Strage in carcere: altri tre suicidi in poche ore di Davide Varì Il Dubbio, 8 settembre 2025 Una 26enne si toglie la vita a Sollicciano dopo gli ultimi due casi a Rebibbia nel giro di due giorni. Di Biase (Pd): “Emergenza umanitaria”. Tre suicidi in tre giorni, 60 dall’inizio dell’anno. Il tragico bilancio nelle nostre carceri si allunga con due casi a Rebibbia, avvenuti a distanza di poche ore, e l’ultimo a Sollicciano, dove una 26enne di origini rumene si è tolta la vita impiccandosi all’alba nella sua cella dell’istituto fiorentino. “Sarebbe stata scarcerata fra circa un anno. A nulla sono valsi i soccorsi della Polizia penitenziaria e dei sanitari. Sale così a 60 la tragica conta dei reclusi che si sono suicidati nel 2025, la quarta donna, cui bisogna aggiungere un sottoposto a misura di sicurezza in una REMS e ben 3 operatori. Peraltro, proprio ieri le recluse della sezione femminile avevano appiccato un incendio e 8 agenti erano rimaste intossicate. Tutto ciò a ulteriore testimonianza del fatto che non c’è pace nelle prigioni, ormai generatrici di morte, per reclusi e lavoratori, ben al di là della narrazione governativa”, denuncia Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UILPA Polizia Penitenziaria. “A Sollicciano sono complessivamente ‘stoccati’ 565 detenuti, di cui 73 donne, in 358 posti disponibili (+158%), peraltro gestiti da meno di 400 agenti, quando ne servirebbero minimo 622 (-36%), per di più da molti mesi non vi è assegnato neppure un direttore titolare, al netto dell’encomiabile impegno dell’attuale incaricata, che però non ha né la qualificazione né l’esperienza per poter adeguatamente gestire un penitenziario come quello del capoluogo toscano, la cui struttura peraltro è da anni decadente e invivibile, tanto che a detta di molti andrebbe demolita. A farne le spese, palesemente, non solo i detenuti, ma anche gli operatori, in primis quelli del Corpo di polizia penitenziaria, i quali continuano a scontare le pene dell’inferno per la sola colpa di servire uno Stato che si dimostra patrigno e ‘caporale’”, aggiunge il Segretario della Uil-pa Pp. “Vanno varate subito misure deflattive del sovraffollamento detentivo, per rimpinguare concretamente gli organici della Polizia penitenziaria nelle carceri, anche eliminando gli esuberi negli uffici ministeriali e nelle sedi extra penitenziarie, compresa quella del Provveditorato Regionale di Firenze, ristrutturare e ammodernare gli edifici, implementare gli equipaggiamenti e le tecnologie, garantire l’assistenza sanitaria e avviare riforme di sistema. Ogni giorno che passa la tragedia si aggrava”, conclude De Fazio. Era stato lo stesso segretario, poche ore prima, a denunciare altri due suicidi avvenuti a Rebibbia: giovedì sera una detenuta italiana di 52 anni che si è impiccata con un lenzuolo, ieri la stessa sorte per un 50enne ristretto nel reparto G12. “A Rebibbia - ricorda De Fazio - 1.576 reclusi sono stipati in 1.068 posti disponibili (+148%), mentre gli appartenenti alla Polizia penitenziaria assegnati sono solo 640, laddove ne necessiterebbero almeno 1.137 (-43%). Situazione che si inserisce in un contesto di sovraffollamento che a livello nazionale, con 63.216 ristretti in 46.635 posti, si attesta intorno al +136% di media e di penuria di agenti che supera le 20mila unità, attese pure le illegittime assegnazioni sovrannumerarie negli uffici ministeriali e nelle sedi extra penitenziarie”. “I numeri dei suicidi hanno già raggiunto livelli record nel 2025, ma dal Governo continuano solo silenzi e promesse non mantenute”, dichiara la deputata Pd e componente della commissione Giustizia Michela Di Biase, che parla di vera e propria “emergenza umanitaria”. “Servono interventi immediati: ridurre il sovraffollamento, più sostegno psicologico, più misure alternative alla detenzione per i casi meno gravi. Non possiamo assistere inermi a questa strage silenziosa che colpisce uomini e donne privati della libertà ed anche della dignità. Il Governo - conclude Di Biase - ha il dovere di affrontare subito e con coraggio una crisi che mette a rischio non solo i detenuti ma l’intero sistema penitenziario”. L’inutile e pericoloso strumento di tortura di Vincenzo Donvito Maxia aduc.it, 8 settembre 2025 Suicidio nel carcere Sollicciano di Firenze, una ragazza di 26 anni. Il 61mo da inizio anno. Esecrazione diffusa. Tutti chiedono più Stato. Così come fanno almeno da una trentina d’anni a questa parte. E lo Stato per ora si è fatto sentire a singhiozzo ma senza soluzioni. E la situazione peggiora, mentre dalle parti del ministero della Giustizia dicono che ci vogliono più carceri, dicendo che quelle che esistono dovrebbero essere migliori, ma peggiorano. E se da qualche parte c’è qualche posto in più, la maggior parte degli istituti carcerari è in sovraffollamento. Sembra proprio che sia impossibile e sembra che il problema non sia economico ma proprio di volontà politica. La “feccia” (come non pochi politici dicono) che finisce in carcere deve essere trattata in quanto tale, sembra che sia il motivo conduttore di chi avrebbe responsabilità per intervenire. E sembra che non si rendano conto che, non solo non è “feccia” chi viene condannato, ma non lo è soprattutto chi è in attesa di giudizio. È uno dei principi fondanti della nostra comunità giuridica, umana e civile, nonché costituzionale. Comunque sono cose che tutti sanno e chi ci governa, oggi come ieri, non ha mai voluto affrontare perché sembra che una delle principali preoccupazioni di chi governa sia farsi rieleggere… e i detenuti a votare sono quattro gatti… poi, figurati, con oltre la metà che non hanno diritto di voto (tra privati dello stesso e non-italiani). E poi, figurati, stiamo parlando di una popolazione complessiva di poco più di 60mila persone, in un corpo elettorale di quasi 51 milioni di persone. Più di qualcosa non torna. Non solo per il cattivo funzionamento del sistema carcerario e per i loro gestori ma, a questo punto - dopo prova e riprova e risultati sempre peggiori - nel fatto che debba continuare il carcere come luogo in cui essere privati della libertà per non aver rispettato il patto civico comune e/o per essere sospettati di averlo fatto. È altamente probabile che il costo - economico, civico, umano e giudiziale - che stiamo pagando non soddisfi più il risultato che si intende ottenere: ordine pubblico e recupero dei rei. Non è una novità che qualcuno, da tempo, si sia posto la domanda che forse il problema sia divenuto proprio il carcere. Cioè la carcerazione come sistema di difesa e deterrente. Siamo sicuri che avremmo più problemi e più costi se buona parte (per quanto ritenuta pericolosa) delle persone incarcerate in attesa di giudizio invece che “dentro” fosse “fuori”? La società e la giustizia non ne trarrebbero vantaggi? E altrettanto per coloro che, condannati in ultima istanza, stanno scontando la pena? Certo, il carcere di per sé non si può abolire, ma siamo sicuri che sia necessario per almeno il 90% degli attuali detenuti? Non è la nostra società del controllo (che se sputi per strada dopo 15 minuti le autorità sanno già che sei stato tu) e della prevenzione di trovare metodi per impedire che continui questo sistema di tortura chiamato carcere? Certo, non si può sostenere a priori che un non-carcere ma solo la privazione della libertà personale senza reclusione, possa funzionare per tutti. Ma quanto costa (economia, vite umane, giustizia, socialità, etc.) e quali sarebbero i vantaggi per un sistema del genere a confronto con l’attuale? Crediamo che siamo in un bicchiere ormai pieno e che straborda. e che lo studio e la realizzazione di un sistema di non-carcere debba essere affrontato con urgenza. Oltre le sbarre, il fratello laciviltacattolica.it, 8 settembre 2025 Figura di riferimento e di provocazione per cattolici e non credenti dai tempi dell’antifascismo e della Resistenza, don Primo Mazzolari continua a parlare con voce chiara e profetica. Questo volume, curato da don Bruno Bignami e don Umberto Zanaboni, illumina un aspetto meno noto ma straordinariamente attuale del suo pensiero: la riflessione sul carcere e sulla dignità di chi ha sbagliato. In questi testi - articoli, pubblici interventi e omelie - don Mazzolari ci guida in un viaggio scomodo, ma necessario: ci invita a guardare oltre le sbarre per riconoscere nei carcerati, prima della colpa, la persona. Non il “detenuto”, non il “reo”, ma il “fratello”, anticipando un tema e un percorso complementare al processo, oggi presente anche nella recente riforma con l’introduzione dei princìpi della giustizia riparativa, nella convinzione che “la giustizia è nelle mani di pochi, la misericordia è nelle mani di tutti” (p. 31). La scelta del linguaggio non è mai neutra; è una dichiarazione teologica e politica che interpella la coscienza credente e quella civile: “Chi non crede alla redimibilità di una creatura umana non è cristiano” (p. 45). Una posizione lineare e per molti aspetti rivoluzionaria, che pone al centro del discorso sulla giustizia non la punizione, bensì la possibilità del pentimento e del riscatto. Don Mazzolari non era un cappellano delle carceri (il carcere l’aveva conosciuto subendo due arresti nel 1944, con l’accusa di aver favorito l’attività partigiana), eppure il suo sguardo verso chi è detenuto è intriso di empatia e misericordia, radicate nel Vangelo (cfr Mt 25,36) e alimentate dalla consapevolezza che ogni uomo, anche il più lontano, rimane figlio di Dio. Al termine della Seconda guerra mondiale, è emblematica la sua scelta di recarsi a celebrare la Messa in un carcere dove sono rinchiusi molti fascisti, esprimendo “la sua fraternità verso le persone che fino a poche settimane prima sarebbero state disposte ad arrestarlo e a ucciderlo” (p. 15). La giustizia che egli invoca è una giustizia “fraterna”, che non si esaurisce nella pena, ma guarda alla possibilità di redenzione, con la consapevolezza che tutto ciò può implicare rischi e impopolarità. Il libro è in piena sintonia con l’enciclica di papa Francesco Fratelli tutti, dove la fraternità è proposta come fondamento di ogni relazione sociale e politica. La Chiesa, secondo don Mazzolari, deve essere non solo madre, ma anche casa di riconciliazione, capace di accompagnare chi ha sbagliato verso una nuova possibilità di vita. In questo senso, conserva tutta la sua attualità la riflessione che il parroco di Bozzolo propone sul destino dei detenuti dopo la loro scarcerazione. Una volta scontata la pena, questa sembra proseguire in un contesto sociale in cui risulta molto difficile un reinserimento: “E, se nessuno l’accoglie, quando egli fa ritorno nel mondo, se non gli facciamo posto nella casa, nel lavoro, in chiesa, se lo respingiamo ai margini della società, perché una volta ha sbagliato, poiché nessuno rimane solo quaggiù, dove egli andrà?” (p. 82). I Curatori del libro offrono una guida chiara alla lettura dei testi, valorizzando l’impatto spirituale e sociale delle parole di don Mazzolari. Parole dirette, profetiche e profondamente umane di un pastore appassionato, che non teme di criticare istituzioni e consuetudini quando queste tradiscono il Vangelo. Il libro contiene un invito alla conversione dello sguardo: è un appello rivolto a credenti e non credenti a non cedere alla tentazione dell’indifferenza o della condanna definitiva. In un tempo in cui le carceri restano luoghi di sofferenza, marginalità e talvolta di oblio, la testimonianza di don Mazzolari, incentrata su un Vangelo mai edulcorato, si mantiene incisiva e drammaticamente attuale, invitando a tornare a credere nella forza trasformatrice della misericordia. Giustizia, una riforma che indica il “dito” celando la “luna” di Giovanni D’Angelo La Sicilia, 8 settembre 2025 La prospettazione di una separazione delle carriere pare inadeguata, se non fuorviante, quanto ai fini della riforma, perché la separazione funzionale di giudici e pubblici ministeri è di fatto operante (nel 2023 il cambio di funzioni ha riguardato lo 0,38% dei magistrati e l’andamento è stabile). Alla ripresa della normale attività parlamentare un tema centrale in discussione sarà quello relativo alla riforma contenuta nel ddl costituzionale Meloni-Nordio n.1917/2024, comunemente intesa come quella della separazione delle carriere dei magistrati, che in realtà “traccia” una radicale revisione del sistema giudiziario nei suoi cardini strutturali e nei valori costituzionali che ne sono le radici. Il progetto di revisione è già stato approvato da Camera e Senato in prima lettura e attende la seconda che, se varata, precederà il referendum popolare confermativo - quasi certamente - nel 2026.L’attenzione generale, nel nostro Paese e nell’intero vecchio Continente, è in questo momento rivolta al contesto geopolitico globale mai negli ultimi 80 anni sottoposto a una fibrillazione così destabilizzante che segnala i prodromi di un nuovo ordine mondiale. Si potrebbe perciò dire che, in un tale contesto, il rilievo della riforma del sistema giudiziario sia secondario e una riflessione sulla stessa di scarso interesse. È però sempre utile analizzare tematiche all’esame del Parlamento che mettono al centro i diritti dei cittadini perché la riflessione ne agevola la conoscenza collettiva, necessaria più che utile su tematiche su cui la comunità nazionale esercita nella sede referendaria una funzione di “ausiliarità legislativa”. Pare utile, ai fini della ricognizione degli elementi portanti della riforma, indicare in premessa l’orientamento ribadito nell’intervento di fine agosto al meeting di Comunione e Liberazione a Rimini dalla premier Meloni in relazione alle decisioni dei giudici sul tema dei diritti degli immigrati. La premier ha attaccato i giudici appellandosi al valore del rispetto della legge, che è proprio ciò a cui, secondo i principi della Costituzione e i canoni del diritto nazionale e sovranazionale, sanciti dagli organismi di giurisdizione sovranazionale, si sono attenuti i magistrati con le loro decisioni nella citata materia. Il punto nodale, legato al richiamo al principio del rispetto della legge, che nello Stato di diritto è valido per tutti, cariche governative comprese, è connesso ad un altro orientamento, espresso dalla Presidente del Consiglio, secondo cui le decisioni dei giudici non possono essere in contrasto col contenuto, e i relativi fini, delle leggi varate su iniziativa governativa ma debbono assecondarli assumendo, in caso contrario, queste decisioni, connotati politici estranei al ruolo dei magistrati. Tanto premesso, e segnalato il rilievo regressivo dei cennati orientamenti su un cardine del nostro assetto costituzionale, la separazione dei poteri dello Stato, sul citato ddl di revisione costituzionale si possono esporre queste notazioni di fondo. La prima attiene ad un aspetto della sua “narrazione”, che ha un ruolo primario nella percezione collettiva del contenuto della riforma. La medesima è infatti generalmente indicata come riforma della separazione delle carriere dei magistrati. Tale prospettazione pare inadeguata, se non fuorviante, quanto ai fini della riforma, perché la separazione funzionale di giudici e pubblici ministeri è di fatto operante (nel 2023 il cambio di funzioni ha riguardato lo 0,38% dei magistrati e l’andamento è stabile) e quanto ai presupposti, perché il - presunto - appiattimento dei giudici sulle richieste dei pubblici ministeri, ed il conseguente vulnus della terzietà dei primi, sono smentiti dal generale, reale andamento della definizione dei processi. Dunque, prospettare il progetto di revisione costituzionale come la separazione delle carriere equivale ad indicare il “dito” celando la “luna” e cioè il centro della riforma che è costituito, oltre che dell’istituzione dell’Alta Corte disciplinare, soprattutto della riforma del Consiglio Superiore della Magistratura che perderebbe il ruolo di garante dell’autonomia dei magistrati e di rappresentante del pluralistico dinamismo culturale del corpo giudiziario che è consustanziale alla sua funzione. Tra i profili della riforma che lasciano perplessi va anzitutto segnalata la creazione di due distinti Csm, uno per i giudici e l’altro per i pubblici ministeri, entrambi con tre membri di diritto: il Capo dello Stato, che li presiede, e i due vertici della Cassazione. Già questa duplicazione, e le peculiari implicazioni di tipo personale, richiama ai non lievi problemi di funzionalità di un sistema “binario” composto di organi sovrapponibili. La - eventuale - normativa di attuazione dovrebbe perciò stabilire se entrambi i Csm disporrebbero, ai fini dello svolgimento dell’attività para-normativa e dell’adozione dei pareri in materia di ordinamento giudiziario, di un unico Ufficio studi o di due, se dovrebbero redigere un’unica relazione annuale al Parlamento o due e così via, col conseguente notevole aggravio organizzativo e la più che prevedibile incertezza sulla definizione del sistema ordinamentale di riferimento. Non senza contare, come è già stato osservato, i rischi dell’istituzione di un organo destinato ad aumentare ulteriormente la forza della “funzione accusatoria”, con la più classica eterogenesi dei fini di una riforma destinata, nei propositi dichiarati, a garantire la parità processuale delle parti. La sezione della riforma che con maggiore chiarezza ne rivela i reali intenti è quella che istituisce, per l’elezione della componente togata dei due Csm, il sistema del sorteggio. Un sistema che, a differenza di quanto è previsto per la componente laica eletta dal Parlamento, per la quale il sorteggio sarebbe di “secondo livello”, avverrebbe cioè all’interno di un elenco di professori ordinari di università in materie giuridiche e di avvocati dopo quindici anni di esercizio, per la componente togata sarebbe di sorteggio “puro”: i componenti togati dei due Csm sarebbero estratti a sorte tra i magistrati giudicanti e requirenti. La sola asimmetria nel metodo selettivo tra componente di estrazione parlamentare e quella togata (per la cui selezione non è previsto alcun requisito d’idoneità spettando alla legge di attuazione, secondo il ddl di revisione costituzionale, la fissazione del “numero e delle procedure”) evidenzia le reali finalità della riforma. La previsione di un sistema elettorale che affida al sorteggio “puro” la scelta dei componenti del più alto organo di autogoverno dei magistrati, non a caso presieduto dal Capo dello Stato, assume un rilievo quasi irridente e di certo delegittimante solo se si tiene conto della complessità e della specificità delle competenze dell’autogoverno giudiziario. Parte della riforma, che risponde alla stessa logica di depotenziamento del ruolo costituzionale del Csm, e che il limitato spazio di questa esposizione consente solo di indicare, prevede la sottrazione all’organo di autogoverno della funzione disciplinare ed il conferimento della medesima ad un’Alta Corte disciplinare. Questa logica risponde a fini non consoni alle serie esigenze del funzionamento della giurisdizione da tempo in sofferenza e in attesa di risorse strutturali e di metodologie che diano il segno della necessaria inversione di tendenza. Nordio: “Disastroso se la magistratura si agganciasse alla politica contro la riforma” agenzianova.com, 8 settembre 2025 “Sarebbe estremamente pernicioso perché la magistratura in questo modo si dimostrerebbe nei confronti dei cittadini ancora più politicizzata di quanto oggi i cittadini non la vedono”. La magistratura “ha manifestato il proprio dissenso verso la riforma ed è un dissenso comprensibile, però quello che io auspico è che questo dissenso si mantenga nell’ambito tecnico e giuridico e non tracimi invece in quello che è l’aspetto politico”. Lo ha detto il ministro della giustizia Carlo Nordio intervenendo al Forum Teha in corso a Cernobbio. “Sarebbe disastroso se la magistratura si agganciasse a quella parte politica che voterà o inviterà i suoi elettori a votare contro il referendum. Sarebbe estremamente pernicioso perché la magistratura in questo modo si dimostrerebbe nei confronti dei cittadini ancora più politicizzata di quanto oggi i cittadini non la vedono, che già purtroppo politicizzata la vedono abbastanza”. “Faremo di tutto per convincere anche la magistratura che non si tratta di una iniziativa punitiva nei loro confronti ma soprattutto per cercare di convincere i propri colleghi magistrati che sarebbe un disastro se accettassero questo invito che già è stato fatto in Parlamento dal Partito democratico”. “Io spero che questo referendum, quando ci sarà, non si traduca come è avvenuto a suo tempo per Renzi in un ‘Meloni sì, Meloni no’. Questo deve essere un referendum squisitamente tecnico giuridico e non deve essere un referendum pro o contro il governo, per una ragione molto semplice: una nostra vittoria nei confronti di una magistratura che si fosse politicizzata al punto da allearsi con le forze politiche dell’opposizione sarebbe una vittoria politica nei confronti di una magistratura che si è data alla politica e questo non andrebbe bene perché le sconfitte politiche si pagano e io spero che questo non avvenga perché mi sento ancora, almeno in parte, magistrato”. il ministro ha poi ribadito che “non voglio che questo confronto diventi, un confronto ideologico, un confronto politico, un confronto che veda, diciamo, la sinistra alleata con la magistratura contro il governo per far cadere o per non far cadere il governo Meloni”. Il Csm e quell’anomalia da rimuovere di Giuseppe Cricenti Il Tempo, 8 settembre 2025 Tra le garanzie di cui il Consiglio Superiore della Magistratura gode, riconosciute quando forse neanche lontanamente si presagiva a quale destino le correnti lo avrebbero disposto, una è di particolare risalto. Il Csm è, tra gli organi di vertice dell’ordinamento, l’unico non soggetto a controlli di legalità. Può essere sciolto solo per impossibilità di funzionamento: in pratica solo se manca il numero legale. Non si può scioglierlo per gravi violazioni di legge, né per il compimento di atti contrari alla Costituzione. Un privilegio unico, dal momento che non c’è organo deliberativo - a quelli giudiziari e consultivi non si addice ovviamente un tale tipo di controllo - tra quelli di rilevanza, che non sconti una soggezione ai controlli di legalità. Anche il Presidente della Repubblica può essere messo in stato di accusa per atti contrari alla Costituzione. Comuni, Province, Regioni possono essere sciolti per gravi illegalità. I ministri possono essere revocati con la sfiducia individuale e l’intero governo è soggetto a controlli da parte del Parlamento. Se dunque il Csm assume decisioni illegali, se lo fa nell’interesse di gruppi privati anziché della giustizia, nessuno avrebbe modo di far sì che ne risponda, e neanche si può far valere una qualche responsabilità politica di fronte agli elettori, nonostante i suoi membri siano eletti come fossero rappresentanti politici. Quando il sistema delle correnti è diventato di pubblico dominio, con lo scandalo di qualche anno fa, in tanti si meravigliarono che il Presidente della Repubblica non avesse sciolto il Csm, ed egli dovette ricordare come non rientrasse tra i suoi poteri farlo. Nessuno sa spiegare questa anomalia, che ovviamente non si giustifica per il ruolo che il Csm ha nell’ordinamento costituzionale, né per la necessità che sia garantita l’indipendenza dei magistrati, ritornello questo buono ad ogni occasione corporativa. Ora, il Parlamento si sta affrettando a varare una riforma che prevede tra l’altro che i membri del Csm vengano sorteggiati e non eletti, nella speranza di porre fine al malcostume che, per l’appunto, chi è eletto da una corrente è portato a seguire nell’interesse suo e di chi lo ha eletto; piuttosto che in quello della giustizia. Non dico che si tratta di una proposta sbagliata, che anzi la condivido. Ma ne avanzo una alternativa. Lasciare il sistema elettorale così come è, lasciare che le correnti continuino a condizionare la composizione e l’attività di quell’organo, ma introdurre un controllo di legalità. Affidare al Presidente della Repubblica il potere di sciogliere il Csm quando risulti una oggettiva violazione di legge e prevedere però che chi ne faceva parte perda definitivamente l’elettorato passivo e non possa più candidarsi neanche al consiglio di classe del figlio. Forse si candirebbe solo chi ha oneste intenzioni. E comunque sarebbe la fine di una anomalia ingiustificata. La serie tv su Tortora è una lezione per i giudici di Fausto Carioti Libero, 8 settembre 2025 Non tutto il cinema vien per nuocere, persino a destra. “Ho assistito al film di Marco Bellocchio sul caso Tortora, pochi giorni fa. Dovrebbe essere proiettato anche alla Scuola superiore della magistratura”, dice Carlo Nordio. Per la precisione è una serie tv in sei episodi, con Fabrizio Gifuni nel ruolo del presentatore di “Portobello” che finì nel tritacarne giudiziario. Sarà trasmessa presto, alla Mostra del cinema di Venezia c’è stata la presentazione dei primi due episodi, il guardasigilli era in sala. Al termine della proiezione ha avuto parole dure, ha detto che “il magistrato che sbaglia perché non conosce le leggi o le carte, o perché, per ottusità preconcetta, manda in prigione un innocente, non deve pagare con il portafoglio, ma deve pagare con la carriera, deve cambiare mestiere”. Ieri, al forum di Cernobbio, ha detto il resto. Tortora fu arrestato nel giugno del 1983, sulla base di accuse false formulate da pentiti e null’altro. Fece 271 giorni di carcerazione preventiva, poi fu messo ai domiciliari. Dopo una prima condanna, l’assoluzione definitiva, con sentenza della Cassazione, arrivò nel giugno del 1987. Una lezione che i magistrati devono ricavare dalla sua vicenda, spiega Nordio, è che “la carcerazione preventiva è sempre un fardello di dolore per chi la subisce”, soprattutto quando c’è “un’alternativa alla carcerazione medesima”. Lui, la propria parte la sta facendo. “Per farvi un esempio”, spiega alla platea degli imprenditori, “le sette persone che a Milano sono state arrestate durante l’ultima indagine per ordine del gip, su richiesta del pm, e poi liberate dal tribunale della Libertà, non una bella immagine per la giustizia, non sarebbero state arrestate se fosse entrata già in vigore la mia riforma”. Per la quale bisognerà aspettare il prossimo anno. Il ministro era già apparso al forum sul lago di Como nel 1997, e in quell’occasione presentò il suo libro sulla separazione delle carriere. Un progetto che ora sta per portare a termine: a settembre la riforma costituzionale dovrebbe passare in seconda lettura alla Camera e il mese successivo in Senato. La chiama “la madre di tutte le battaglie”. Sarà sottoposta a referendum confermativo, il grande appuntamento politico della primavera del 2026. Se passerà l’esame delle urne, promette Nordio, “condurrà a una profondissima rivoluzione nella magistratura, perché verranno smantellate le incrostazioni sedimentatesi in questi decenni con le correnti”. Il sorteggio per l’elezione dei membri dei due Csm e dell’Alta Corte disciplinare, ribadisce, è stato voluto proprio per togliere potere alle fazioni organizzate delle toghe. “Oggi la giustizia disciplinare nei confronti del magistrato, cioè i voti ai magistrati, se li danno gli stessi magistrati eletti tra di loro attraverso il sistema delle correnti. Quindi è una giustizia, diciamo così, domestica. Con l’alta corte disciplinare questo sistema viene rivoluzionato”. La maggioranza delle toghe, anche attraverso l’Anm, si oppone e accusa il governo di voler sottomettere il potere giudiziario. La saldatura con il Pd e il resto della sinistra pare inevitabile, ma Nordio si appella ai magistrati affinché il loro “dissenso comprensibile si mantenga nell’ambito tecnico e giuridico, e non tracimi nell’aspetto politico”. Sarebbe “pernicioso, un disastro”, avverte, se i magistrati “accettassero l’invito, che già è stato fatto in parlamento da parte del Partito democratico, di allearsi a loro in una sorta di campagna contro il governo”. Se la magistratura facesse questo, “si dimostrerebbe ancora più politicizzata di quanto oggi i cittadini non la vedano, e purtroppo la vedono già abbastanza politicizzata”. Parole in cui è facile vedere anche un riferimento alla Corte di Cassazione, autrice di numerose sentenze recenti contro il governo, inclusa quella che ha bloccato l’estradizione del mafioso turco Boris Boyun, dopo che Nordio aveva dato il suo via libera. Il boss per il quale sarebbero giunti a Viterbo i due turchi arrestati il 3 settembre. Soprattutto, aggiunge il ministro, lui non vuole che il referendum si traduca, come avvenne per la riforma disegnata da Matteo Renzi, in “un Meloni sì, Meloni no. Deve essere un referendum squisitamente tecnico-giuridico, non un referendum pro o contro il governo”. Difficile che il messaggio passi, ma è giusto che il ministro faccia il tentativo. Ai leader dell’opposizione, ieri tutti a Cernobbio, Nordio lancia poi l’accusa d’incoerenza: “Ci hanno rimproverato di avere approvato leggi più severe, da quelle sui rave party a quelle che aumentano le pene per i reati sessuali, quindi non vedo che altro potremmo fare”. Sventola i risultati dell’accorciamento dei tempi della giustizia, una delle promesse elettorali della maggioranza e uno degli impegni del Piano di ripresa e resilienza. “Siamo stati i primi nel governo ad aver attuato le direttive e impiegato le risorse Pnrr”, rivendica. Nella giustizia civile, in particolare, “abbiamo ridotto del 27,7% i tempi delle cause”. Merito in parte della magistratura, riconosce, “ma anche nostro, che siamo riusciti a impiegare le risorse disponibili”. Toscana. Giuseppe Fanfani, Garante dei diritti dei detenuti: “Serve una rivoluzione culturale” di Anna Grazia Concilio spazio50.org, 8 settembre 2025 “La politica deve essere lungimirante”. Sono sedici gli istituti penitenziari della regione Toscana, a questi si devono aggiungere altri due, le carceri minorili di Firenze e Pontremoli. Tra strutture medio grandi e strutture più piccole, con una differenziazione tra l’alta sicurezza e la media, oltre alle strutture destinate ai collaboranti, la popolazione carceraria toscana si aggira intorno alle 3.200 unità. “Il 50% di detenuti - spiega Giuseppe Fanfani, Garante dei detenuti della regione - è di origine straniera, il 35% ha problemi di tossicodipendenza. In una condizione simile, le modalità di gestione sono abbastanza difficili”. Fanfani, quali sono le principali criticità negli istituti di pena in Toscana? Il sovraffollamento è la criticità che fa più effetto ma non è la più grave: abbiamo psichiatria in carcere, tossicodipendenza in carcere, il reinserimento al lavoro e la presenza di detenuti stranieri che crea problemi anche culturali e di dialogo tra le persone. Quale, tra le carceri, ha maggiori difficoltà? Certamente gli istituti con un numero alto di detenuti, quello di Prato - ad esempio - che ne conta 580. C’è un turn over piuttosto veloce, soprattutto per chi è in custodia cautelare. Le carceri di Prato, quindi, di Sollicciano, di Livorno, Pisa e San Gimignano sono le più importanti, sia per quello che accade all’interno, sia per il numero di detenuti e sia per la loro gestione. Lo scorso anno abbiamo registrato undici suicidi e quattro quest’anno, avvenuti proprio in queste strutture. Quanti sono i diritti maggiormente negati? Le problematicità sono infinite. Il carcere ha la caratteristica di essere un’entità chiusa in cui si ripropongono tutti i problemi che possiamo riscontrare nella realtà ma con un’aggravante che - essendo sostanzialmente monastica - tutte le problematicità sono aggravate dal sistema claustrale che fa emergere le psicosi enfatizzandole. Se, secondo le indicazioni del Ministero, ogni detenuto ha diritto a uno spazio di 3 mq, già di per sé insufficiente, immaginiamo cosa voglia significare per queste persone vivere in cinque in una stanzetta di 15 mq, con questo caldo e con un bagno piccolissimo che - spesso - viene usato anche per conservare cibo. Ecco, proviamo a immaginare la condizione psicologica di chi sa che deve vivere in questo spazio. Recentemente, l’onorevole Giachetti ha presentato una proposta per la liberazione anticipata (introduzione per i prossimi due anni di un ulteriore aumento dei giorni di sconto di pena, ndr), cosa ne pensa? È una buona idea ma non è risolutiva. È, tuttavia, una norma che in questo contesto andrebbe immediatamente accettata. Cosa fa un garante? Purtroppo, non abbiamo poteri di intervento. Il garante ha potere di controllo e denuncia ed è già una grande premessa: a patto che lo si voglia ascoltare, altrimenti nominare un garante rimane solo un’operazione per pulirsi la coscienza. Il garante denuncia continuamente ma è vero pure che bisogna avere orecchie per ascoltare, altrimenti è inutile che urli nel deserto. Cosa dovrebbe fare la politica? Guardare lontano perché solo così può creare condizioni che prescindono dalle occasionalità. Se si guarda lontano, si comincia a ragionare: cosa serve a una società e come si può organizzare? Se questa capacità non si ha, ci si attacca alle emergenze quotidiane perché sono di effetto. Questo è quello che succede in tutti i cambi, anche quando si verifica un incidente stradale o un morto sul lavoro, si interviene nell’occasione. I politici, oltre a partire dalle fondamenta giuridiche sul ruolo della rieducazione, dovrebbero, proprio per questo, ragionare anche in chiave utilitaristica. Di cosa avrebbe bisogno il carcere oggi? Di una riforma che sia prima di tutto culturale, pensando che la maggioranza dei detenuti è frutto di questa società e che queste persone prima o poi tornano nella società. Se si è svolto un buon lavoro in carcere, le persone tornano migliori nella società, se tornano peggiori il carcere ha fallito nella sua missione di formazione o riformazione. O creiamo in ciascun detenuto la prospettiva di un’esistenza sociale migliore di quella da cui proviene o questi ricade inevitabilmente nello stesso dramma da cui è partito. Come si porta la bellezza nel carcere? Con l’arte. Tutto ciò che di artistico può essere portato all’interno di un carcere è uno spazio benedetto. Nel carcere di Volterra si svolgono lezioni di teatro, di recente i detenuti hanno recitato anche a Venezia. Tutto questo abbellisce anche un ambiente che non lo è. Firenze. Nuovo suicidio in cella. Il vescovo: carcere disumano di Stefano Brogioni La Nazione, 8 settembre 2025 La 26enne sarebbe stata scarcerata tra un anno. Sabato c’era stata una protesta. Monsignor Gambelli: “Sovraffollamento e strutture fatiscenti, è inaccettabile”. Il terzo dell’anno a Sollicciano. Il primo nella sezione femminile. A togliersi la vita, usando le lenzuola come una corda, Elena, rumena di 26 anni. Era detenuta da poco meno di un anno, in custodia cautelare. Lo scorso aprile, era stata condannata a quattro anni e otto mesi, in abbreviato, per una movimentata rapina, avvenuta a fine agosto nella cantina di un palazzo del centro di Firenze, in cui un anziano di 91 anni aveva rischiato di morire per le lesioni riportate. Il suo legale, Luca Maggiora, ex presidente della Camera Penale di Firenze, da sempre impegnato nella difesa dei diritti dei detenuti, le aveva fatto visita venerdì scorso. “Era di buon umore, le avevo anche comunicato la possibilità di fare istanza dei domiciliari perché aveva ottenuto una disponibilità dall’unica persona che la aiutava. Chissà cosa è poi accaduto”. Qualche ora prima del suicidio di Elena, sempre nella sezione femminile, erano stati appiccati degli incendi per protesta. L’episodio riaccende l’attenzione sulle condizioni dei penitenziari italiani. Sollicciano si conferma sul podio delle strutture più fatiscenti e carenti. Caldo rovente d’estate, umidità d’inverno, infiltrazioni, cimici: problemi cronici ribaditi ispezione dopo ispezione. A questo si aggiunge anche il sovraffollamento: secondo l’ultimo rilievo dell’associazione Antigone, nel carcere fiorentino ci sono una settantina di detenuti in più della sua capienza e, secondo il sindacato Uil-Pa, una carenza del 36% degli agenti di polizia penitenziaria previsti dall’organico. “Peraltro ancora più clamoroso è che il suicidio sia avvenuto mentre è in corso l’ispezione alla struttura del Comitato europeo per la prevenzione della tortura”, Aggiunge Leo Beneduci, segretario generale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp. “Il carcere continua ad essere un luogo di disperazione per i detenuti e le detenute costretti in condizioni troppo spesso disumane e inaccettabili per sovraffollamento, strutture fatiscenti, e carenza di personale - ha commentato l’arcivescovo di Firenze, Gherardo Gambelli -. Torniamo a chiedere un impegno concreto, che alle parole seguano i fatti, perché le carceri siano veri luoghi di educazione, di riscatto, di speranza e non di morte. Nella vigilia della Natività di Maria rivolgiamo una preghiera per questa giovane e la sua famiglia, affidiamo alla Madonna tutti i detenuti perché li assista e consoli le loro pene, preghiamo anche per chi fra mille difficoltà con impegno e umanità opera nelle carceri”. “Le condizioni in cui versa il penitenziario sono disumane e prive di dignità per i detenuti, per chi vi lavora e per tutti coloro che vi operano a vario titolo. A livello nazionale il governo continua a sottovalutare queste criticità”, dice l’assessore al welfare di Palazzo Vecchio Nicola Paulesu. Per il deputato dem Federico Gianassi, i 60 suicidi di detenuti rappresentano “un numero che il governo non può più ignorare, mentre degli interventi promessi non vediamo traccia a partire da quelli annunciati su Sollicciano che sono rimasti lettera morta. Serve un cambio radicale e immediato, così non si può andare avanti”. Ivrea (To). Morto in cella dopo alcuni giorni di malattia: tre medici accusati di omicidio colposo quotidianocanavese.it, 8 settembre 2025 Andrea Pagani Pratis, 47 anni, è morto il 7 gennaio dello scorso anno nel carcere di Ivrea per un edema polmonare. Era detenuto da tempo e da sei giorni segnalava sintomi piuttosto chiari: febbre, tosse persistente e un forte malessere generale. Nonostante tre visite mediche in momenti diversi, nessuno dei sanitari in servizio avrebbe disposto esami diagnostici, cure adeguate o un trasferimento in ospedale. Ora la Procura di Ivrea, con il pubblico ministero Valentina Bossi, chiede il rinvio a giudizio per tre medici della casa circondariale. Sono accusati di omicidio colposo nell’esercizio della professione sanitaria. L’accusa sostiene che la morte di Pagani Pratis poteva essere evitata, se fosse stato seguito un protocollo medico adeguato. L’udienza preliminare è fissata per il 5 febbraio. In quell’occasione, la madre e il fratello del detenuto si costituiranno parte civile. Il caso ha riacceso il dibattito sulle condizioni sanitarie all’interno delle carceri italiane, dove la mancanza di risorse e una gestione spesso superficiale possono avere conseguenze fatali. Il procedimento giudiziario dovrà chiarire se si sia trattato di una tragica fatalità o di una negligenza medica evitabile. Latina. Morto in cella, ascoltato in Procura un supertestimone di Andrea Ranaldi latinaoggi.eu, 8 settembre 2025 Nei giorni scorsi in Procura è stato ascoltato Roberto Toselli, ritenuto il supertestimone della morte del detenuto Andrea Di Nino, nel carcere di Viterbo il 21 maggio 2018, inizialmente classificata come un suicidio e finita ora al centro di una nuova inchiesta avviata per fare chiarezza sull’accaduto, sulla base di una denuncia presentata dai familiari della vittima. Le dichiarazioni di Toselli, detenuto anche lui in quel periodo nello stesso istituto di pena Mammagialla di Viterbo, ristretto due celle dopo, sostengono l’ipotesi dell’omicidio, o comunque della morte come conseguenza di un’aggressione da parte degli agenti della penitenziaria. La precedente indagine infatti ha portato a un processo per l’ipotesi di omicidio colposo a carico del dirigente medico del carcere, di un assistente capo della penitenziaria e del medico di guardia, quest’ultimo assolto in primo e secondo grado. La vicenda è diventato un caso nazionale in seguito a un servizio della trasmissione Le Iene di Italia Uno, andato in onda a metà maggio. In quell’occasione era stato intervistato anche Roberto Toselli, che ha rilasciato dichiarazioni forti sulla tragica scomparsa di nove anni prima, le stesse rese in precedenza al legale che assiste la famiglia di Andrea Di Nino e hanno consentito l’apertura di una nuova inchiesta. Sia lui che la vittima si trovavano in isolamento quel giorno, a distanza di due celle l’uno dall’altro. Nei giorni scorsi il trentacinquenne di Latina è stato convocato dai magistrati della Procura di Latina proprio per chiarire quanto ha dichiarato. Cagliari. Detenuti al 41 bis nel carcere di Uta, proteste anche a Capoterra di Ivan Murgana L’Unione Sarda, 8 settembre 2025 Il caso finisce in consiglio comunale, a portarlo De Muru (Pd): “Rischio infiltrazioni criminali, la Sardegna torna ad essere una colonia penale”. Quasi gli stessi reclusi di Milano Opera, oltre il doppio di Rebibbia, a Roma: i 92 detenuti in regime di 41 bis che verranno ospitati nel reparto di massima sicurezza di prossima apertura nel penitenziario di Uta, non fanno dormire sonni tranquilli a cittadini di Capoterra, il centro abitato più vicino al carcere “Ettore Scalas”. I numeri parlano da soli, tolto il penitenziario milanese con suoi 95 detenuti, in Italia non ci sarà alcun reparto detentivo che ospiterà più mafiosi, ndranghetisti o terroristi del carcere di Uta. L’Isola come cayenna, proprio come accadeva in passato quando era necessario mandare il più lontano possibile i peggiori criminali, la provincia di Cagliari costretta a dover fare i conti con le conseguenze della decisione presa dal ministero della Giustizia. La casa circondariale si trova nel territorio di Uta, ma è nettamente più vicina al centro abitato di Capoterra: ecco perché l’arrivo imminente di quasi cento detenuti speciali impensierisce amministratori comunali e cittadini. A sollevare il problema in Consiglio comunale è Efisio De Muru, capogruppo del Partito Democratico: “La decisione del ministero di trasferire un numero così cospicuo di detenuti in regime di 41 bis non può che preoccuparci, visto che a pochi chilometri dalle nostre case arriveranno mafiosi e terroristi. Ancora una volta la Sardegna, come accadeva in passato viene considerata una colonia penale in cui confinare i peggiori malavitosi, in questo senso bene ha fatto il senatore Marco Meloni insieme a un collega siciliano a chiedere la riforma della norma che individua nelle isole i luoghi ideali in cui confinare i detenuti speciali, come se il problema dei trasporti potesse impedire di mettere in connessione le reti criminali”. De Muru, inoltre, rimarca la vicinanza del penitenziario Ettore Scalas, con l’abitato di Capoterra: “Condivido la preoccupazione del sindaco di Uta, Giacomo Porcu, ma il carcere è a soli 4 chilometri dal centro di Capoterra, e questa estrema vicinanza non può farci dormire sonni tranquilli per diversi motivi, non solo perché un numero così cospicuo di detenuti speciali metterà a dura prova la polizia penitenziaria e gli uffici giudiziari di Cagliari - non dimensionati all’entità dei detenuti speciali in arrivo - ma perché la criminalità potrebbe infiltrarsi nel tessuto sociale ed economico locale, cosa già accaduta in altre zone d’Italia. Su questo trasferimento si è espresso anche il procuratore generale di Cagliari, Luigi Patronaggio, che ha spiegato come la Sardegna non possa essere considerata al riparo dagli appetiti delle organizzazioni criminali, e il rischio di infiltrazioni nell’economia locale con 92 detenuti speciali sia elevato. È necessario che anche l’amministrazione comunale di Capoterra faccia sentire la propria voce, e si faccia portatrice delle preoccupazioni dei cittadini non è accettabile che il Governo pensi di risolvere i problemi di sicurezza penitenziaria scaricandoli sull’Isola”. Vigevano (Pv). Affidati i lavori nel carcere per l’area riservata al 41-bis di Selvaggia Bovani La Provincia Pavese, 8 settembre 2025 Comincia a delinearsi il futuro della casa di reclusione dei Piccolini, in via Gravellona 240. La struttura sarà riconvertita in sezione 41 bis, il cosiddetto “carcere duro”. Ad occuparsi dei lavori di manutenzione straordinaria e adeguamento, indispensabili per accogliere detenuti sottoposti al regime speciale previsto dall’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario, sarà la Tecnoedi Costruzioni s.r.l. di Cirié (Torino), che si è aggiudicata l’appalto per un importo pari a di oltre 786mila euro. Alla gara hanno preso parte anche l’azienda vigevanese Cefer, classificatasi seconda, e la Società Immobiliare Mattioda Costruzioni. Il cantiere, già consegnato, avrà una durata prevista di circa quattro mesi, secondo quanto riportato nel disciplinare di gara. Per consentire lo svolgimento degli interventi, i detenuti cosiddetti “comuni” sono stati trasferiti nell’edificio fino a metà agosto riservato alla sezione femminile di alta sicurezza AS3: tutte le detenute sono quindi state spostate altrove. Fonti qualificate confermano che il blocco principale del carcere sarà destinato a ospitare la nuova sezione 41-bis, cui se ne affiancherà un’altra in fase di costruzione sul retro, verso i campi. Quest’ultimo padiglione, finanziato con circa 13 milioni di euro di fondi Pnrr dal Ministero delle Infrastrutture guidato da Matteo Salvini, secondo diverse indiscrezioni, potrebbe non accogliere i 80-120 posti detentivi originariamente previsti, ma trasformarsi in un vero e proprio polo sanitario penitenziario. “Se confermato - commenta Barbara Verza, esponente del Partito Liberal Democratico - il caso Vigevano assumerebbe un rilievo ben oltre i confini locali. Non si tratterebbe solo di cambiare la destinazione d’uso di un padiglione, ma di istituire un’unità operativa di Sanità penitenziaria, con équipe multi-professionali gestite da Asst e coordinate da una cabina di regia tra Ministero della salute e della giustizia, seguendo il modello di Rebibbia, dove è da poco attivo un polo analogo”. Sanremo (Im). Carcere, oggi in visita il procuratore generale di Giovanna Loccatelli La Stampa, 8 settembre 2025 È atteso oggi alle 10 il procuratore generale della Repubblica Enrico Zucca al carcere di Sanremo. Incontrerà i rappresentanti della polizia penitenziaria. Una visita “da annoverare tra gli eventi più importanti della casa circondariale” afferma Fabio Pagani, segretario regionale Uilpa. Dopo anni caratterizzati “da crisi ed eventi critici”, la situazione è mutata i primi di luglio con il sopralluogo del provveditore Mario Antonio Galati. In quel frangente, Galati adottò una linea dura: diede specifiche e stringenti disposizioni alla polizia penitenziaria. Da lì a poco è arrivato un nuovo comandante, Daniele Cutugno, incaricato di riportare ordine in una struttura dove “la legalità era diventata un’eccezione”, a detta del personale. “Dopo il 26 luglio, con queste nuove disposizioni, non si è verificato nessun evento critico” sottolinea Pagani. I problemi dell’istituto però sono ancora tutti sul tavolo, il primo rimane il sovraffollamento: la capienza massima del carcere è di 211 posti, oggi “ci sono 256 detenuti” chiarisce Pagani che poi rimarca: “Sanremo è un carcere di frontiera, si riempe sempre, ma oggi la situazione è migliorata”. Un altro problema messo in evidenza dall’associazione Nessuno Tocchi Caino, la cui delegazione visitò il carcere il 3 luglio scorso, riguarda i detenuti: “Ci sono tanti tossicodipendenti che dovrebbero essere curati in un altro luogo, e purtroppo ci sono tanti casi di autolesionismo. In generale è molto diffuso il problema della salute mentale tra i carcerati”, le nette parole del segretario D’Elia. La delegazione affermò un concetto sacrosanto: “Il carcere dovrebbe assicurare la salute e la dignità di tutti”. E spesso questo non accade nei carceri italiani, come dimostrano gli eventi di cronaca e i numeri. Le parole di D’Elia non lasciarono spazio a fraintendimenti: “C’è un deficit strutturale e dirigenziale dell’istituto”. Ora la situazione sembra migliorata, almeno per le persone che lavorano all’interno del carcere. Ma la strada per una struttura “più umana” sembra ancora lunga, se si prende in considerazione l’attuale sovraffollamento. Ora resta da capire cosa cambierà con la visita del procuratore generale, ma una cosa è certa: il carcere di Sanremo è oggi una struttura “attenzionata”. Cremona. Due detenuti al lavoro in oratorio, accordo fra il carcere e la parrocchia don Mazzolari laprovinciacr.it, 8 settembre 2025 Persone detenute impegnate in piccoli lavori di manutenzione, pulizia, giardinaggio nelle strutture parrocchiali e negli oratori dell’unità pastorale. È quanto succede nell’unità pastorale don Primo Mazzolari (S. Ambrogio, Cambonino, Boschetto e Migliaro). Un piccolo, ma importante segno di speranza che si è concretizzato nel rinnovo della convenzione con la Casa Circondariale di Cremona. Ne dà notizia il sito della Diocesi. “Nell’anno del Giubileo questa iniziativa acquista ancora più valore - racconta il parroco don Paolo Arienti - arricchisce i momenti celebrativi dell’Anno Santo dando concretezza al tema della speranza”. Lo scorso anno questa opportunità era stata offerta a un ragazzo egiziano, che nel frattempo è stato poi scarcerato. Quest’anno coinvolge altri due detenuti della Casa circondariale di Cremona che prestano servizio negli oratori per tre ore alla settimana insieme ad alcuni volontari adulti. Giungere al rinnovo della convenzione non è stato semplice, anche a motivo di un complesso iter burocratico. “Abbiamo fatto un passaggio con il consiglio pastorale - precisa il sacerdote - e la nostra comunità è stata opportunamente informata della presenza di questi due detenuti, che sono a contatto esclusivamente con i volontari. È una grande occasione, che ci consente di offrire loro un’opportunità di lavoro, di volontariato, di servizio, ma soprattutto di speranza”. Un’occasione concreta per mettersi in gioco facendo qualcosa di buono per la comunità, ripagando del reato commesso non solo scontando la pena. “Dietro la scelta dei detenuti c’è un lavoro molto complesso. I due che sono stati ritenuti idonei per un lavoro in esterno sono soggetti adulti, che usufruiscono delle opportunità offerte dall’Articolo 21. Uno dei due lavora già anche per una cooperativa, l’altro fa delle attività interne al carcere. Non sono giovani, sono persone che hanno già una certa età e che stanno avendo un’occasione per affrontare in modo diverso il tempo detentivo. Li vedo molto contenti e anche molto volonterosi. Sia quella dell’anno scorso che quella attuale mi sembrano esperienze davvero molto positive e feconde”, conclude don Paolo Arienti con soddisfazione. Quello messo in atto dall’unità pastorale Mazzolari è progetto ampio, che prevede anche una convenzione con il Tribunale di Cremona per offrire spazio a persone che possono accedere ai lavori socialmente utili, nel caso di pene che il magistrato può convertire in ore di lavoro. Pistoia. La marcia per la giustizia con Don Ciotti di Daniela Gori La Nazione, 8 settembre 2025 Una piazza Risorgimento affollata ha accolto sabato sera gli ospiti della 32^ Marcia per la Giustizia, dedicata al tema “Non c’è pace senza giustizia. Percorsi per la risoluzione dei conflitti e la tutela dei diritti”. Dal palco hanno lanciato i loro messaggi per la pace nel mondo e per la lotta contro le mafie che sono all’origine delle ingiustizie don Luigi Ciotti (fondatore Gruppo Abele e Libera), don Mattia Ferrari (Cappellano di Mediterranea Saving Humans) Giovanni Bombardieri (Procuratore della Repubblica di Torino), Tommaso Pastore (Capo Centro Operativo della Direzione Investigativa Antimafia di Torino), Marialuisa Rovetta (Figlia di Alessandro Rovetta, vittima innocente delle mafie), Antonella Lombardo (Direttore artistico Laboratorio Accademico Danza e Presidente DanceLab Armonia) con le sue ballerine e ballerini. Sono inoltre intervenuti i ragazzi portavoce dei gruppi che nel pomeriggio al Parco Verde avevano partecipato al Seminario Giovani. La parola d’ordine è stata coraggio: “Grazie a tutte le istituzioni che fanno con grandi sacrifici la loro parte ma tocca anche a noi avere il coraggio di stare dalla parte dei più deboli - ha detto al termine della serata don Ciotti - vedo una diffusa idolatria del denaro e del potere. Ma se l’umanità fosse cosciente della sua fragilità, sentirebbe il bisogno di soccorrersi gli uni con gli altri”. Particolarmente toccante il discorso di Marialuisa Rovetta, che ha ricordato la figura coraggiosa del padre ucciso nel 1990 dalla mafia quando lei non aveva ancora due anni. “La giustizia diventa vera soltanto quando non resta confinata nelle carte” ha detto la giovane. La marcia, ideata da Antonio Vermigli e ora organizzata dal figlio Tommaso, è promossa da Casa della Solidarietà, Rete Radié Resch, Libera e Comune. Busto Arsizio. Tra i detenuti le vicende di Acutis e Frassati esempi di innocenza che ispirano di Roberta Barbi vaticannews.va, 8 settembre 2025 Nel febbraio scorso una reliquia del giovane santo monzese era stata donata da monsignor Sorrentino, arcivescovo di Assisi, alla Casa circondariale in provincia di Varese. Il cappellano: “Il suo dono e la sua presenza hanno dato molti frutti spirituali”. C’è Isaac, fuggito dalla Nigeria dopo che in una sparatoria in Chiesa ha perso tutta la sua famiglia, poi c’è Jamein, che a febbraio era appena stato battezzato dopo una conversione avvenuta in carcere grazie allo sguardo di Gesù riflesso nei volontari, e c’è Marco, che non può vedere suo figlio ma ogni domenica, davanti alla reliquia di Carlo Acutis prega, sapendo di affidarlo in mani sicure. Sono solo alcune delle storie che popolano la casa circondariale di Busto Arsizio, in provincia di Varese, raccontate dal cappellano, don David Maria Riboldi, dopo l’eccezionale dono di cui sono stati protagonisti qualche mese fa. Il 12 febbraio di quest’anno, infatti, il vescovo di Assisi (nel cui Santuario della Spogliazione riposa il corpo di Carlo Acutis) Nocera Umbra, Gualdo Tadino e Foligno, monsignor Domenico Sorrentino, aveva voluto donare ai detenuti di questo istituto di pena una reliquia del nuovo Santo, oggi custodita nella grande cappella del carcere, dentro una teca realizzata nella falegnameria interna e sormontata da un quadro dipinto da un detenuto dotato di talento artistico, copia esatta di quello regalato quel giorno al presule di Assisi. “Quel dono e quella presenza sono state accolte dai ristretti che vi hanno corrisposto i propri cammini spirituali - ricorda con i media vaticani il cappellano - situazioni personali spesso drammatiche che però i detenuti sentono di affidare a San Carlo Acutis come a un amico o a un confidente”. “Da quando abbiamo con noi la reliquia - continua don David - San Carlo Acutis fa parte delle mie omelie domenicali e anche della formazione spirituale con cui mi avvicino ai detenuti”: è così che spesso si sentono ripetere “Non io, ma Dio”, oppure che “tutti nascono originali ma molti muoiono fotocopie”. Oltre all’Eucaristia, definita “l’autostrada verso il Cielo”, ossia, secondo il cappellano, “la via per recuperare l’originalità del nostro io fatto a immagine di Dio”. Tutti insegnamenti che nella giornata di oggi potenziano il proprio significato. Nella giornata in cui la Chiesa si arricchisce di due nuovi Santi, testimoni giovani dell’amore di Dio e del farsi dono per gli altri, questo l’insegnamento che possono offrire a chi vive in condizioni di privazione della libertà personale, secondo don Riboldi: “Insegnano l’innocenza - conclude - che non si perde dopo l’infanzia, nemmeno per chi ha commesso pubblici peccati come possono essere considerati i reati, perché Dio ce la ridona e lo sguardo autentico e cristallino di San Carlo Acutis e San Pier Giorgio Frassati sono un grande richiamo a questo”. Saviano: “Credo nella bontà, troppe volte la giustizia delude” di Cristina Taglietti Corriere della Sera, 8 settembre 2025 Lo scrittore al festival di Mantova in un incontro dove si è parlato di boss, di mafia, di amore. Sette minuti di applausi per Omar El Akkad, Gad Lerner e Paola Caridi sull’emergenza Gaza. Tutti in piedi, un lunghissimo applauso (7 minuti) cronometrato come alla prima della Scala o alla Mostra del cinema, ha chiuso ieri in piazza Castello l’incontro tra Omar El Akkad, Gad Lerner, Paola Caridi. L’emergenza Gaza è nelle parole dure e nello sguardo malinconico del giornalista nato in Egitto, che da anni vive in Oregon, autore di “Un giorno tutti diranno di essere stati contro” (Gramma Feltrinelli). “A Portland c’è un piccolo festival e sono in un gruppo che sta cercando di convincere l’organizzazione a sospendere la sponsorizzazione di una banca che finanzia armi, anche a Israele. C’è un dibattito interno, tra noi: dobbiamo boicottarlo o sarebbe meglio usarlo come piattaforma per parlare di quello che sta accadendo? Non lo sappiamo, perché soltanto una società sociopatica può metterti nella condizione di decidere che atteggiamento avere di fronte a un genocidio. Le mie emozioni sono impotenza assoluta e complicità perché sono anche le mie tasse che finanziano le armi”. Si specchia nelle sue parole Gad Lerner, autore del saggio Gaza (Feltrinelli) che pure trova improprio usare la parola genocidio: “Dopo Gaza io sono più ebreo di prima, le cose che stanno accadendo me lo hanno ancor più ricordato anche se non ce n’era bisogno. Vivo i comportamenti criminali di Israele come una ferita al mio ebraismo, mi suscitano anche interrogativi brutti riguardo a quale possa essere il destino di Israele. Mi chiedo: ci sarà a celebrare il suo centenario nel 2048? Se mai si realizzasse quello che voi chiamate genocidio e che possiamo chiamare in altro modo - massacro, carneficina - se Israele vincesse, lo farebbe sul cadavere dell’ebraismo, per come l’ho vissuto io”. E se per Lerner chi parla di genocidio ha vinto la guerra delle parole, dal momento che sono sempre di più quelli disposti a usarla, “il senso di impotenza può addirittura peggiorare se le cose non cambiano. Anche se una breccia si è aperta dobbiamo chiederci se non esista una cattiva coscienza europea, se non siamo in molti a pensare la cosa aberrante che ha detto il cancelliere tedesco Merz, che Israele sta facendo il lavoro sporco anche per noi”. La crisi di Gaza è un tracciato che attraversa tutte le giornate della rassegna, molto attenta ai temi civili. Ieri si è parlato anche di boss, di mafia, di amore in un altro evento affollatissimo, l’incontro tra Roberto Saviano, con il suo romanzo L’amore mio non muore (Einaudi Stile libero) e Teresa Ciabatti con Donnaregina (Mondadori) che racconta il tramonto (e il tradimento narrativo) di un superboss. “Dopo Saviano tutto quello che si scrive sulla mafia è annacquato. Io sono entrata nella storia da abusiva, concentrandomi sui materiali di scarto” ha detto la scrittrice. La ‘ndrangheta, la mafia, la scelta d’amore di una ragazza condannata dalle cosche, suggeriscono a Elisabetta Bucciarelli che modera l’incontro una domanda a Saviano: “Sei buono?”. Lo scrittore risponde con il protagonista di Vita e destino di Vasilij Grossman, che vive l’orrore nazista e poi quello staliniano. “Ad un certo punto non ce la fa più - racconta Saviano. Dice di non credere nella giustizia perché nel suo nome qualunque violenza viene giustificata, qualunque atto viene sottoposto a una sorta di clemenza momentanea. Lui dice di credere nella bontà. E cos’è la bontà? Qualcosa di cui posso servirmi subito, qualcuno che ti sta aiutando, una mano tesa, non una costante della tua esistenza. Io cerco, quando posso, di non fare cose crudeli in un mestiere infame fatto di gossip biechi, di dossier falsi dove può venire spontaneo essere crudeli. Ho informazioni su tutti, è il mio lavoro, so cose che potrebbero ricattare. Ma farlo mi avvelenerebbe. È bontà? Non so, forse è un atto di protezione: non diventare una monnezza come quelli che stai combattendo. Mi sforzo costantemente di non diventare come chi ho intorno a me, anche quelli che sembrano i giusti, gli inquisitori, i buoni, a cui spesso vengo sommato anche se non c’entro niente”. La differenza per Saviano la fa il metodo e anche il bersaglio: “Io scelgo sempre di valutare con chi me la prendo, non voglio cedere alla sproporzione che renderebbe facile il bersaglio. Credo nella bontà come Grossman, perché troppe volte la giustizia ha deluso e la bontà è misurabile subito”. “Il male è un mistero. Spesso si compie senza alcun motivo” di Niccolò Zancan La Stampa, 8 settembre 2025 Stefano Nazzi, 63 anni, giornalista, scrittore, è uno dei più bravi a raccontare la cronaca nera e la giudiziaria. Dopo anni nella vecchia carta stampata, era inviato e poi vicedirettore del settimanale Gente, ha incominciato una nuova vita con un podcast di grande successo al Post. Pochi aggettivi. Ricerca accurata delle fonti. Chiarezza nel racconto. “Intanto a casa Gacy, la vita procedeva ordinata. John e Carole si erano sposati, ora erano una famiglia. La colazione insieme la mattina, poi il lavoro, la scuola, la sera la televisione. Ogni tanto lui si incantava guardando la moglie e le ragazze camminare su quel pavimento. Ascoltava i loro passi e pensava a cosa c’era lì sotto”, ecco una tipica frase alla Nazzi. Ora è in uscita il suo nuovo libro, “Predatori. I serial killer che hanno segnato l’America” (Mondadori). È l’occasione per una chiacchierata sul male e sul mestiere di raccontarlo. Il tu è d’obbligo, come da legge non scritta fra colleghi giornalisti. Stefano Nazzi, secondo te perché la cronaca nera va così di moda? “Io credo che abbia sempre suscitato molto interesse. Fin dagli anni Cinquanta, e persino durante la guerra, ha sempre occupato spazi importantissimi. La differenza è che adesso è cresciuta l’offerta: televisione, social, un proliferare di podcast”. Tu racconti trasversalmente, da poco anche in televisione: qual è il mezzo che senti più congeniale? “Il teatro. Non avevo mai fatto niente davanti al pubblico. Ma adesso ho scoperto che lì si crea un contatto, qualcosa di unico”. Perché nel tuo nuovo libro hai deciso di occuparti dei serial killer americani? “Leggendo, mi aveva colpito un’espressione usata per definire quello che era successo negli Stati Uniti: un’epidemia. Ma come? Un’epidemia di serial killer? Sì, in effetti a un certo punto ci fu un proliferare estremo di casi, e ovviamente mi interessavano quelle figure così lontane da noi. Mai visto niente di paragonabile”. Nell’introduzione citi una statistica del criminologo Ruben De Luca secondo cui su tremila assassini seriali dell’epoca moderna il 57,9 per cento sono americani. Secondo te, perché? “Prima di tutto c’è la facilità al recupero di armi che non c’è da altre parti. Contrariamente a quanto si pensi, i serial killer hanno ucciso prevalentemente con armi da fuoco. Secondo: la guerra del Vietnam potrebbe avere avuto un peso, con la violenza che si è riversata nell’animo delle persone. Altri studi dicono che anche la diffusione, nuova e estrema, della pornografia potrebbe avere avuto un’influenza. Il serial killer Ted Bundy disse che i suoi primi sogni malati di dominio erano venuti da lì”. Un tratto comune di tutte le storie è che nessuno conosce il prossimo. La cronaca nera è anche raccontare questa invisibilità? “Sì, ci facciamo sempre un’idea superficiale delle persone. Anche andare a chiedere ai vicini di casa, pratica di noi giornalisti, è quasi sempre un esercizio inutile. Che vuoi che ti rispondano? Mi salutava, era gentile. Peraltro: questi serial killer dell’epidemia invertivano l’immaginario comune. Non erano isolati e trasandati. Ma inseriti, eleganti, belli. La realtà è che non sappiamo niente degli altri”. Scrivere come antidoto all’ipocrisia? “È una lezione, per certi versi. Ti dice: non pretendiamo di capire tutto semplicemente da alcuni atteggiamenti. Gli esseri umani sono molto più complessi e misteriosi di quello che pensiamo. Non ci stanno, tutti interi, nei nostri dibattiti televisivi”. Se uno pensa alla nera di Buzzati pensa che sia un racconto sociale, se uno invece pensa al plastico di Bruno Vespa della villetta di Cogne pensa che sia un’altra cosa. Ti poni un limite su quello che si può raccontare? “Sì. Me lo pongo sempre. È un insegnamento che devo a Carlo Lucarelli. Quando uno sta per scrivere particolari macabri che possono disturbare, deve sempre chiedersi se sono utili o no alla comprensione. Servono a capire oppure è solo un modo per creare emozione? Quello è il discrimine. Ci sono particolari crudi che sono fondamentali al racconto, altri no”. Qual è la lezione più grande che hai imparato sulla via della cronaca nera? “Prendersi più tempo. So che è difficile per chi lavora nei quotidiani, ma certe volte è meglio arrivare un’ora dopo ma capire meglio, verificare di più. Sul caso Garlasco abbiamo letto tutto e il contrario di tutto. Ho imparato che alla conclusione delle indagini, molte delle cose che noi avevamo sentito e ci avevano indirizzato nello scrivere - e di cui eravamo convinti - nel tempo si sono rivelate inconsistenti oppure molto diverse da come le avevamo ipotizzate”. Qual è uno scrittore a cui ti ispiri? “Ce ne sono tanti. Truman Capote per la cronaca, ma anche Giorgio Bocca. Adesso il più grande di tutti nel raccontare la realtà è Emannuel Carrère”. Il programma Belve di Francesca Fagnani ha avuto molto successo. Ma molti hanno criticato il passaggio dalle belve dello spettacolo a quelle, molto più belve, della cronaca nera. Tu hai preso parte al programma: cosa ne pensi? “Francesca Fagnani viene dalla cronaca nera. Ha scritto libri sulla malavita romana. Si è sempre occupata di casi di cronaca. Non capisco perché un bravo giornalista non possa un giorno intervistare Stefano Di Martino e un altro giorno Massimo Bossetti. L’unica cosa che conta è fare le domande giuste. Io credo che Francesca Fagnani abbia pagato un pregiudizio. Non lo capisco, non lo condivido”. Forse chi racconta la nera certe volte lo fa anche per paura di quel nero. Intendo dire, paura di potergli assomigliare. Per te è mai stato così? “No, paura di finire fra i cattivi no. Da bambino io avevo paura. Profondo rosso di Dario Argento mi terrorizzò per settimane. Se uno si conosce, conosce i suoi difetti e le sue piccole cattiverie. Ma sa anche qual è il limite che non supererà mai”. Perché molti non lo superano e alcuni sì? “È la domanda. Da dove viene il male? Ci sono tanti fattori. Spesso nei serial killer è il desiderio di possesso sugli altri. Sono persone che si pensano al centro dell’universo, persone per cui contano soltanto i loro obiettivi. Alla base c’è una mancanza totale di empatia nei confronti del resto del mondo”. Qual è il caso che ti tormenta di più fra quelli che hai seguito? “Tutti quelli che riguardano i bambini, le persone più indifese della terra. Ma posso dirti che c’è una storia, quelle delle Bestie di Satana, che ho seguito tanto e mi è rimasta lì. Perché se parli con quei ragazzi che si uccisero fra loro, ancora adesso, ormai diventati uomini, non ti sanno dire perché lo fecero. Anche i criminali hanno delle spiegazioni, ma lì c’è il vuoto pneumatico più assoluto. O non c’è una ragione, o comunque non la sanno dire. Questo è quello che mi spaventa di più”. Vivere senza social è possibile. Anzi, si sta molto meglio di Raffaele Alberto Ventura* Il Domani, 8 settembre 2025 La concentrazione è la risorsa più preziosa di questo tempo. Gli effetti polarizzanti delle piattaforme sono sotto gli occhi di tutti, lamentarsene è sport nazionale. Le ho lasciate quattro anni fa: da allora mi sembra che le mie giornate siano più lunghe e piene. Lamentarsi degli smartphone e dei social network è diventato uno sport nazionale, anzi internazionale. Gli effetti polarizzanti delle piattaforme digitali sono sotto gli occhi di tutti e i danni psicologici che provocano sono diventati un tema di dibattito accademico. Intanto cresce il numero di ore passate davanti agli schermi: tre, quattro, cinque, dieci al giorno. A minacciare di andarsene sono tanti, ma poi pochissimi sono quelli che tengono parola. Ecco, io l’ho fatto davvero. E sono tornato per raccontarvi come si sta dall’altra parte. Nel maggio del 2021, proprio su queste pagine, annunciavo la mia decisione. Dapprima ho chiuso la mia “storica” pagina Facebook, sacrificando i suoi 30mila follower, poi tutti i miei account personali da Twitter a Instagram. Com’è andata a finire? Quattro anni dopo, il bilancio è piuttosto positivo: ho l’impressione che le mie giornate siano più lunghe e più piene. E di quelle ore passate a scrollare e commentare non mi manca nulla. Non è un caso se parlo come un ex-alcolista, perché ne ero davvero dipendente e nessun tentativo di autolimitazione è mai bastato. Ma liberarsi dai social non è stata una passeggiata: in un mondo in cui il self-branding è diventato vitale, scomparire dagli schermi significa tagliarsi fuori da molte opportunità professionali. Per riuscire nell’impresa, bisogna prendere questa sfida come una missione, forse come un sacerdozio. La vita dopo i social - Sono un saggista e la possibilità di continuare ad esserlo dipende dal numero di copie che vendono i miei libri, o più precisamente dalla mia reputazione e dalla mia visibilità. Per fortuna non ho bisogno di avere centinaia di migliaia di lettori, ma è opportuno che ci sia qualche migliaio di persone che si ricordi di me. In pratica il mio destino è simile a quello dei personaggi della Storia infinita di Michael Ende, dei defunti nel film Coco, o ancora degli American Gods di Neil Gaiman: anime o divinità che rischiano di essere inghiottite dal nulla se vengono dimenticate. Essere attivi sui social è un buon modo per non essere dimenticati. Essere polemici, aggressivi, sconvenienti, è ancora più efficace. Finire sui giornali come protagonista di un fatto di cronaca nera, meglio ancora. Io ho scelto un’altra strada: mi sono detto che avrei lasciato parlare i miei libri e fatto affidamento sull’intelligenza dei lettori. Ora di me resta solo una pagina ufficiale, di cui non vedo né like né commenti, una vetrina senza interazioni. Il problema è che anche i più intelligenti dei lettori hanno bisogno di sapere quello che fai - se vuoi che lo comprino, se vuoi che vengano ad ascoltarti. Scomparire dai social, da questo punto di vista, è praticamente un suicidio. Io l’ho fatto per guadagnare tempo, concentrazione, serenità e sapete cosa? Non è poi così male questa vita dopo la morte. Le ore che ho riconquistato le posso passare a scrivere, leggere, vedere film o giocare con mia figlia, e quindi alla fine a fare libri migliori. Non litigo quasi più; l’attualità mi arriva mondata dal pulviscolo dell’impermanente. La comunicazione ora la lascio fare a dei professionisti, a partire dal mio editore. Come vivere (quasi) senza smartphone - Questo però non basta. Non sono soltanto i social a minacciare la nostra concentrazione, ma tutto il ben di Dio che ci offrono gli smartphone: comunicazione istantanea, news, video. Ed è così che, dopo avere fatto i conti con Facebook, conviene affrontare il minicalcolatore che ci portiamo in tasca. So bene che i buoni propositi di digital detox si scontrano spesso con dei limiti concreti. Vivere senza smartphone significa innanzitutto essere irreperibili, e questo potrebbe non essere compatibile né con il lavoro né con la vita famigliare. Difficile vivere sereni sapendo che ogni momento potrebbe capitare un incidente a un figlio o a un genitore. Perciò in un primo momento ho provato a dotarmi di un minifonino, tipo i vecchi Nokia ma grande come un pollice. Troppo drastico, usato pochissimo: il gingillo serve efficacemente per le chiamate telefoniche ma non permette di usare quella che è diventata l’app da cui passa la quasi totalità delle nostre comunicazioni, ovvero WhatsApp. Avevo bisogno di una soluzione realista, un compromesso. Così mi sono dotato di una approccio leggermente meno luddista, un mini smartphone della taglia di un biglietto del tram, dotato del sistema operativo Android. Pare che siano molto apprezzati da spacciatori e carcerati, si trovano in quei negozietti gestiti da persone dell’Asia meridionale. Sul mio modello XS11 ho installato WhatsApp e la mail, che raggiungo attraverso un’interfaccia semplificata (OLauncher). In questo modo riesco a leggere tutte le comunicazioni che ricevo e persino a rispondere in caso di urgenza: la scomodità mi spinge alla sintesi. E nell’impossibilità di fare altro, il telefono non mi distrae dalla lettura di libri e giornali, dalla scrittura, dal paesaggio o dal conversare con gli sconosciuti. Il lavoro vero è proprio attenderà il suo momento, quando sarò davanti a un computer. Evidentemente ci sono innumerevoli cose che non posso fare con il mio XS11. Alcune sono proprio le distrazioni che cerco di evitare, come guardare video o spedire barzellette agli amici. Altre sono più utili: non posso consultare una mappa, recuperare i biglietti del treno, verificare il mio conto in banca, scrivere una lunga mail. Per questo è necessario organizzare la propria vita in modo diverso, scoprendo però che il tempo perso è comunque inferiore a quello guadagnato. Una sfida di civiltà - La faccenda è ben più seria di quanto sembri. Perché dietro agli sforzi individuali per riconquistare il proprio tempo c’è una questione sia cognitiva che ecologica. Secondo studi recenti, l’adulto medio tocca il proprio smartphone oltre 2.600 volte al giorno, con utenti intensivi che superano le 5.400 interazioni quotidiane. Questo comportamento compulsivo si traduce in un tempo medio di utilizzo di circa 3-4 ore al giorno, escludendo l’uso lavorativo, con picchi che arrivano a 8-10 ore per alcune fasce d’età. Probabilmente finiremo per considerare la concentrazione come una delle risorse più preziose del XXI secolo: perché un numero crescente di persone - tra cui molti nativi digitali - l’ha persa del tutto, abituata com’è a vivere in uno stato di sollecitazione permanente. L’economia dell’informazione è in realtà un’economia dell’attenzione, e quanto più siamo sommersi dalla prima tanto più diventa scarsa e preziosa la seconda. La logica vorrebbe che ci dotassimo quindi degli strumenti per regolare l’informazione e ottimizzare l’attenzione, se non fosse per un piccolo problema: chi ci vende (o talvolta ci “regala”) quegli strumenti, ovvero i fabbricanti di device e le piattaforme online, non ha come priorità il nostro benessere ma il suo profitto. E quindi deve estrarre la nostra attenzione come una preziosa materia prima, anche a costo di prosciugarla. Quanto tempo rubiamo ai nostri progetti o ai nostri cari, ogni volta che clicchiamo su una notifica o che giochiamo a Candy Crush? Quanto odio assorbiamo ad ogni lettura del nostro feed? Infine, il problema ecologico: la lotta che si svolge ogni giorno sui social per accumulare attenzione - ovvero capitale sociale - è diventata un buco nero che inghiotte tutte le energie e tutte le risorse del pianeta. I data center, che ospitano le infrastrutture dei social media e delle piattaforme online, consumano una quantità crescente di energia. Si stima che l’ICT (Information and Communication Technology) sia responsabile di circa il 2-3 per cento delle emissioni globali di gas serra, una percentuale destinata a crescere esponenzialmente. Ogni video, ogni notifica, ogni interazione sui social ha una carbon footprint che non può più essere ignorata. Oggi la scelta di disconnettersi o di limitare l’uso dei dispositivi digitali non è più solo una questione di benessere individuale, ma un atto di resistenza consapevole, sia per la nostra salute mentale che per la sostenibilità del nostro stile di vita. Tutto questo vale molto più del confort, del divertimento e delle “opportunità professionali” che rischiamo di perdere. *Scrittore Malattie psichiatriche e Tso: quei medici in prima linea che la politica lascia da soli di Emi Bondi e Giancarlo Cerveri* Corriere della Sera, 8 settembre 2025 In merito al pregevole articolo pubblicato il 19 agosto scorso sullo spinoso tema dei Trattamenti senza consenso in psichiatria ringraziamo la giornalista Chiara Daina per la sensibilità mostrata e il dottor Fabrizio Starace per l’intervento corretto sulla necessità di un osservatorio nazionale per il monitoraggio del fenomeno. Vorremmo però aggiungere alcune considerazioni. È un tema che abbiamo definito spinoso. Nell’articolo si fa riferimento a una sentenza della Consulta che ha giudicato incostituzionale la Legge Basaglia del 1978 nella parte in cui non prevede che chi è privato della libertà abbia la possibilità di interloquire con un giudice: di fatto equiparando il Tso a qualunque procedura di riduzione della libertà individuale e assimilando un atto sanitario chiamato Trattamento sanitario obbligatorio alla limitazione della libertà per un supposto atto antigiuridico. Cioè proprio ciò che si voleva eliminare con la legge Basaglia: nell’intento del legislatore gli interventi psichiatrici dovevano essere di “cura” in opposizione a quanto avveniva prima, quando l’internamento in manicomio era invece un atto giuridico. La sentenza scatena non poche perplessità su un argomento che non trova mai un equilibrio. Da quando la Legge Basaglia è divenuto l’atto normativo che regola il trattamento delle malattie psichiatriche in Italia si sono succedute infinite proposte di modifica in senso “restrittivo” o “libertario”, in una dialettica senza fine tra il rischio di un abuso di potere della società sull’individuo e l’abbandono dell’incapace al suo destino. E così nel tentativo di garantire la dignità della persona costretta all’intervento si creano catene di controlli abnormi, sempre più lunghe. C’era prima un medico che proponeva, un altro che convalidava, un sindaco che disponeva, un giudice che controllava la correttezza. Ora si pretende che il giudice parli con l’ammalato e garantisca non solo la correttezza formale ma anche che nessuno della catena precedente abbia abusato del suo potere. Soluzione giusta? Riteniamo di no. Riteniamo che questa strada porti diritta al dito che il saggio utilizza per indicare la luna. La dignità degli ultimi, dei più deboli della nostra società, non si misura sulla bellezza dei principi ma sul materiale rispetto dei loro diritti. Non si può pensare di rispettare la dignità delle persone che vanno incontro a trattamenti di questo genere con parole, dichiarazioni, provvedimenti. La dignità si misura con luoghi di cura adeguati, spazi confortevoli, personale preparato e adeguato in termini di numeri, servizi territoriali funzionati che garantiscano la continuità dei percorsi di cura ed evitare nuovi episodi acuti. In sintesi, se vogliamo garantire dignità alle persone dobbiamo prenderci cura di loro in modo adeguato. Ma di questo non si parla mai. Il fatto che la maggior parte dei Tso si trasformi in ricovero volontario è frutto della costante tensione di infermieri e medici rivolta all’acquisizione di un consenso alle cure: perché un vero trattamento psichiatrico si fonda sul libero convincimento a curarsi. Il passaggio ulteriore è che il numero delle persone che accedono ai servizi di Pronto Soccorso dalla pandemia in poi è esploso. E magari le disponibilità di risorse fosse rimasta stabile: i posti letto per acuti sono addirittura diminuiti. Molti Spdc (Servizi psichiatrici di diagnosi e cura) hanno chiuso per mancanza di personale, con psichiatri e infermieri sempre più difficili da trovare perché il reparto psichiatria è percepito come luogo di lavoro sempre più faticoso e pericoloso. Abbiamo il più basso numero di posti letto per acuzie psichiatriche in Europa (dati Eurostat) e la sensazione è che il tema non sia interessante per la politica che fatica a investire su un’area così complicata e controversa. In questo le difficoltà dei servizi per le acuzie in psichiatria assomigliano molto a quella delle carceri: una sorta di cono d’ombra sottofinanziato in termini di spazi e risorse, sostenuto da uno sforzo eroico di migliaia di operatori (infermieri e medici da una parte e agenti penitenziari dall’altra). E qui tocca citare Bertold Brecth che parlando proprio del nostro Paese (in un’altra epoca) costruì quella potentissima frase: “Sventurata quella terra che ha bisogno di eroi”. Anche perché prima o poi gli eroi si stancano di combattere per un Paese che non li ama. *Presidenti Coordinamento nazionale servizi psichiatrici di diagnosi e cura Tra diritto e valori, la pace non è solo “assenza di guerra” di Niccolo Nisivoccia Corriere della Sera, 8 settembre 2025 Si tratta di mettere la pace “al principio”, anziché alla fine, e dunque di includerla nel nostro orizzonte mentale come possibilità almeno altrettanto naturale quanto il conflitto. Com’è stato possibile arrivare a questo punto? A credere che tutto sia definitivo, irrevocabile? La violenza, il male, la guerra: a pensare che tutto sia ovvio, naturale? Come se niente potesse resistervi, tantomeno il diritto. Come se fosse, il diritto, una cosa inutile e priva di valore; o come se, nella migliore delle ipotesi, a nient’altro dovesse servire se non a punire e sanzionare - e sanzionare sempre più severamente. A replicare a sua volta la violenza, a legittimare il male e qualunque nefandezza. Eppure non è questa la funzione che il diritto dovrebbe svolgere, come ci ricorda ora Tommaso Greco in un libro appena uscito da Laterza, “Critica della ragione bellica”, che non è solo bellissimo. È molto di più: è un libro necessario, perché ci induce a smuoverci da tutti quei “ricorrenti pregiudizi” e quelle “radicate convinzioni” che troppo spesso ci portano a “mutilare” la realtà, per guardare invece a “ciò che di positivo in essa è possibile ritrovare e valorizzare”, a cominciare dalla “realtà della pace”. Tommaso Greco ci invita a concepire la pace non semplicemente come “assenza di guerra”, ma cercando piuttosto “di darle un fondamento solido, di ancorarla ad un presupposto che riesca a sostenerla al di là del suo riferimento alla guerra”. Si tratta, in altre parole, di mettere la pace “al principio”, anziché alla fine, e dunque di includerla nel nostro orizzonte mentale come possibilità almeno altrettanto naturale quanto il conflitto: scommettendo sul fatto che le relazioni possano essere preservate, curate, mantenute. Ed è la stessa logica fondativa del diritto, ci ricorda appunto Greco: una logica non della forza, ma del riconoscimento e della relazione, non del dominio ma dell’unione e della cooperazione. Tanto nei rapporti fra le persone quanto in quelli fra gli Stati, tanto nel diritto interno di ciascun Paese quanto nel diritto internazionale. Nelle pagine conclusive del suo ultimo libro, “I sommersi e i salvati”, Primo Levi esprimeva pensieri identici, nella sostanza. “È stato oscenamente detto”, scriveva, “che di conflitto c’è bisogno: che il genere umano non ne può fare a meno”. Per poi osservare: “Sono argomenti capziosi e sospetti. Satana non è necessario: di guerre e violenze non c’è bisogno. Non esistono problemi che non possano essere risolti intorno a un tavolo”. È una questione di volontà, insomma, mai di ineluttabilità. E dovremmo assumerci allora il coraggio e la responsabilità delle nostre scelte e delle nostre azioni, anche rispetto al diritto: siamo noi a generarlo, è da noi che dipende la sua efficacia, siamo noi a farlo vivere ogni giorno in un senso o in un altro, attraverso i nostri comportamenti, il nostro modo di abitare il mondo. La “guerra” alla idea europea di giustizia di Laura Di Santo avantionline.it, 8 settembre 2025 Insieme alle vittime civili, ingiustificate ed innocenti, uccise nella striscia di Gaza dal governo e dell’esercito israeliano, si rischia un’altra vittima illustre: la “giustizia”, così come abbiamo imparato a conoscerla nella difficile pratica quotidiana della nostra democrazia. Già messa in crisi duramente dal “garantismo” d’opportunità e di convenienza mirato a proteggere gli “indagati” della propria parte ed a condannare senza processo quelli di parte politica avversa, dalle finte “riforme della giustizia” a costo zero che hanno spesso aggravato i problemi piuttosto che risolverli, dalla generale superficialità con cui le cronache giornalistiche trattano temi delicatissimi di cronaca nera; il colpo di grazia rischia di essere inferto dagli “omicidi mirati” e dalle esecuzioni sommarie che vediamo all’opera nei conflitti internazionali. Gli omicidi mirati dei responsabili delle attività terroristiche di Hamas, addirittura gli omicidi mirati dì uomini dì governo in Iran, Libano, e recentemente in Yemen costituiscono una pratica ributtante ancora più se compiuti da un Paese (Israele) che tuttora, sia pure con dissociazioni crescenti, viene annoverato tra le democrazie occidentali. E se questa pratica facesse scuola? Se diventasse la normalità? Se anche in Europa l’avversario politico, bollato unilateralmente quale “terrorista”, venisse assassinato in nome di una “giustizia di parte”? La cultura giuridica che abbiamo costruito dopo i milioni dì morti della seconda Guerra mondiale e che abbiamo implementato in decenni di pratica democratica va preservata. Va ribadito che tutti hanno diritto ad un processo giusto e garantito: perfino i leaders di un gruppo “terrorista” come Hamas. Mantenere la barra dritta sui diritti conquistati, sulle proprie convinzioni democratiche è anche un modo per impedire alla “cultura” insana della guerra di travolgere e cambiare in peggio il nostro quotidiano, la nostra agenda politica. I socialisti di tutta Europa devono fare sentire forte la loro voce contro la pratica degli “omicidi mirati”, chiedere sin d’ora una commissione d’inchiesta sulla guerra di Gaza che porti alla costituzione di una corte di giustizia internazionale imparziale e con regole certe: le future generazioni devono conoscere i colpevoli del bagno di sangue in atto, nomi e cognomi attraverso una giustizia chiara, imparziale ed apolitica. l’Europa non può permettersi una “verità” dettata dagli “omicidi mirati” ovverosia una narrazione scritta violando tutti i principi democratici su cui essa stessa fonda la propria esistenza. Capitalismo e autocrazie, i due ordini mondiali non sono così diversi di Sergio Labate* Il Domani, 8 settembre 2025 Abbiamo assistito in questi giorni alla celebrazione in pompa magna di un altro nuovo ordine mondiale. Ma una domanda rimane: quali sono gli elementi di alterità che caratterizzano questo “altro” ordine mondiale? Tra non molto, l’unica che rimarrà è la potenza: niente più che due potenze differenti che si contendono lo stesso tavolo e lo stesso progetto di mondo. In questi giorni un altro ordine mondiale si è autocelebrato presentandosi al mondo in pompa magna. Certamente non è difficile approfittare del nostro tragico declino. In politica non esiste il vuoto. E quello che l’Occidente sta lasciando è un vuoto, una pervicace e ottusa sottrazione di tutti gli strumenti che potevano garantirci ancora autorevolezza. Abbiamo demolito il diritto internazionale, le istituzioni sovranazionali, le democrazie dei limiti e della protezione sociale; messo in discussione la separazione dei poteri, il parlamentarismo. Ci siamo illusi che bastasse la pura forza della guerra (economica o militare che sia) a riempire il vuoto che abbiamo creato. Ovviamente non basta. Però tutte le analisi di questi giorni non sono riuscite a rispondere compiutamente all’unica domanda che mi pare interessante farsi: che elementi di alterità caratterizzano questo “altro ordine mondiale” che pretende di essere già tale? Due società - Prendiamo la guerra fredda, quando due ordini mondiali si contrapponevano. A quei due ordini corrispondevano due “progetti di società” chiaramente distinguibili. L’alterità era garantita dal disaccordo sulla funzione sociale del capitalismo e del suo rapporto con lo stato e con la democrazia. Non mi interessa evidentemente dare un giudizio di merito, sto semplicemente ricordando che l’alterità tra i due progetti era evidente: da un lato la convinzione che capitalismo e democrazia potessero essere sufficienti a preservare una società di cittadini liberi, dall’altro l’idea di un ordine mondiale fondato su un progetto economico e sociale che non avesse alcun carattere capitalistico. Chi simpatizzava - anche da questa parte di mondo - per quell’ordine mondiale condivideva in forma più o meno estrema la critica sociale al capitalismo. Tra i due ordini mondiali che si contrappongono adesso non è certo la funzione del capitalismo il principio di differenziazione. Tutt’al più la Cina e la Russia, per non parlare degli altri, rappresentano modelli differenti di capitalismo, non certo modelli ad esso alternativi. Chi oggi rimane critico del capitalismo non può guardare con interesse - e nemmeno con curiosità, se posso permettermi - a quell’altro ordine mondiale che si annuncia. Le differenze - Resterebbero così altri due principi di differenziazione: la democrazia e la guerra. Ma anche in questi casi stento a riconoscere un’eterogeneità fondamentale. Diciamo che questo altro ordine mondiale non brilla certamente per rispetto dei principi democratici (se qualche lettore pensa tra sé e sé che quest’affermazione gli pare un eufemismo, ha perfettamente ragione). Ma anche noi non stiamo proprio messi benissimo. Tra colonialismo di ritorno, autocrati che governano la più grande democrazia del mondo, spinte generali a trasformare il dispositivo democratico in meccanismo di legittimazione periodico di un capo assoluto, disprezzo radicale dei diritti umani (non dico solo a Gaza, basta farsi un giro nelle carceri), mi pare che quel vuoto da cui sono partito sia decisamente un vuoto di democrazia. Che viene rimpiazzato da Putin e Li Qiang, non so se mi spiego. Quanto alla guerra, pur riconoscendo anche qui la repentina torsione bellica dell’ordine mondiale proposto dall’occidente - che ormai considera la pace un disvalore e fa di tutto per avere di nuovo militari professionisti ed economie di guerra - mi dichiaro in disaccordo con le previsioni di D’Alema. Che affida un nuovo ordine mondiale fondato sulla pace a personaggi come Putin e che presenzia a quella che non appare propriamente come una manifestazione che promette pace, ma sembra nient’altro che la solita celebrazione della potenza bellica. Parate militari, testate nucleari, dichiarazioni di immortalità (che riguarda esclusivamente il corpo dei dittatori, perché dubito che gli operai cinesi e i contadini russi abbiano un’aspettativa di vita che si approssimi all’immortalità). Lo stesso progetto - La conclusione di questo banale confronto non è né banale né incoraggiante. Nessun altro ordine mondiale si sta preparando. Ce ne sono stati due, per qualche decennio. Uno è crollato da sé, l’altro ha deciso di trasformarsi smascherando la propria natura violenta e togliendosi definitivamente anche la maschera della democrazia. Adesso i due ordini mondiali che si contrappongono si contengono lo stesso progetto di società, fondato sul progressivo sviluppo del capitalismo predatorio, sulla dismissione definitiva della democrazia, sull’egemonia della guerra su ogni razionalità della pace. Tra non molto, l’unica alterità che rimarrà tra loro è la potenza: sono niente più che due potenze differenti che si contendono famelicamente l’unico mondo che abbiamo (e che il capitalismo, la fine della democrazia e l’infittirsi della guerra promettono di distruggere molto più in fretta del previsto). *Filosofo Israele. L’Alta Corte contro il Governo: “In carcere palestinesi denutriti” di Benedetta Perilli La Repubblica, 8 settembre 2025 La sentenza dopo i morti per fame nelle prigioni. Ben Gvir: “Difendete i terroristi”. Con una sentenza destinata a infiammare il conflitto già acceso tra giustizia e governo Netanyahu, l’Alta Corte di Israele ha stabilito che lo Stato non sta rispettando gli obblighi di nutrire adeguatamente i prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane e lo ha esortato a adottare misure immediate per “garantire la loro sussistenza”. Due voti contro uno, che ieri hanno segnato il dibattito nazionale e scatenato la reazione del ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir: “I nostri ostaggi a Gaza non hanno un’Alta Corte a difenderli. I terroristi assassini di Hamas e gli abominevoli stupratori hanno, con nostra vergogna, l’Alta Corte a proteggerli”, ha accusato il politico di estrema destra assicurando che continuerà a fornire ai detenuti “le più minime condizioni previste dalla legge”. La decisione arriva in seguito alla petizione dell’Associazione per i Diritti Civili in Israele e dell’organizzazione Gisha contro Ben Gvir e il Servizio penitenziario israeliano, accusati di aver ridotto il cibo ai prigionieri fino a fino a condurli alla morte. Come nel caso del 17enne Waleed Ahmad, cisgiordano, morto di stenti nella prigione israeliana di Megiddo lo scorso marzo e al centro di un braccio di ferro tra autorità e famiglia che chiede il rilascio della salma per permettere di verificare le cause della morte che, secondo una prima autopsia, sarebbero riconducibili a uno stato grave di malnutrizione. La giornata è stata segnata anche dal lancio di un drone Houthi sull’aeroporto internazionale Ramon, nei pressi della località turistica israeliana di Eliat, caduto sul terminal passeggeri dove un uomo è rimasto ferito. Il drone dei ribelli yemeneti, che sono sospettati anche di aver tranciato alcuni cavi che passano nel Mar Rosso interrompendo l’accesso a Internet in molte aree del Medio Oriente, arriva pochi giorni dopo che raid israeliani sulla capitale yemenita Sanaa, hanno ucciso il primo ministro Houthi e altri membri del suo governo. In una grave escalation del conflitto, che dura da quasi due anni, tra Israele e il gruppo armato filo-iraniano. Nella Striscia per il terzo giorno consecutivo le Forze di difesa israeliane hanno abbattuto una torre residenziale a Gaza City, dopo averne ordinato l’evacuazione. Secondo l’Idf il grattacielo al-Ruya era utilizzato da Hamas come punto di osservazione per monitorare la posizione delle truppe israeliane. Nel quartiere di Zeitoun l’esercito ha inoltre demolito un tunnel di Hamas lungo centinaia di metri. “Stiamo distruggendo le infrastrutture terroristiche, stiamo demolendo le torri del terrore”, ha commentato Benjamin Netanyahu anche se, per il quotidiano Yedioth Ahronot, il premier starebbe pensando a un nuovo nome per l’operazione “Carri di Gedeone II” per renderla più “attraente” agli occhi degli israeliani che chiedono a gran voce di interromperla e riportare a casa gli ostaggi. Per la Protezione civile di Gaza a essere colpite non sono state solo le torri, ma almeno cinquanta edifici residenziali, mentre altri 100 sono stati danneggiati e almeno 200 tende distrutte, tra queste anche un riparo di sfollati nei pressi dell’ospedale al-Wafa dove sarebbero morti 21 palestinesi e una scuola-rifugio dove le vittime sarebbero almeno 8. A questi si aggiungono altre cinque persone morte di fame, che portano il totale dei deceduti per carestia dall’inizio della guerra a 387. Prosegue intanto il difficile percorso della diplomazia: il presidente Usa Donald Trump ha inviato ad Hamas una nuova proposta che prevede il rilascio di tutti gli ostaggi in cambio di prigionieri palestinesi, la fine dell’operazione a Gaza City e l’avvio dei negoziati per terminare il conflitto. “Hamas accetti o ci saranno conseguenze. È il mio ultimo avvertimento”, ha commentato. Secondo fonti vicine a Netanyahu “Israele sta prendendo in seria considerazione la proposta di Trump”.