Carceri, quando il volontariato è una vocazione: incontri con i protagonisti di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 7 settembre 2025 Dalle mamme e i bimbi di Rebibbia ai ragazzi di Regina Coeli. “A Roma, Insieme”, l’associazione fondata da Leda Colombini. Trent’anni fa, all’ingresso del carcere di Rebibbia, si poteva vedere una donna portare per mano dei bambini. Erano figli di madri detenute che uscivano dal penitenziario per il “Sabato di libertà”. Quella donna era Leda Colombini. Storica bracciante agricola e sindacalista, deputata, poi assessora regionale ai servizi sociali del Lazio, nel 1991 fonda “A Roma, Insieme”. Nel 1994, Leda Colombini inizia la sua attività in carcere, soprattutto con le donne detenute e i loro figli. Da lì in poi, volontarie e volontari dell’associazione si dedicano a questa piccola parte del mondo carcerario. Anche oggi, che a Rebibbia ci sono 4 bambini al seguito delle loro mamme; 21 in tutta Italia. Grazia Piletti, vicepresidente di “A Roma, Insieme”, lavora in carcere da 13 anni. Laureata in letteratura inglese, prima lavora in un’azienda petrolifera come segretaria di direzione; poi cambia vita e apre un negozio di abbigliamento per bambini. Come nasce la voglia di fare la volontaria in carcere? Per caso: stavo a una cena e ho sentito una persona parlare della sua esperienza. Così sono entrata a Rebibbia. Allora si facevano le uscite con i volontari il sabato - i famosi “Sabati di libertà” -, quando il penitenziario era ancora pieno di bambini con le loro mamme. Leda Colombini si occupava anche dei bambini disabili; a un certo punto il suo occhio è andato lì, sulle carceri e sulla “sezione nido”. Da lì, pian piano, si è sviluppata l’attività dell’associazione. E adesso? Adesso per fortuna i bambini sono tutti di passaggio e quasi tutti sotto l’anno di vita. Questo grazie anche alla direttrice, che tende a lasciare la sezione nido vuota, e al magistrato che autorizza le detenute con figli a scontare la pena in misura alternativa. E comunque c’è sempre la “Casa di Leda”, una casa-famiglia dove le donne vengono accolte. Ma ci sono sempre due volontarie che tutti i sabati pomeriggio vanno a Rebibbia e fanno attività con le mamme e i bambini. Ci vanno comunque, anche se sono pochi, e anche se ne rimanesse uno solo. “A Roma, Insieme” opera anche a Regina Coeli. Progetti per quest’anno? A breve ci sarà una riunione con la direttrice. Vorremmo proseguire con i corsi di alfabetizzazione digitale e di fumetto, che hanno avuto una buona risposta. Devo dire che con il corso di informatica non pensavamo di arrivare a risultati così positivi. Alla fine, i detenuti sono riusciti a creare dei siti, il tutto in sei mesi e senza neanche avere internet. Non si può esprimere la soddisfazione di quando gli abbiamo consegnato il diploma. E spero che, come mi ha detto il professore che ha tenuto il corso, uno di loro - un ragazzo, che sta anche per uscire - trovi un lavoro, dopo aver concluso lo stage. Con la sua associazione ha fatto attività sia con detenute che con detenuti. Nota qualche differenza tra i due sessi? Con gli uomini l’attività mi sembra tutto sommato più semplice. Noi donne siamo “multitasking” anche in un carcere, quindi il pensiero delle detenute, le loro preoccupazioni, sono rivolte alla famiglia: i figli, il marito, come procede a casa. Gli uomini sembrano più concentrati su sé stessi, e quindi banalmente si applicano di più nelle attività che gli proponi. Molto spesso, il problema per gli uomini è il “dopo”. Cioè? I detenuti a volte mi chiedono di cercare un posto dove andare: banalmente per poter fruire di un permesso premio, ma anche per il “dopo”, appunto. Spesso quando escono dal carcere non vengono riaccolti in famiglia, ma avrebbero bisogno di un domicilio per poter lavorare e, in generale, per poter ricostruire una vita. Purtroppo, sono pochissime le strutture per ex detenuti, per esempio quelle del Pid (Pronto intervento disagio Onlus, n.d.r.). E poi la maggior parte di queste comunità sono occupate da donne. Ovvio, si pensa alle persone più fragili, ma anche gli uomini sono fragili. Non gli si dà la possibilità di ricominciare, e spesso è così che si cade nella recidiva. In questi 13 anni di attività, ha notato dei cambiamenti? Ci sono più persone detenute e, soprattutto a Regina Coeli, c’è poco personale. Un esempio? Noi entriamo perché abbiamo un progetto alle 15, e magari cominciamo alle 15.30 perché un agente che deve portare i detenuti deve fare anche altro. Poi gli educatori: 4,5 sono pochi, a fronte di un migliaio di detenuti. Quindi seconde me bisogna sicuramente aumentare il personale. E la percezione sul carcere? Io mi sono avvicinata ai penitenziari perché mi sono detta “vediamo un po’ meglio questo carcere che cos’è, chi ci sta, come funziona, chi ci vive, cosa si può fare per loro”. Secondo me, il carcere è il posto su cui si investe di meno, ma proprio anche a livello di volontariato. È duro a morire lo stigma del chiudere dentro i detenuti e ‘buttare le chiavi’, è questo che ti senti dire spesso. Non è un caso che si tenda a fare le carceri fuori dalla città. Serve il coraggio di cambiare di S.C. L’Osservatore Romano, 7 settembre 2025 L’estate se ne va ed io, detenuto, resto esattamente come ero prima: senza aver ottenuto nulla. Anzi, ancora una volta ho assistito alle visite di rappresentanti delle istituzioni, ho ascoltato tante dichiarazioni, sempre le stesse, un anno dopo l’altro, senza che nulla sia accaduto - al di là della professionalità degli operatori - per rendere la detenzione più umana. In ogni dove d’Italia, le strutture carcerarie faticano a reggere il sovraffollamento. Il carcere è l’unico luogo dove non si rifiuta mai nessuno. Quando una persona arriva in carcere si trova davanti a una realtà in cui anche le cose più semplici diventano complicate. Anche solo avvisare la famiglia che ci si trova in quel carcere piuttosto che in un altro è un’operazione difficile, come pure poter avere un colloquio con un familiare quando non si hanno i documenti che attestano la parentela. In cella, le finestre sono spesso coperte da reti “per ragioni di sicurezza” - si dice. Il frigo non c’è e perciò l’acqua scorre di continuo dal rubinetto per rinfrescare le bottiglie. I servizi igienici sono a vista, manca pure l’acqua calda e perciò stoviglie e posate si lavano con l’acqua fredda. I letti sono a castello spesso senza le protezioni per impedire le cadute. Puoi cucinare con un fornello da campeggio, ma le bombolette di gas sono contingentate. Puoi acquistare generi di ogni tipo, ma i prezzi sono superiori rispetto all’esterno. L’acqua calda delle docce arriva a singhiozzo e la manutenzione è scarsa: muffa sui muri e scarsa igiene. Se si è fortunati, la tv è collegata con l’antenna, altrimenti si usa un filo elettrico che si fa uscire dalla finestra. La solidarietà tra i detenuti ti aiuta a superare le spine del primo impatto. E la presenza del cappellano fa veramente la differenza. In carcere, il prete è un punto di riferimento del detenuto nella sua ricerca di pace interiore, ma anche per ottenere indicazioni pratiche per affrontare le necessità quotidiane e quella inderogabile di mantenere un contatto con la famiglia. Questa è la realtà nella maggior parte delle carceri italiane dove sono ristrette più di 62.700 persone contro le 51.276 che potrebbero essere ospitate. Ci dice molto dell’emergenza quotidiana alla quale si risponde con tante parole, ma zero interventi. Eppure, in attesa di provvedimenti più strutturali, non si potrebbe pensare a rendere gli ambienti più puliti, anche semplicemente tinteggiando le pareti? Non si potrebbe pensare di aprire le celle, che ora sono chiuse 20 ore al giorno? Non si potrebbe aumentare il numero delle telefonate che un detenuto può fare e che ora sono due alla settimana? E perché non porsi qualche domanda sul lungo tempo di “riposo estivo” di tribunali e giudici di sorveglianza, che si limitano a svolgere solo “questioni urgenti”? La speranza è la forza che sostiene ogni detenuto, nonostante i “trattamenti inumani e degradanti” - sono parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella - ai quali è sottoposto. Sant’Agostino scriveva: “La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose; il coraggio per cambiarle”. Questo è anche il pensiero di ogni detenuto: che allo sdegno per le sue condizioni di vita segua il coraggio di modificarle. E perché non farlo proprio nell’anno del Giubileo della speranza? Carceri, è allarme cellulari (e droga) di Domenico Marino Avvenire, 7 settembre 2025 Da Cosenza a Napoli, da Avellino ad Opera ad altre carceri ancora. La scoperta di cinquanta telefoni cellulari e altrettanti grammi di droga ieri mattina nel penitenziario di Cosenza è solo l’ultimo anello d’una catena tanto lunga quanto inquietante. La scoperta di ieri è avvenuta a seguito d’una perquisizione straordinaria nella struttura di reclusione dedicata al direttore Sergio Cosmai, ucciso dalla ‘ndrangheta proprio per la sua gestione inflessibile del carcere cosentino. I controlli della polizia penitenziaria si sono conclusi con il sequestro di cinquanta telefoni cellulari e oltre cinquanta grammi tra hashish e cocaina. L’operazione ha evidenziato ancora una volta le criticità gestionali e le lacune strutturali dell’istituto penitenziario, già più volte segnalate dal Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria) che ha preso posizione. Il segretario generale aggiunto, Giovanni Battista Durante, e il segretario regionale, Francesco Ciccone, hanno alzato un ennesimo appello: “Da tempo lanciamo l’allarme sul carcere di Cosenza per le gravi carenze sul piano della sicurezza e per l’abbandono in cui versa il personale. La nostra recente visita ha confermato tutte le criticità già segnalate dai colleghi, a partire dalla facilità con cui telefoni e droga riescono a entrare all’interno della struttura”. I rappresentanti del Sappe chiedono interventi immediati e puntano il dito contro la dirigenza dell’istituto: “Riteniamo che sia giunto il momento di avvicendare con urgenza i vertici del carcere cosentino, considerata l’inadeguatezza dimostrata nella gestione della sicurezza e nei rapporti con una parte consistente del personale, non solo di polizia”. Il sindacato di categoria chiede infine al Ministero della Giustizia di non sottovalutare l’accaduto e di attivarsi per ristabilire condizioni minime di legalità, sicurezza e rispetto per il lavoro degli agenti penitenziari, troppo spesso lasciati soli a fronteggiare situazioni fuori controllo. Il vice segretario regionale campano del Sappe, Raffaele Serra, ha reso note perquisizioni sempre ieri ma nel carcere di Napoli-Poggioreale, con il sequestro di dieci telefoni cellulari e anche in questo caso droga. Pur manifestando compiacimento “al personale di polizia penitenziaria, che nonostante le tante difficoltà porta avanti ogni giorno una battaglia per contrastare il traffico di sostanze stupefacenti ed impedire l’ingresso di oggetti non consentiti”, il Sappe richiama “l’attenzione dei vertici regionali e nazionali dell’amministrazione penitenziaria sulla grave carenza di organico ed il sovraffollamento presenti nel carcere più grande d’Italia: sono circa 160 i poliziotti in meno rispetto alla pianta organica prevista ed una forza realmente impiegabile pari a sole 430 unità e circa 2.100 detenuti, a fronte di 1.571 posti, ed il personale di polizia penitenziaria è costretto a svolgere turni di lavoro forzati e massacranti”. Per Donato Capece, segretario generale del Sappe, “è imprescindibile che il Ministero della Giustizia ed i dipartimenti competenti adottino con urgenza soluzioni di efficace contrasto per schermare l’uso dei telefoni cellulari nelle carceri”. Venerdì, invece, circa nove telefoni cellulari, un microtelefono e un coltello rudimentale sono stati scoperti e sequestrati nella Casa circondariale di Avellino dal personale di Polizia penitenziaria a seguito di una perquisizione ordinaria. Lo ha reso noto il vice segretario regionale per la Campania del Sappe Marianna Argenio. Droga e telefonini illecitamente introdotti erano stati sequestrati a fine luglio nel carcere di Milano-Opera. La notizia era stata resa nota dal Sinappe (Sindacato nazionale autonomo polizia penitenziaria). S’era trattato di un’indagine portata a termine dal reparto di Polizia penitenziaria della stessa casa di reclusione che aveva individuato “un’organizzazione criminale dedita all’introduzione e allo spaccio di sostanze stupefacenti e telefoni cellulari all’interno dell’istituto”. L’ultimo allarme di Cassano: “Magistratura delegittimata, troppi giovani lasciano” di Conchita Sannino La Repubblica, 7 settembre 2025 Cassazione, la presidente a un passo dalla pensione parla di “segnali di grande disagio: tra le cause anche la delegittimazione politica”. Ma noi vogliamo vederla questa sofferenza della magistratura, il disagio nei nostri giovani colleghi?” si chiede, franca e ostinata, la presidente della Cassazione, Margherita Cassano. “Un numero crescente di giovani studenti che hanno già superato il concorso in magistratura, particolarmente impegnativo, al termine del tirocinio lascia per altre professioni. Tanti”. Oppure: “Ci sono segnali che se non affrontati subito, porteranno a una deriva burocratica della giustizia”. Un colpo che potrebbe apparire un amaro passo d’addio, visto che Cassano consegna la riflessione dal luogo simbolo di Villa Castelpulci, mentre si intitola a Valerio Onida la scuola superiore della magistratura a Scandicci, quando la prima donna al vertice della suprema Corte è letteralmente a un passo dalla pensione: solo 48 ore fa è stato eletto dal Csm, con Mattarella a presiedere i lavori, Pasquale D’Ascola come suo successore. Eppure due elementi scoraggiano questa interpretazione dal sapore passatista. Da un lato, Cassano assicura: “Il lavoro mi mancherà, ma da martedì prossimo sarò una felice pensionata. Fino all’ultimo siamo senza troppo respiro, anche lunedì sarò in Parlamento per l’ultima audizione sulle riforme”, e non è escluso che uno dei suoi tanti impegni sociali o culturali torni presto a riempirle l’agenda. Dall’altro lato, la presidente ha più volte posto questo tema, con forza, anche in plenum, citando con una certa severità i dati che erano appena stati forniti dalla consigliera togata Maria Luisa Mazzola. Ben 38 magistrati di prima nomina, i cosiddetti mot, su circa 800 (relativi agli ultimi due concorsi) hanno rinunciato e preferito altre amministrazioni o professioni. Una percentuale “che non avevamo mai visto”, la premessa. “Sono profonde e varie, le strade che hanno portato a questo. Ma diciamocelo - ragionava già Cassano - a tanti lavoratori sono richiesti sacrifici, e i magistrati hanno anche un diverso e migliore trattamento economico. Noi stessi abbiamo attraversato stagioni dure e complicate, il terrorismo, le sfide della criminalità di vario livello, eppure non conoscevamo sabato e domenica, avevamo il sorriso e la consapevolezza di svolgere un compito alto, importante. Quindi abbiamo il dovere di interrogarci, e capire il perché del disagio”. Ma per una toga autorevole, che per 45 anni ha attraversato le stagioni della magistratura italiana, quali sono le cause? “Tante, e diverse tra loro - risponde Cassano a Repubblica, a margine dei suoi applauditi interventi - Ad esempio, alcune modalità di lavoro e accumularsi di carichi che, specie nel civile, sono stati acuiti dalle decisioni post-Covid, dalle attività rese a distanza, dalla mancanza di un contatto umano, nell’assenza dello scambio quotidiano e proficuo tra colleghi, che resta la prima dimensione del servizio”. E poi, “certo - scuote la testa - credo influisca, in fondo, anche il clima che c’è nel Paese. Mi riferisco alla delegittimazione che si sta facendo della magistratura, ai timori che in alcuni possono serpeggiare. E alla conflittualità che non fa bene all’armonia che si deve coltivare tra poteri dello Stato”. Zero nostalgia del passato, dunque. Ma anzi gli occhi rivolti al futuro. “Non possiamo consentirci una deriva impiegatizia, e il rischio esiste”. Per questo, Cassano è tornata a pungolare: tutti, colleghi, politica, classe dirigente. “Vedo che sta passando anche l’idea che in un ideale bilanciamento debbano prevalere le proprie aspettative individuali di vita, come magistrato, rispetto a quelle di chi ci chiede giustizia”. Eppure, non dovrebbe essere questa la stessa polare. “Di fronte alle attese di un corpo sociale, di fronte ai drammi umani che ci sfilano quotidianamente davanti, non si può mettere sempre al primo posto la propria stanchezza”. Il monito è per oggi, e non va in pensione. Quella pistola “meno letale” di Luigi Manconi e Federica Delogu La Repubblica, 7 settembre 2025 “Uno strumento imprescindibile”. Così il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha definito il taser, la pistola a impulsi elettrici, commentando le due morti avvenute ad agosto a distanza di 48 ore durante due operazioni di fermo da parte di carabinieri, prima quella di Gianpaolo Demartis a Olbia e poi quella di Elton Bani a Genova. Imprescindibile, spiega il ministro, perché “viene fornito agli agenti proprio per evitare l’utilizzo di armi da sparo”. E infatti il taser, in dotazione in Italia alle forze di polizia (Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di Finanza e in alcune città anche la Polizia locale) dal 2022 dopo una sperimentazione durata quattro anni, dovrebbe essere utilizzato in sostituzione delle armi letali. Ma solo nei casi, eccezionali e dunque limitatissimi, in cui non sia possibile intervenire in altro modo. Il taser appartiene alla categoria delle “armi meno letali”, che consentono alle forze di polizia di intervenire per gestire una minaccia e neutralizzare una persona se necessario e per un periodo di tempo assai ridotto. Nella pratica si tratta di una sorta di “storditore” elettrico: l’arma espelle due dardi collegati a fili sottili che, una volta colpita la persona, producono delle scariche elettriche a bassa intensità e ad alta tensione, provocando la contrazione momentanea dei muscoli e la conseguente impossibilità di muoversi. Come le altre armi meno letali, il taser è pensato per consentire un uso minimo della forza di fronte a situazioni critiche e sempre dopo un avvertimento, dunque dopo che la pistola è stata mostrata al soggetto. Il suo utilizzo, tuttavia, può avere esiti mortali. Nei giorni scorsi Mario Balzanelli, presidente nazionale della SIS118, in un’intervista all’Ansa ha dichiarato che si tratta di uno strumento “potenzialmente pericoloso” perché in alcuni casi può provocare un “arresto cardiaco improvviso”. Secondo alcuni studi i rischi aumentano quando la scarica elettrica viene indirizzata a soggetti cardiopatici, o che hanno assunto sostanze. Dunque, il taser sarebbe effettivamente pericoloso per un numero limitato di persone ma le condizioni in cui viene utilizzato rendono impossibile prevederne il rischio. Inoltre, la sua pericolosità aumenta all’aumentare delle scariche elettriche ed esiste il rischio di lesioni in seguito alla caduta provocata dalla contrazione muscolare improvvisa. (Infatti, le linee guida prevedono di fare attenzione proprio all’eventuale caduta del soggetto e impongono scariche di breve durata e non indirizzate a testa, collo e organi genitali). Dal 2023 in Italia sono cinque le persone morte in seguito a interventi con il taser (anche se le morti non sono state ricondotte direttamente all’arma). Amnesty International ha recentemente lanciato un appello per chiedere “l’adozione di un trattato globale, giuridicamente vincolante, per regolamentare la produzione e il commercio incontrollati di equipaggiamenti destinati alle forze di sicurezza”. Oltre al taser Amnesty denuncia i rischi di un uso dei manganelli elettrici ma anche di altre armi cosiddette “meno letali”, come proiettili di gomma e gas lacrimogeni, nel corso di manifestazioni di protesta, o in contesti come centri per migranti o carceri. C’è poi una questione riguardante le modalità del suo utilizzo: come si può avere la certezza che il taser sia sostitutivo di un eventuale uso delle armi da fuoco e dunque esclusivamente in casi di eccezionale gravità nei quali la situazione non può essere gestita in nessun altro modo? Nella maggior parte dei casi, come registrato da numerosi studi negli Stati Uniti, l’arma è stata usata contro persone disarmate. Forse, in alcuni di questi casi, una mediazione di altro genere, seppure non immediata, sarebbe stata sufficiente? O, addirittura, la mancata messa in discussione del taser non rischia di portare alla tentazione di un ricorso sistematico e “disinvolto” di un’arma, in luogo di tentativi di de-escalation, destinati a rendere inoffensivo il soggetto considerato pericoloso? “Perché è improprio parlare di scudo penale per i medici”. Intervista al viceministro Sisto di Ermes Antonucci Il Foglio, 7 settembre 2025 Il viceministro della Giustizia: “La riforma non prevede un salvacondotto per qualsiasi cosa faccia il medico. Al contrario, incentiva chi esercita la professione sanitaria a seguire le linee guida e le buone pratiche scientifiche, migliorando così le prestazioni sanitarie”. “Il termine ‘scudo penale’ è del tutto improprio. Il disegno di legge non è un salvacondotto per qualsiasi cosa faccia il medico. Al contrario, incentiva chi esercita la professione sanitaria a seguire le linee guida e le buone pratiche scientifiche, migliorando di conseguenza il rapporto tra medico e paziente”. Così al Foglio il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto commenta il via libera da parte del Consiglio dei ministri al disegno di legge che riforma le professioni sanitarie. Il provvedimento, che ora dovrà essere approvato dal Parlamento, riforma la disciplina sulla responsabilità medica, stabilendo che chi esercita la professione sanitaria è punibile per lesioni o omicidio colposo se si è attenuto a linee guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate al caso concreto, solo per colpa grave. Una riforma auspicata da tempo dalle associazioni dei medici e fortemente voluta dal ministro della Salute Orazio Schillaci. Il via libera al ddl è stato reso possibile proprio dalla mediazione del viceministro Sisto. “Si tratta di un necessario meccanismo di semplificazione della disciplina prevista dalla legge Gelli-Bianco, che nel tempo ha generato confusione a livello interpretativo”, spiega Sisto, che rifiuta la definizione di “scudo penale” per i medici: “Il testo obbliga il medico a seguire le linee guida e le buone pratiche scientifiche. Inoltre individua specifici parametri sulla base dei quale il giudice procederà ad accertare e valutare la colpa medica, come la scarsità di risorse umane e materiali, le carenze organizzative non evitabili o la complessità della patologia trattata (si pensi al Covid-19). Resta poi inalterata la possibilità di agire in sede civile. Le disposizioni consentono quindi da un lato di migliorare la qualità delle prestazioni del personale medico e, dall’altro, di evitare gli altissimi costi della medicina difensiva”. Il timore di finire coinvolti nella montagna di procedimenti penali per responsabilità professionale (sarebbero circa 300 mila i fascicoli accumulati nelle procure) spinge infatti spesso i medici a eludere o allontanare il momento della decisione, ad esempio prescrivendo esami costosi, spesso inutili e invasivi. Un fenomeno, quello della medicina difensiva, che costa mediamente 11 miliardi di euro all’anno. “Non è casuale che tutte le associazioni dei medici siano state d’accordo con la nostra impostazione”, sottolinea Sisto. “Il testo affianca alla giusta repressione gli strumenti della prevenzione, con lo scopo di diminuire il numero degli incidenti in ambito sanitario: se il medico si comporta attenendosi alle linee guida e alle buone pratiche automaticamente si diminuisce il rischio di errore e quindi si riducono i casi di malasanità”, aggiunge il viceministro, ricordando “l’importanza dei lavori della commissione D’Ippolito, i decisivi contributi delle associazioni professionali e la fondamentale collaborazione fra i ministeri della Salute e della Giustizia, in primis fra i ministri Schillaci e Nordio”. Il disegno di legge dovrà ora essere approvato dal Parlamento, dove alcuni esponenti (minoritari) della maggioranza, come il senatore leghista Claudio Borghi, molto vicini al mondo no-vax, sui social hanno già annunciato che faranno sentire la loro voce. “Il Parlamento è il luogo delle discussioni. Ma delle discussioni ragionevoli e perimetrate dai principi costituzionali, non di quelle che partono da preconcetti e da posizioni obiettivamente e scientificamente discutibili e a questi totem sacrificano gli interessi pubblici”, afferma Sisto. Insieme al ddl sulla responsabilità medica, il Parlamento dovrà dare il secondo e definitivo via libera alla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere in magistratura. “Siamo all’ultimo miglio. L’auspicio è che il percorso possa terminare alla Camera entro fine settembre e al Senato entro fine ottobre, per poi tenere il referendum nella primavera 2026”, dice il viceministro della Giustizia. “Bisognerà spiegare bene ai cittadini, come ribadisce Antonio Tajani, che questa non è una riforma contro la magistratura, ma una riforma per tutelare i cittadini e per liberare i magistrati dal giogo delle correnti. Chi la vede come uno scontro fra politica e magistratura vuole offrire una falsa rappresentazione della realtà per stimolare un voto contro la politica e a favore delle toghe. Un modo vintage di riproporre la logica di Mani pulite. Non è così. La riforma protegge il cittadino, stabilendo che il giudice deve essere pienamente terzo e imparziale, e affianca il magistrato, che, per fare carriera, non avrà più bisogno del distintivo della corrente o cordata”, conclude Sisto. Rischia il carcere il maestro violento con gli alunni di Pietro Alessio Palumbo Il Sole 24 Ore, 7 settembre 2025 La Suprema corte ha ribadito che la violenza (anche solo verbale) esula dal perimetro educativo. La Corte di Cassazione (sentenza 30323/20125) ha chiarito che trascinare e spintonare gli alunni può costare il carcere per il maestro violento. Nella vicenda il procedimento aveva preso l’avvio dalla denuncia di due madri, le quali avevano riportato i contenuti della chat di Whatsapp, da cui emergevano le condotte maltrattanti. Le ipotesi delle madri avevano trovato conferma nelle riprese delle videocamere istallate le quali, nell’arco di due mesi, avevano documentato episodi violenti verso gli alunni: tra le altre cose, i bambini erano tirati per le braccia e trascinati con forza nei vari spostamenti, presi per il grembiule e colpiti sulla testa, subendo calci nel sedere, spintoni o schiaffi, e variamente minacciati e incitati a picchiarsi l’un l’altro. Fuori dal perimetro “educativo” - La Suprema corte ha evidenziato che esula dal perimetro “educativo” qualunque forma di violenza fisica o psichica, ancorché sostenuta da una volontà “correttiva”, atteso che, le condotte connotate da modalità aggressive sono in ogni caso incompatibili con l’esercizio lecito del potere correttivo ed educativo che mai deve deprimere l’armonico sviluppo della delicata personalità del minore. In altre parole, assunto l’arcaico termine “correzione” nel senso di “educazione”, siamo in presenza di un uso immoderato (appunto di abuso) dei mezzi educativi che per loro natura, devono essere pur sempre leciti, non essendo il ricorso alla violenza mai consentito per fini correttivi o educativi. No alla violenza verbale - A ben vedere neppure può ritenersi “educativo” l’uso della violenza verbale finalizzata a scopi disciplinari, in ragione del primato che la nostra Costituzione attribuisce alla dignità della persona. Anzi, se quest’ultima è un bambino, sul piano pedagogico va anche considerato che non può perseguirsi un armonico sviluppo della sua personalità, orientata ai valori dell’equilibrio, del buonsenso e dell’autocontrollo, l’utilizzo di metodologie educative che tali fini contraddicono attraverso il principale strumento didattico: l’esempio (cattivo). Sicilia. Tanasi (Codacons): “Intervento urgente del Garante, la dignità non può attendere” Quotidiano di Sicilia, 7 settembre 2025 Il Segretario Nazionale del Codacons, Francesco Tanasi, lancia un appello al nuovo Garante regionale dei detenuti, chiedendo un ruolo attivo e incisivo di fronte alle criticità che continuano a emergere dal sistema penitenziario siciliano. “Le carceri dell’isola - spiega Tanasi - si trovano in una condizione di forte sofferenza”. Tra le principali emergenze segnalate vi sono sovraffollamento, carenze igienico-sanitarie, mancanza di acqua calda e assenza di sistemi di climatizzazione adeguati. Situazioni che, se non affrontate, rischiano di compromettere i diritti fondamentali della persona. Il grido d’allarme dei sindacati di polizia - Tanasi richiama anche le denunce dei sindacati di polizia penitenziaria, che evidenziano episodi di aggressioni al personale e turni di lavoro estenuanti, in alcuni casi fino a 13 ore consecutive, con gravi ripercussioni sul benessere e sulla sicurezza degli operatori. Dignità dei detenuti e tutela del personale - “Non si può ignorare - sottolinea il Segretario del Codacons - che la condizione di chi lavora negli istituti sia parte integrante della questione carceraria. La tutela della dignità dei detenuti deve procedere di pari passo con quella degli agenti e del personale penitenziario”. La richiesta di azioni concrete - Tanasi invita il Garante a non limitarsi a un ruolo formale ma a promuovere azioni concrete e immediate: “Ogni giorno che passa senza interventi efficaci rappresenta un giorno in più di sofferenza e di compromissione della dignità umana. La dignità non può attendere”. Roma. Detenuto morto nel carcere di Rebibbia, è il secondo suicidio in tre giorni di Alessia Rabbai fanpage.it, 7 settembre 2025 Ennesimo suicidio in carcere nel Lazio. Ieri un detenuto 41enne si è impiccato in cella. Si tratta del secondo suicidio in tre giorni a Rebibbia. Giovedì scorso una detenuta si è tolta la vita, impiccandosi con un lenzuolo. Un detenuto si è suicidato nel carcere di Rebibbia. Lo hanno trovato impiccato nella sua cella. È successo poco fa, nella mattinata di oggi, sabato 6 settembre. A riportare la notizia Adnkronos. I fatti sono accaduti nel reparto G12 del penitenziario. Come appreso da Fanpage.it si tratta di un quarantunenne tossicodipendente, che si trovava probabilmente recluso per spaccio, al quale era stata proposta un’alternativa alla detenzione. Avrebbe però violato le prescrizioni ed era di nuovo tornato nell’istituto penitenziario. Pare che abbia approfittato dell’ora d’aria dei colleghi stamattina per togliersi la vita in cella. Nello stesso settore giovedì scorso c’è stato un altro suicidio. Una detenuta cinquantaduenne si è uccisa, impiccandosi con un lenzuolo. Si tratta dunque del secondo suicidio in carcere a Rebibbia in tre giorni. “Il numero dei suicidi in carcere continua a salire, non se ne può più - ha commentato raggiunto da Fanpage.it il garante dei detenuti del Lazio Stefano Anastasìa - ormai non facciamo più i garanti, ma gli impresari delle pompe funebri. È urgente un rimedio a questa situazione, che si riduca il sovraffollamento e si diano speranze alle persone che sono in carcere. Il sistema carcerario così com’è pensato e gestito è solo una fabbrica di morte”. Lo scorso giovedì una donna cinquantaduenne detenuta sempre a Rebibbia si è suicidata, era in attesa della valutazione Inps per la pensione di invalidità. Stava scontando una pena di otto anni nella sezione femminile. A ritrovarla, quando ormai non c’era più niente da fare, sono stati gli agenti della polizia penitenziaria, sul caso è stata aperta un’inchiesta. Salerno. Morto in carcere: archiviazione per i medici, ma la famiglia di Renato non si arrende di Massimiliano Catapano salernoinweb.it, 7 settembre 2025 È stata chiesta l’archiviazione per le due dottoresse finite sotto inchiesta dopo la morte di Renato Castagno, 37 anni, originario del quartiere Mariconda, deceduto il 19 marzo scorso all’interno del carcere di Salerno a seguito di un malore improvviso. La decisione è arrivata dal sostituto procuratore Morris Saba, che ha escluso responsabilità penali a carico delle due professioniste, inizialmente indagate con l’ipotesi di omicidio colposo e responsabilità colposa per morte in ambito sanitario. Una delle due era la dottoressa di turno quel giorno, intervenuta nelle concitate fasi dell’emergenza, l’altra la dirigente del servizio sanitario penitenziario. Determinante, nella ricostruzione dei fatti, è stato l’esame autoptico che ha chiarito le cause del decesso: Renato Castagno è morto per un tamponamento cardiaco determinato dalla rottura improvvisa dell’aorta. I consulenti incaricati dalla procura hanno inoltre evidenziato come la macchina sanitaria del carcere abbia seguito correttamente i protocolli previsti. Un quadro che, tuttavia, non convince i familiari della vittima. L’uomo, già colpito in passato da due ictus e affetto da cardiomiopatia ipertrofica e ipertensione cronica, presentava un quadro clinico complesso. I parenti hanno annunciato la volontà di opporsi alla richiesta di archiviazione, ritenendo che restino ancora punti da chiarire sulle circostanze della sua morte. Il caso di Renato Castagno continua dunque a tenere accesi i riflettori, tra il dolore della comunità di Mariconda, che lo ricorda con affetto, e l’amarezza della famiglia, decisa a portare avanti la propria battaglia per ottenere piena verità e giustizia. Eppure, al di là degli accertamenti giudiziari, resta una riflessione inevitabile: con un quadro clinico così fragile e compromesso, Renato Castagno non avrebbe mai dovuto affrontare la detenzione in carcere. Anche se aveva commesso degli errori, la misura più giusta sarebbe stata quella degli arresti domiciliari, vicino ai suoi cari e con le cure adeguate. La scelta di mandarlo dietro le sbarre, in quelle condizioni, appare oggi come un errore gravissimo, che gli ha negato la possibilità di vivere la pena in un contesto più umano e sicuro, nel rispetto della sua salute già compromessa. Torino. Garante dei detenuti, partiti uniti sul nome di Diletta Berardinelli di Andrea Joly La Stampa, 7 settembre 2025 Un’esperta di reinserimento socio-lavorativo sarà la nuova garante dei detenuti di Torino. Per la poltrona di Monica Gallo, il cui mandato è in scadenza dopo dieci anni, tutto porta al nome di Diletta Berardinelli, esperta del “Knowledge hub on prevention of radicalisation” della Commissione europea e già coordinatrice, a Bruxelles, del gruppo di lavoro Prisons con focus sulla lotta agli estremismi. Un profilo che porterà in dote un’attenzione particolare alla componente sociale del carcere, nel solco dell’operato di Gallo, con anche una breve esperienza in politica da consigliera della Circoscrizione 8 per l’Italia dei Valori. Appoggio quasi unanime dei partiti - Diletta Berardinelli è stata indicata praticamente all’unanimità dai partiti in Consiglio comunale, nel pomeriggio di ieri riuniti in una seduta della Capigruppo a Palazzo Civico per discutere proprio delle candidature a futuro garante dei detenuti. Favorevole alla sua candidatura per primo è stato il capogruppo dem Claudio Cerrato. E l’indicazione non scontenta né gli alleati - da Sara Diena di Avs a Tiziana Ciampolini di Torino Domani ed Elena Apollonio di Demos - eccezion fatta per Silvio Viale (Radicali), né l’opposizione, con il Movimento 5 Stelle che ha espresso parere favorevole sul suo nome e su quello dell’altro candidato forte, l’ex garante regionale dei detenuti Bruno Mellano. Tutti sostanzialmente d’accordo, insomma. E il centrodestra? Non pervenuto alla Capigruppo, Giuseppe Iannò di Torino Libero Pensiero a parte. La decisione spetta al sindaco Lo Russo - A decidere chi si occuperà dei detenuti dei penitenziari torinesi sarà in ogni caso il sindaco Stefano Lo Russo, ora in visita istituzionale in Argentina con il rettore del Politecnico Stefano Corgnati. Ma verosimilmente prenderà atto dell’orientamento dei partiti della Capigruppo. Così, nella rosa dei cinque nomi rimasti, il futuro garante dei detenuti sembra essere già stato scelto. Si attendono il rientro del primo cittadino, domani, che da lunedì prenderà in mano il dossier e la decisione definitiva. E l’ultimo saluto dell’attuale garante Monica Gallo, che martedì presenterà la sua relazione decennale alle 11,30 in Sala delle Colonne. Gli altri candidati in corsa - Un ultimo atto, poi la decisione e il nuovo corso. Salvo sorprese: in corsa restano oltre a Mellano - profilo più aderente alla politica, da ex parlamentare Radicale -, su cui nessuno ha posto un veto assoluto, anche l’ex direttore presso le carceri di Asti, Alessandria, Saluzzo e Torino Pietro Buffa e l’avvocato penalista Augusto Fierro, difensore civico della Regione Piemonte dal 2015 al 2021. Più indietro la candidatura di Maria Franchitti, educatrice in carcere da oltre 30 anni: ma ieri nessuno, dai partiti, ha fatto il suo nome. Perugia. Avvocati e politici in visita in carcere: “Situazione drammatica” di Francesca Marruco Corriere dell’Umbria, 7 settembre 2025 Sopralluogo della camera penale e di molti esponenti politici, comunali e regionali, nel carcere di Capanne, ieri mattina. La visita era stata promossa dall’Unione delle Camere penali. “La nostra visita - ha detto il presidente della Camera penale di Perugia, Luca Gentili - è per tenere alta l’attenzione sul mondo del carcere. Cerchiamo di dare voce a chi non ce l’ha. Visitare la struttura e le celle, scambiare qualche parola con i detenuti, consente di renderti conto realmente della situazione che vivono i reclusi, che dovrebbero rieducarsi in questo periodo, ma la situazione del sovraffollamento rende difficile il percorso. Difficoltà che vivono anche la polizia penitenziaria, la parte sanitaria e la direzione del carcere”. Tra i presenti anche il consigliere regionale di Avs, Fabrizio Ricci, che in un post, ha scritto: “Quasi tutti i detenuti con i quali mi sono fermato a scambiare qualche parola oggi nella visita che abbiamo fatto al carcere di Capanne, avevano tagli, anche profondi, sulle braccia. Gli episodi di autolesionismo sono frequentissimi, come ci hanno spiegato gli agenti della polizia penitenziaria, che sono troppo pochi, circa 180, molti dei quali giovanissimi, per far fronte ad una popolazione carceraria che è ormai arrivata a 500 unità, quando la capienza sarebbe di 363. La situazione è estremamente critica. Sovraffollamento e carenza di personale rendono pressoché impossibile offrire un trattamento degno ai ristretti, così come condizioni di lavoro accettabili per il personale. Ci sono agenti - ci hanno raccontato - che arrivano a lavorare 18 ore di fila. Gli operatori sociali e pedagogici, figure fondamentali per garantire la finalità rieducativa della pena prevista dalla nostra Costituzione, sono solo 6, per 500 persone. Anche il personale sanitario è assolutamente insufficiente”. Cremona. Un fronte comune per migliorare le condizioni del carcere di Andrea Colla cremonaoggi.it, 7 settembre 2025 La situazione igienico-sanitaria nella casa circondariale di Cremona, la condizione dei detenuti, ma anche le diverse problematiche attuali. Questi alcuni dei temi al centro dell’incontro han dato in scena in provincia di Cremona, tra i rappresentanti del partito radicale, capitanati da Gino Ruggeri, il presidente Roberto Mariani e la garante provinciale delle persone detenute Ornella Bellezza. Un appuntamento atteso e richiesto, in particolar modo dopo la visita in carcere condotta dai radicali nella giornata di Ferragosto, da cui erano risultati alcuni problemi sanitari all’interno della struttura di Via Ca’ del Ferro. “Si è discusso circa la problematica sanitaria - commenta Ruggeri - che ad oggi non siamo riusciti a capire se sia stata risolta o meno: al momento della nostra visita era abbastanza pesante e drammatica; sappiamo che alcune disinfestazioni di questi insetti sono state effettuate ma senza sortire grandi effetti. Purtroppo, una disinfestazione più ampia, più incisiva, non è ancora stata fatta: tramite la dottoressa Bellezza stiamo cercando di capire se almeno questa situazione va a risolversi”. “Questo incontro è stato veramente soddisfacente e piacevole - aggiunge Maria Teresa Molaschi, dirigente di comunità - perché abbiamo potuto avere alcune risposte, chiaramente non risolutive nell’immediatezza, però con grande speranza di collaborazione. Sono molto contenta di questo: quando si parla di detenuti non dobbiamo dimenticare che sono persone e come persone vanno trattate; e di conseguenza se ammalate, curate”. A partecipare da remoto anche l’ex parlamentare Maria Antonietta Farina Coscioni e il consigliere provinciale Edoardo Vola. Un incontro ad ogni modo considerato positivo da entrambe le parti che potrebbe aprire a nuove iniziative e collaborazioni. “Un incontro molto interessante e importante - afferma in merito il presidente della Provincia Roberto Mariani - credo sia necessario pianificare anche uno strumento di lavoro e collaborazione, proprio su questi temi molto sensibili”. “Abbiamo condiviso con il partito radicale - prosegue - dei passaggi che porteremo avanti nei prossimi mesi, in modo di tenere alta l’attenzione sulle problematiche interne alla casa circondariale. Ora chiederemo con il garante dei detenuti e il sottoscritto un incontro con ASST, per fare una riflessione insieme; ho già ottenuto la disposizione preliminare del Direttore Generale Ezio Belleri, che ringrazio, per fare questo momento”. “Inoltre - aggiunge Mariani - dato che il garante dei detenuti è tenuto annualmente a fare una relazione sulla sua attività all’interno del carcere, di non circoscriverla a un mero passaggio burocratico, con una presentazione fredda della relazione, ma di presentare la tematica in un consiglio provinciale aperto, con le associazioni, le forze politiche e i cittadini che vorranno venire”. “Direi un incontro positivo - fa eco Ruggeri - perché potrebbero nascere successivi incontri con altre autorità: a noi preme che queste problematiche non siano affrontate solo a spot ma in maniera continuativa”. Lecco. La Polizia penitenziaria: “Serve una nuova caserma” di Daniele De Salvo Il Giorno, 7 settembre 2025 Spazi angusti per i detenuti, ma anche per gli agenti di Polizia penitenziaria che li sorvegliano. Per questo i poliziotti della Penitenziaria in servizio in carcere a Pescarenico, che è la casa circondariale di Lecco, chiedono una caserma interna, ma anche servizi igienici e una lavanderia. La casa circondariale di Lecco è considerata un carcere modello, specie da quando dal novembre 2023 la direttrice è Luisa Mattina: una settantina di reclusi a fronte di 53 posti regolamentari ma di un’ottantina massimi; agenti effettivi sufficienti; incidenti pressoché nulli salvo di recente l’incendio di un materasso; palestra; aree verdi; murales decorativi; angoli per i figli dei detenuti in visita ai papà. È però piccola e gli spazi riservati ai poliziotti della Penitenziaria sono ristretti. Per questo, insieme ai loro rappresentanti sindacali, hanno chiesto al sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, l’altro giorno in visita a Lecco, una nuova caserma appunto. Significano stanze più grandi, servizi igienici adeguati e una lavanderia per chi di loro è accasermato, cioè alloggia in carcere. L’esponente istituzionale dal canto suo sembra abbia recepito l’istanza e ha promesso che “l’intervento più immediato sarà proprio la caserma”. Svestendo i panni più istituzionali e indossando quelli più da dirigente di Fratelli d’Italia, il sottosegretario ha poi sottolineato la “vocazione trattamentale” degli agenti della Penitenziaria e sostenuto che “la maggior parte dei condannati in Italia sono liberi, perché ci sono 100mila condannati in via definitiva che non sono in carcere rispetto ai 63mila detenuti”. Torino. 38 stranieri rimpatriati su 354 trattenuti nel Cpr laguida.it, 7 settembre 2025 I dati e la situazione paradossale del Centro per la Permanenza e il Rimpatrio di corso Brunelleschi. Avs ne chiede la chiusura. Al momento le persone trattenute nel Cpr, a Torino, sono 68, distribuite nelle tre aree aperte, su sei complessive. Dalla riapertura di fine marzo ad oggi sono transitate nel Centro 354 persone, di cui ne sono state rimpatriate 38, vale a dire il 10% dei trattenuti e meno di un terzo dei rimpatri complessivi effettuati dalla Questura di Torino, come comunicato in una nota stampa. Il problema dei rimpatri impossibili vista l’assenza di accordi con i Paesi di origine rimane uno degli ostacoli del sistema, per cui sono in molti a chiedere di chiudere i Cpr non solo a Torino ma in tutta Italia. Sono i dati ufficiali dichiarati dopo la visita di ieri, venerdì 5 settembre, delle consigliere regionali di Avs, la cuneese Giulia Marro e la torinese Alice Ravinale, tra le sostenitrici della chiusura. “La situazione kafkiana - dicono Marro e Ravinale - che si trovano ad affrontare le persone straniere illegalizzate dalle norme sull’immigrazione vigenti in Italia è ben esemplificata dalla vicenda di un ragazzo gambiano di 22 anni. Nonostante abbia una richiesta d’asilo pendente - e dunque sia destinato, per legge, ad uscire dal CPR - il giovane resta trattenuto in attesa della prossima udienza. Ma non è tutto: il ragazzo, che presenta problemi di salute e lamenta la carenza delle cure, è stato denunciato dagli agenti che operano nel Centro per resistenza a pubblico ufficiale, un reato che a fronte del DL Sicurezza voluto dal Governo Meloni può portare ad una condanna fino a 7 anni di carcere. Il giudice chiamato a pronunciarsi sulla denuncia ha disposto l’obbligo di firma come misura cautelare: la situazione è quindi quella di un ragazzo giovanissimo trattenuto in CPR per l’espulsione nonostante abbia una richiesta d’asilo pendente, per il quale si celebrerà un processo per resistenza a pubblico ufficiale che rischia di portarlo in carcere per anni e che è tenuto all’obbligo di firma mentre già si trova nella custodia dello Stato in Corso Brunelleschi. Come è possibile che le istituzioni dedichino a questo le loro energie, che dovrebbero essere investite per il bene comune? Molto preoccupanti sono poi le condizioni di salute mentale delle persone trattenute: ricordiamo che per entrare tutti devono avere una certificazione di idoneità dell’ASL, ma le situazioni di disagio mentale sono talmente evidenti che gli stessi medici interni del CPR o i giudici spesso dispongono accertamenti ulteriori rispetto al referto di ingresso, per non parlare del consumo di psicofarmaci che resta elevato. Chi soffre di disturbi di salute mentale è una persona vulnerabile che all’interno del Cpr non deve mettere piede, secondo le stesse direttive ministeriali: invece, come sempre, ci siamo trovate di fronte persone con significativi disturbi, che uniti alla disperazione per la insensatezza della reclusione conducono spesso ad atti di autolesionismo - numerosi anche nel mese di agosto”. Taranto. Nasce il Centro comunale per la giustizia riparativa antennasud.com, 7 settembre 2025 Con una delibera di Giunta, il Comune di Taranto ha ufficialmente istituito il Centro per la Giustizia Riparativa, con competenza su tutto il Distretto della Corte d’Appello di Lecce. Si tratta di un passaggio di portata storica: la città diventa punto di riferimento nell’attuazione della Riforma Cartabia, che ha introdotto in Italia una disciplina organica in materia. Il nuovo Centro sarà uno spazio dedicato alla mediazione dei conflitti in ambito penale, al dialogo tra vittime, autori di reato e comunità e alla costruzione condivisa di percorsi di riparazione. L’accesso ai programmi sarà possibile previo consenso informato delle parti coinvolte. Il progetto è realizzato in collaborazione con Studio Iris - Società Cooperativa Sociale, individuata dal Ministero della Giustizia come ente specializzato nella gestione dei programmi di mediazione penale. A rafforzare l’iniziativa contribuirà il protocollo d’intesa con l’Università degli Studi di Bari - Dipartimento di Scienze Politiche, che si occuperà della formazione dei futuri mediatori esperti. “Taranto si dota di uno strumento innovativo di giustizia, capace di guardare oltre la punizione e di puntare alla ricostruzione dei legami sociali - ha dichiarato il sindaco Piero Bitetti -. La nostra città diventa protagonista di un cambiamento culturale che valorizza la comunità come luogo di riconciliazione”. L’assessore ai Servizi Sociali, Sabrina Lincesso, ha aggiunto: “Il nostro impegno è costruire una città che sappia prendersi cura delle persone e delle relazioni. La giustizia riparativa è un’occasione per dare voce sia alle vittime sia a chi ha commesso errori, permettendo alla comunità di crescere in consapevolezza e responsabilità. Taranto, ancora una volta, si conferma laboratorio di innovazione sociale e di welfare di comunità”. In attesa del completamento dei lavori nella sede definitiva di Vico Sant’Agostino 1, il Centro sarà ospitato temporaneamente nei locali comunali della Direzione Servizi Sociali, in via Lazio 45. Milano. Per il Leoncavallo sfilano Paolo Rossi, Bisio e Salvatores è collegato: non siamo pecore di Andrea Siravo La Stampa, 7 settembre 2025 Bebo Storti sarcastico: “Siamo una banda di cazzoni, ma con senso civico”. E punta il dito contro il Viminale sulla decisione di sgomberare lo storico centro sociale. Sono tra le oltre 20 mila persone che sono scese in piazza a Milano per urlare la frase “Giù le mani dal Leoncavallo”. Sfilano nella pancia del serpentone dietro lo striscione giallo-nero con la scritta “Comedians”. È il nome dello spettacolo andato in scena per la prima volta nel 1985 e di cui ricorrono i 40 anni proprio in questi giorni. Sono gli attori Paolo Rossi, Claudio Bisio, Gigi Alberti, Antonio Catania e Renato Sarti. “Siamo una banda di cazzoni ma con senso civico”, dice Storti che punta il dito contro il Viminale sulla decisione di sgomberare lo storico centro sociale: “C’era già una trattativa in corso che non è andata in porto perché il ministro Piantedosi ha deciso che andava chiuso con autorità e con la polizia. È stata una chiusura politica”. “Simbolicamente vogliamo dire che sono spazi che vanno difesi - spiega Bisio -. Spesso ci sono realtà come il Leoncavallo e tante altre che nascono abusive e poi regolarizzano. Un esempio virtuoso è l’occupazione a Roma dell’ex Cinema America”. Allarga lo sguardo a tutta Italia Rossi: “Il problema non è solo qui, ma in tutto il Paese. Di solito succede che quello che avviene a Milano l’anno dopo succede da altre parti”. Dalla camera ardente per Giorgio Armani ha parlato il registra-premio Oscar Gabriele Salvatores, che ha diretto lo spettacolo Comedians. Aveva dato la sua adesione alla manifestazione nazionale: “È importante esserci per il Leoncavallo e per dare il segnare che non siamo pecore che seguono una cosa, che c’è anche altra gente”. Il centro sociale, sgomberato lo scorso 21 agosto dopo essere stato abusivamente per 31 anni nell’ex cartiera di via Watteau, “ha il valore, una volta si diceva controcultura, ma contro o meno era cultura comunque. Era uno spazio alternativo importante perché Milano, senza fare riferimenti a cose contemporanee, è cresciuta tantissimo in una logica di bellezza, di ricchezza ma c’era bisogno anche di questi centri tipo il Leoncavallo, il Conchetta”. Il registra ricorda ancora di essere “cresciuto all’interno di questo movimento. Era una visione di Milano un pochino alternativa. Va bene per i prezzi politici per andare a vedere gli spettacoli, la birra a prezzo politico la tolleranza della marijuana ma anche le ronde contro lo spaccio dell’eroina nel quartiere”. La speranza, dopo lo sgombero è che si “salvino almeno un po’ dei graffiti, delle cose e della documentazione di quell’epoca che è stata importante”. Un ricordo su tutti: “una cosa fu molto forte: quando facemmo il film Sud con le musiche dei ragazzi dei centri sociali, 99 Posse e Assalti frontali, avevano annunciato lo sgombero, c’era Formentini sindaco mi sembra e Mediterraneo aveva appena vinto l’Oscar. Quindi avevamo deciso di presentare al Leoncavallo il giorno dello sgombero il film. C’erano le televisioni un po’ di tutto il mondo e pieno di gente e non hanno potuto sgomberarlo. Quella è una cosa che mi è piaciuta”. Cuneo. Buone pratiche dell’economia carceraria al Festival “Articolo 27-Expo” La Fedeltà, 7 settembre 2025 Da venerdì 12 a domenica 14 settembre via Roma e il cortile del Comune di Cuneo saranno il palcoscenico di un fitto programma di eventi. L’Associazione Articolo 27, promossa da Panatè Società Benefit in collaborazione con Fondazione degli Industriali Ets, La Gemma Venture Srl e La Strada Società Cooperativa Sociale, organizza il Festival Articolo 27-Expo a Cuneo. Una rete inedita che lega imprese, terzo settore e mondo istituzionale con l’obiettivo di stimolare e diffondere una visione trasversale del sistema carcerario favorendo l’interazione con il mondo delle imprese, supportando la realizzazione di un nuovo modello produttivo che renda scalabili e sostenibili i progetti di inserimento lavorativo dei detenuti all’interno e fuori dalle carceri, con grande attenzione al fine pena. Commenta così il Consiglio direttivo dell’Associazione Articolo 27, presieduta da Davide Danni: “Il carcere non deve essere solo luogo di punizione: deve diventare un luogo di lavoro, formazione e riscatto. L’Associazione Articolo 27 nasce per rendere questa visione realtà attraverso un’azione condivisa”. L’evento si terrà da venerdì 12 a domenica 14 settembre in via Roma e nel cortile del Comune di Cuneo. Il festival è dedicato a promuovere le buone pratiche legate all’economia carceraria e a sensibilizzare il territorio sullo stato delle strutture penitenziarie, trasformando il carcere da luogo di pena a luogo di lavoro, formazione e ripartenza. L’evento includerà iniziative gratuite e aperte al pubblico. Saranno presenti oltre 20 cooperative da tutta Italia che esporranno prodotti realizzati in carcere, tra cui proposte culinarie, magliette, borse e accessori. I luoghi principali del festival saranno il “Villaggio” in via Roma per la “Mostra-mercato” e l’area concerti, e il “Salotto Fondazione Industriali” nel Cortile del Comune di Cuneo per tavoli di riflessione e talk. Reggio Calabria. Inaugurata la mostra fotografica “I volti della povertà in carcere” reggiotoday.it, 7 settembre 2025 È stata inaugurata al Castello Aragonese, in una sala gremita, la mostra fotografica “I volti della povertà in carcere” che documenta gli aspetti più umani della condizione carceraria delle persone private di libertà. L’esposizione di Matteo Pernaselci e Rossana Ruggiero nasce dall’idea di poter dar voce a chi non ha voce in carcere con “i volti rivolti” alle povertà difficili da immaginare fuori dalle sbarre, sul sentiero degli invisibili tracciato da Papa Francesco. Un lavoro di oltre un anno di raccolta di materiale fotografico e interviste per mettere in luce l’umanità spesso dimenticata, la povertà nelle varie sfaccettature emersa dai racconti di detenuti e operatori e la “speranza” che si può costruire nonostante “le sbarre”. “I Volti della Povertà in Carcere” ha visto la collaborazione della Casa circondariale F. Di Cataldo, carcere di San Vittore di Milano ed è diventato un progetto patrocinato dal Giubileo 2025. L’omonimo volume, che raccoglie scatti e testimonianze, è stato pubblicato con la prefazione del cardinale Matteo M. Zuppi. La mostra al Castello Aragonese, nella sala Ferdinando I d’Aragona, è stata organizzata dalla camera penale di Reggio Calabria e dall’associazione Tra Noi- Calabria in collaborazione con il ministero della Giustizia, con il supporto del Comune di Reggio che ha stipulato, con apposita delibera, il partenariato con l’odv società di San Vincenzo de Paoli - Consiglio centrale di Roma e un altro partenariato con Peregrintantes in Spem. Significativo il supporto logistico di tutto lo staff del Castello Aragonese coordinato dal funzionario Pasquale Borrello. Dopo i consueti saluti istituzionali, dei referenti del Comune di Reggio Calabria, sono intervenuti rispettivamente: Giuseppe Borrelli, procuratore capo della Repubblica Tribunale di Reggio Calabria; Daniela Tortorella, presidente tribunale di sorveglianza di Reggio Calabria; Giuseppe Aloiso, garante del Comune di Reggio Calabria dei diritti delle persone detenute o private della libertà e Francesco Siclari, presidente camera penale G. Sardiello di Reggio Calabria. Sono intervenuti, successivamente, la coautrice del volume, Rossana Ruggiero, in dialogo con Giovanna Russo, garante Regione Calabria dei diritti delle persone detenute o private della libertà; Rosario Tortorella, direttore degli istituti penitenziari G. Panzera di Reggio Calabria; Caterina Malara, segretario camera penale G. Sardiello di Reggio Calabria e Alessandra Lo Presti, presidente Associazione Tra Noi Calabria. La presentazione, inaugurazione della mostra è stata aperta e accompagnata dalle musiche dell’associazione “millenote” diretta dal maestro Roberto Caridi. La mostra vuole aprire una finestra sul mondo carcerario e sui diritti delle persone private di libertà; mostrandone, mirabilmente e con magistrali scatti fotografici, gli aspetti più umani. Uno spunto per riflettere, dunque, su quanto il carcere debba essere luogo di reintegrazione sociale nel rispetto del dettato costituzionale; nonché luogo non separato dalla società civile ma strutturale e organico a essa: proprio per non relegare, esistenzialmente, alla condizione esclusiva del giudizio chi (per le più svariate ragioni personali, sociali, economiche o culturali) si è ritrovato a compiere azioni contro la legge. Uno spaccato significativo su un mondo che rimane troppo spesso senza voce verso l’esterno e che merita, invece, di essere conosciuto per attivare e attuare quei necessari processi riabilitativi della persona nel rispetto della stessa. Questo, in sintesi, quanto è emerso dai vari interventi ma soprattutto dalla mostra e dalla sua potente capacità espressiva di tradurre la sofferenza della condizione carceraria in umanità. Ancona. Il concerto per i detenuti. Musicultura al Barcaglione di Lorenzo Monachesi Il Resto del Carlino, 7 settembre 2025 Dopodomani l’appuntamento finale del progetto “La casa in riva al mare”. Il festival ha coinvolto i reclusi come giurati e in alcuni laboratori musicali. I vincitori di Musicultura in concerto nel carcere del Barcaglione ad Ancona. È l’epilogo de “La casa in riva al mare”, il progetto a tutela della dignità umana dei detenuti e a favore del loro reinserimento, già segnalato nel 2024 come Best Practice dal Ministero della Giustizia, Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. L’appuntamento è per dopodomani, quando i protagonisti della 36esima edizione del festival maceratese entreranno nella casa di reclusione. Il progetto, promosso dal garante regionale dei diritti della persona Giancarlo Giulianelli, per il secondo anno consecutivo ha visto le canzoni in concorso a Musicultura entrare nel carcere di Barcaglione e coinvolgere attivamente i detenuti con un programma di laboratori musicali e di scrittura coordinati dal direttore artistico di Musicultura Ezio Nannipieri, assistito dal prof. Edoardo Bartolini. Sono stati gli stessi detenuti, costituiti in giuria, a designare tra gli otto vincitori del concorso Alessandra Nazzaro con il brano “Ouverture” quale vincitrice del Premio “La casa in riva al mare”. Il riconoscimento, del valore di duemila euro, è stato consegnato lo scorso giugno sul palco dello Sferisterio di Macerata, alla presenza di Giulianelli, da due rappresentanti della giuria di detenuti, Petrit Krypa e Valerio Santoni, che hanno letto al pubblico la motivazione e raccontato la loro esperienza di giurati. Il progetto prevedeva come atto finale il concerto all’interno della casa di reclusione della vincitrice del Premio, Alessandra Nazzaro. Come lo scorso anno, l’iniziativa è entrata a tal punto nel cuore dei vincitori, che tutti hanno deciso di partecipare uniti a questa occasione d’incontro in musica con e a favore dei detenuti che nei mesi scorsi con emozione hanno ascoltato, analizzato, discusso le loro canzoni. Assieme ad Alessandra Nazzaro, si esibranno al Barcaglione Elena Mil, Frammenti, Ibisco, Moonari, Abat-jour e Silvia Lovicario. La direttrice Manuela Ceresani ha messo per l’occasione a disposizione il piazzale interno della casa di reclusione, con la vista del mare che, non a caso, farà da sfondo alle canzoni. II concerto della reunion dei vincitori di Musicultura sarà aperto a tutti i detenuti, con inizio alle 17.30. Seguirà un momento conviviale allietato da un rinfresco a cura di Artis Cibaria. All’organizzazione dell’evento collaborerà anche la Caritas di Ancona. Tagli al Terzo settore, il Ministero rassicura: “I fondi non diminuiranno” di Maurizio Carucci Avvenire, 7 settembre 2025 La nota dopo la denuncia delle associazioni: “Ecco come sono stati ripartiti i soldi”. Ma i conti sono diversi da quelli del Forum. Dopo la denuncia del Forum Terzo settore, il ministero rassicura sui fondi. È direttamente il dicastero del Lavoro e delle Politiche sociali a offrire una rilettura dei numeri. “Quest’anno - spiega Alessandro Lombardi, capo Dipartimento per le politiche sociali, del Terzo settore e migratorie del ministero - sono stati stanziati 141 milioni di euro a favore degli Ets-Enti del Terzo settore. Il parametro di riferimento non sono però i 175 milioni previsti nell’analogo atto di indirizzo del 2022, ma i 169 effettivamente messi a bando nel triennio (tale riduzione è stata causata da tagli alla spesa pubblica e da variazioni contabili). Il differenziale è pertanto di 28 milioni. Rispetto a questo valore la spending review ha inciso sul triennio 2025-2027 per 14 milioni. Questo taglio è stato per la maggior parte recuperato grazie ai dieci milioni in più stanziati per il 2025 sul fondo per il finanziamento delle attività di interesse generale degli Ets”. Il ministero fa il conto in modo diverso rispetto al Forum, che con la portavoce Vanessa Pallucchi aveva denunciato un ammanco di 34 milioni. Si parla della “cassa” prevista dagli articoli 72 e 73 del Codice del Terzo settore, uno strumento molto importante perché si tratta di una linea di finanziamento cui i soggetti sociali e nazionali attingono per i progetti più strettamente legati alla loro natura. Il ministero però ritiene che non ci sia un allarme sui fondi. E dà una spiegazione tecnica a quanto lamentato dal Forum. “Sul 2025 abbiamo risorse in meno per i restanti 14 milioni, determinati dalla rimodulazione di impegni contabili assunti negli anni precedenti. Difatti, per venire incontro alle esigenze degli enti o di alcune Regioni, che hanno richiesto proroghe per la realizzazione di progetti o di programmi di interventi finanziati negli anni precedenti, si sono dovute necessariamente spostare sul 2025 le risorse impegnate per i saldi di tali progettualità. Ma questo ha avuto un corrispondente effetto positivo sugli anni pregressi: infatti nel 2023 e nel 2024 il ministero ha ampliato per quasi 15 milioni di euro (6,6 milioni di euro nel 2023; 8,3 nel 2024) il plafond inizialmente destinato dall’atto di indirizzo al finanziamento dei progetti nazionali. Tali risorse - rivendica il ministero in risposta al Forum - quindi sono andate a beneficio ulteriore degli enti del Terzo settore: nel biennio precedente sono stati finanziati in totale 138 progetti (69 per ciascuna annualità), per un totale di 71,7 milioni di euro, con una media per annualità di 35,8 milioni di euro. Questo numero diventa ancora più significativo se paragonato ai dati relativi all’anno 2022, nel quale furono finanziati 56 enti per un totale di 16,3 milioni di euro”. Secondo il dicastero, insomma, bisogna dare una “lettura non statica ma dinamica dei dati contabili”, legata “al ciclo di vita dei progetti finanziati”. Ma come precisato dallo stesso ministero, il dato di partenza non cambia: dal triennio precedente a quello in corso c’è un taglio nominale di 34 milioni, che non può non preoccupare gli enti del Terzo settore in vista della manovra. Una scadenza, quella della legge di Bilancio, che il comparto sociale vorrebbe affrontare con risposte chiare anche sull’Iva, sull’Irap e sul tetto al 5xMille che non consente di distribuire tutte le risorse stanziate dai contribuenti. Con un valore economico stimato in circa 80 miliardi di euro - pari al 5% del Pil nazionale - il Terzo settore rappresenta oggi un pilastro del sistema socio-economico del Paese. Con oltre 360mila istituzioni non profit attive e più di 870mila lavoratori impiegati, il comparto rappresenta un sistema diffuso e capillare su tutto il territorio nazionale, con una forte concentrazione nel Nord Italia. Secondo il report Istat (ottobre 2022), si conferma in crescita nonostante le difficoltà legate alla pandemia, con una prevalenza di associazioni (85,2%), ma con un ruolo sempre più rilevante delle cooperative sociali (4,1%), in particolare nei settori dell’assistenza sociale, dello sviluppo economico locale e della coesione sociale. Il sistema cooperativo, in particolare, si distingue per la sua capacità di generare occupazione inclusiva: le sole cooperative sociali danno lavoro a oltre 456mila persone, di cui 78mila con forme di svantaggio e più del 50% donne. Attivo in ambiti chiave quali l’assistenza alle persone con disabilità, la tutela ambientale, i servizi sanitari e l’animazione culturale, il comparto si conferma attore cruciale nella gestione del welfare e nella salvaguardia dei diritti fondamentali, con una crescente richiesta di professionalità capaci di coniugare visione strategica, competenze gestionali e innovazione. I milioni di euro mancanti nel fondo triennale possono penalizzare proprio questi obiettivi, secondo il Forum. Manon Garcia: “Sistema giudiziario a rischio per eccesso di maschilismo” di Danilo Ceccarelli La Stampa, 7 settembre 2025 La filosofa: “Lo Stato fallisce se i crimini contro le donne diventano di massa”. “È possibile vivere con gli uomini?”. Manon Garcia nell’introduzione del suo ultimo libro si dice consapevole del fatto che una simile domanda possa “infastidire”. Ma la filosofa e femminista francese, docente alla Freie Universität di Berlino, non può fare a meno di sollevarla dopo aver seguito al Tribunale di Avignone il processo per gli stupri di Mazan. Un orrore di cui è stata vittima per anni Gisèle Pelicot, sedata e data in pasto a decine di sconosciuti contattati su Internet dal marito Dominique, poi condannato insieme agli altri imputati. In Vivere con gli uomini (Einaudi) Garcia racconta le udienze seguite alternando la narrazione a riflessioni su quell’abominio compiuto da maschi almeno all’apparenza “normali”. La banalità del male già evocata da Hannah Arendt seguendo il processo a Gerusalemme del nazista Eichmann torna così a manifestarsi sotto varie forme, che vanno dalla violenza sessuale ad episodi di natura diversa, come quelli emersi recentemente con le foto sessiste e volgari pubblicate su Facebook e sul sito Phica.eu. Da dove nasce la scelta di una tesi così dura? “È volutamente polemica. Il processo Pelicot ci pone degli interrogativi su cosa significhi vivere con gli uomini. Se consiste in quello che abbiamo visto con questa storia, viene da chiedersi se non ci siamo sbagliati nel credere che sia possibile amarsi nonostante le diversità”. Che risposta si è data? “Vivere con gli uomini significa essere esposte alle violenze sessuali, che fanno parte del nostro sistema sociale e non sono un fattore biologico del mondo maschile. Certo, è molto deprimente vedere le cose in questo modo”. Come è possibile? “Le donne per vivere sono costrette a dover dimenticare il pericolo continuo delle violenze sessuali. C’è un parallelo interessante che si può fare con il cambiamento climatico: così come non si può costantemente pensare al pianeta che sta andando verso la distruzione, è altrettanto necessario evitare di preoccuparsi dei rischi di stupro che si corrono uscendo di casa. Poi c’è il tema del modo in cui gli uomini desiderano, che sembra essere incompatibile con il concetto di eguaglianza tra i generi. Durante il processo i giudici non hanno mai domandato agli imputati come fosse possibile eccitarsi stuprando Gisèle Pelicot. Al massimo, ad alcuni di loro è stato chiesto perché non fossero riusciti ad avere delle erezioni. Ma per me e molte altre donne presenti in aula la questione è: come si può fare sesso con una donna mezza morta?”. Quello di Mazan è stato anche ribattezzato come il “processo del consenso”... “Sono rimasta molto colpita dall’utilizzo di questo termine. Gisèle Pelicot è stata drogata e poi violentata. Mi sembra evidente il fatto che non ci sia stato alcun consenso! Molti imputati si sono difesi affermando di aver agito in quel modo perché c’era un accordo con il marito Dominique. È una strategia da parte di chi non ha altro modo per giustificarsi, ma questo consenso tra stupratore e coniuge dice molto”. Adesso come bisognerebbe agire? “Di certo questo tipo di problemi non si risolveranno nei tribunali, dove dominano dei concetti sociali da cambiare”. In effetti, nel libro afferma che il processo “pone fine al riporre la speranza in via esclusiva nel potere giudiziario”. “La fiducia nella giustizia si basa sull’idea che i crimini sono un qualcosa di eccezionale. Ma quando diventano all’ordine del giorno, come le violenze sessuali, il sistema non è più sostenibile da un punto di vista finanziario e organizzativo. Nel libro cito un gruppo di sostegno agli stupri scoperto su Telegram con più di 70mila iscritti. Lo Stato non ha i mezzi per processare e incarcerare un numero simile di persone. La soluzione è da ricercare nel sistema educativo, affinché si capisca che c’è un continuum tra il rimanere al bar mentre la propria donna si occupa dei bambini o della cena e quello che è accaduto a Gisèle Pelicot”. A proposito, che idea si è fatta delle foto a sfondo sessista che hanno fatto così tanto discutere in Italia? “Dimostrano proprio questo continuum. Per gli uomini è facile condannare un caso estremo come quello di Gisèle Pelicot. Il gruppo Facebook “Mia moglie”, invece, rappresenta la tappa precedente, nella quale i maschi non si pongono nessun problema. La maggior parte di loro dice che non è la fine del mondo, che si tratta solo di un modo per eccitarsi un po’”. In mezzo c’è sempre Internet, usato come strumento per veicolare violenze e sessismo... “Sono molto combattuta su questo tema. L’anonimato del web permette di fare delle cose assurde. Dominique Pelicot non sarebbe mai riuscito a trovare così tanti uomini senza la rete, che però potrebbe anche aver aiutato il suo arresto”. C’è da stupirsi del fatto che certe foto riguardino anche donne di potere, come la nostra premier? “Sarebbe interessante chiederlo a Giorgia Meloni, ma lei non parla mai di argomenti simili. Tuttavia sono certa che queste donne non siano rimaste troppo sorprese da quanto accaduto, perché fa parte della loro vita essere giudicate in base alla loro apparenza. Anche qui c’è un continuum, tra il commentare come una donna è truccata o pettinata e dire che si ha voglia di farci sesso”. Migranti. Nei Cpr c’è un problema di salute mentale. E rispunta Marco Cavallo di Ilaria Sesana Avvenire, 7 settembre 2025 Al via il viaggio-denuncia della società civile che vuole la chiusura dei centri rimpatrio. La Cassazione dà ragione ad un richiedente asilo portato in Albania: senza convalida, va liberato in 48 ore. Un viaggio nei Centri di permanenza per il rimpatrio per verificare le condizioni di vita all’interno delle strutture. A compierlo Marco Cavallo, il cavallo di legno di colore azzurro simbolo della rivoluzione di Franco Basaglia. Dopo aver attraversato l’Italia per denunciare l’inumanità degli ospedali psichiatrici giudiziari, ha intrapreso un nuovo viaggio per chiedere la chiusura dei Cpr, identificati come istituzioni totali, al pari dei vecchi manicomi. L’iniziativa ha preso il via venerdì pomeriggio nel giorno in cui una sentenza della Cassazione ha contestato le norme introdotte dal governo Meloni con il decreto legge sulle “disposizioni urgenti per il contrasto all’immigrazione clandestina”. In caso di mancata convalida del trattenimento in un Cpr, sottolinea la sentenza, il richiedente asilo deve essere subito liberato e non può rimanere trattenuto nel centro fino ad un massimo di 48 ore come prevede il decreto. A rivolgersi alla Cassazione il legale di un migrante senegalese che era stato portato nel Cpr di Gjader in Albania e poi, una volta non convalidato il trattenimento, trasferito nel Centro di Bari e lì trattenuto due giorni, determinando una “evidente lesione del bene primario della libertà personale”. La Cassazione contesta la violazione di sei articoli della Costituzione e sottopone la norma all’attenzione della Consulta. La storia di Marco Cavallo inizia il 21 gennaio 1973 quando un inedito corteo scese dalla collina di San Giovanni - dove aveva sede il manicomio - diretto verso il centro di Trieste. A guidarlo era una creatura azzurra di legno e cartapesta alta quattro metri, seguito dai pazienti che lo avevano costruito. Quel momento è diventato il simbolo della lotta contro l’internamento psichiatrico, contribuendo alla riforma che ha portato alla chiusura dei manicomi. “Quel corteo è stato un modo per affermare il diritto di cittadinanza dei “matti”“, ricorda Carla Ferrari Aggradi, psichiatra e psicoterapeuta, presidente Forum Salute Mentale. Da più di cinquant’anni, Marco Cavallo è simbolo di libertà e di impegno per il rispetto dei diritti. Il viaggio nei Cpr è stato presentato ieri e parte da Gradisca d’Isonzo (Go). Nelle prossime settimane farà sosta davanti ai Cpr di Milano, Roma, Palazzo San Gervasio (Pz), Brindisi e infine Bari (10 ottobre). Ogni tappa verrà animata da letture, spettacoli teatrali e altre iniziative pubbliche promosse dalle associazioni attive sui territori. Inoltre, sono previste visite di parlamentari all’interno dei Cpr grazie al coordinamento del Tavolo asilo. Il progetto è nato su iniziativa del Forum salute mentale insieme a una vasta rete di associazioni, realtà culturali, associative e del volontariato: da Msf a Libera, da Articolo 21 all’Asgi. “Sono due le ragioni principali che hanno mosso questa iniziativa - continua Ferrari Aggradi -. La prima è il fatto che i Cpr sono l’emblema dell’ingiustizia sociale del nostro tempo. Luoghi in cui le persone vengono rinchiuse senza colpe, per aver commesso una violazione amministrativa. Spesso non sanno nemmeno il perché, né quando usciranno”. La seconda motivazione è legata all’abuso e all’uso improprio che si fa degli psicofarmaci nei Cpr: i quali, da strumento di cura, diventano un mezzo per sedare e controllare il comportamento delle persone. Diverse associazioni e inchieste giornalistiche hanno denunciato l’uso massiccio di questi medicinali proprio con l’obiettivo di sedare le persone rinchiuse nei Cpr, evitando così problemi nella gestione e rivolte. Lo ha fatto, ad esempio, l’associazione milanese Naga con un report pubblicato nel 2023 in cui parla di progressiva “zombizzazione” dei detenuti. Nicola Cocco, infettivologo penitenziario che fa parte della rete “Mai più lager. No ai Cpr” e della società italiana di medicina delle migrazioni, parla di una “deriva manicomiale nei luoghi di detenzione amministrativa dei migranti”. Le persone trattenute nei Cpr vivono in condizioni degradate anche dal punto di vista igienico e sanitario. Tutto questo, spiega Cocco, causa una sofferenza profonda che si riflette sulla salute mentale. “Le persone con problemi di salute mentale nei Cpr sono sempre più numerose”. E se da un lato c’è chi si ammala durante il trattenimento, c’è anche chi ha già problemi di salute mentale, eppure viene ugualmente costretto a varcare le soglie del Cpr, sebbene la normativa lo vieti. Se la morte non è più un destino per tutti ma un privilegio per pochi di Gianfranco Mascia* Il Fatto Quotidiano, 7 settembre 2025 Qualcuno diventa un ricordo, altri un numero. Il flusso costante di immagini e numeri ha un effetto anestetizzante, e l’orrore ripetuto inizia a sembrare un fenomeno normale. La morte non è mai coerente, per nessuno. Non mi riferisco al dolore privato, che è sempre individuale e inestimabile, ma al suo riflesso nella cultura, ciò che crea una storia comune. La morte, in altre parole, come fatto sociale. Quando Giorgio Armani muore, la notizia non è semplicemente riportata, è esaltata, ritualizzata, istituzionalizzata. I necrologi si trasformano in epiche, le foto diventano icone. I telegiornali aprono speciali sulla sua vita, un’epopea del genio italiano. La sua morte non è una morte, ma una consacrazione, un’apoteosi mediatica che rende eterno il suo mito. È il teatro della memoria occidentale: un uomo giustamente ammirato diventa una leggenda. È una morte che è una di noi, una morte che può essere raccontata su tutti i quotidiani, con articoli infiniti e infiniti particolari. Diciottomila bambini che muoiono a Gaza, d’altra parte, non ricevono quello spazio, non viene concessa loro quella dignità narrativa. Neanche un piccolo particolare per raccontare quel genocidio. Anche mentre piangiamo un Giorgio, cancelliamo Seraj Ayad, Mohammed, Hussein Yousef, Mousa, Dunia. Non che i loro nomi diventino un coro, ma un sussurro perduto. Non hanno un evento conclusivo, hanno un’abitudine conclusiva. Si insinua nelle notizie come una cifra che risuona freddamente nei bollettini delle agenzie che da qualche parte, sono la vittima, o il danno collaterale, o il civile coinvolto. L’eufemismo è uno scudo: non vediamo i corpi, non ascoltiamo le storie, non documentiamo i sogni infranti. Non muoiono per diventare un ricordo; muoiono per essere un numero. Stiamo osservando due forme di lutto, completamente in contrasto: una che è ritualizzata, una che è estraniata. La prima è raccontata, e la seconda rimane non detta. È qui che la nostra ipocrisia è grande, i nostri modi non detti di sentirci superiori agli altri, che, nella nostra immaginazione, non possono sapere come sentire. Alcune vite, ci ha insegnato la filosofa Judith Butler, sono intese come più “piangibili” di altre. Il sociologo Zygmunt Bauman potrebbe averle chiamate “vite di scarto”, vite la cui perdita non interrompe il nostro quotidiano, non forza le nostre emozioni fuori dalla loro zona di comfort. Gaza è l’apogeo della logica: vite che non equivalgono a vite, morti che non contano tanto, che non sono condotte sullo stesso palcoscenico. La morte del “Maestro” crea una storia ordinata; ha un protagonista e una trama di trionfo e una fine che grida di essere narrata. Ci rassicura. Invece ciò che causa la morte di Dunia, di Mousa, è uno strappo nel tessuto della civiltà. È una storia insopportabile perché, possiamo dirlo, è troppo vicina al crimine per essere inghiottita nella storia. Quindi preferiamo non guardare. Scateniamo forme altamente efficaci di distanziamento, a partire dalla depersonalizzazione. “Diciottomila” è un numero, non diciottomila volti, non diciottomila futuri che non sono mai nati. Hannah Arendt ci ricorda che il male è così frequentemente banale: non è l’odio mostruoso, scrive, che dovrebbe terrorizzarci, ma il meccanismo della consegna quotidiana degli uomini a diventare numeri, della singolarità cancellata nell’anonimato. Questo accade oggi. Il flusso costante di immagini e numeri ha un effetto anestetizzante, e l’orrore ripetuto inizia a sembrare un fenomeno normale. La nostra empatia, come una merce limitata, è riversata su ciò che troviamo più vicino, più “nostro”. C’è una soglia ancora tra il lutto con cui possiamo sederci e quello che non vogliamo. Da un lato, la morte che appartiene al nostro orizzonte culturale e simbolico. Dall’altro, quella che ci critica. Il divario tra la celebrazione di una vita e il silenzio su migliaia di altre è un chiaro riflesso dell’abisso che si chiama coscienza selettiva. Ma poiché la morte è quella condizione che veramente ci lega, non dovremmo essere così distanti nella sua rappresentazione. I nomi dei bambini uccisi dovremmo conoscerli, come conosciamo quello di Armani. Forse l’eleganza oggi non si trova nelle linee perfette di un vestito, ma nel coraggio di attaccare umanità e un nome a coloro che sono stati considerati invisibili. Nel ricordare che dietro un numero c’è una risata interrotta e sogni distrutti. Perché la morte non è più un destino universale, se mai lo è stata. Si trasforma in un privilegio per alcuni. *Ecologista, scrittore e blogger Gli Stati si stanno riarmando e noi non possiamo restare in silenzio di Raul Caruso Avvenire, 7 settembre 2025 Stucchevoli esibizioni di forza, annunci di investimenti nel settore bellico, armi nucleari: il pianeta pare scivolare inesorabilmente su una china pericolosa, senza più impegni di non-proliferazione. In queste ultime settimane stiamo assistendo a stucchevoli esibizioni di forza da parte dei leader mondiali in parate militari e nel contempo continuiamo a ricevere informazioni in merito alla corsa agli armamenti in cui i Paesi del mondo sono oramai tutti coinvolti. Ultima notizia in questo senso è stato l’annuncio del ministro della difesa giapponese di un budget per il 2026 di poco più di 60 miliardi di dollari dopo i numerosi annunci in merito al maggiore impegno militare dei paesi europei. La corsa agli armamenti a livello globale è quindi un dato di fatto, e soprattutto si sta rafforzando in seno a una comunità internazionale in cui la capacità di cooperazione sembra precipitata ai minimi storici, e soprattutto in cui la minaccia - financo esibita - dell’uso della forza sembra essere ritornata come unico criterio delle relazioni tra stati. E infatti, le continue riaffermazioni della necessità di aumentare gli arsenali sono presentate dai governi senza la comprensione del fatto che dovrebbe esserci un pari - se non superiore - impegno per stimolare, suggerire e favorire nuovi accordi di controllo degli armamenti e di non-proliferazione. L’impegno in questo senso, infatti, è stato uno degli elementi costitutivi dell’ordine liberale costruito dopo la Seconda Guerra mondiale. Durante la Guerra Fredda, infatti, e anche negli anni successivi la comunità internazionale e soprattutto le due maggiori potenze hanno sottoscritto una varietà di accordi per limitare la proliferazione di armamenti e diminuire il rischio di una terza guerra mondiale. Vi era una comprensione condivisa della necessità di attivare meccanismi cooperativi pur all’interno di situazioni conflittuali e complesse. Tale comprensione condivisa sembra svanita e il dialogo per limitare la proliferazione degli armamenti di conseguenza interrotto. Emblematico è il caso del trattato ATT che pur essendo stato ratificato da 116 Paesi (inclusi tutti i paesi UE) non ha tra i Paesi aderenti Stati Uniti e Russia, ma anche attori rilevanti come India, Indonesia, Arabia Saudita, Qatar e Iran solo per citarne alcuni. Non meno importante è il caso della convenzione CCW (Certain Conventional Weapons), strumento del diritto internazionale umanitario, che ha lo scopo di vietare o limitare l’uso di specifici tipi di armi che sono considerati fonte di sofferenze gravi e ingiustificabili per i combattenti o per la popolazione civile. In questa fase i Paesi firmatari non riescono a trovare un accordo per rinnovare l’accordo e limitare l’uso delle armi autonome e dell’intelligenza artificiale negli scenari di guerra. Ancora più preoccupante è il caso delle armi nucleari. Il 5 febbraio 2026 scadrà il trattato New Start tra Stati Uniti e Russia per la limitazione delle armi nucleari. Il New Start è l’ultimo accordo in vigore tra Stati Uniti e Russia anche se le ispezioni sono nei fatti sospese. L’accordo in essere, peraltro, è una proroga - voluta dal presidente Biden - del precedente accordo siglato nel 2010 dall’amministrazione Obama. Al momento le probabilità che si trovi un nuovo accordo appaiono molto lontane. In breve, lo scenario attuale è decisamente più preoccupante di quanto appaia a prima vista, poiché l’ingenua fiducia in un riarmo senza regole in una fase di avanzamenti tecnologici come quella attuale è foriera di ulteriore instabilità e non determina alcun effetto credibile di deterrenza, in virtù del fatto che il meccanismo alla base di questa non è la mera disponibilità di armi ma piuttosto la credibilità degli attori coinvolti. In una fase come quella attuale in cui la tradizionale coesione occidentale sembra in crisi profonda, sia gli Stati Uniti sia gli alleati europei presentano nei fatti un innegabile deficit di credibilità poiché è venuta meno l’unità di intenti che aveva dato forma al mondo all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Al contrario, un sistema in cui si accettano, almeno in linea di principio, meccanismi di controllo degli armamenti può essere un modello realistico di cooperazione tra rivali che punta alla costruzione di fiducia reciproca attraverso il dialogo costante al fine di evitare l’escalation di conflitti esistenti. Questo tipo di accordi, sono peraltro ancor più necessari in presenza di innovazioni tecnologiche come quelle attuali che apparentemente possono fornire agli stati presunti vantaggi in caso di conflitto aperto. Dato che le potenze mondiali sembrano aver rinunciato a un percorso di cooperazione di questo tipo, diviene responsabilità dei governi europei quella di tentare un dialogo in questo senso. I governi europei “volenterosi” nell’appoggio all’Ucraina dovrebbero anche farsi promotori di una nuova fase di accordi globali di controllo degli armamenti. È infatti responsabilità inemendabile delle vere democrazie liberali quella di promuovere il dialogo e la cooperazione tra Stati come modello alternativo a quello in cui l’uso della forza sia l’unico principio ispiratore. Usare il passato per bloccare il futuro di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 7 settembre 2025 Per gli autocrati, grandi e piccoli, il passato è la tavolozza con cui dipingere il quadro. Allo stesso tempo, questi personaggi usano la tecnologia più avanzata per garantirsi il controllo della nazione e la supremazia militare. Tra le nuove mattane di Donald Trump - arruolare i dirigenti delle Big Tech nelle forze armate, cambiare il nome del dipartimento della Difesa in dipartimento della Guerra, etc. - ne segnalo una, sfuggita a molti. Un ordine esecutivo - l’ennesimo - ha stabilito che gli edifici governativi a Washington DC devono tornare allo stile neoclassico, salvo casi eccezionali. George Washington, aggiunge Trump, ammirava quel tipo di architettura. In Italia la cosa è sfuggita a molti, dicevo, ma non a Carlo Ratti, un connazionale che negli USA ci lavora, e quest’anno dirige la Biennale Architettura a Venezia. L’architetto ha scritto un commento per il “Financial Times”, dove spiega perché quella di Trump è una decisione insidiosa. L’architettura delle capitali, spiega, riflette sempre il potere politico del tempo. Ma il neoclassicismo, per George Washington e Thomas Jefferson, era sperimentale e innovativo. Per Donald Trump, solo un’eco nostalgica. La questione va oltre l’architettura. E l’America, se vogliamo. Il nuovo potere solitario usa il passato per assicurarsi un futuro. La presidenza autoritaria e bellicosa di Vladimir Putin è giocata su rivendicazioni sovietiche e mitologia zarista. Il dominio di Xi Jinping sulla Cina richiama esplicitamente Mao Zedong - l’abito che indossava per la parata in piazza Tiananmen! - e l’aura degli antichi imperatori. L’elenco potrebbe continuare: per gli autocrati, grandi e piccoli, il passato è la tavolozza con cui dipingere il quadro. Allo stesso tempo, questi personaggi usano la tecnologia più avanzata per garantirsi il controllo della nazione e la supremazia militare. Donald Trump ha arruolato - non solo in senso metaforico - i cervelli digitali, felici di scattare sull’attenti. Xi Jingping lo ha fatto da tempo: il governo cinese si avvale di una classe dirigente che l’Europa si sogna. Putin sa che resterà al potere finché riuscirà a ottenere obbedienza silenziosa; l’obbedienza passa dalla paura; la paura deriva dal controllo; il controllo si ottiene con la tecnologia. In Russia, per esempio, stanno lavorando a una forma autarchica di WhatsApp: indovinate perché. Usare il passato per garantirsi il futuro. È il vecchio che avanza. Non una bella notizia. Il mio appello alla coscienza di Israele di Elena Loewenthal La Stampa, 7 settembre 2025 La Flotilla per Gaza è una provocazione ben più che una missione umanitaria, come ha giustamente osservato Anna Foa. Fermo restando il principio che la provocazione è un meccanismo politico e morale talora salutare, talora necessario. Ferma restando l’evidenza che il supporto umanitario in cammino attraverso il Mediterraneo insieme agli attivisti imbarcati sarà del tutto marginale anche se riuscirà nell’arduo intento di sbarcare a Gaza e consegnare quel che trasporta - una goccia nel mare di camion carichi di aiuti che al momento entrano a Gaza. Fermo restando che Israele farebbe bene a chiudere un occhio e magari anche due permettendo alla Flotilla di rompere un blocco navale imposto sin da quando Hamas ha preso il potere nella Striscia. Dati questi presupposti, la provocazione di questa iniziativa non sta tanto nel supporto umanitario e nella volontà di spezzare l’isolamento di Gaza ma in ben altro, purtroppo. Perché ancora una volta lo slogan che tiene insieme questa iniziativa e sventola insieme alla bandiera palestinese è “dal fiume al mare”. Parole tossiche che significano senza mezzi termini: Israele non ha diritto di esistere perché tutto è iniziato non il 7 ottobre del 2023 ma ben prima, cioè nel 1948. Perciò il blocco che andrebbe spezzato non è tanto e soltanto quello navale che Israele ha imposto sul mare davanti a Gaza ma quello mentale, militare e politico che ha determinato, da ottant’anni a questa parte, il rifiuto arabo nei confronti di qualunque spartizione, trattativa, reciproco riconoscimento. “Dal fiume al mare” andrebbe derubricato per sempre, da qualunque parte esso provenga, perché è l’ostacolo maggiore a una pace cui tutti avrebbero diritto e che tutti dovrebbero desiderare. Anna Foa auspica il risveglio di un’anima ebraica che in Israele si è secondo lei perduta. Forse non si tratta tanto di anima quanto, più laicamente, di coscienza. Coscienza viva, nel mondo ebraico e dentro lo stato d’Israele. Dove c’è un governo che ha dentro di sé elementi innegabilmente a dir poco tossici. Dove sono stati commessi errori e prese decisioni politiche e militari deleterie. Ma dove la coscienza è viva. Nel desiderio che questa terribile guerra finisca (perché di guerra si tratta, e la più lunga che Israele ha attraversato nella sua storia). Nelle instancabili manifestazioni di piazza. Nel fatto che la maggioranza della popolazione apprezza l’impegno negli aiuti umanitari che da Israele arrivano dentro Gaza ogni giorno. C’è, certamente, anche la coscienza cattiva di chi pure in Israele fa eco con “dal fiume al mare”, come a dire che c’è spazio solo per loro e non per gli altri. Pensare che bastano un pizzico di realismo e due occhi per rendersi conto che, da qualunque fronte provenga, “dal fiume al mare” è insensato, è pura astrazione e non si realizzerà perché l’unica strada per sopravvivere è la convivenza - o tutti o nessuno. In Israele di coscienze ce ne sono tante perché più che di una indefinibile anima l’ebraismo è fatto di pluralismo, di convivenza degli opposti. Persino di anarchia mentale. Le coscienze di Israele ci sono e sono vive. Ci sono sconforto, rabbia, disperazione e speranza. C’è un insieme di emozioni difficile da dipanare, pieno di dilemmi e dolore. Riconoscere che tanto su un fronte quanto sull’altro c’è un’umanità che sente, pensa e soffre - ognuno a suo modo - è il primo passo per guardare a questo conflitto con l’autentico desiderio che finisca. Prima o poi. Secondo l’Osce ci sono più di 2.500 prigionieri di guerra ucraini nelle carceri russe ilpost.it, 7 settembre 2025 Secondo un’analisi realizzata dagli esperti dell’Osce (l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) e citata dal ministero dell’Interno ucraino, in Russia ci sono attualmente 2.577 prigionieri di guerra ucraini. I prigionieri di guerra sono soldati o miliziani catturati durante i combattimenti, a cui il diritto internazionale garantisce una serie di tutele. Sono diversi dai prigionieri civili, che invece sono persone che non partecipano ai combattimenti, come per esempio i giornalisti, e che nella maggior parte dei casi durante una guerra vengono arrestati illegalmente. Non è noto il numero di prigionieri di guerra russi detenuti nelle carceri ucraine. Dall’inizio dell’invasione su larga scala del 2022 sia l’intelligence ucraina che gli esperti delle Nazioni Unite hanno accusato la Russia di aver violato le regole per la tutela dei prigionieri di guerra, sottoponendoli a esecuzioni illegali. Simili accuse sono state mosse all’Ucraina dalle Nazioni Unite in seguito all’invasione della regione russa di Kursk, occupata dall’Ucraina ad agosto dell’anno scorso e poi quasi interamente riconquistata dai russi: secondo un’indagine pubblicata a ottobre del 2024, su 205 soldati russi intervistati 104 hanno detto di essere stati sottoposti a trattamenti degradanti o tortura (non è chiaro quanti di questi fossero stati catturati proprio a Kursk).