il presidente di Palazzo Madama Ignazio La Russa aveva affidato alla vice presidente, la dem Anna Rossomando, troverà uno sbocco. Al momento i numeri sarebbero a sfavore del provvedimento. Troppe reticenze dalla Lega e da parte del gruppo dei delmastriani di Fratelli d’Italia. A farsi sentire solo l’opposizione, ovviamente. “I numeri dei suicidi hanno già raggiunto livelli record nel 2025, ma dal Governo continuano solo silenzi e promesse non mantenute. Il Governo ha il dovere di affrontare subito e con coraggio una crisi che mette a rischio non solo i detenuti ma l’intero sistema penitenziario” ha detto la deputata Pd e componente della commissione Giustizia Michela Di Biase. Mentre il segretario di +Europa, il deputato Riccardo Magi, chiede che il Parlamento si riunisca di nuovo in via urgente: “Quello dei suicidi nelle carceri è il più grande fallimento dello Stato italiano, un trend che non accenna a diminuire perché non c’è alcun progetto di cambiamento di questa situazione. Per questo avevamo chiesto prima dell’estate che il parlamento tornasse a riunirsi per una seduta straordinaria sul tema carceri: dopo questi ennesimi casi, ribadiamo la nostra richiesta”. Secondo il deputato di Azione, Fabrizio Benzoni, “dall’inizio del governo Meloni, cioè in meno di tre anni, il tasso di affollamento delle carceri italiane è aumentato di oltre 20 punti percentuale, passando da poco più del 110% a oltre il 130%. Non si può affermare che questo sia l’unico fattore che porta ai suicidi, ma è indubbio che condizioni di vita degradate e disumane alimentino disperazione e violenza di formazione e reinserimento, e soprattutto assicurare un supporto psicologico e sanitario costante. Il ministro Nordio deve finalmente assumersi la responsabilità di affrontare con decisione questa emergenza: ogni ulteriore rinvio significa nuove tragedie e nuove sconfitte per lo Stato”. Intanto oggi sarà il 30esimo giorno di sciopero della fame di Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino. Causa sovraffollamento, il detenuto torna a casa di Ilaria Dioguardi vita.it, 9 settembre 2025 Per la prima volta un uomo ristretto nel carcere “Lorusso e Cotugno” di Torino ha ottenuto di scontare la pena ai domiciliari (anche) in ragione delle condizioni di sovraffollamento. L’uomo ha delle patologie, che erano state valutate come compatibili con la vita in carcere: con l’attuale situazione dell’istituto di pena, però, le condizioni sono diventate insopportabili. Maria Brucale, membro dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali italiane: “Questa pronuncia ha il merito di riconoscere l’afflizione aggiuntiva prodotta per i detenuti dallo stato indecoroso delle nostre prigioni” Il Tribunale di sorveglianza di Torino ha stabilito che la condizione di celle stipate oltre ogni limite può diventare un importante elemento per la concessione della pena a domicilio. Il caso riguarda un detenuto del carcere “Lorusso e Cotugno”, che oggi registra un tasso di sovraffollamento oltre il 130%. “Quest’ordinanza del 5 agosto 2025 è importante perché mette per iscritto che in condizioni così gravi di sovraffollamento una persona che già è malata, per quanto non incompatibile col carcere, raggiunge una afflizione che non è più coerente con i principi di umanità che devono presiedere a ogni incarcerazione. Il mio timore è che, a fronte di una detenzione più lunga, questo ragionamento sull’umanità della pena verrebbe meno”. dice Maria Brucale, membro dell’Osservatorio carcere unione camere penali italiane, Ucpi. Riconoscimento dell’afflizione aggiuntiva prodotta dallo stato indecoroso delle carceri - “L’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Torino, per certi aspetti, palesa tra le righe un atteggiamento non infrequente delle aree sanitarie delle carceri che è quello di ridimensionare la sofferenza delle persone detenute”, dice Brucale. Nell’ordinanza si legge che, in un primo momento, l’area sanitaria aveva escluso la gravità delle patologie di questa persona, poi però aveva affermato che c’era la possibilità di trasferirla per la cura in un altro luogo, sempre intramurario, dando contezza del fatto che le patologie c’erano ed erano anche importanti”. “Nel caso in questione, l’area sanitaria - da quel che si legge - ha dichiarato che le patologie non erano gravi, erano sotto controllo e potevano essere gestite in un altro istituto. Deduco insomma che ci fossero e che meritassero attenzione. Il primo magistrato di sorveglianza che ha valutato la situazione ha escluso che ci fosse l’incompatibilità delle malattie con la vita nell’istituto penitenziario e ha rigettato la richiesta di scontare la pena ai domiciliari”, continua l’avvocato. Dopodiché il tribunale di sorveglianza di Torino, in sede di reclamo, “ha posto in perequazione la sofferenza derivante dalle condizioni di salute con le condizioni detentive, quindi con il sovraffollamento e la mancanza di adeguatezza degli spazi. Ha affermato che, con il concorso delle due situazioni (la sofferenza di salute e la sofferenza intramuraria derivante dal sovraffollamento), la pena risultava inumana e degradante e ha concesso la misura di favore. Questa pronuncia ha il merito di riconoscere l’afflizione aggiuntiva prodotta ai ristretti dallo stato indecoroso delle nostre prigioni”. La pena residua esigua: ragione importante dell’ordinanza - “Purtroppo, però, l’ordinanza mi rallegra fino a un certo punto perché lo sguardo del giurista va al caso di specie, che è di una persona alla quale mancavano più o meno due anni di pena per la fine della sua condanna. Quindi, un tempo davvero piccolo rispetto all’enfasi che ha seguito la pronuncia”, prosegue Brucale. “Quando mancano due anni alla fine della pena, in termini di prognosi della riabilitazione, è difficile ipotizzare un percorso di rieducazione e di reinserimento. Il mio timore è che, a fronte di una detenzione più lunga, questo ragionamento sull’umanità della pena verrebbe meno”. Altre decisioni del genere? Non con la stessa motivazione - Analoghe decisioni ci sono già state, “di una a Roma me ne sono occupata io, anche se non ha avuto una motivazione così accurata e specifica”. In quel caso, i giudici hanno concesso la detenzione domiciliare a una persona che aveva in corso un’espiazione di cinque anni, quindi più grave di quella del recente caso di Torino, “scrivendo semplicemente che dal momento che il carcere non garantiva la possibilità di usufruire delle scorte per accompagnare questa persona a eseguire gli interventi necessari in ragione delle sue condizioni di salute, la misura alternativa veniva concessa. Purtroppo gli agenti penitenziari sono pochi e ciò crea non pochi problemi”. Rebibbia: oltre 2mila richieste di visite mediche inevase - Nel carcere di Rebibbia Nuovo complesso, che ospita circa 1.600 detenuti, ci sono oltre 2mila richieste di visite inevase, presso gli ospedali, i luoghi di cura e di intervento chirurgico, spiega Brucale. “Naturalmente tra queste 2mila ce ne saranno tante che non rivestono carattere di estrema urgenza, ma ci sono anche le chemioterapie, gli interventi chirurgici di tumore, i salvavita, quelli cardiaci. Insomma, c’è veramente una disperazione totale. Quindi, le due cose sono strettamente connesse perché la mancanza di scorte è una delle conseguenze del sovraffollamento”. Richieste di domiciliari (per chi un domicilio ce l’ha) - Rebibbia si compone di quattro istituti detentivi, “con un carico di umanità dolente impressionante. Il nucleo traduzioni della Polizia penitenziaria conta circa 190 unità e dovrebbe occuparsi delle condizioni sanitarie e delle esigenze dei trasporti di tutte le persone detenute nel polo di Rebibbia. È completamente irragionevole, non è proprio in grado di essere sufficiente. Succede che una persona, per qualunque tipo di visita, deve attendere un sistema che è completamente al collasso, per cui inevitabilmente si accede a richieste di detenzione domiciliare quando è possibile”, continua. “Ma molte di queste persone sono così indigenti e sole da non avere nemmeno un domicilio dove chiedere di andare. A questo dovrebbe sopperire la politica, inventando delle strutture nuove dove allocare le persone che hanno un fine pena a breve, che hanno esigenze di cura e che non possono essere adeguatamente gestite nelle carceri”. C’è un appalto in corso che prevede la costruzione di container in otto carceri, “solo la parola “container” mi fa orrore”. Aumento delle richieste di detenzione domiciliare collegate alle condizioni di salute - Le richieste di detenzione domiciliare “sono tantissime, soprattutto perché le persone malate, per qualunque cura, hanno l’esigenza di uscire dal carcere accompagnate dalle scorte negli ospedali. E gli agenti non sono sufficienti, al punto che cominciano a non esserci nemmeno per permettere alle persone di partecipare alle loro udienze. La richiesta di beneficio di una pena alternativa al carcere viene fatta da chiunque si trovi nella condizione di farla”. Una pena sotto i quattro anni consente una richiesta di misura alternativa. “Ripeto, questa ordinanza è importante perché mette per iscritto che in condizioni così gravi di sovraffollamento una persona che già è malata, per quanto non incompatibile col carcere, raggiunge una afflizione che non è più coerente con i principi di umanità che devono presiedere a ogni incarcerazione. Ma la ridimensiono perché purtroppo, da pratica della materia, so bene che la misura scaturisce dal fatto che questa persona aveva ancora poco tempo da espiare”. Se per un sospetto tumore si rinvia un accertamento per otto volte - Le richieste di detenzione domiciliare che sono in aumento “sono quelle di misure alternative collegate alle condizioni di salute. Molte situazioni potrebbero essere gestite in ambito intramurario, qualora il sistema penitenziario funzionasse meglio. Se si ha un sospetto tumore e si rinvia per otto volte la visita per un accertamento, è chiaro che insorge anche uno stato emotivo che rende intollerabile la propria carcerazione. Ipotizziamo questa situazione in un ambito di vita ordinaria. Qualora mi dicessero che, dalle mie indagini cliniche, c’è il sospetto che io abbia un tumore, lo vorrei sapere al più presto se questo tumore ce l’ho o no e come devo fare ad aggredirlo”, dice Brucale. “Invece nelle carceri spesso succede questo, che fissano una visita che slitta regolarmente, a volte per anni perché mancano le scorte, che non hanno nessuna colpa perché c’è un problema di ordine amministrativo, di correlazione tra l’istituto di pena e l’organizzazione sanitaria che non è più in capo al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Dap”. Quindi c’è un triplo passaggio: c’è il detenuto malato che si rivolge al carcere, che si rivolge all’area sanitaria. In tutto questo, ci si muove tra carenza di personale e sovraffollamento. “Condizione del vivere completamente brutale” - “Noi facciamo le visite in carcere, vediamo anche degli ambienti piccolissimi che erano prima utilizzati per attività trattamentali, come le salette per gli incontri o quelle per lo studio, che sono adibiti a celle, con le brande buttate a terra perché non sanno più dove mettere le persone”. Ma queste salette che utilizzano come luoghi abitativi non sono avvezze ad essere utilizzate come tali, “non hanno i servizi igienici essenziali, non hanno la doccia, un cucinino. È una condizione del vivere completamente brutale. I detenuti, per andare in bagno o fare una doccia, devono recarsi nei locali comuni”. L’affettività dimenticata - Una sentenza della Corte costituzionale, la n. 10 del 2024, ha stabilito che le persone detenute hanno diritto all’affettività, ma finora si è fatto poco o nulla per metterla in pratica. “A questa sentenza tengo moltissimo, ormai sono passati quasi due anni da quella sentenza della Corte Costituzionale che obbligava a istituire i luoghi dell’affettività, ma invece mettono scatole nuove per stiparci gente dentro. Per mettere i container nelle carceri si sottrae anche spazio alle attività trattamentali, allo sport, ai campetti, ai passeggi. Dell’affettività non se ne parla proprio più”. L’avvocato precisa che “le uniche volte in cui il diritto all’affettività è stato concesso a qualcuno, dietro c’era una ordinanza impositiva di un magistrato di sorveglianza. Non c’è un progetto di modifica strutturale dei luoghi per consentire a tutti il diritto all’affettività”. Peraltro, quando la precedente direttrice del Dipartimento Lina Di Domenico, con una Commissione, stilò le linee guida per i luoghi in cui poter garantire i colloqui in intimità per i detenuti, ragionò su un numero di aventi diritto intorno alle 16mila persone a fronte delle 62mila presenze negli istituti penitenziari (che adesso sono più di 63mila). “Affermò che qualunque addebito disciplinare determinasse l’esclusione dall’accesso al diritto. Lo trovo assurdo”, conclude Brucale, “il fatto di avere un comportamento disciplinare poco corretto non pregiudica in sé l’accesso alla sessualità o comunque all’affettività riservata quando non si traduce in un rischio concreto correlato alla fruizione del diritto”. Corsa per gli obiettivi del Pnrr: 235 mila processi da smaltire in 9 mesi di Andrea Bassi Il Messaggero, 9 settembre 2025 Il decreto, a più di un mese dall’approvazione in consiglio dei ministri, è “atterrato” in Commissione giustizia alla Camera, dove dadomani inizierà il suo iter per la conversione. Un percorso che dovrà dunque essere veloce. Non solo perché il provvedimento altrimenti scadrà il prossimo 4 ottobre, ma soprattutto perché sulla giustizia civile i tempi per centrare gli obiettivi del Pnrr sono diventati davvero stringenti e i target appaiono ancora lontani. Andiamo con ordine. Entro giugno del prossimo anno, vale a dire tra poco più di nove mesi, dovranno essere “smaltiti” 235 mila vecchi procedimenti che giacciono nei cassetti dei tribunali (200 mila in primo grado e 35 mila in appello). Ma, soprattutto, come previsto dal piano di ripresa e resilienza, andrà ridotto rispetto al 2019, il “disposition time”, vale a dire la durata media dei processi, del 40 per cento. Per adesso, secondo quanto riporta la stessa relazione illustrativa del decreto consegnato alla Camera, siamo in affanno. I dati relativi al 2024, spiega la relazione, segnalano una riduzione del 20,1 per cento del disposition time totale rispetto al 2019, con un contributo dei tribunali del 12,2 per cento, delle corti di appello dell’11,8 per cento e della Corte di cassazione del 27,5 per cento. Il raggiungimento dell’obiettivo di riduzione del 40 per cento della durata dei processi totale richiede quindi un ulteriore decremento del 19,9 per cento, da conseguirsi entro il 30 giugno 2026. Domani in pratica. In che modo il provvedimento dovrebbe accelerare la definizione dei procedimenti? Per esempio fino a giugno 2026, i giudici onorari potranno essere utilizzati in supplenza per coprire vacanze nell’organico dei giudici professionali. Il Csm potrà spostare magistrati da un ufficio a un altro considerando prioritario lo smaltimento dell’arretrato, derogando a vincoli previsti nei limiti di servizio e collegi. Inoltre i magistrati potranno essere trasferiti, su base volontaria, presso corti d’appello “in difficoltà” (ossia che non hanno raggiunto gli obiettivi Pnrr), con un’indennità pari allo stipendio mensile di un magistrato ordinario con tre anni di anzianità per un massimo di 2 anni. Il valore lordo mensile dell’indennità, secondo il prontuario delle competenze 2024, è di 3.836,68 euro. Inoltre fino a 500 magistrati ordinari potranno essere “applicati a distanza” (da remoto) presso tribunali di primo grado, sempre su base volontaria; questi magistrati devono decidere almeno 50 procedimenti civili maturi per la decisione, attraverso udienze da remoto o con deposito di note scritte. I magistrati che aderiscono all’applicazione a distanza riceveranno una “indennità di disponibilità” pari a tre volte l’indennità mensile prevista per la sede disagiata. Vale a dire 15.273 euro ciascuno. Una somma che potrà essere raddoppiata se lo saranno anche i procedimenti chiusi. Ma la domanda è se queste misure basteranno. Non va dimenticato che i tempi dei processi civili sono uno dei fattori più importanti per l’attrattività di un Paese. Lo stesso Pnrr aveva stanziato, a questo proposito, circa 2,2 miliardi di euro per aiutare la giustizia a smaltire l’arretrato e tagliare i tempi, facendo leva sull’assunzione a termine di diecimila addetti dell’Ufficio del processo. “Una esperienza a questo punto”, spiega Massimo Battaglia, segretario generale di Confsal-Unsa, il primo sindacato della giustizia, “che può essere considerata fallimentare”. Per riuscire a centrare gli obiettivi del Pnrr e smaltire i processi arretrati (oltre a tagliare i tempi della giustizia civile), secondo Battaglia occorre “un tavolo, una task force, che metta insieme tutte le componenti che hanno un ruolo nel procedimento: i magistrati, gli avvocati e il personale amministrativo”. La giustizia ha una carenza di 15 dipendenti, soprattutto cancellieri. Da soli, insomma, i magistrati non bastano. I dem a caccia del governo, si apre il fronte giustizia di Giulia Merlo Il Domani, 9 settembre 2025 Il Pd ha organizzato audizioni informali contro la riforma “che è un attacco alle toghe”. Presenti Cgil e Uil, Acli e Anpi, ma soprattutto nomi di peso come Coppi e Cassano. Infine il Pd ha iniziato la mobilitazione contro la riforma della giustizia firmata da Carlo Nordio. Non che ci fossero dubbi sull’orientamento - i dem hanno votato contro la riforma costituzionale sia alla Camera che al Senato - e già molti singoli parlamentari si sono spesi in iniziative pubbliche, ma ieri si è svolto il primo evento davvero connotante. Di fatto si è trattato del via a quella che sarà una lunga campagna referendaria fino al voto al referendum previsto probabilmente per giugno 2026: l’autunno “di lotta e di piazze” chiamato dalla segretaria Elly Schlein. Il percorso parlamentare - vista la maggioranza solida- procederà spedita e senza possibili intoppi fino al sì definitivo. Infatti è in vista del referendum che i dem hanno scelto di attirare l’attenzione. Presso la sala Berlinguer della Camera, i gruppi parlamentari del Pd hanno tenuto una audizione informale sui contenuti della riforma dal titolo: “Non disturbare il manovratore”. Chiaro l’intento di polemica con la maggioranza, che ad oggi non ha fissato alcuna audizione in vista del secondo passaggio del testo a Montecitorio, che dovrebbe cominciare nelle prossime settimane. Una riforma “nata da una scelta tutta governativa, senza alcuna apertura al confronto, come confermano le parole del ministro Nordio”, ha detto la responsabile Giustizia Debora Serracchiani, con testo “blindato” e “metodo che nega il ruolo del parlamento”. Nel merito, “un attacco diretto alla magistratura e alle garanzie dei cittadini stessi: non rafforza i diritti, ma li indebolisce” e che non affronta i “problemi veri come la lentezza dei processi al sovraccarico degli uffici giudiziari”. Del resto citare la riforma - che separa i giudici dai pubblici ministeri, crea due Csm e un’Alta corte disciplinare e introduce il sorteggio per i membri - è diventata l’espediente preferito dei membri del governo: tutti, a partire dalla premier Giorgia Meloni, non perdono occasione di attaccare la magistratura e sottolineare la necessità di riformarla. Da Carlo Nordio a Matteo Salvini, passando per Antonio Tajani e il ministro della Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo per arrivare addirittura al ministro per la Protezione Civile Nello Musumeci: tutti, negli ultimi mesi, hanno individuato nelle toghe il bersaglio preferito. Ora, con il Pd, sta iniziando a coagularsi una risposta più solida agli attacchi del governo. Ad essere rilevante, infatti, è l’elenco dei nomi e le sigle che hanno aderito alle audizioni informali: una presa di posizione che si traslerà con tutta probabilità anche in un impegno per il no al referendum costituzionale. Alla chiamata dei dem hanno risposto, come da pronostico, i sindacati di Cgil e Uil ma anche le Acli e l’Anpi. Poi ovviamente l’Anm, che è da mesi impegnata in un duro braccio di ferro con via Arenula. “É una riforma che, cambiando il Csm, indebolisce l’indipendenza di tutti i magistrati attraverso un progressivo allontanamento del pm dalla giurisdizione. Per questo saranno i cittadini a pagarne le conseguenze”, ha detto il presidente Cesare Parodi. Non solo, però: nell’elenco degli auditi, tra professori e costituzionalisti, spiccano due nomi per certi versi inattesi. A dire sì alla chiamata del Pd, infatti, è stata Margherita Cassano, appena andata in pensione dopo aver lasciato - prima donna a ricoprire il ruolo - l’incarico di prima presidente della Corte di Cassazione. Lei, toga considerata conservatrice (nel 1998 è stata eletta con Magistratura indipendente al Csm) ma anche magistrata prima inquirente e poi giudicante, si è sempre schierata contro la separazione delle carriere e lo stravolgimento del Consiglio superiore. Nel suo intervento ha individuato i rischi di quella che ha definito una “separazione culturale mediante istituzione di due Csm”, separazione che “rafforzerebbe ulteriormente il potere del pubblico ministero, essendo egli già titolare di un potere molto incisivo sulla vita delle persone, qual è quello dell’apertura di un procedimento penale”. La posizione di Cassano è da tempo nota ed espressa anche al Csm, tuttavia la sua presenza ha dimostrato quanto la prima presidente emerita - con il suo bagaglio di prestigio e influenza - intenda portare il suo contributo anche in sede di referendum. Altra presenza tutt’altro che scontata è stata quella del professore e penalista di gran fama Franco Coppi, controcorrente rispetto all’Unione italiana camere penali che da subito si è schierata a favore della riforma, come del resto gran parte dell’avvocatura associata. Una posizione, la sua, che dà voce a quella parte di avvocati scettici sulla necessità di un intervento che - per dirla con Coppi - “non risolve nulla” dei mali della giustizia come i tempi lunghi e gli errori giudiziari ed è “inutilmente ideologica”, come ha detto alla Stampa. Quello di ieri è stato il primo colpo di cannone dell’opposizione: la strada per il referendum è ancora lunghissima ma i due ultimi passaggi a Camera e Senato saranno l’occasione per il Pd di far trovare spazio alle ragioni del no. Con la consapevolezza che la sfida sia sì difficile ma non persa in partenza (l’ultimo sondaggio di Demos, di fine luglio, indica un 48 per cento di contrari contro un 52 per cento di favorevoli), nonché inevitabilmente influenzata anche dal gradimento per il governo al momento del voto. Parodi (Anm): “La riforma danneggia i cittadini, non i magistrati” di Francesco Curridori Il Giornale, 9 settembre 2025 Il presidente dell’Anm boccia la riforma della giustizia del governo Meloni. “Questa riforma evidentemente danneggia i cittadini e non i magistrati”. A dirlo è il presidente dell’Anm Cesare Parodi nel corso dell’audizione con il gruppo del Pd alla Camera sulla riforma della giustizia. Parodi ha confermato l’impegno dei magistrati nella “difesa di valori comuni messi in discussione dalla modifica della Costituzione”. Una riforma che “cambiando il Csm indebolisce l’indipendenza di tutti i magistrati, attraverso una progressiva allontanamento del pm dalla giurisdizione”. E ha aggiunto: “Per questo saranno i cittadini a pagarne le conseguenze”. Parodi ha ringraziato il Pd “per l’occasione di confronto” e si è augurato di poter essere ospite anche “di soggetti della maggioranza parlamentare”. E ha ribadito: “Noi non siamo vicini a nessun partito, ma ci battiamo per delle idee, intervenendo nel dibattito pubblico sulla giustizia”. E ancora: “Non verremo mai meno al nostro ruolo di assoluta indipendenza da qualunque soggetto politica”. Il Pd, dal canto suo, con una nota, ha attaccato duramente l’esecutivo Meloni: “Non disturbare il manovratore. È la linea del governo sulle riforme. Nel secondo passaggio alla Camera della riforma costituzionale della giustizia, la maggioranza non ha intenzione di effettuare audizioni”. Questo è il motivo che ha portato il partito di Elly Schlein a promuovere delle audizioni informali presso la Sala Berlinguer della Camera. All’iniziativa, oltre al presidente dell’Anm, hanno partecipato il segretario Confederale della Cgil Christian Ferrari, la prima presidente della Corte di Cassazione Margherita Cassano, il presidente emerito della Corte Costituzionale Ugo De Siervo, il professore ordinario di Diritto processuale penale Università Genova Mitja Gialuz, il professore ordinario di Diritto costituzionale dell’Università Sapienza di Roma Gaetano Azzariti, la segretaria confederale Uil Ivana Veronese, il vicepresidente dell’Anpi Emilio Ricci, l’avvocato Franco Coppi e, infine, Italo Sandrini e Valerio Martinelli, rispettivamente viceperesidente e consigliere del presidente nazionale delle Acli. Tra i parlamentari intervenuti all’audizione, oltre al capogruppo del Pd alla Camera Chiara Braga e all’ufficio di presidenza, hanno partecipato anche Simona Bonafè e Federico Gianassi, rispettivamente capigruppo delle Commissioni Affari Costituzionali e Giustizia, e infine la responsabile Giustizia della segreteria nazionale Pd Debora Serracchiani. Doveva essere il Csm della “svolta a destra” ma le nomine di peso premiano ancora le toghe progressiste di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 9 settembre 2025 Il repulisti delle tanto temute “toghe rosse” negli uffici giudiziari non c’è stato, così come non c’è stata alcuna “occupazione” dei posti che contano da parte di magistrati graditi al governo di Giorgia Meloni. Non possono non far sorridere, a rileggerli ora, i titoli con cui diversi giornali avevano annunciato l’imminente “virata” delle toghe il 26 gennaio del 2023, all’indomani cioè dell’insediamento del primo Consiglio superiore della magistratura “a trazione centrodestra” nella storia della Repubblica, con l’elezione di Fabio Pinelli, avvocato padovano voluto dalla Lega di Matteo Salvini e Luca Zaia, a vicepresidente di Palazzo Bachelet. Il più euforico di tutti era stato il Giornale, quotidiano di punta tra quelli orientati più a favore dell’Esecutivo, con un titolo che non lasciava spazio a dubbi: “Magistrati rossi: l’ora della disfatta. Il centrodestra riesce a far eleggere il suo uomo al Csm”. E ancora: “Basta alibi, è ora di riforma della giustizia”. Il quotidiano allora diretto da Augusto Minzolini si lanciava poi in un plauso a Matteo Renzi, in quel periodo ostile al Pd e al M5S, che per il tramite del proprio uomo al Csm, l’ex deputato Ernesto Carbone, aveva permesso il colpaccio: “Con il Terzo polo ci sono i numeri per la storica riforma”. Non era da meno Libero, giornale in quel periodo diretto da Alessandro Sallusti: “Il ribaltone. Il Centrodestra è unito. Addio al monopolio giudiziario rosso”. E poi: “Clamoroso al Csm, un leghista a capo dei giudici”. Anche dalle parti della Verità, altro quotidiano vicino al centrodestra, si faceva fatica a trattenere la gioia: “Sinistra giudiziaria battuta: il centrodestra strappa al Pd il vice del Csm. I progressisti divisi: i tempi di Area e Unicost pigliatutto sono finiti”. Ed è soprattutto quest’affermazione a suonare, oggi, temeraria. Lo stesso Foglio, quotidiano tradizionalmente incline a una titolazione non particolarmente urlata, non era da meno: “Il Csm va a destra, ma è quella di Salvini. Sinistra nel pallone. Saltano i piani del Pd e delle toghe di Md e Area”. I quotidiani vicini alle opposizioni evidenziavano invece il cambiamento con toni meno trionfalistici. Il Fatto: “Csm, passa Pinelli: così Lega e Renzi sconfiggono Meloni”. Il quotidiano diretto da Marco Travaglio passava poi in rassegna i pregressi professionali di Pinelli, ricordando ai lettori che l’avvocato padovano in passato aveva difeso “Siri, Morisi e Open”. “La Lega conquista il Csm con Pinelli. Per la prima volta dalla prima Repubblica il Csm elegge un vicepresidente d’area centrodestra”, era invece il titolo di Domani, il giornale di Carlo De Benedetti. La Repubblica: “Csm, primo presidente di destra. Eletto Pinelli, l’avvocato dei leghisti”. E infine il Corriere della Sera: “Pinelli, scelto dalla Lega, è vicepresidente del Csm”. A distanza ormai di due anni e mezzo, con il Csm che si appresta all’ultimo giro di boa in vista della scadenza prevista per gli inizi del 2027, poco prima della fine dell’attuale consiliatura, si può tranquillamente affermare che la narrazione dei giornali non è stata seguita dai fatti. L’organo di governo autonomo delle toghe, infatti, ha nominato ai vertici degli uffici giudiziari più importanti quasi esclusivamente, al netto delle comunque indiscusse qualità professionali, toghe di orientamento culturale progressista. Di per sé la circostanza non è indicativa, perché nel caso della Suprema corte l’alto profilo degli aspiranti vertici fa comunque premio sulle connotazioni associative, ma resta agli atti che sono di orientamento progressista anche il presidente della Cassazione Pasquale D’Ascola e il pg Pietro Gaeta. Esattamente come la presidente della Scuola superiore della magistratura Silvana Sciarra. In generale, la “svolta” che doveva dare il Csm “a trazione centrodestra” non c’è stata, e difficilmente, a questo punto, ci sarà mai. Ciò dimostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, quanto poco la politica, soprattutto di centrodestra, capisca il mondo della magistratura associata e le sue dinamiche interne. Un errore che fece per primo Silvio Berlusconi pensando ad Antonio Di Pietro come ministro della Giustizia nel suo governo. Il sottosegretario Ostellari: “Togliamo i figli ai genitori che li mandano a rubare” di Roberta De Rossi La Nuova Venezia, 9 settembre 2025 “Il Parlamento deve reintrodurre la perseguibilità d’ufficio di alcuni reati, compreso il furto con destrezza”. Premessa necessaria: è tempo di campagna elettorale in Veneto e ogni dichiarazione rischia di non esserne immune. Ma il problema dell’imperversare dei borseggiatori e delle tensioni che provoca il loro imperversare in una città come Venezia - piccola e mondiale - è reale. Cosa si può fare di concreto per arginare questi reati “piccoli” per il codice penale, ma dal grande impatto sociale? La legge Cartabia (che pretende querela e testimonianza in aula della vittima) può essere modificata? Attualmente è una caccia a guardie-e-ladri con grande dispendio di energie e spese, ma di fatto inutile negli effetti. “Lo abbiamo annunciato a fine luglio a Venezia, insieme al sottosegretario Molteni, e lo abbiamo fatto”, dice il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Ostellari, avvocato e senatore padovano, “la Lega ha depositato un disegno di legge per ripristinare la perseguibilità d’ufficio per alcuni reati, compreso il furto con destrezza. Ora faremo sintesi con le altre forze di maggioranza e auspico che quel testo possa venire valorizzato dal contribuito di tutti e poi essere inserito anche in un prossimo decreto, in modo che i tempi di approvazione siano rapidi. Ma dico di più”. Ovvero? “La triste realtà è che molti borseggiatori sono minori, addestrati dai genitori a rubare sin dalla tenerissima età. Alcuni sono perseguibili, altri addirittura no, perché minori di 14 anni”. Il coinvolgimento dei minori è il risvolto più drammatico: quindi come pensate di agire? “Se un minore non imputabile commette reati, la responsabilità deve cadere soprattutto sugli adulti. Questo in parte già accade, in virtù del Dl Caivano che abbiamo approvato lo scorso anno. Quando un dodicenne compie un illecito, punito con pene non inferiori ai 5 anni, viene convocato con i genitori e questi ultimi sono obbligati a controllarlo. Se disertano, pagano sanzioni salate e perdono tutta una serie di privilegi. Ora però vogliamo andare ancora più avanti: applicando questa misura, che si chiama ammonimento, anche ad altre fattispecie. Esiste poi un protocollo già in vigore che consente di allontanare i figli dei contesti familiari mafiosi. Io dico: applichiamolo anche verso chi manda i bambini a rubare, perché è indegno di fare il genitore”. Prioritariamente bisognerebbe trovare il modo di riportare questi bambini e bambine, ragazzi e ragazze a scuola. Cambiamo tema: cosa ne pensa delle denunce per violenza privata presentate da alcune giovani borseggiatrici contro chi li blocca per strada? Il cosiddetto “arresto da parte dei privati” previsto da codice di procedura penale è ancora possibile o il cittadino, oltre al danno, rischia anche la beffa di essere lui sotto accusa? “Le denunce dei borseggiatori contro le vittime che li bloccano o “i cittadini non distratti” sono odiose. Quanto al tema degli arresti dico solo che il governo sta potenziando tutti gli organici delle forze dell’ordine e continuerà a farlo. Ben vengano le segnalazioni dei cittadini, che ringraziamo, ma non sarebbe giusto chiedere loro di fare di più”. Il governatore Zaia dice: fate comprare a noi Regioni e ai Comuni i braccialetti elettronici. Ma sappiamo che già oggi sono carenti per coprire tutti i “codici rossi” lanciati da donne maltrattate o stalkerizzate, che le app di allerta andrebbero aggiornate e che comunque Questura e Carabinieri ne hanno già molti da tenere sotto controllo. È una soluzione che state valutando? “L’idea è buona, ma per essere applicata bisogna prima intervenire a livello di normativa. Il problema è che, senza la perseguibilità d’ufficio del furto con destrezza, molto spesso l’azione penale non parte perché il turista non querela. Grazie all’approvazione del decreto legge della Lega, questo ostacolo sarà superato”. In concreto, il ministero di Giustizia sta lavorando su questi temi? C’è una scadenza? Da una parte c’è la richiesta si sempre - pene certe - dall’altra il grave problema delle sovraffollamento delle carceri e la giusta necessità di pene alternative realmente rieducative: non il “buttiamo via la chiave”... “L’affollamento delle carceri ha radici antiche. Le cause sono strutture inadatte a cui è mancata la manutenzione e scarsi investimenti in rieducazione per ridurre davvero la recidiva. La nostra ricetta rappresenta una rottura con il passato: nuovi padiglioni, nuovi moduli e pure nuovi istituti di pena. Entro la fine dell’anno, per esempio, ne apriremo tre per i minorenni, a Rovigo, Lecce e L’Aquila. E poi, un impegno deciso per potenziare le opportunità rieducative attraverso il lavoro in carcere. Da quando siamo al governo, abbiamo aumentato del 30 per cento le opportunità di adesione a questi percorsi. Certo, i risultati non si vedono in un giorno, ma la strada è quella giusta: niente nuovi sconti di pena, ma un sistema che rispetta la dignità dei detenuti e li riabilita, per il bene di tutti”. Nessuna sanzione al pm che omette le verifiche pro indagato di Simona Musco Il Dubbio, 9 settembre 2025 “Il dovere del pubblico ministero di svolgere attività di indagini a favore dell’indagato non è presidiato da alcuna sanzione processuale, essendo, peraltro, il difensore facultato a svolgere indagini difensive ai sensi degli articoli 391-bis e seguenti del codice di procedura penale; ne consegue che, sebbene ciò non autorizzi l’organo requirente a disattendere la disposizione normativa, qualsiasi doglianza in tal senso non può essere proposta con il ricorso per Cassazione”. Sono parole che tagliano la testa al toro quelle della Suprema Corte, messe nero su bianco nella sentenza della sezione VI numero 30196 del 3 settembre 2025. Una pronuncia che, al di là del caso concreto, interviene su un nodo antico e mai risolto del nostro sistema processuale: il rapporto tra il ruolo del pubblico ministero e le garanzie dell’indagato. Con questa decisione la Cassazione ribadisce un concetto chiave: se il pubblico ministero decide di non indagare su fatti che potrebbero scagionare l’indagato, non succede nulla. Non ci sono sanzioni processuali, non si configura alcuna nullità, non si può invocare un vizio deducibile in Cassazione. La scelta resta interamente nelle mani del pm, che conserva la discrezionalità assoluta nel valutare se e quando approfondire elementi a discarico. “Ciò in quanto la valutazione in concreto circa la necessità o meno di accertare fatti e circostanze a favore dell’indagato - prosegue infatti la sentenza - oltre ad implicare delle valutazioni di merito estranee al perimetro del giudizio di legittimità, spetta unicamente al pubblico ministero, che deve esercitare la facoltà anche come organo di giustizia, ossia come parte sui generis, ma che, in tale veste, non può essere vincolato alle indicazioni della difesa sul punto”. Il messaggio è chiaro: l’articolo 358 c.p.p. non è un vincolo operativo effettivo, ma un richiamo programmatico, privo di reali conseguenze sanzionatorie. Non a caso la giurisprudenza lo definisce norma “meramente precettiva”, come ricorda Riccardo Radi sul blog Terzultimafermata. E così, tra la teoria e la pratica, si apre un solco profondo. Ed è proprio su questo solco che si innesta il dibattito sulla separazione delle carriere. La magistratura, in larga parte, si oppone alla riforma richiamando l’argomento della comune “cultura della giurisdizione”: l’unità delle carriere assicurerebbe un approccio condiviso tra giudici e pubblici ministeri, tale da impedire a quest’ultimo di ridursi a una parte esclusivamente accusatoria. Senza tale comunanza, si dice, il rischio sarebbe duplice: da un lato, la trasformazione del pm in una sorta di “super-poliziotto”; dall’altro, la necessità di un controllo politico più stringente per evitare derive autoritarie. Eppure, questa sentenza mostra come nella realtà quotidiana tale cultura - se esistente - non sia sufficiente a garantire un equilibrio effettivo. Il pubblico ministero rimane, nei fatti, un organo dell’accusa, libero di orientare le indagini verso l’impostazione accusatoria senza che esista un vero contrappeso normativo in caso di omissione di attività favorevoli all’indagato. La proclamata “cultura della giurisdizione” non si traduce, dunque, in obblighi concreti ed effettivi, ma resta un principio di cornice, affidato alla sensibilità individuale dei singoli magistrati. La Corte, dal canto suo, offre alla difesa l’alternativa delle indagini difensive. È vero: l’ordinamento prevede che l’avvocato possa attivarsi autonomamente, raccogliere prove, sentire testimoni, acquisire documenti. Ma qui emerge un nodo strutturale difficilmente superabile: le indagini difensive sono a carico della parte privata. Devono essere finanziate dal difensore o dall’assistito, con costi spesso insostenibili, soprattutto nei procedimenti che coinvolgono soggetti indigenti o dove i margini economici della difesa sono ristretti. Sul fronte opposto, il pubblico ministero può contare su strumenti di enorme impatto: intercettazioni telefoniche e ambientali, sequestri, perquisizioni, acquisizioni documentali d’ufficio, il tutto con la forza pubblica al proprio fianco e con risorse illimitate garantite dallo Stato. Il risultato è una disparità evidente: un sistema in cui l’accusa dispone di un arsenale investigativo straordinario, mentre la difesa deve arrangiarsi con mezzi limitati e senza strumenti coercitivi. Parlare, in questo contesto, di piena equivalenza tra indagini difensive e indagini del pm significa ignorare la realtà. Le prime hanno un valore teorico importante, ma nella sostanza operano in condizioni di asimmetria strutturale. La bilancia non è in equilibrio e il processo penale, che dovrebbe fondarsi sul principio di parità delle armi, finisce per risentirne. In questa prospettiva, la riforma della separazione delle carriere potrebbe rappresentare non un pericolo, ma un’occasione di trasparenza. Riconoscere il pubblico ministero per quello che è - una parte a tutti gli effetti, con i suoi strumenti e i suoi limiti - significherebbe restituire chiarezza al sistema. Il giudice resterebbe terzo, l’accusa verrebbe distinta dall’organo giudicante e la difesa avrebbe il suo spazio, senza più affidarsi all’illusione di una cultura comune che, come dimostrano pronunce come questa, non garantisce alcun rimedio concreto. La vera sfida, allora, non è limitarsi a constatare che il pubblico ministero dispone di poteri e risorse incomparabili rispetto alla difesa, ma intervenire affinché il dovere di indagare anche a favore dell’indagato non resti lettera morta. Rendere effettivo l’articolo 358 c.p.p. significa prevedere strumenti di controllo e conseguenze concrete in caso di omissione, trasformando un principio oggi meramente programmatico in una garanzia reale. Solo così si potrà restituire credibilità al processo penale come luogo di ricerca della verità, e non soltanto come terreno di scontro sbilanciato tra accusa e difesa. In caso di doppia sentenza conforme non c’è (sempre) “terzo grado” di Antonio Alizzi Il Dubbio, 9 settembre 2025 La Cassazione mette un punto fermo in tema di impugnazioni: quando due gradi di giudizio di merito giungono alle stesse conclusioni, il cosiddetto caso di “doppia conforme”, il ricorso in sede di legittimità non può trasformarsi in un terzo grado di giudizio sui fatti. In assenza di vizi macroscopici, la Suprema Corte non rilegge le prove né rivaluta i testimoni. È il principio riaffermato dalla Terza sezione penale con la sentenza n. 26386 del 18 luglio 2025, che ha respinto il ricorso di un amministratore di una società, condannato a un anno e sei mesi di reclusione per dichiarazioni fraudolente tramite l’uso di schede carburante false. I giudici hanno richiamato una giurisprudenza ormai costante: la Cassazione interviene solo se emergono motivazioni illogiche o contraddittorie, non per offrire una nuova lettura degli elementi già vagliati in modo conforme da Tribunale e Corte d’appello. Nel caso concreto, entrambi i giudici di merito avevano ritenuto pienamente provata la frode fiscale. Secondo gli ermellini, le censure difensive peccavano di genericità intrinseca ed estrinseca. La vicenda nasce da centinaia di schede carburante utilizzate come se fossero fatture, ma in realtà compilate con dati fittizi. Secondo l’accusa, servivano a gonfiare i costi della società, creare crediti Iva e ottenere indebitamente rimborsi di accise sul gasolio. Testimoni e gestori dei distributori hanno riferito che i rifornimenti reali erano solo sporadici e di gran lunga inferiori rispetto a quelli indicati sulle schede. Le firme e i timbri apposti sono stati disconosciuti. Sulla base di queste prove, i giudici hanno quantificato l’indebito rimborso in oltre 46 mila euro, confermando anche la confisca di beni fino a 150.508 euro. La difesa aveva puntato sulla legittimità delle indagini, sostenendo che fossero state condotte da funzionari delle Dogane, incompetenti per materia su Iva e imposte sui redditi. Una linea giudicata infondata: la Cassazione ha chiarito che, poiché gli accertamenti erano stati svolti “su specifica delega del pubblico ministero”, non vale il limite settoriale che normalmente circoscrive l’azione degli organi di polizia giudiziaria specializzati. In questi casi, il pubblico ministero può incaricare tali organi di svolgere indagini anche fuori dal loro ambito ordinario, e gli atti così raccolti restano pienamente utilizzabili in sede penale. Sul punto, viene evidenziato che “il pubblico ministero può delegare a organi di polizia giudiziaria a competenza limitata (come i funzionari dell’Agenzia delle Dogane) specifiche attività d’indagine anche al di fuori del loro settore istituzionale; gli atti così compiuti sono utilizzabili nel processo penale. I limiti settoriali di cui all’art. 57, co. 3, c. p. p. non precludono la delega ex art. 370 c. p. p. Né l’eventuale “incompetenza” amministrativa dell’ufficio, rilevante nel contenzioso tributario, travolge la prova penale acquisita su delega del pubblico ministero e formata in dibattimento”. La Suprema Corte ha inoltre ribadito che l’eventuale vizio di incompetenza di un ufficio dell’amministrazione finanziaria riguarda il contenzioso tributario e non si traduce in inutilizzabilità della prova nel processo penale, quando questa si è formata correttamente in dibattimento. In questo caso, il funzionario doganale ha deposto come testimone in aula, sotto giuramento, e i documenti sono stati richiamati solo come supporto alla memoria. Respinte anche le doglianze dell’asserito travisamento di alcune prove: per configurarsi, ha ricordato la Corte, serve un errore “macroscopico e manifesto”, tale da smontare l’intero ragionamento dei giudici di merito. Circostanza che qui non è emersa. Al punto che la Cassazione evidenzia: “Per aversi vizio di travisamento della prova è necessario, insomma, che la relativa deduzione abbia un oggetto definito e inopinabile, tale da evidenziare la palese e non controvertibile difformità tra il senso intrinseco della dichiarazione (o di altro elemento di prova) e quello tratto dal giudice, con conseguente esclusione della rilevanza di presunti errori eventualmente commessi nella valutazione del significato probatorio della dichiarazione medesima”. Il ricorso è stato quindi dichiarato inammissibile, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. Liguria. L’iniziativa del Pg Zucca: visite nelle prigioni per capire il mal di carcere di Marco Preve La Repubblica, 9 settembre 2025 Il procuratore generale ha iniziato da Sanremo, istituto con molte criticità, una serie di ispezioni con incontri con gli agenti, i detenuti, il Garante e le associazioni come Antigone. Il Procuratore generale Enrico Zucca ha iniziato ieri - cominciando dal carcere di Sanremo in valle Armea - una serie di visite a tutte le carceri liguri, o meglio del distretto di Corte di Appello che comprende anche la provincia di Massa. Detto così potrebbe apparire uno dei consueti appuntamenti della routine istituzionale ma, in realtà, si tratta di una prima assoluta e nasce, oltreché da una sensibilità personale, anche dalle criticità del sistema carcerario ligure, che soffre di diverse patologie ormai croniche. A iniziare dal sovraffollamento, e poi la rarefazione delle attività lavorative, la carenza di organici della Polizia penitenziaria, il ripetersi di episodi di violenza da parte dei detenuti ma anche di abusi da parte degli agenti, per chiudere con la tragica sequenza di suicidi da parte di detenuti, dramma più volte denunciato dagli avvocati della Camera Penale. Nulla di nuovo, visto che da anni sindacati della penitenziaria, associazioni come Antigone, il Garante dei detenuti o, appunto, gli avvocati hanno più volte evidenziato queste ferite. Non si sa se sia stato un effetto della presenza in loco del magistrato ma a margine della visita il segretario regionale ligure del Uilpa Fabio Pagani ha annunciato che “Il provveditore dell’amministrazione penitenziaria di Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta ha garantito la sicurezza per il carcere di Sanremo, assegnando, di volta in volta, un comandante della polizia penitenziaria, da qui a febbraio del prossimo anno, per poi metterne uno in pianta stabile”. Poco prima c’era stato un vertice con il procuratore generale, il provveditore Antonio Galati e una rappresentanza sindacale con Uilpa, Sappe, Osapp e Euspp. Vertice che fa seguito ai disordini avvenuti durante l’estate e culminati, lo scorso 26 luglio, con l’aggressione a otto agenti. Pagani ha anche rivelato un dato significativo sullo stress che colpisce molti agenti: “Nel corso dell’incontro è anche emerso che il carcere di Sanremo è il più critico in Liguria con 260 detenuti nelle celle, su una capienza di 223 e 162 agenti presenti sui 185 previsti dalla pianta organica. Dei 162 agenti in servizio, va detto che trenta hanno depositato l’arma per “sindrome ansiosa” e sono quindi molti meno”. Pagani ha poi ringraziato il Provveditore per il trasferimento dei detenuti più violenti e misure più severe per il regime di isolamento. Queste tematiche saranno sicuramente oggetto di discussione quando il Pg Zucca andrà a visitare il carcere di Marassi, teatro a giugno di una partecipata rivolta. I detenuti avevano aggredito alcune guardie e si erano rifugiati sul tetto dopo che nessun provvedimento era stato preso nei confronti di quattro detenuti che avevano compiuto abusi sessuali e violenze contro un recluso di appena 19 anni. Un’inchiesta è stata aperta sia indagando i rivoltosi ma anche su come sia stata possibile una serie di torture durate due giorni senza che le guardie se ne accorgessero. Sull’iniziativa del Pg Zucca è da registrare la positiva reazione di Doriano Saracino Garante regionale dei detenuti: “Mi sembra un gesto importante e significativo. Anche io non ho memoria di visite sistematiche da parte della Procura generale a istituti penitenziari. E’ un segno di attenzione alle persone detenute e alla legalità, perché le procure hanno compito di tutela della legalità in tutti i suoi aspetti, e vorrei ricordare che si tratta di un potere riconosciuto dall’ordinamento penitenziario”. “Spero - ha poi aggiunto il Garante - che dopo le carceri il Pg possa rivolgere la sua attenzione anche alle Rems (le strutture di accoglienza per gli autori di reati affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi, ndr). Il pg conosce la mia relazione annuale dove sono evidenziati tutti gli aspetti critici, alcuni in fase di soluzione come a La Spezia, dove sono stati riaperti due piani detentivi. Tra i punti più delicati il sovraffollamento non solo in senso numerico ma relativo alla presenza a Marassi di detenuti condannati a pene lunghe o addirittura ergastolani”. Roma. Detenuta suicida a Rebibbia. Anastasìa: “Ancora una storia di solitudine e disperazione” garantedetenutilazio.it, 9 settembre 2025 Purtroppo, il fine settimana è stato funestato da altri due suicidi che portano a 61 il numero di persone detenute che si sono tolte la vita nelle carceri italiane. “Siamo addolorati per la morte di D.Z., la donna che si è tolta la vita la scorsa notte a Rebibbia femminile e che era stata seguita dai nostri uffici per il rinnovo della certificazione dell’invalidità. Una persona con una storia di dipendenze, una pena ancora lunga da scontare e senza più relazioni affettive esterne. Ancora una volta una storia di solitudine e disperazione, che testimonia una drammatica carenza di risposte sociali che finiscono inevitabilmente in carcere”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasia, alla notizia del suicidio di una detenuta nella Casa circondariale femminile di Rebibbia, resa nota venerdì 5 settembre. Il tasso di affollamento nel carcere femminile di Rebibbia è del 150 per cento, con 377 detenute presenti, a fronte di 251 posti effettivamente disponibili. Purtroppo, il fine settimana è stato funestato da altri due suicidi. Un detenuto si è tolto la vita sabato nel carcere di Rebibbia, una detenuta 26enne si è tolta la vita impiccandosi all’alba di domenica nella sua cella del carcere fiorentino di Sollicciano. Secondo le nostre elaborazioni sono dunque 61 i suicidi nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno (compreso il minorenne che si è recentemente tolto la vita a Treviso). Il suicidio di sabato a Rebibbia è il settimo nel Lazio, al pari dello scorso anno. Si sono verificati a: Rebibbia, 4; Frosinone, 2; Regina Coeli 1. Lo scorso anno i suicidi in tutta Italia sono stati 91, di cui 7 nel Lazio. Firenze. L’appello di Pantagruel ai candidati alle regionali: “Non dimenticatevi dei detenuti” La Nazione, 9 settembre 2025 L’associazione che opera a Sollicciano in merito all’ultima morte in cella e la drammatica situazione delle carceri toscane: “Sovraffollamento, fatiscenza delle strutture, carenze sanitarie e di personale”. Dopo l’ultima tragedia nel carcere di Sollicciano, l’associazione Pantagruel, impegnata con attività di volontariato nella casa circondariale di Sollicciano, rivolge un appello per non dimenticare i detenuti ai candidati alle elezioni regionali toscane in programma il 12 e 13 ottobre. “A rendere ancora più urgente un’approfondita riflessione pubblica sul tema delle carceri - spiegano dall’associazione - è l’ennesima tragedia avvenuta sabato scorso a Sollicciano, dove una ragazza di appena 26 anni si è tolta la vita in cella. E. era una giovane donna romena che viveva per strada: una vita fragile, difficile, segnata dall’esclusione e dal pregiudizio, fino a diventare ‘il colpevole perfetto’. La sua morte riporta con forza all’attenzione pubblica l’emergenza delle carceri toscane e italiane”. Nella lettera ai candidati, i volontari di Pantagruel ricordano che “il carcere è parte della nostra comunità e riguarda anche chi ne resta fuori: detenuti, agenti, personale sanitario, operatori e cittadini sono tutti coinvolti”. E ricordano la drammatica situazione del mondo carcerario italiano: “60 suicidi dall’inizio dell’anno, sovraffollamento, strutture fatiscenti, difficoltà nel garantire attività trattamentali, carenze di personale e mancanza di coordinamento tra i diversi enti responsabili del funzionamento delle carceri”. “Nelle prigioni italiane non alberga la dignità - scrivono ancora i volontari - e la situazione in Toscana non è certo diversa da quella del resto d’Italia. Già nel 2013, ad esempio, si parlava di Sollicciano come un carcere moribondo e pensiamo che anche le altre strutture carcerarie non godano di ottima salute. Ancora oggi però è sempre in vita ma fa sempre più fatica a respirare”. “Fra le proprie competenze - ricordano da Pantagruel - la Regione Toscana ha la gestione della sanità penitenziaria, garantendo i Livelli Essenziali di Assistenza sanitaria e l’intervento sulle tossicodipendenze all’interno del sistema carcerario regionale, in collaborazione con le Asl e l’amministrazione penitenziaria, supporto ai progetti di reinserimento dei detenuti oltre alla figura prevista da organigramma del garante regionale dei detenuti”. “E’ su questi temi - dicono i volontari rivolgendosi ai candidati alle elezioni regionali - che desidereremmo confrontarci con voi, mettere a fattore comune le nostre esperienze, cercare soluzioni, come cittadini e elettori vorremmo sapere quello che ritenete di poter fare su questi temi”. “La sicurezza dei cittadini - conclude Pantagruel - passa anche attraverso una corretta gestione del percorso dei detenuti: ridurre la recidiva significa migliorare la società intera. Ma questo può avvenire solo se chi vive e lavora dentro le carceri lo fa in un luogo decoroso e salubre, e non in strutture decadenti e invivibili”. Milano. Luigi Pagano nuovo Garante comunale dei detenuti: nominato dal sindaco Sala di Paolo Foschini Corriere della Sera, 9 settembre 2025 Luigi Pagano, storico direttore di San Vittore prima di andare in pensione come provveditore delle carceri lombarde, è stato nominato dal sindaco Beppe sala garante dei detenuti per il Comune del capoluogo. Il ruolo era vacante sin da metà estate. Pagano sostituisce così l’ex magistrato Francesco Maisto, rimasto in carica per due mandati. Nel giorno del sessantunesimo suicidio nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno (è successo a Sollicciano, dove una 26enne romena è stata trovata appesa in cella la mattina dell’8 settembre, dopo che altre due persone si erano uccise a Rebibbia nei tre giorni precedenti) arriva per fortuna da Milano una buona notizia che naturalmente non risolve da sola la situazione drammatica delle nostre prigioni ma se non altro è un bel segnale: Luigi Pagano, storico direttore di San Vittore prima di andare in pensione come provveditore delle carceri lombarde, è stato nominato dal sindaco Beppe Sala garante dei detenuti per il Comune del capoluogo. Il ruolo era vacante sin da metà estate. Pagano sostituisce così l’ex magistrato Francesco Maisto, rimasto in carica per due mandati. La proroga dell’ultimo mandato di Maisto era scaduta il 6 agosto scorso. E alla fine del mese l’associazione Enzo Tortora assieme a Europa Radicale avevano sollecitato il Comune a provvedere in fretta, proprio in forza della situazione insostenibile degli istituti determinata in primo luogo dal cronico sovraffollamento ma aggravata dalle emergenze che in un mese come agosto si ripresentano ogni anno con gravità crescente. Un documento di allarme scritto in toni molto forti, peraltro, era stato firmato e diffuso anche a fine luglio da parte della “Conferenza nazionale dei garanti delle persone private della libertà”: documento in cui, richiamando il monito pronunciato il 30 giugno dal presidente Sergio Mattarella, si arrivava a chiedere al Governo e al Parlamento un provvedimento immediato di svuotamento delle carceri e “riduzione del sovraffollamento in nome della dignità” sul modello esplicito di ciò che era stato “fatto dal Governo Berlusconi nel 2003 e nel 2010”. Ora se non altro anche le persone detenute a Milano ritrovano un garante. Napoletano, laureato in Giurisprudenza con specializzazione in Criminologia, Pagano è entrato nell’amministrazione penitenziaria nel 1979 diventando direttore di diverse carceri italiane: Pianosa, Alghero e Asinara e poi Nuoro, Piacenza, Brescia e Taranto. A San Vittore è stato direttore dal 1989 al 2004, contribuendo tra mille altre iniziative (memorabili le dirette televisive di Milano-Italia con Gad Lerner negli anni di Tangentopoli dall’interno del carcere, perché “il carcere - ha sempre detto - deve essere un luogo aperto”) a fondare il reparto La Nave destinato alla cura dei detenuti con problemi di dipendenza. Non solo. A lui si deve la nascita della casa di reclusione di Bollate, il cui modello “aperto al lavoro” determina tuttora un tasso di recidiva inferiore al 20 per cento rispetto a una media nazionale superiore al 70. Ha ideato e promosso l’avvio del primo Icam, l’Istituto per la custodia attenuata delle madri detenute. Per le sue iniziative il Comune di Milano lo aveva già premiato con l’Ambrogino d’Oro. Ora la nomina. A Pagano, si legge in una nota del Comune - sarà affidato il compito di “promuovere l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone comunque private della libertà”, oltre a quello di promuovere “iniziative e momenti di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani delle persone private della libertà personale e dell’umanizzazione della pena detentiva e iniziative congiunte e coordinate insieme con altri soggetti pubblici, in particolare con l’Assessorato al Welfare e Salute e la Sottocommissione consiliare Carcere, pene, restrizioni e giustizia del territorio”. E ancora: “Rispetto a possibili segnalazioni che riguardino violazioni di diritti, garanzie e prerogative delle persone private della libertà personale, si rivolgerà alle autorità competenti per avere eventuali ulteriori informazioni; segnalerà il mancato o inadeguato rispetto di tali diritti e condurrà un’opera di assidua informazione e di costante comunicazione alle autorità stesse relativamente alle condizioni dei luoghi di reclusione”. E ancora: “Promuoverà con gli istituti di pena, gli organi e gli uffici milanesi del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità e con tutte le altre pubbliche amministrazioni interessate protocolli d’intesa utili a poter espletare le sue funzioni anche attraverso visite ai luoghi di detenzione”. E ancora: “Favorirà forme di collaborazione con le università, con il mondo del volontariato, dell’associazionismo e del privato sociale che a vario titolo si occupa delle persone private della libertà”. Tra le prime reazioni quella di Alessandro Giungi e Daniele Nahum, vicepresidente e presidente della Sottocommissione carceri a Palazzo Marino: “Apprendiamo con grande soddisfazione della nomina di Luigi Pagano come nuovo garante comunale delle persone private della libertà personale in questo periodo di estremo sovraffollamento delle carceri milanesi e del minorile Beccaria, con il dramma dei suicidi in cella che ha drammaticamente riguardato anche gli istituti di pena della nostra città. Un enorme ringraziamento va poi a Francesco Maisto che per sei anni è stato un ottimo garante, che si è speso in maniera encomiabile per le persone detenute ma anche per la condizione di operatori, volontari e agenti”. Roma. La Garante accende un faro sulle donne in carcere di Valerio Valeri romatoday.it, 9 settembre 2025 In vista del Consiglio comunale straordinario che si terrà nel carcere di Rebibbia il 23 settembre, la commissione Pari Opportunità ha ascoltato la Garante dei Diritti dei detenuti Valentina Calderone. Che lancia un monito importante sulla condizione dell’istituto minorile di Casal del Marmo e delle donne recluse, soprattutto se con figli. A guidare, inevitabilmente, il confronto è la cronaca. Lo scorso 5 settembre una donna di 52 reclusa a Rebibbia si è tolta la vita: “Inevitabile parlarne - esordisce Calderone -, parliamo di una persona che seguivamo, con una pena anche abbastanza lunga. Il giorno dopo stessa sorte per un detenuto nel Nuovo Complesso. Non ricordo altrove una frequenza del genere”. Il sovraffollamento - In Italia, sottolinea la Garante “all’interno degli istituti penitenziari ci si suicida dalle 18 alle 20 volte in più che nella popolazione esterna”. Una situazione che si inserisce in un contesto di forte sovraffollamento. Rebibbia Nuovo Complesso ospita oltre 1.500 persone a fronte di 1.170 posti, Regina Coeli quasi 1.100 detenuti per 566 posti, Rebibbia femminile, secondo quanto riferito da Calderone, attualmente ospita 370 detenute ma a fronte di 270 posti disponibili. Detenzione femminile e violenza di genere - Tornando all’intervento in commissione Pari Opportunità, Calderone ha voluto accendere un focus sulla detenzione femminile e la violenza di genere: “Ancora si valuta poco, da parte dell’amministrazione penitenziaria, la connessione tra i due fenomeni. Tutte le ricerche europee dicono che le donne detenute hanno quasi sempre vissuti di violenza familiare. I traumi subiti portano a sviluppare dipendenze, al consumo di sostanze. In Italia questo dato di consapevolezza non viene considerato”. Le donne transgender invisibili - Non viene neanche considerata la situazione delle donne transgender. Basti pensare che, di norma, questa tipologia di detenute al momento dell’arresto viene indirizzata a Regina Coeli, un istituto maschile: “Per fortuna di recente abbiamo avuto un caso di successo - prosegue la Garante - di una detenuta transgender di 19 anni che era finita a Regina Coeli, in isolamento rispetto a tutti gli altri. Dopo tre o quattro mesi l’abbiamo intercettata, abbiamo capito che proveniva da una situazione di tratta, quindi l’abbiamo messa in contatto con un’associazione che si occupa di questi temi. E adesso questa persona è accolta in un centro specializzato del circuito di Roma Capitale”. La condizione delle mamme e dei minori - Calderone ha sottolineato poi la situazione delle detenute con figli sotto i tre anni: “Nei mesi scorsi siamo arrivati a otto casi, un numero che non si vedeva da anni. Il nuovo Decreto Sicurezza rende ancora peggiore la situazione, perché rende facoltativo il differimento della pena, prima obbligatorio, per chi è in gravidanza o con neonati fino a un anno di vita”. Si passa poi a Casal del Marmo, il carcere minorile: “C’è una situazione critica, negli ultimi 18 mesi sono anche aumentate le ragazze, con un picco di 17 detenute, numeri molto superiori alla media nazionale. La situazione in generale sta peggiorando, ci sono minori detenuti per due grammi di marijuana, è uno scandalo. Il sovraffollamento c’è, dovuto anche al fatto che ci sono minori in custodia cautelare per 9 o 10 mesi, i tempi delle udienze si sono dilatati moltissimo”. Cicculli: “Un quadro preoccupante” - “I dati presentati dipingono un quadro preoccupante - commenta Michela Cicculli -: due suicidi recentissimi in pochi giorni nel carcere di Rebibbia a fronte di 61 a livello nazionale nel 2025 pongono il sovraffollamento e in generale le condizioni di detenzione al centro di un sistema che non riesce a garantire i diritti inviolabili. ?Tra le proposte e iniziative per il futuro sono state sollevate due questioni cruciali: l’attuazione del diritto all’affettività in carcere, ancora disattesa, e la tutela dei minori che hanno un genitore detenuto, definiti ‘vittime dimenticate’. Auspichiamo che il consiglio straordinario di settembre promosso dalla consigliera Cristina Michetelli che ringrazio, possa essere un’occasione per continuare a dare voce a queste urgenze e a tradurre le raccomandazioni in atti concreti”. Salerno. Detenuto morto a Fuorni, tre medici condannati: “potevano evitarlo” di Viviana De Vita Il Mattino, 9 settembre 2025 Il Tribunale di Salerno ha stabilito sei mesi di reclusione per i dottori in servizio a Fuorni e al Ruggi. Assolta una quarta imputata. Una condotta corretta da parte dei medici avrebbe “con certezza” evitato la morte di Aniello Bruno, il 57enne di Angri detenuto a Fuorni, deceduto il primo aprile 2018 nel reparto di rianimazione del Ruggi dopo un intervento per shock settico, conseguenza di una peritonite stercoracea dovuta a ischemia e perforazione intestinale. È questo il cuore delle motivazioni con cui il Tribunale di Salerno (Seconda sezione penale, giudice Serretiello) ha condannato a sei mesi di reclusione - lo scorso luglio - i due medici in servizio a Fuorni, A.D.C. e C.O., e il medico del pronto soccorso del Ruggi, G.D.N. Nelle motivazioni, depositate nei giorni scorsi, vengono ricostruite le responsabilità dei singoli medici in una morte che, secondo il giudice, poteva e doveva essere evitata. Il processo riguardava anche una quarta imputata, la dottoressa M.R.A., anch’ella in servizio a Fuorni, assolta “perché il fatto non sussiste”. Secondo la perizia grafologica visitò Bruno solo il 30 marzo, disponendone subito il trasferimento in ospedale, senza ritardi a lei imputabili. La vicenda inizia il 20 marzo 2018, quando il detenuto accusa un malore e si presenta in infermeria. In servizio c’è A.D.C. La sua condotta - scrive il giudice - non fu conforme alle linee guida: avrebbe dovuto valutare meglio il quadro clinico e disporre il trasferimento immediato in ospedale. Bruno, infatti, non era un paziente qualunque: alle spalle aveva un infarto, una cardiopatia ischemica, ipertensione, epatopatia e un trattamento metadonico in corso. Una storia che imponeva “maggiore diligenza e prudenza”. Invece ricevette soltanto antidolorifici, una scelta che non affrontò il problema e finì per mascherare i sintomi. Il 25 marzo il detenuto tornò in infermeria con dolori diffusi all’addome: un peggioramento che il medico di turno, C.O., avrebbe dovuto approfondire. Anche in quel caso la risposta fu una copertura sintomatica. Il 30 marzo, con condizioni ormai gravi - addome globoso, diarrea, nausea e astenia - Bruno fu trasferito al Ruggi. Qui, però, il medico del pronto soccorso diagnosticò una colica renale senza eseguire alcun esame. Nessuna ecografia, nessun accertamento: il paziente fu dimesso e rimandato in carcere. Una decisione che, sottolineano i giudici, fu determinante. La perforazione intestinale, individuata dai periti intorno alle 18 del 31 marzo, segnò il “punto di non ritorno”. Fino ad allora le chance di sopravvivenza erano alte e un ricovero con tempestivi accertamenti avrebbe potuto scongiurare, “con alta credibilità razionale”, l’esito fatale. Ma così non fu. Tornato in carcere, Bruno peggiorò. Fu visitato due volte nello stesso giorno da C.O., alle 15 e alle 18 del 31 marzo, senza che ne fosse disposto l’immediato trasferimento. Solo in serata la decisione ma era ormai tardi: il detenuto giunse al Ruggi in condizioni critiche e morì poche ore dopo, il primo aprile. Per il giudice i medici ebbero un atteggiamento “attendista”, con un peso causale diretto nella morte di Aniello Bruno. I tre condannati, insieme all’Asl Salerno quale responsabile civile, dovranno anche risarcire i familiari della vittima, rappresentati dall’avvocato Pierluigi Spadafora. Ascoli. Carcere, Sisto in visita: attività lavorative per l’Alta sicurezza di Peppe Ercoli Il Resto del Carlino, 9 settembre 2025 Il viceministro della Giustizia Paolo Sisto ha visitato ieri il carcere di Ascoli annunciando alcune novità. Dopo un sopralluogo nei diversi reparti detentivi, il rappresentante del Governo ha preso parte a una riunione con le sigle sindacali della polizia penitenziaria, alla presenza della direttrice dell’istituto Daniela Valentini, del provveditore del distretto marchigiano Silvio Di Gregorio, del comandante facente funzione e della responsabile regionale della sanità per le Marche, Monica Acciarri. Sisto ha annunciato un intervento strutturale sulle sezioni giudiziarie e sul reparto Marino, che sarà destinato esclusivamente ai detenuti classificati AS/3 (Alta Sicurezza), per i quali verranno predisposte attività lavorative, scolastiche e ricreative specifiche. Dal canto loro, le organizzazioni sindacali hanno ribadito la richiesta di una soluzione definitiva per il reparto Atsm e per la sezione Osservandi dell’Infermeria, questioni già discusse nel tavolo tecnico di agosto presso la Regione Marche, con la partecipazione delle autorità penitenziarie e sanitarie competenti in materia di salute mentale. Il vice ministro ha inoltre annunciato un incremento dell’organico, sottolineando “il delicato lavoro che quotidianamente svolgono gli uomini e le donne della polizia penitenziaria” all’interno dell’istituto. Le novità annunciate arrivano a pochi mesi di distanza dalla visita compiuta ad Ascoli, lo scorso giugno, dal cardinale Matteo Zuppi. In quell’occasione il presidente della Cei aveva evidenziato come per un detenuto la speranza passi “attraverso mezzi fondamentali come lo studio, il lavoro, la qualificazione e l’accompagnamento nel momento in cui, acquisite delle competenze, al momento di tornare in società sappia come integrarsi”. Zuppi aveva inoltre ricordato che “il rapporto fra carcere e territorio che lo circonda è fondamentale per il recupero di un detenuto” e che “ci sono carceri modello in Italia, ma lo sono diventate perché la società civile si è adoperata attraverso il volontariato e l’offerta di lavoro”. Il cardinale aveva denunciato il dato nazionale che vede soltanto il 24% dei detenuti italiani impegnati in attività lavorative: “troppo poco, come sono pochi gli educatori presenti negli istituti di pena”, invitando a un impegno comune e a una più stretta collaborazione tra ministero della Giustizia e ministero della Salute. La visita odierna del vice ministro Sisto sembra dunque rappresentare un primo passo concreto nella direzione auspicata dal porporato. La Spezia. La “Favola di Cì” incanta tutti. In scena con detenuti attori di Ilaria Valerini La Nazione, 9 settembre 2025 Carcere e infanzia, due mondi apparentemente inconciliabili ma capaci di incontrarsi nel teatro, nella fiaba, nell’immaginazione. In occasione del Festival della Mente è andata in scena l’avventura di ‘Favola di Cì (che è partito bambino e si è fermato vecchio)’, per la regia di Enrico Casale, una produzione della settima annualità di ‘Per Aspera ad Astra. Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza’. Lo spettacolo, inserito nella rassegna per bambini e ragazzi a cura di Francesca Gianfranchi, ha ottenuto un grandissimo successo. Il gruppo di attori detenuti della casa circondariale Villa Andreino della Spezia ha dato vita a una favola poetica e surreale che ha toccato le corde più profonde di grandi e piccini. ‘Per Aspera ad Astra’, progetto promosso da Acri (Associazione di Fondazioni e Casse di Risparmio Spa), è sostenuto da dodici Fondazioni di origine bancaria tra cui Fondazione Carispezia, che anche attraverso l’adesione a questa rete nazionale conferma il proprio impegno nel promuovere iniziative capaci di coniugare arte, educazione e inclusione, generando un impatto reale sulla comunità e aprendo spazi di bellezza anche nei contesti più fragili. Alla Spezia, Scarti - Centro di produzione teatrale d’innovazione guida da anni il percorso artistico del progetto, sperimentando in questa edizione un linguaggio inedito che unisce carcere e infanzia, due mondi apparentemente inconciliabili ma capaci di incontrarsi nel teatro, nella fiaba e nell’immaginazione. “Favola di Cì è uno spettacolo dedicato alle nuove generazioni fatto da una compagnia di attori detenuti. Può suonare come un’idea strana, al limite della provocazione sociale - spiega il drammaturgo e regista Enrico Casale -. In realtà quest’idea ha una lunga gestazione, di anni, di riflessioni e confronti con istituzioni, artisti, detenuti, genitori. Quali sono i limiti? Quali le resistenze? Le paure? Come creare un ‘prodotto’ teatrale che abbia come obiettivo la qualità e la dignità della grande storia del teatro per l’infanzia? Come farlo se in più gli attori coinvolti (in ogni aspetto processuale del lavoro, soprattutto nella scrittura drammaturgica) vivono in una condizione di detenzione e di visione spesso timorosa dell’esterno del carcere? Partendo dal modo forse più semplice: ricordare a questi uomini del rapporto coi loro figli e del momento più bello per tutti i papà: la favola per dormire. Lo spettacolo parte dal mito di Caino per riflettere su temi comuni a tutti gli esseri umani: la colpa, il viaggio, il desiderio di creare e stabilire dei punti fermi nella propria vita”. La Spezia. Parliamo di carcere e mettiamo in musica le sue parole saluspace.eu, 9 settembre 2025 Giovedì 11 settembre, a Salus Space, un evento speciale all’interno del festival “Suoni” unisce musica, poesia e impegno sociale. È un appuntamento dedicato al carcere e al potere della creatività: “Parole Liberate”. A partire dalle ore 19.00, rifletteremo su come la creatività possa diventare strumento di riscatto e integrazione sociale per le persone detenute. Nato nel 2014 a La Spezia, “Parole Liberate” è un Premio per poeti della canzone riservato a chi vive in carcere. L’iniziativa non si limita a riconoscere il talento, ma si impegna a dare vita e diffusione ai testi scritti, trasformandoli in musica grazie a cantanti e gruppi che li interpretano e li portano in concerto, dentro e fuori dagli istituti di pena. Le ‘parole liberate’ dei detenuti sono state musicate ed interpretate da oltre 30 artisti ed i brani realizzati sono stati inclusi in due album prodotti dalla etichetta Baracca & Burattini. Tra gli artisti ricordiamo Bandabardò, Morgan, Ambrogio Sparagna, Gianni Maroccolo, Petra magoni, Yo Yo Mundi ma anche Pat Mastelotto dei King Crimson e Tony Levin (già collaboratore di molti artisti tra cui Peter Gabriel e Pink Floyd). Partiremo da questo progetto per parlare di carcere a tutto tondo, un luogo in cui le persone detenute vivono costantemente in una situazione di sovraffollamento e carenza di personale medico ed educativo. Vogliamo accendere i riflettori su una situazione che spinge decine e decine di persone ristrette al suicidio. Dopo i saluti di Marzia Benassi, Presidente del Quartiere Savena, interverranno Duccio Parodi, cofondatore di “Parole Liberate”, Antonio Ianniello, Garante dei diritti delle persone private della libertà, Rosa Alba Casella, Direttrice della Casa Circondariale La Dozza, Francesca Vanelli, Presidente de Il Poggeschi per il carcere, il produttore musicale Paolo Bedini e Niccolò Rizzati della Coop. Sociale Orto Botanico. A moderare il dibattito sarà Giuseppe Melucci, Avvocato e Coordinatore di Salus Space. Alle 21.00 la serata proseguirà con la musica: un concerto che vedrà protagonisti Ambrogio Sparagna e i Lumenea, il progetto Nuovo Normale e la cantautrice Teresa Plantamura. Le loro performance daranno voce ai testi scritti dai detenuti, concretizzando l’intento del progetto di unire arte e impegno. “Suoni” fa parte di Bologna Estate 2025, il cartellone di attività promosso dal Comune e dalla Città metropolitana di Bologna. Realizzato con il sostegno del Comune di Bologna - Settore Cultura e Creatività, il festival gode anche del contributo dell’ente mutualistico NuovoImaie. Tutti gli eventi, che si svolgeranno tra agosto e settembre, sono a ingresso gratuito. “Contro i giganti”: una difesa della democrazia di Alessandra Macci Corriere del Mezzogiorno, 9 settembre 2025 Davide D’Errico, imprenditore sociale napoletano, ha pubblicato, per People Pamphlet, il libro “Contro i Giganti. Difendere la democrazia al tempo delle autocrazie”, libro che affronta il tema della legalità, della rappresentanza istituzionale, della democrazia, intrecciando esperienze personali e riflessioni sulla crisi politica e sociale contemporanea. L’autore, laureato in giurisprudenza e nipote di Lucio D’Errico, vittima innocente di camorra, ha provato a trasformare il dolore per la perdita del nonno in impegno sociale concreto a favore di chi è meno fortunato; ciò attraverso la promozione di vari enti non profit (che utilizzano anche beni sequestrati alla camorra) quali Il Vicolo della Cultura, biblioteca a cielo aperto nel quartiere della Sanità a Napoli, e il progetto Puteoli Sacra, primo sito culturale italiano gestito da giovani usciti dal carcere minorile, di cui D’Errico è stato Project manager. Speaker al TEDx Angri su opportunità e riscatto, viene invitato e partecipa a numerosi incontri su queste tematiche. Il libro esplora il disamore e la disaffezione verso la politica, soprattutto tra i giovani, e pur riconoscendo le difficoltà e le sfide di un’epoca segnata da crisi economico-sociali, pandemie e guerre, invita a non arrendersi, ma a credere e lavorare per una politica e un mondo migliore. D’altronde, basta scorrere l’indice dei capitoli per capirlo: nel primo, “vedere tutto”, si sente il dolore, ma anche l’amore, nei confronti del padre malato; nel secondo, “sopportare molto”, si vive il senso di frustrazione rispetto alla difficoltà di fare proposte e finanziare leggi che rispondano alle esigenze della gente; nel terzo, “correggere una cosa alla volta”, si attraversa il trauma collettivo della pandemia e il lento ritorno alla normalità; nel quarto, “proposte e provocazioni”, emerge la sensazione che ognuno/a di noi riesca ad incidere poco rispetto a dinamiche politiche ed economiche del paese; infine la profezia “tra un nuovo inizio e lo spettro della fine”, con l’esaltazione del coraggio (dal latino cor habeo, “avere cuore”, cioè, nelle cose della nostra vita), sentimento protagonista di tanti proverbi popolari e chiave per la realizzazione di grandi imprese. Maneggiando l’autore con maestria diversi registri linguistici, dovrebbe egli forse non lasciarsi influenzare - ci sia consentito qualche suggerimento - dall’impoverimento generalizzato del linguaggio (a partire proprio da quello di quotidiani, televisione e altri media), ed invitare anzi operatrici e operatori della comunicazione a non essere sciatti nell’uso delle parole; provare ad uscire da questa mucillaggine di senso, e sapere, infine, che quello che ieri ci era noto e chiaro, appare oggi sempre più vuoto. Senza contare che un linguaggio semplice (in realtà povero), rispecchia spesso l’incapacità di grossi slanci, rimandando, al contrario, alla volontà di cambiare innanzitutto le proprie condizioni materiali. L’idea del “vuoto” rinvia in qualche modo al pensiero di Hannah Arendt, e a quella “lacuna tra il passato e il futuro” (un tema centrale nel suo libro Tra passato e futuro) che genera la crisi culturale ed esistenziale in cui l’umanità, a causa di una frattura con la tradizione e con la capacità di agire, non riesce più a connettersi neppure con il presente. “I figli dell’odio”, il nuovo libro di Cecilia Sala sul Medio Oriente di Claudio Savino Il Fatto Quotidiano, 9 settembre 2025 Dal carcere di Evin alle strade di Gaza e Israele. Dalla prigione iraniana alle città distrutte del conflitto israelo-palestinese, la reporter intreccia storie di giovani, famiglie e testimoni, restituendo il ritratto umano di una regione senza pace. “I figli dell’odio” è il titolo del nuovo libro della giornalista e reporter italiana Cecilia Sala, uscito il 2 settembre per Mondadori. Si tratta di un racconto che si dipana lungo tre direttrici, tutte intrecciate tra loro: la radicalizzazione di Israele, la distruzione della Palestina e l’umiliazione dell’Iran, come recita il sottotitolo che introduce un viaggio geografico e temporale realizzato dalla reporter nel corso degli ultimi anni. Tra chi vede la speranza della pace negli occhi delle nuove generazioni, cresciute tra le bombe e quindi, appunto, “figli dell’odio”, Sala scrive: “È un circolo di violenza che funziona così: i giovani si arruolano nei gruppi armati, gli israeliani fanno i raid. Gli israeliani fanno i raid, i giovani si arruolano nei gruppi armati”. La giornalista, specializzata in cronaca internazionale e nota al grande pubblico dopo il suo arresto in Iran lo scorso gennaio, racconta ciò che ha visto in Palestina, in Israele e in Iran. Passa da Hebron, dove un gruppo di minorenni ebree innalza uno striscione contro i matrimoni misti. Poi ancora a Tulkarem, città in cui i ragazzini palestinesi appendono ai fucili le foto degli amici uccisi e si preparano a combattere i soldati israeliani. Infine giunge a Teheran: lì Abbas piange il cugino impiccato dal regime e prova un misto di terrore ed eccitazione per il grande attacco dello Stato ebraico alla Repubblica islamica. Sono tre storie da tre Paesi diversi, ma intrecciate tra loro e raccontate con uno stile giornalistico pungente, incalzante, a tratti dirompente e satirico. Ci sono storie di ebrei nati negli Stati Uniti, come il newyorchese Gershon Baskin, che “da tutta la vita promuove le interazioni tra israeliani e palestinesi”, e di ebrei di origine statunitense come il rabbino Meir Kahane, fondatore della Jewish Defense League, che voleva invece “la deportazione di tutti i palestinesi”. “L’idea che quarant’anni dopo qualcuno in Israele possa ipotizzare una grande deportazione di cittadini su base razziale - tutti gli arabi in quanto arabi - le fa perdere il sonno”, scrive Sala raccontando la storia di una madre fuggita dai lager nazisti. Sala attraversa quartieri maciullati dalle bombe, assiste agli asfalti divelti da bulldozer e vede giovani che invece di giocare con una palla imbracciano fucili, pronti a usarli. Si chiede perché questa generazione sia diversa dalla precedente: Faris, “un signore distinto sulla sessantina”, insegnava a suo figlio Samih “che parlarsi è utile, che la diplomazia può funzionare”, ma il ragazzo non aveva conosciuto l’entusiasmo del processo di pace, solo le sue macerie. “Della diplomazia non si fida, si fida degli M16”, scrive Sala. Samih è morto a 19 anni in un’imboscata a una pattuglia israeliana ed è diventato un eroe della resistenza palestinese, senza che suo padre ne sapesse nulla. La reporter intervista il giornalista premio Pulitzer Ronen Bergman, che racconta come Israele non sia riuscita a frenare l’estremismo armato interno, con i coloni che si sono presi porzioni di territorio conteso. “Ai vertici la fazione secondo cui la legge è uguale per tutti è ancora maggioritaria - scrive Sala citando Bergman -, ma più passa il tempo e più i comandanti per cui un omicidio è un omicidio solo se il morto è un ebreo non vengono puniti, più i loro metodi vengono replicati e la fazione degli impuniti acquista potere”. Poi riporta le parole opposte dell’analista palestinese Imad Abu Awad, che non crede in soluzioni né diplomatiche né militari e spera in una guerra civile interna a Israele. Nell’ultimo viaggio in Iran, Sala registra alcune puntate del suo podcast Stories (prodotto da Chora Media), ma viene arrestata con l’accusa di “pubblicità contro la repubblica islamica” e condotta al carcere di Evin. Resta ventuno giorni in cella: “In cella non puoi fare niente, sono fatte apposta così: non puoi compiere nessuna azione che impegnerebbe le tue sinapsi e distoglierebbe i tuoi pensieri per un poco dalla paura che hai. L’obiettivo è spezzarti, trasformarti in un sacco vuoto, affinché possano poi riempirti con quello che tornerà loro utile”. L’unico momento di calore, rivela, è stato l’incontro con un gatto rosso: “Un persiano a pelo lungo è l’unica forma di vita non minacciosa nei miei confronti che ho incontrato a Evin”. Il libro si presenta come un coro di voci eterogeneo che a volte sembra contraddirsi, ma mostra quanto le ragioni di ciascuno siano radicate, al punto da rendere irrealizzabile una risoluzione pacifica. A volte manca persino il riconoscimento dell’altro come essere umano, visto solo come causa dei propri problemi. È l’odio che accomuna una generazione, quella dei figli, tra le cui storie Sala si muove come la lancetta di un orologio. Non scandisce solo il tempo inesorabile di terre desolate, ma restituisce un ritratto umano, uno sguardo su un Medio Oriente in continua trasformazione. Il mio appello al ministro Valditara: un minuto di silenzio per la pace il primo giorno di scuola di Alex Corlazzoli* Il Fatto Quotidiano, 9 settembre 2025 Caro ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, abbiamo bisogno di pace. E chi meglio di lei può aiutarci a costruirla coinvolgendo i “nuovi” cittadini, coloro che quando noi non ci saremo più saranno i responsabili della democrazia? “Nel lavoro educativo, parlare della guerra ai più piccoli deve significare soprattutto capire insieme a loro qual è il lavoro dei costruttori di pace. Come possiamo raccontare ai bambini la bellezza di costruire pace?”, scrive Alberto Pellai nel libro “Guerra. Le parole per dirla”. Sono tanti i modi con i quali maestri/e, professori e professoresse lungo l’anno lavoreranno sul tema ma il primo passo, la mossa essenziale è quella di riconoscerci tutti insieme in solidarietà, in empatia con chi si trova sotto le bombe. La guerra è lontana per chi non la vive. Il primo ostacolo per chi guarda la guerra da lontano è l’incapacità di capirla. D’immedesimarsi. “Da qui può sembrare un videogioco ma gli attori, in questo caso - scrive Paola Caridi - non sono sagome. Sono ciascuno di noi trasportato in un altro spazio”. In questo tragico momento, non possiamo iniziare l’anno scolastico senza pensare agli oltre 56 conflitti armati attivi nel mondo e alle migliaia di bambini che non entreranno in aula. Penso a Gaza e Israele, naturalmente, all’Ucraina e alla Russia ma anche alla guerra civile in Sudan; in Somalia; al conflitto in Etiopia, alla regione del Sahel, alla repubblica democratica del Congo, al Myanmar, alla tensione tra India e Pakistan, alla Siria, alla Nigeria orientale così come al Camerun, al Sud Sudan e a tutte le altre guerre. Ecco perché da maestro, da giornalista, da cittadino sono a chiederle di istituire 60 secondi di silenzio (chiaramente accompagnati da una spiegazione) per il primo giorno di scuola in ogni istituto, di ogni ordine e grado. A cosa può servire un minuto? Oggi a nulla. In nessuno dei luoghi ove c’è una guerra in corso succederà qualcosa per il nostro minuto di silenzio ma giova ricordare quanto diceva Gino Strada, “Se vuoi la pace, prepara la pace”. Da alunno, ogni 9 maggio, nel nostro Paese, arrivava una circolare dal ministero dell’Istruzione per ricordare con un minuto di silenzio il presidente Aldo Moro ucciso dalle Br. Non capivo bene chi fosse quell’uomo, cosa fossero le Brigate rosse, ma nel corso della mia maturità ho scelto di approfondire il tema, leggendo testi sulla questione, conoscendo persone vicine a Moro. Quel minuto di silenzio è stato un seme nella mia coscienza di bambino. Se oggi, ogni 9 maggio (e non solo) faccio la stessa cosa con i miei alunni è grazie alla scelta di quel ministro dell’Istruzione. *Maestro e giornalista Ritorno in classe senza cittadinanza, il futuro negato e il dovere di reagire di Espérance Hakuzwimana Il Domani, 9 settembre 2025 Oltre l’11% degli iscritti a scuola ha cittadinanza straniera. Sono italiani di fatto, ma per la legge restano invisibili. Entro il 2034 perderemo 1,1 milioni di studenti. Ma intanto non riconosciamo quelli che già ci tengono in vita le classi. La cittadinanza è ferma al 1992. Servono leggi nuove, una scuola inclusiva e il coraggio di dire: siete parte di noi. Non si dimenticano gli sguardi bassi e il silenzio nelle stanze e nelle chat tra gli amici, i conoscenti. Incredulità, tristezza, rabbia, “tanto si sapeva” e altri frammenti di consapevolezza e senso di abbandono da parte di un popolo che sceglie non andando a votare; e quando lo fa, il messaggio è avvilente. Come nel 2017. Ma era il 10 giugno pomeriggio e il voto per il referendum per la legge sulla cittadinanza non era passato. Tre mesi dopo, gli studenti e le studentesse italiane rientrano nelle classi e tutto quello che mi viene in mente è la vergogna. “Io speravo che ce la facevamo”. Lo dice una tra le decine di persone che per settimane si erano mobilitate sul territorio, per sensibilizzare sull’importanza di una legge ferma a un’Italia anni Novanta. Ferma a un’idea di identità, appartenenza e nazionalità che ignora deliberatamente un presente variegato che chiede solo di esistere. Questi nostri alunni - “Io speravo che ce la facevamo”. Pure io che tra Monza, Genova, Bologna, Bari, Roma, Milano e Trieste ho guardato in faccia gli alunni e le alunne delle scuole italiane e non ho saputo nascondere la mia frustrazione. Continuano a chiamarli stranieri, inciampando nell’abitudine. Si soffermano sul loro background, provando a elencare solo le difficoltà. Li etichettano per riuscire a vederli con chiarezza, mormorando “è impossibile”. Secondo il Dossier statistico dell’immigrazione 2024 “le scuole italiane nell’a.s. 2022/2023 contano un totale di 8.158.138 iscritti, l’11,2 per cento dei quali sono bambine/i e ragazze/i con cittadinanza straniera”. Sono tantissimi, sono reali, riempiono le aule di scuola (e non solo) delle nostre città e dei nostri paesi ma noi, a quanto pare, non li vogliamo. Non li riconosciamo, non siamo in grado di sentirli parte di noi, di considerarli per ciò che sono: giovani italiane e italiani. È davvero ampia la stratificazione di domande, vuoti, abilità, conoscenze, conflitti e ricerche che si crea all’interno dell’identità di uno studente con background migratorio. Un nome con una storia troppo spesso difficile da pronunciare che dice già tutto e agghinda lo stereotipo; genitori molto vicini oppure in fabbrica o a casa di altri ad accudire qualcuno in paesi lontani; una lingua imparata proprio a scuola che a volte ancora inciampa perché le lingue per diventare madri hanno bisogno di tempo; una guerra interna che a volte combacia con quelle dentro gli smartphone, altre volte, invece, nasce dalla paura di tutto ciò che non si conosce e non si può assimilare perché sotto sotto “è diverso da me”. Ma che poi, diverso cos’è? Con quale coraggio possiamo dire a questi alunni, a queste nostre studentesse e ai loro insegnanti e compagni ignari, che non siamo in grado? Con quale faccia possiamo guardarli e dirgli “non ti riconosco”, “non sei abbastanza italiano”, “sei difficile”, “rallenti il gruppo classe”, “non ti stai integrando”. Perché poi? Per la religione, per il colore della pelle, per cosa c’è nel piatto la sera a cena, per la radice di un verbo antico, per il paese di nascita scritto sul documento. Una relazione tecnica delle proiezioni del Mef e dell’Inail stima che entro il 2034 la popolazione scolastica potrebbe perdere 100-110mila alunni l’anno e un totale 1,1 milioni di studenti nel giro di un decennio. Con la conseguente perdita di 100mila cattedre e la chiusura di 5mila strutture. Un pensiero inevitabile, perciò, va a chi la scuola la riempie e a chi la scuola la sorregge. Un augurio alle e agli insegnanti, dirigenti, educatori, professionisti del settore che in questo anno si ritroveranno tra le mani storie, conflitti, comunità, dizionari per tradurre, dispositivi tecnologici, fogli da firmare e domande, tante domande. Per il loro back to school la speranza più autentica tra tutte: lasciatevi travolgere. Dalla complessità, dall’identità che per fortuna non si può giudicare con un voto, dalle domande difficili, dalle accuse di “-ismi” sempre nuovi, dalla paura di non essere abbastanza, dalle richieste inopportune e dai silenzi che sembrano muri altissimi. Lo dobbiamo agli alunni, alle alunne, a tutti i futuri improbabili e assurdi e proprio per questo meravigliosi. Non ci sono alternative. Il presente ci insegna che non si può fermare il futuro con il passato. Lo fa quando ci parla di appartenenza, al di là di quello che dice una carta di identità; ce lo ricorda con la pubblicazione di linee guida che sono carta straccia davanti a vite in carne e ossa che respirano, chiedono, dimostrano, esistono. Allora: lasciarsi travolgere. Lasciarsi guidare nel timore e nell’avventura della meraviglia. Assimilazione è cancellazione, ma scoperta può fare rima con rispetto e ascolto. Lasciarsi condurre tra le acque e scorgere nuove strade mettendosi al centro della discussione: strumenti, libri, formazioni, incontri, fatica, conversazioni, viaggi, studio, passione, stimoli e la consapevolezza che non si nasce imparati. Proprio per questo esiste la scuola. Perciò, nell’attesa del cambiamento, di una legge da rinnovare dal 1992, di una politica di accoglienza reale, una delle piccole libertà che ci rimangono è immaginare una riforma per la cittadinanza data a chi nasce e cresce qui in tempi umani. E investimenti pensati per l’educazione interculturale, una cultura scolastica che metta al centro l’incontro tra comunità, tra cuori e tra vite diverse ma reali. Una scuola immaginata e immaginabile: bella, possibile, riempita fino all’orlo, dove chiunque la attraversi sappia che è uno spazio che le e gli appartiene, a prescindere da tutto. Che bella l’idea di un paese in cui a settembre torni a scuola al sicuro. Fa venire voglia di imparare tutto da capo, di ripassare il futuro. Le parole di Mattarella (e quelle di Goebbels) di Alberto Leiss Il Manifesto, 9 settembre 2025 Cercavo argomenti per non tornare sul tema tragico delle guerre, dei genocidi, dei terrorismi. Che pensare, per esempio, delle pagine e pagine (e spazi virtuali) dedicate all’Italia di Pippo Baudo e a quella di Giorgio Armani? Lo spettacolo e la moda non sono dimensioni profonde della nostra vita che non è solo conflitto, e spesso conflitto mortale? Differenze così forti di stile parlano di una grande ricchezza, o di equivoci storici e “identitari” mai risolti? Ma ieri mattina - un 8 settembre, tra l’altro - ascoltavo in macchina informazioni sulla possibilità di un accordo in extremis tra Hamas e Israele, spinto dagli Usa. Ci si vorrebbe credere. Più tardi la notizia sull’attentato a Gerusalemme. E l’idea, inevitabile, che se si decide di aprire le porte dell’inferno, contro un “male assoluto”, sarà impossibile ritrovare una via per la pace. Pensavo per contrasto alle parole di Mattarella all’uditorio di Cernobbio, e all’uso che ne è stato fatto da alcuni giornali mischiandole - direi abbastanza arbitrariamente - ai propositi di riarmo e persino di intervento di truppe in Ucraina da parte dei cosiddetti “volenterosi”. Un Mattarella che spingerebbe economia e politica europee a accettare fino in fondo la logica del “siamo in guerra”. Ho riletto il suo messaggio - forse simile a quei responsi della Sibilla interpretabili in modo opposto? - ma vi ho trovato il prevalere assoluto di un concetto: la via della pace, del diritto e della convivenza globale scelta dall’Europa dopo “la condizione di deserto morale e materiale, in cui il continente era stato ridotto dal nazifascismo” è stata quella che ha permesso, e potrebbe permettere ancora, un ruolo importante del continente in un mondo che sembra abbagliato dalla sola “ragione” della forza. Non ho trovato citazioni dirette al tanto declamato bisogno di armamenti. Ma l’invito, tutto politico, al “coraggio di un salto avanti verso l’unità”. Mentre meditavo su questo sono stato sorpreso, sempre grazie all’amica autoradio, dalla replica di una trasmissione di un anno fa (Wikiradio. Le voci della storia. Il discorso di Joseph Goebbels sulla guerra totale). Doppiamente sorpreso perché il curatore del bel programma è un vecchio amico e bravissimo ex collega dell’Unità, Paolo Soldini. Il testo integrale di questo celebre discorso si trova facilmente in rete, e mi sembra una rilettura - o un ascolto del programma - molto istruttiva. Il gerarca nazista lo pronunciò il 18 febbraio del ‘43, a pochi giorni dalla devastante sconfitta subita dall’esercito nazista a Stalingrado, dove alla fine il generale tedesco Paulus, contravvenendo agli ordini di Hitler che invitavano in pratica al suicidio, si arrese ai sovietici. Più tardi si pronunciò esplicitamente contro il regime nazista e partecipò come testimone di accusa al processo di Norimberga. Goebbels incita uno sterminato uditorio a lavare quest’onta preparandosi appunto alla “guerra totale” - esercito e popolo, con accorati appelli alle donne, che devono sostituire nel lavoro i maschi al fronte. Un’alternativa radicale tra vittoria o morte, accolta da ovazioni. Colpisce la foga contro il bolscevismo, guidato da sanguinari ebrei, minaccia totale alla “civiltà” non solo tedesca, ma “europea” e “occidentale”. La “missione” nazista non è una aggressione, ma la necessaria reazione difensiva al pericolo del “male assoluto”. Non dico che chi usa oggi simili concetti, in contesti del tutto diversi, sia un nazista. Ma le sue sono parole che ci imprigionano totalmente nella guerra. Medio Oriente. La sicurezza totale è un’illusione che produce morte di Gigi Riva Il Domani, 9 settembre 2025 L’occupazione dei territori che dura dal 1967 ha sicuramente aumentato il numero di giovani senza speranza che si sono gettati nelle braccia delle formazioni terroristiche. Analogamente gli attacchi che hanno scandito la storia della Striscia di Gaza negli ultimi vent’anni hanno solo rimpolpato le fila dei miliziani in armi. L’attentato di Gerusalemme dimostra, ce ne fosse ancora bisogno, che l’idea di Israele della sicurezza totale da raggiungere con la forza è un’illusione. Ed è una denuncia implicita dell’atteggiamento ultra-muscolare con venature di genocidio che il governo di Benjamin Netanyahu ha intrapreso. L’esecrazione del terrorismo che ha insanguinato la Città Santa (sei morti e undici feriti, uccisi i due attentatori) è ovvia. E contemporaneamente chiama tuttavia a una riflessione articolata su dove stia portando la svolta, che sembra una soluzione finale, impressa all’ormai secolare conflitto israelo-palestinese dal grumo di Shoah del 7 ottobre 2023 e dalla conseguente smodata reazione dello Stato ebraico, sfociata nella pulizia etnica in corso a Gaza e nella ventilata annessione della Cisgiordania. La sicurezza è il tema cruciale, addirittura pre-politico, fin dalla nascita di Israele. Le guerre in difesa dell’esistenza stessa dello Stato hanno accentuato la sensibilità dei cittadini, memori anche di cosa successe durante il secondo conflitto mondiale a causa della mancanza di un apparato bellico in grado di contrastare la follia hitleriana. Lo Stato nato per dare un focolare sicuro agli ebrei ha avuto anche questo presupposto sul quale si è basata l’epica del contadino-guerriero e della difesa totale affidata a tutti, uomini e donne, giovani e più anziani riservisti. Una volta vinte le battagli con i paesi arabi convicini in virtù di una schiacciante superiorità militare, è subentrata e si è via via perfezionata l’idea che si potesse raggiungere l’obiettivo della sicurezza aumentando sino alle dimensioni attuali la potenza di fuoco contro il nemico. E senza considerare che quanto sperimentato sinora è stato utile solo a creare le condizioni per l’instabilità perenne e far crescere nel desiderio di vendetta generazioni di palestinesi. L’occupazione dei territori che dura dal 1967 ha sicuramente aumentato il numero di giovani senza speranza che si sono gettati nelle braccia delle formazioni terroristiche. Analogamente gli attacchi che hanno scandito la storia della Striscia di Gaza negli ultimi vent’anni hanno solo rimpolpato le fila dei miliziani in armi. Né il muro di separazione lungo 730 chilometri, edificato dopo la seconda Intifada o Intifada dei kamikaze (2000-2005), è riuscito a fermare al confine i malintenzionati. E del resto i muri, dovunque siamo stati costruiti, sono fatti per essere saltati. Anche in maniera rocambolesca e fantasiosa come i deltaplani dei tagliagole di Hamas il 7 ottobre. Non è servito dunque alzare ponti levatoio, fare di Israele una enorme fortezza, scegliendo sempre ottusamente di alzare la posta e il tributo di sangue. Salvo nelle poche circostanze in cui un paio di generali illuminati arrivati al potere politico, anche se da sponde opposte, avevano capito che la pace si fa con i nemici e che la sicurezza può essere solo la conseguenza di un accordo. Uno si chiamava Yitzhak Rabin e il suo omicidio da parte di un ebreo ultraortodosso nel 1995 fece deragliare il processo di pace di Oslo. L’altro era Ariel Sharon, che pure partiva da posizioni di estrema destra ma che aveva visto nella soluzione dei due Stati l’unico sbocco possibile alla convivenza obbligata sullo stesso fazzoletto di terra. I due Stati restano nell’agenda della diplomazia mondiale, non certo in quella del governo Netanyahu, Il quale peraltro ha sempre giurato che mai ci sarà uno Stato palestinese finché lui rimarrà al potere. L’idea della pulizia etnica di Gaza e dell’annessione della Cisgiordania è figlia della frustrazione per non aver raggiunto la chimera della sicurezza totale. Dunque la deportazione di massa degli arabi palestinesi, la distruzione sistematica della Striscia, le stragi di donne, anziani e bambini, oltre che di miliziani, sono sembrati il modo più efficace per convincere, con l’aggiunta di una mancia competente, chi è rimasto in vita ad andarsene “volontariamente”. Sperare che tutto questo si potesse fare senza contraccolpi era follia. L’attentato di Gerusalemme è ne è la cartina di tornasole. Ma già si sentono da destra gli squilli di tromba degli Smotrich e dei Ben-Gvir: forza schiacciamoli ancora un po’ di più. Fatelo e sarete la perfetta fabbrica di lutti futuri. Medio Oriente. Un passo verso la tempesta perfetta e la rappresaglia colpirà altri civili di Alessia Melcangi La Stampa, 9 settembre 2025 I militanti inneggiano all’attacco e non si rendono conto delle conseguenze: la fine dei due Stati. L’immagine è quella di una tempesta perfetta. Una strage senza fine a Gaza con centinaia di civili palestinesi, uomini, donne e bambini inermi, che ogni giorno vengono uccisi da bombardamenti incessanti o muoiono disperatamente di stenti. Un’occupazione costante e crescente della Cisgiordania da parte dei coloni israeliani, patrocinata dal governo di ultra-destra, impegnato a cancellare per presunto volere divino non solo l’idea della Palestina ma anche l’esistenza dei palestinesi stessi in quelle terre. Un governo, quello di Tel Aviv, tanto isolato internazionalmente quanto forsennato e agguerrito nel raggiungere la “vittoria a ogni costo” nella sua battaglia che, ormai, va oltre i leciti obiettivi iniziali. I governi europei che avanzano disuniti - la Spagna di Pedro Sánchez ha deciso, con un balzo in avanti, per l’embargo di armi contro Israele e per il divieto di transito nei porti e nei cieli spagnoli di navi e aerei che trasportano combustibile o materiale militare destinato a Israele - e, in taluni casi, titubanti davanti alla necessità di condannare le atrocità che avvengono sulla Striscia, ancor di più sull’opportunità di interrompere gli accordi con il governo israeliano, mostrando nuovamente la desolante immagine di un consesso europeo vittima di ambizioni nazionaliste e divisive. Un’opinione pubblica sempre più consapevole che, invece di chiudere gli occhi sull’eccidio di Gaza, si organizza come società civile in una missione umanitaria pericolosa ma necessaria: la Global Sumud Flotilla, l’ennesimo tentativo di rompere il blocco navale che strozza e affama la Striscia e i suoi due milioni di abitanti. Un presidente degli Stati Uniti, che da un bizzarro metaverso, oltre a tratteggiare progetti inverosimili di riviere e hotel di lusso dove giacciono adesso solo macerie e corpi esanimi, continua a parlare di tregua e di accordi tra Hamas e il governo israeliano. I Paesi arabi, afflitti da una catalessi decisionale imbarazzante, anch’essi fuori tempo massimo che propongono un accordo abbandonato sul tavolo di Netanyahu. Infine, a concludere il disarmante quadro della guerra in Medio Oriente, l’ultimo attore, Hamas, disarticolato, decapitato dei suoi leader principali, arroccato nei tunnel sotto Gaza che condanna, insieme al governo del primo ministro israeliano, gli ostaggi a una morte sempre più vicina. Hamas, quale gruppo militante islamista, ma anche Hamas che diventa ideologia e che oggi, inevitabilmente, conta molti simpatizzanti e attivisti trascinati, più che da un progetto politico, dall’odio cieco verso la barbaria esibita dal governo israeliano giorno per giorno. Nella gravità assoluta di tale situazione, ieri arriva l’attentato a Gerusalemme est per mano di due palestinesi della Cisgiordania che provoca 6 morti israeliani. Ancora nessuna rivendicazione ma due segnali importanti: Hamas cita gli attentatori definendoli “eroi”, senza considerare le conseguenze catastrofiche che quest’atto provocherà in termini di risposta, già ampiamente asimmetrica, del governo israeliano che, al contrario, indica come terroristi gli autori dell’attacco. Terrorismo, un termine che a prescindere dalla gravità assoluta dell’attentato a Gerusalemme, permette a Israele di intervenire con la mano pesante su tutti i fronti. Terroristi sono stati definiti dal ministro Ben Gvir anche gli attivisti della Flotilla, dunque oggetto di qualsivoglia reazione decisa dal governo di Tel Aviv per arginare ogni possibile sfida all’autorità di Israele. In mezzo la disperazione di un popolo: non è un caso che i due palestinesi fautori dell’attentato a Gerusalemme siano partiti dalla Cisgiordania dove si gioca una partita politicamente decisiva, ossia l’annientamento dell’idea di “due popoli e due stati” per fare spazio all’Israele biblico evocato dalla destra messianica, dal mare al fiume. E non è un errore se, condannando fermamente qualsiasi forma di violenza, si provi a capire la disperazione di chi vive in una realtà già oltre i limiti dell’impossibile. E mentre si alternano le voci di un possibile accordo, nella quale, seguendo un copione conosciuto, ogni parte in causa afferma le proprie condizioni come indiscutibili, distruggendo nei fatti le speranze di tornare al tavolo negoziale per raggiungere la fine delle ostilità e il rilascio degli ostaggi, le forze militari israeliane stanno già effettuando incursioni e arresti in tutta la Cisgiordania occupata, come risposta all’attentato di Gerusalemme. Sarà una notte di terrore come tante già vissute nei villaggi palestinesi in Cisgiordania. La rappresaglia si annuncia ormai vicinissima.