Più che pene alternative occorre creare alternative al sistema penale di Diego Mazzola L’Unità, 6 settembre 2025 La Storia ci conferma che la Legalità non è il Diritto e che è dovere della politica fare in modo che la Legalità garantisca il rispetto del Diritto, quello degli animali e quello delle persone. C’è un aspetto della questione che sconvolge gli osservatori del settore Giustizia. Sto parlando della frenesia e della logica del processo e della conseguente smania di punire. Non ci vuole un genio per comprendere quanto sia inutile, violento e controproducente imbastire un processo per “giudicare”, ad esempio, il comportamento di quella povera donna, tra l’altro studentessa universitaria, che in gran segreto dal proprio fidanzato e dalla famiglia sia riuscita a portare a termine ben due gravidanze e che abbia soppresso la vita di quelle sue due creature, disperatamente sepolte in un terreno vicino a casa. Punire in maniera esemplare un atto del genere, può contribuire a fare “deterrenza”, ovvero a scongiurare che altre giovani donne seguano il suo esempio? Francamente non credo siano in molti a crederlo. Ciò in cui “si crede” è solo d’intenzione di punirla, con il carcere naturalmente, con l’ergastolo per la maggiore, con la pena di morte secondo pochi (per fortuna). Anche nel caso del delitto di Garlasco, per il quale il fidanzato della vittima ha già trascorso 18 anni in galera pur avendo sempre urlato la propria innocenza, non è proprio il caso di parlare di deterrenza, bensì di un desiderio di vendetta socialmente e giudiziariamente cresciuto come una “mala pianta”, nonostante sia stato assolto nei primi due livelli di giudizio. La deterrenza è, dunque, quella circostanza per cui “magicamente” si crede che l’informazione possa impedire che altri compiano simili “reati”. Perché eventi del genere vengono considerati “reati” perché si aprano le porte delle galere. Oggi sappiamo che lo Stato, proibendo determinati comportamenti umani, classificati come reati, per mezzo della minaccia di una specifica sanzione afflittiva, ovvero la pena, si comporta come il contadino che chiude la stalla dopo che i buoi sono scappati, pensando di tutelare, mentendo a sé stesso, i valori fondanti di un popolo. È stato chiarito che, anche s e alcuni reati sono generalmente uguali nei diversi Stati del mondo, le pene possono essere diverse, come pure molti reati sono diversi da Stato a Stato, nel senso sia che si attribuisce una diversa gravità ai medesimi comportamenti asociali sia che ogni Stato punisce certi comportamenti ma non altri, il tutto secondo l’evoluzione del diritto e delle società nel mondo. Non solo: ora sappiamo che per trent’anni l’articolo 4 bis (icona dell’emergenza mafiosa) è stato applicato creando regimi speciali differenziati, processuali penali e penali penitenziari, e perciò violando la Costituzione. Questo genere di considerazioni rientra tra quelle che portano a constatare “Il declino del Diritto Penale”, così come suggerito dal professor Klaus Luderssen in un suo scritto di non facile lettura, e faticosamente tradotto dall’impagabile professor Luciano Eusebi. Credo, al contrario, che l’estremo rumore con cui l’informazione si occupa di quelle cose, tra cui i casi di femminicidio che occupano tanto spesso e pesantemente gli spazi di cronaca nera dei nostri telegiornali, siano vissuti da molti non come “dovuta informazione”, ma come una possibile via d’uscita da situazioni, disdicevoli nei rapporti umani, ma che possono contribuire al mancato controllo del sé. Il luogo nel quale trattenere le persone che hanno pensato di spezzare il legame con la società civile, ma che “mostri” non sono (lo riconosce la stessa psichiatria moderna), dev’essere totalmente ripensato affinché sia rispettato il diritto al riconoscimento del senso della dignità personale, sempre indispensabile al respiro di coscienza che alberga in ognuno di noi. Dopo attente analisi non può sfuggire che nessuno è da considerarsi responsabile dei processi mentali che ci determinano all’azione, ma nulla e nessuno ci può impedire di studiarli e conoscerli per fare una giusta prevenzione: cosa di cui non può occuparsi il Diritto Penale. Chi vive l’ideale di andare oltre il Sistema Penale e la barbarie del carcere, lo fa per aver compreso con Thomas Mathiesen che “la prigionizzazione è l’opposto stesso della riabilitazione, ed è l’ostacolo maggiore sulla strada del reinserimento nella società”. Ribadisco la necessità di non credere all’utopia delle pene alternative, bensì al dovere di creare alternative al processo penale, molto opportunamente mandandolo in pensione. Vittorio Manes: “Nelle carceri muore il principio di umanità” di Simona Musco Il Dubbio, 6 settembre 2025 La Costituzione come guida morale e giuridica. “Il principio di umanità non è solo valore etico ma fondamento giuridico primario: secondo l’articolo 27 della Costituzione, la pena deve essere rieducativa, mai vendicativa”. “La detenzione non riguarda solo il condannato: intere famiglie, soprattutto i figli minori, soggetti particolarmente vulnerabili, subiscono le ricadute del carcere. Ignorarlo significa perpetuare una pena disumanizzante e sociale, con effetti duraturi e generazionali”. Professor Vittorio Manes, ordinario di diritto penale presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna, la Costituzione assegna una posizione preminente al principio di umanità, presupposto imprescindibile per la finalità rieducativa, stabilita dalla seconda parte della disposizione. Come si riflette questo principio nelle condizioni carcerarie italiane, specie in tema di sovraffollamento e suicidi? Il principio di umanità delle pene è un valore primordiale per la civiltà del diritto, prioritario e pregiudiziale rispetto a tutti gli altri principi: afferma che lo Stato non può mai rispondere al crimine replicando alla violenza con la violenza, alla brutalità con la brutalità, al sangue col sangue, e non deve mai “abbassarsi” al livello del reo, anche dell’autore del crimine più spregevole e efferato. In questo consiste la differenza qualitativa tra “pena” e “vendetta”: una differenza fondamentale nel percorso di civilizzazione della giustizia penale, di cui lo Stato deve essere appunto il primo custode. Ed è vero, venendo ai rapporti con la finalità rieducativa ed alla sua domanda, che nessun progetto di risocializzazione può essere credibilmente perseguito se non si rispetta il canone di umanità: un canone dal quale sono profondamente distanti le condizioni attuali delle carceri italiane, con un tasso di sovraffollamento medio ufficiale che supera il 120%, ma che in realtà ha ormai raggiunto il 130%. Carcerati rinchiusi come bestie in una stia, senza lenzuola e talvolta senza acqua potabile. E la conferma più drammatica di queste condizioni inumane viene proprio dalla drammatica emergenza dei suicidi, il 90 % dei quali, non a caso, è occorsa in penitenziari sovraffollati. Come descriverebbe l’attuale disallineamento tra la realtà carceraria e i principi sanciti dalla Costituzione italiana? Come uno iato doloroso e difficilmente colmabile, che segna un profondo arretramento culturale e civile del nostro Paese: perché i livelli di civiltà di una nazione si possono giudicare aprendo le porte delle sue prigioni. Ed è a mio avviso irrisorio - e persino illusorio - pensare che questo problema possa risolversi solo costruendo nuove carceri. Il sovraffollamento è come un termometro che segna la febbre, una patologia che non si cura con i piani di edilizia penitenziaria: bisogna adottare misure strutturali di intervento a monte, ed intervenire - per così dire - sulla patogenesi. La pena non è inflitta solo al singolo, ma anche alla sua cerchia affettiva, costretta a subire le conseguenze di quella detenzione pure senza colpa. In che modo lo Stato può mitigare questa ulteriore sofferenza? La pena, ed in particolare la pena privativa della libertà, è purtroppo il più delle volte una esperienza non individuale o singolare ma collettiva, investe tutta la comunità di appartenenza e la cerchia di relazioni del soggetto, ed anzitutto il suo nucleo familiare ed affettivo. Il carcere produce tutta una serie di “effetti collaterali” su soggetti indirettamente colpiti dalla detenzione dell’autore: basti pensare ai figli minori, soggetti particolarmente vulnerabili che spesso sono coinvolti e travolti dalla vicenda custodiale di un genitore, particolarmente se si tratta di figli in tenera età con madre detenuta. Non considerare questi effetti significa, ancora una volta, ammettere una pena con tratti disumanizzanti, che finisce solo con l’acuire l’antagonismo dei protagonisti - e dei terzi coinvolti - con il sistema. In che modo si possono valutare istituti come il 41 bis o la stessa pena dell’ergastolo alla luce del principio di umanità della pena? L’ergastolo pone da sempre problemi di compatibilità con il canone di umanità, e già in seno all’Assemblea costituente ci si domandava che senso avesse aver abolito la pena di morte quando si era scelto di “conservare quella morte in vita che è la pena dell’ergastolo”. Del resto, la reclusione perpetua - secondo la Convenzione europea dei diritti dell’uomo - può essere ritenuta legittima nella sua previsione astratta solo se essa risulta in concreto riducibile, de iure o de facto, ossia solo se la legge preveda il periodico riesame della continuazione dell’esecuzione della pena, verificando l’evoluzione del percorso trattamentale del reo: e ciò perché al reo non può mai essere negato il “diritto alla speranza”, e, aggiungerei, il diritto a cambiare e a riprogettarsi in direzione diversa rispetto alla esperienza negativa che ha segnato il suo percorso. Mi pare però comunque una posizione compromissoria ed insoddisfacente: e credo che sia davvero giunto il tempo di cancellare senza se e senza ma la pena perpetua - strutturalmente inumana e incompatibile con ogni progettualità risocializzativa - dal tariffario punitivo del nostro codice. Quanto al regime speciale del “carcere duro”, il famigerato “41 bis”, fa riflettere già il fatto che una misura originariamente emergenziale e derogatoria sia nel tempo diventata del tutto ordinaria; ed anche qui a me pare che le limitazioni che la caratterizzano pongano notevoli criticità al cospetto dell’art. 27 Cost.. Del resto, la stessa Corte costituzionale ha decretato l’illegittimità del divieto di cottura dei cibi per i soggetti sottoposti al regime speciale, ritenendola appunto una inutile vessazione, che nulla ha a che vedere con l’esigenza di impedire i collegamenti del boss con le organizzazioni criminali di origine, e sottolineato che anche chi si trova ristretto secondo le modalità di tale regime speciale “deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale”. Parole molto luminose, che si auspica trovino seguito in decisioni ancor più coraggiose: perché molte limitazioni - siano esse connesse o meno all’esigenza di impedire i contatti con le “cosche” - hanno di per sé tratti disumanizzanti, ed andrebbero come tali ritenute illegittime. Esiste un legame tra il fenomeno del populismo punitivo e la marginalizzazione del principio di umanità? Esiste un legame molto forte, ed affonda le radici in una profonda crisi culturale: nel lessico della politica, purtroppo sempre più trasversale ai diversi partiti e diffuso nella società civile, l’idea di fondo - tanto ingenua quanto fuorviante - è quella di rispondere ad ogni problema o irritazione sociale attraverso il diritto penale, aumentando le pene, aumentando il ricorso al carcere. E si evoca il carcere inteso - sempre più come luogo di marcescenza, e non di recupero del reo: una discarica sociale dove segregare il reo - come fosse una “vita di scarto” - e “buttare la chiave”. Nella civilissima Italia di Cesare Beccaria si sente spesso parlare anche di pene “crudeli”, come la castrazione chimica, e si dimostra una triste assuefazione alle pene infamanti, come la gogna mediatica. Sono solo esempi di una casistica ben più vasta: ma mi pare evidente, dunque, la matrice culturale del fenomeno, e la distanza siderale dal canone di umanità. Perché la Corte costituzionale appare restia a valorizzare esplicitamente la prima parte dell’articolo 27, comma 3, della Costituzione? Forse perché è un principio indubbiamente impegnativo, imponendo un divieto perentorio ed inderogabile, e perché è sempre difficile stabilire oggettivamente, in via generale e astratta, un limite oltre il quale un determinato trattamento possa dirsi “disumano”. Ma forse anche perché altri principi, come lo stesso principio rieducativo, consentono un maggior margine ai bilanciamenti, e quindi permettono alla Corte percorsi argomentativi più articolati e duttili. Ma il problema è che spesso questi bilanciamenti sono compromissori, ed impediscono una presa di posizione più netta, e decisa, contro le molte e conclamate violazioni al principio di umanità: come proprio lo stato delle carceri testimonia. Del resto, non è casuale che l’intera comunità dei giuristi - Anm, Ucpi e Associazione italiana professori di diritto penale - abbia denunciato unanimamente questo stato impossibile, con una denuncia ribadita, con toni condivisibilmente molto allarmati, proprio ieri dalla Camera penale di Bologna. Il ministro Nordio ha recentemente proposto una revisione della custodia cautelare come soluzione al sovraffollamento. Molti, come Edmondo Bruti Liberati, Mauro Palma e Patrizio Gonnella, hanno definito insufficiente una tale soluzione. Cosa ne pensa? Il problema dei detenuti in custodia cautelare è certamente significativo, occupando oltre il 20% della popolazione carceraria, e una “stretta” sulla possibilità di applicare la misura custodiale è senza dubbio urgente, anche e soprattutto per garantire il rispetto del principio del “minimo sacrificio necessario” della libertà personale, tanto più decisivo al cospetto della presunzione di innocenza. Ma l’overcrowding penitenziario, e più in generale il problema di assicurare condizioni di umanità alle carceri, è un problema ben più ampio, radicato e articolato, ed ha - per così dire - una patogenesi multifattoriale, sulla quale bisognerebbe agire alla radice: restituendo il carcere ad una dimensione di effettiva extrema ratio, dalla quale siamo molto, molto lontani. Quali riforme legislative o culturali sarebbero necessarie per riportare il principio di umanità al centro del sistema penale italiano? Anzitutto, partendo dal principio che la giustizia può realizzarsi ed appagarsi appieno solo dando voce all’umanità della pena. E muovendo da questo principio di “umanesimo penale” rivedere, via via, tutto il sistema, provvedendo ad una drastica riduzione dei reati, riformando il sistema delle pene in astratto, rivedendo i meccanismi di deflazione e commisurazione della pena in concreto, sino a riformare i diversi istituti penitenziari che attraversano la fase dell’esecuzione della pena Un portavoce per la sfida finale ai magistrati di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 6 settembre 2025 Meloni metterà tutto sul banco in vista del referendum sulle “carriere”, soprattutto a livello di comunicazione. Non è solo un valzer di nomi, quello che attraversa i corridoi di Palazzo Chigi. È l’apertura di un cantiere politico in piena regola. Giorgia Meloni ragiona da settimane su una casella chiave: il portavoce. Ma non una figura istituzionale. Piuttosto uno “spin doctor” che, più che prestare la voce, sappia costruire la narrazione del governo in vista della madre di tutte le battaglie: il referendum sulla separazione delle carriere, previsto per la primavera del 2026. L’indiscrezione più insistente porta a Gian Marco Chiocci, attuale direttore del Tg1. Lui, con prudenza, frena: “Mi ha chiamato, ma al Tg1 sto bene”, ha dichiarato. Ma la suggestione resta. Perché l’idea di Meloni è chiara: dotarsi di una figura capace di governare il racconto politico in una fase che inizierà con le Regionali nelle Marche e culminerà nello scontro frontale con il fronte togato. In queste settimane i magistrati si stanno già muovendo. Volti popolari come il procuratore Nicola Gratteri hanno iniziato a presidiare i palinsesti televisivi e addirittura a farne parte, per difendere la categoria e contrastare il ddl Nordio. La premier sa che la posta in gioco è altissima: una bocciatura alla consultazione popolare equivarrebbe a una sconfitta di sistema, con effetti devastanti sul suo impianto riformatore. Al contrario, un sì consoliderebbe Meloni come leader capace di piegare la magistratura e ridefinire i rapporti di forza con le toghe. Il punto, però, è che il terreno non è neutro. Una parte dell’opinione pubblica guarda con diffidenza alla riforma, e persino dentro la maggioranza non tutti hanno la stessa convinzione. Il centrodestra si compatta a parole, ma non mancano i timori per l’impatto di un referendum che potrebbe polarizzare il Paese. Forza Italia, più legata a una sensibilità garantista, spinge per un approccio morbido, al netto della connessione nostalgica con la battaglia di Silvio Berlusconi. La Lega di Salvini, invece, intravede la possibilità di cavalcare la linea dura e il revanscismo contro le toghe, ma teme che la premier si ritagli il ruolo da protagonista assoluta. Dentro questo quadro, la scelta del portavoce assume un valore politico che va oltre la comunicazione. Un Chiocci a Chigi significherebbe lanciare un segnale forte al mondo dell’informazione e blindare la regia della campagna. Si è parlato anche di altri profili: giornalisti vicini al governo, comunicatori esperti di campagne social, figure in grado di accompagnare la premier in un percorso che sarà lungo, accidentato e ad alta tensione, ma il direttore del Tg1, nella mente della premier, ha una marcia in più. Il parallelo con altre stagioni della politica non sfugge. Gridando a “Telemeloni” e a un vero e proprio “ministero della Propaganda”, le opposizioni denunciano il rischio di una comunicazione pervasiva, centrata più sulla costruzione del consenso che sul racconto dei fatti. Ma per Meloni il punto è esattamente questo: in un Paese che ha già visto referendum ribaltare scelte dei governi, l’unico modo per non soccombere è trasformare la campagna anche in una sfida di fiducia personale, stando bene attenti a non ripetere il peccato mortale di Matteo Renzi che ha legato all’esito di un referendum la propria permanenza al governo (anzi, a dirla tutta, nella politica tout- court). Il calendario gioca un ruolo determinante. La tornata di fine mese nelle Marche, regione nelle mani di un fedelissimo meloniano, sarà il primo test. Da lì in poi, il referendum diventerà il campo di battaglia principale, passando per la a dir poco impegnativa impostazione della legge di bilancio. E Meloni vuole arrivarci con le armi affilate: un racconto univoco, una regia mediatica centralizzata, un volto amico che sappia tenere insieme tv, giornali e social. Colpa medica, più tutele per i sanitari. Ma “non è uno scudo” di Valentina Stella Il Dubbio, 6 settembre 2025 Il penalista Cristiano Cupelli: “Solo buon senso. Basta con la caccia al colpevole a tutti i costi. Un medico sereno tutela di più il paziente”.Ieri il Consiglio dei ministri ha dato il via a quello che è stato definito per semplicità “scudo penale” per i medici, che saranno perseguibili solo in caso di “colpa grave” qualora la riforma ricevesse il placet da Camera e Senato. Secondo il professore e avvocato Cristiano Cupelli, ordinario di diritto penale presso l’Università di Roma Tor Vergata, “se, come è auspicabile, il Parlamento darà il via libera alla riforma, si offrirà un importante contributo per rasserenare il clima in cui i medici quotidianamente sono chiamati a operare”. Un clima, ci spiega Cupelli, “che oggi appare tutt’altro che semplice e pacifico, visto che - come da più parti denunciato - le difficoltà tecniche dell’attività sanitaria sono ulteriormente complicate dai disagi organizzativi e dalla conflittualità ingenerata dalla costante tendenza alla ricerca di un capro espiatorio per tutto ciò che non va come i pazienti o i loro familiari si aspettano che vada”. Ebbene, “una norma che in qualche misura circoscriva alle sole ipotesi più gravi la responsabilità colposa in ambito sanitario (senza alcuna depenalizzazione, ovviamente) può contribuire a restituire serenità al personale medico e dunque a consentire di lavorare meglio”, assicura l’esperto. Dal punto di vista strettamente giuridico, “le principali imputazioni avanzate nei confronti dei medici riguardano le fattispecie di omicidio colposo e lesioni colpose; a queste ipotesi, di carattere generale, si aggiunge, nel peculiare e delicato settore della ginecologia, la diffusa contestazione della interruzione colposa di gravidanza, attualmente fuori dallo spettro applicativo della nuova (ma anche della vecchia) ipotesi di non punibilità”. Rispetto a questa lacuna, ci dice ancora Cupelli, “si potrebbe rimediare in sede parlamentare, così superando le perplessità cui si espone il diverso trattamento riservato a un qualunque medico che, nell’esercizio della propria attività, cagioni la morte del paziente rispetto a un ginecologo che cagioni colposamente un aborto, tenuto a soggiacere a una disciplina più gravosa nella quale, nonostante il rispetto di linee guida o buone prassi, rilevi anche la colpa lieve”. Al professore abbiamo chiesto anche se sia improprio parlare di “scudo penale”, espressione che potrebbe invocare una sorta di impunità dei medici. “Sì - ci risponde -. Credo che alcune delle principali riserve che hanno accompagnato il provvedimento scaturiscano da un equivoco di fondo, favorito proprio dal fuorviante riferimento all’espressione “scudo penale”, che aleggia nel dibattito pubblico e nella proiezione mediatica: il messaggio cioè che si cerchi, a livello politico, di introdurre un odioso privilegio a tutela della classe medica e a discapito dei malati”. In realtà, per Cupelli, è vero esattamente il contrario: “Un medico più tranquillo è un professionista che lavora meglio e meglio tutela la salute dei suoi pazienti. Per questo, va salutato con favore un intervento - come quello messo in cantiere dal governo - che contribuisca a disarticolare la perversa ricerca, anche in sanità, di un colpevole a tutti i costi (sono i numeri che parlano: quasi 35mila azioni intraprese negli ultimi anni per presunta malpractice, con circa 300mila fascicoli che affollano i tribunali e il 97 per cento delle denunce in sede penale che finisce con archiviazione o proscioglimento) e che allontani non solo la gogna mediatica e il conseguente pregiudizio reputazionale, ma soprattutto il rischio che medici, scossi e spaventati, si attivino principalmente per la salvaguardia della loro incolumità, fisica (le aggressioni, nonostante gli ultimi provvedimenti, proseguono) e giudiziaria, attuando comportamenti tipici della medicina difensiva”. Se la riforma dovesse andare in porto, quali sarebbero però i tempi affinché si possano vedere dei cambiamenti? “Non si può pensare - spiega Cupelli - che possa bastare un testo legislativo, per quanto buono, a risolvere un problema, per così dire, strutturale dei nostri tempi: quel sentimento profondamente radicato nella società di oggi, nella quale il desiderio di giustizia si trasforma in sete di vendetta e la ricerca della verità diviene una formula vuota e stereotipata dietro la quale si cela la ricerca di un capro espiatorio da consegnare quanto prima alla dittatura del vittimismo; una imperante tirannia, che, abbondantemente enfatizzata dalla proiezione mediatica, pervade la quotidianità in nome dell’ancestrale e deresponsabilizzante canone per cui se qualcosa non è andata per il verso giusto è sempre colpa di qualcun altro, che va individuato e sanzionato. E questo qualcun altro, nel mondo sanitario, viene ancora individuato nel medico”. Tuttavia il provvedimento non limiterà le iscrizioni nel registro degli indagati, come ci illustra sempre il docente: “Su questo aspetto il provvedimento non avrà un’incidenza immediata, ma potrà comunque avere, per così dire, una proiezione indiretta, dal momento che il pm, prima di iscrivere a carico di un medico la notizia di reato, dovrà necessariamente considerare, anche alla luce dei più stringenti canoni del riformato art. 335 cpp, i nuovi parametri inseriti ai fini dell’accertamento della colpa medica e del suo grado (tra i quali, ad esempio, la scarsità delle risorse umane e materiali disponibili, le eventuali carenze organizzative nonché la complessità della patologia del paziente)”. Lo scudo penale per i medici che nega la giustizia di Daniele Trabucco* bellunopress.it, 6 settembre 2025 Il cosiddetto “scudo penale dei medici”, approvato dal Consiglio dei Ministri nell’ambito del disegno di legge di delegazione inerente alla riforma delle professioni sanitarie, introduce modifiche rilevanti al regime della responsabilità sanitaria. Esso prevede l’introduzione di un nuovo art. 590-sexies c.p., secondo cui il personale sanitario risponde penalmente solo nei casi di colpa grave, purché la condotta sia stata posta in essere nel rispetto delle linee guida o delle buone pratiche clinico-assistenziali, e di un nuovo art. 590-septies, che elenca parametri di valutazione della colpa (scarsità di risorse, carenze organizzative non evitabili, urgenze e incertezze scientifiche). Contestualmente, la legge ordinaria dello Stato n. 24/2017 (c.d. “Gelli-Bianco”) viene modificata, attribuendo carattere “inderogabile” alle linee guida, salva la clausola delle specificità del caso concreto. Questa pessima riforma, come si puó evincere, non si configura quale misura straordinaria, bensì come disciplina strutturale e permanente del regime di colpa sanitaria. Un primo profilo critico riguarda il principio di legalità penale, sancito dall’art. 25, comma 2, della Costituzione vigente, che esige determinatezza e precisione delle fattispecie incriminatrici. La questione della “gradazione della colpa” è già stata oggetto di attenzione da parte della giurisprudenza costituzionale, in particolare ad opera della sentenza n. 166/1973. Il giudice delle leggi, nel punto 3 del considerato in diritto, ha stabilito come “la deroga alla regola generale della responsabilità penale per colpa ha in sé una sua adeguata ragione di essere e poi risulta ben contenuta, in quanto è operante, ed in modo restrittivo, in tema di perizia e questa presenta contenuto e limiti circoscritti”. L’aggiunta, oggi, di clausole generali come “scarsità di risorse” o “carenze organizzative” introduce margini di valutazione troppo ampi, demandando al giudice una discrezionalità che rischia di travalicare il principio di tassatività e, inoltre, introduce il rischio per escludere quasi sistematicamente la responsabilità. Com’è noto, infatti, la Corte di Cassazione, Sezioni Unite, con la sentenza n. 8770/2018 (caso Mariotti), aveva già precisato che l’art. 590-sexies introdotto dalla “Gelli-Bianco” limitava la non punibilità alla sola “imperizia lieve” nell’esecuzione di linee guida, mantenendo ferma la punibilità per negligenza, imprudenza e per l’imperizia grave. La riforma in discussione, invece, scardina quell’equilibrio, estendendo la non punibilità generalizzata a tutte le forme di colpa, salvo che siano gravi. Un secondo nodo concerne il principio di eguaglianza di cui all’ art. 3 Cost. La riforma crea un’irragionevole disparità di trattamento, riconoscendo al personale sanitario un regime di favore: a fronte di eventi lesivi gravissimi per la vita e la salute, la soglia penale è innalzata alla colpa grave, mentre in altri settori professionali resta punibile anche la colpa lieve. La Corte costituzionale ha sempre affermato che il principio di eguaglianza esige una ragionevole proporzione tra trattamento normativo differenziato e bene giuridico tutelato. Qui, invece, si produce una sproporzione evidente: proprio dove il bene protetto è massimo, si attenua il presidio penale. Non meno rilevante è il piano sovranazionale. La Corte europea dei diritti dell’uomo, a partire dalla sentenza “Calvelli e Ciglio c. Italia” 17 gennaio 2002, n. 32697, ha chiarito che gli Stati hanno l’obbligo positivo di predisporre un “quadro regolatorio effettivo” per la tutela della vita, anche in ambito sanitario. Questo obbligo non implica la necessaria criminalizzazione di ogni condotta colposa, ma richiede rimedi effettivi e proporzionati. Una disciplina che riduce drasticamente la punibilità penale, senza rafforzare adeguatamente le tutele civilistiche e disciplinari, rischia di collidere con l’art. 2 Cedu e, indirettamente, con il comma 1 dell’art. 117 del Testo fondamentale che funge da “parametro interposto” (cfr. le sentenze “gemelle” n. 346 e n. 347 del 2007 della Corte costituzionale). È fuorviante anche l’argomento della “medicina difensiva”. Il Governo Meloni sostiene che lo scudo ridurrebbe i costi e le liste d’attesa. Tuttavia, le cifre di spesa sanitaria attribuite alla medicina difensiva, stimate in circa 11 miliardi di euro annui, sono state contestate da più studi scientifici, privi di criteri omogenei e di verificabilità empirica. Costruire un’immunità penale di categoria sulla base di stime incerte significa piegare la logica del diritto penale a valutazioni economiche, in contrasto con l’art. 27 Cost., che lega la responsabilità penale al fatto personale e alla sua colpevolezza, non a considerazioni di bilancio. Un ulteriore elemento critico emerge dalla scelta di rendere le linee guida “inderogabili”. La Corte di Cassazione, sez. IV penale, con sentenza n. 28187/2017, aveva chiarito che il rispetto delle linee guida non vale come automatica scriminante, essendo sempre necessaria la valutazione del caso concreto. La trasformazione delle linee guida in regola rigida riduce la medicina a mera applicazione burocratica, compromettendo la discrezionalità clinica e, al tempo stesso, offrendo uno scudo indiscriminato. Si tratta di un arretramento della qualità della cura, che contraddice l’art. 32 Cost., in quanto il diritto alla salute viene subordinato alla logica di un protocollo, anziché essere trattato nella sua indvidualità. In definitiva, lo “scudo penale” voluto dal Governo Meloni tradisce la funzione propria del diritto penale. Esso non garantisce serenità ai medici, che dipende piuttosto da condizioni di lavoro sicure, da una gestione organizzativa efficiente e da un’adeguata formazione. Non riduce la medicina difensiva, perché sposta il contenzioso sul piano civile e disciplinare. Non tutela i pazienti, che vedono indebolirsi la loro posizione. È, in realtà, lo si deve dire con chiarezza, un’amnistia mascherata: si istituzionalizza l’impunità, si deresponsabilizza il sistema e si svuota la centralità del paziente, sacrificando la giustizia sull’altare della convenienza politica. *Costituzionalista Alla Consulta il trattenimento sine titulo dello straniero in attesa di nuovo provvedimento di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2025 Il rinvio pregiudiziale della Cassazione sospetta l’incostituzionalità della privazione della libertà del richiedente asilo presso il Cpr nel lasso di tempo di 48 ore tra scadenza del primo provvedimento e l’adozione del successivo. Sotto la lente della Consulta la nuova norma che consente di mantenere ristretto presso i Centri di permanenza per il rimpatrio lo straniero - colpito da provvedimento di espulsione non ancora eseguito - quando venuto a scadenza il primo provvedimento di trattenimento il Legislatore ne ha previsto l’ultrattività di 48 ore fino all’adozione di altro provvedimento del questore di uguale contenuto che sarà poi normalmente oggetto di convalida nelle ulteriori successive 48 ore. Nelle more tra scadenza del primo trattenimento e adozione del secondo è possibile che lo straniero faccia domanda di protezione internazionale e che ugualmente permanga presso il Cpr se ricorrono determinate condizioni, quali il sospetto che la domanda sia stata proditoriamente presentata al fine di impedire o ritardare la sua espulsione dal territorio nazionale. Il punto non è tanto la legittimità della restrizione imposta a un richiedente asilo pendente l’esame della sua domanda, in quanto possono ricorrere incertezze sulla sua identità o situazione personale oppure valide esigenze di sicurezza pubblica. Infatti. al centro dei dubbi dei giudici di legittimità vi è il nodo cruciale di una privazione della libertà personale sine titulo. La prima Sezione penale della Cassazione ha perciò adottato l’ordinanza n. 30297/2025 con cui ha accolto il rilievo di incostituzionalità del comma 2 bis dell’articolo 6 del Dlgs 142/2015 dove di fatto esclude a determinate condizioni l’immediata liberazione dello straniero trattenuto nel Cpr in vista dell’adozione di una nuova decisione del Questore di uguale contenuto se essa giunge entro 48 ore dalla scadenza del primo provvedimento di trattenimento quando da parte dello straniero è intervenuta la domanda di protezione internazionale. Ed è proprio tale “breve” lasso di tempo di due giorni previsto ad esempio a fini di tutela della sicurezza pubblica che risulta porsi in contrasto con i superiori principi costituzionali sulle misure privative della libertà personale che per loro natura soggiacciono a regole stringenti e in caso di contrapposti interessi determinano di regola la prevalenza del diritto alla libertà personale, la quale non può essere sottoposta a limiti senza titolo giuridico (e senza la possibilità di controllo giurisdizionale sul merito della misura adottata). Il caso in questione appare in contrasto con la direttiva 2013/33/Ue, recepita nel 2015, è quello previsto dal comma 3 del medesimo articolo 6 del Dlgs n. 142 del 2015 dove prevede che “Al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, il richiedente che si trova in un centro di cui all’articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, in attesa dell’esecuzione di un provvedimento di respingimento o di espulsione ai sensi degli articoli 10, 13 e 14 del medesimo decreto legislativo, rimane nel centro quando vi sono fondati motivi per ritenere che la domanda è stata presentata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione del respingimento o dell’espulsione”. Ciò che può appunto determinare l’evenienza del prolungamento dell’iniziale trattenimento imposto ai fini dell’esecuzione dell’espulsione dello straniero che interpone domanda di protezione internazionale. La Suprema corte ha quindi ritenuto “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 6, comma 2-bis, del Dlgs 18 agosto 2015 n. 142 (aggiunto dall’articolo 1, comma 2-bis, lettera a), del Dl 28 marzo 2025 n. 37, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 2025, n. 75), nella parte in cui, nel caso di mancata convalida del provvedimento di trattenimento adottato ai sensi del comma 3 del medesimo articolo 6 nei confronti del richiedente che ha presentato la domanda in un centro di cui all’art. 14 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, prevede che il richiedente permanga nel centro fino alla decisione sulla convalida del provvedimento di trattenimento eventualmente adottato dal Questore, per violazione degli artt. 3, 11, 13, 14, 111 e 117 della Costituzione, quest’ultimo con riferimento all’art. 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, all’art. 3 della Dichiarazione universale dei diritti umani, all’art. 9 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e all’art. 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea”. La norma sottoposta alla Corte costituzionale - La disposizione di cui dovrà stabilire l’eventuale illegittimità costituzionale la Consulta è il comma 2 bis dell’articolo 6 del Dlgs 142/2015 che testualmente recita: “La mancata convalida del provvedimento di trattenimento adottato ai sensi del comma 3 nei confronti del richiedente che ha presentato la domanda in un centro di cui all’articolo 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, non preclude l’eventuale successiva adozione di un provvedimento di trattenimento ai sensi del comma 2, qualora ne ricorrano i presupposti. Quando il provvedimento ai sensi del comma 2 è adottato immediatamente o, comunque, non oltre quarantotto ore dalla comunicazione della mancata convalida di cui al primo periodo, il richiedente permane nel centro fino alla decisione sulla convalida del predetto provvedimento”. Il risarcimento per il trattenimento illegittimo nei C.I.E va alle Sezioni unite di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 6 settembre 2025 La Terza sezione civile, ordinanza n. 24588 depositata oggi, ha chiesto se il presupposto è che siano stati previamente esperiti tutti i rimedi previsti dall’ordinamento. Va alle Sezioni unite la risarcibilità della illegittima proroga del trattenimento dello straniero entrato illegalmente in Italia nei Cie. La Terza sezione civile, ordinanza n. 24588 depositata oggi, ha infatti rinviato al massimo consesso la specifica questione se “il presupposto per potersi configurare un obbligo risarcitorio è che siano stati previamente esperiti tutti i rimedi che l’ordinamento appresta avverso il provvedimento giurisdizionale che si assume foriero di danni”. Per la Suprema corte sul punto “non constano precedenti nella giurisprudenza unionale, né risultano specifici precedenti di legittimità”, inoltre la stessa presenta un “chiaro e rilevante valore nomofilattico ed è suscettibile di porsi in numerosi giudizi”. Il caso - La vicenda riguarda un cittadino ghanese, trattenuto nel 2010 per quasi sei mesi presso il C.I.E. di Bari a seguito di un decreto di espulsione poi prorogato due volte dal giudice di pace soltanto con un timbro, senza dunque alcun contraddittorio e senza l’audizione dello straniero. Il Tribunale di Roma, nel 2021, riconobbe l’illegittimità delle proroghe e condannò la Presidenza del Consiglio a risarcire l’extracomunitario con circa 20mila euro per danno non patrimoniale. La Corte d’Appello di Roma confermò la decisione nel 2024. Contro questa sentenza hanno proposto ricorso la Presidente del Consiglio, il Ministero dell’Interno e la Questura sostenendo tra l’altro il mancato esperimento dei rimedi previsti (ricorso per cassazione avverso i decreti di proroga). Sulle garanzie che devono assistere il trattenimento, quale forma di privazione della libertà personale, la Suprema corte ricorda che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (con la sentenza 8 febbraio 2011, nella causa Seferovic c. Italia) ha affermato che il trattenimento illegittimo determina il diritto a un’equa riparazione. Più di recente (con la sentenza del 6 ottobre 2016 (Richmond Yaw contro Italia), la Corte Edu ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno proprio nel caso della concessione della proroga del termine di trattenimento dello straniero presso il C.I.E. senza che gli fosse stata assicurata la garanzia del contraddittorio. Tornando al caso affrontato, la Suprema corte osserva che le Pubbliche Amministrazioni ricorrenti non mettono in discussione il principio per cui “è pacifico che lo Stato italiano possa essere chiamato a rispondere per la lesione delle libertà fondamentali riconosciute all’individuo cagionate da provvedimenti giurisdizionali”; ma evidenziano che il resistente ha adito la giurisdizione per chiedere il risarcimento del danno non patrimoniale, “solo dopo che erano integralmente spirati i termini delle due concesse proroghe del trattenimento e, dunque, senza aver prima impugnato i due provvedimenti emessi de plano, in assenza della previa audizione, nella presente sede di legittimità”. Così posta la questione, per i giudici rimettenti non constano precedenti specifici nella giurisprudenza unionale sulla necessità di aver esperito tutti i rimedi per poter chiedere il risarcimento del danno, in quanto la citata sentenza Yaw, pur riferibile al caso di specie, ha a oggetto un’ipotesi in cui la tutela risarcitoria era stata chiesta dopo che il provvedimento di convalida della proroga del trattenimento era stato impugnato ed era stato annullato da questa Suprema Corte. Saranno dunque le S.U. a chiarire se, per ottenere il risarcimento del danno da illegittimo trattenimento in un C.I.E., sia necessario che lo straniero abbia prima impugnato con ricorso per cassazione i provvedimenti di proroga del Giudice di Pace (che si assumono lesivi perché adottati senza contraddittorio), oppure se il diritto al risarcimento possa essere riconosciuto in virtù della preminente tutela della libertà personale garantita dalla Costituzione, dal diritto UE e dalla Cedu. Roma. Carcere di Rebibbia, detenuta si suicida nella notte: aveva 52 anni di Marco Carta La Repubblica, 6 settembre 2025 Ancora un suicidio nel carcere di Rebibbia. La scorsa notte una detenuta italiana di 52 anni si è tolta la vita nel reparto femminile del penitenziario romano. A trovare il corpo senza vita nella cella sono stati gli agenti della polizia penitenziaria. La donna, Daniela Zucconelli, era seguita dall’ufficio del Garante dei detenuti di Roma. “Era una persona che conoscevamo bene - spiega la garante Valentina Calderone - Le avevamo rinnovato i documenti e attivato le pratiche per la pensione di invalidità. Eravamo riusciti a completare tutto e aspettavamo la valutazione dell’Inps”. Non è ancora chiaro cosa l’abbia spinta al gesto estremo. “Questa vicenda della pensione l’aveva preoccupata - aggiunge Calderone - ma pensavamo che fosse più serena. Oggi pomeriggio andrò al settore femminile di Rebibbia per cercare di capire meglio cosa sia accaduto”. Quello di Daniela è l’ennesimo suicidio all’interno del carcere romano. Lo scorso 18 luglio si era tolto la vita un uomo di 55 anni, M.D.B., detenuto dal 2019 per rapina e condannato a 15 anni. Pochi giorni prima del gesto estremo, come aveva raccontato l’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, attualmente detenuto, aveva ricevuto un’ulteriore condanna a 7 anni, sempre per rapina. Era recluso in una cella singola del braccio G12. In una nota Massimo Costantino, segretario del sindacato Fns Cisl Lazio, denuncia il sovraffollamento del carcere romano. “Purtroppo nell’istituto ci sono 105 detenuti in più oltre a quelli previsti. Dovrebbero essere 272, invece sono presenti 377 detenuti. In tale istituto si registrano celle inagibili e camere detentive oltre la capienza ed è bene ricordare che il sovraffollamento viene subito dall’amministrazione, così come dal personale coinvolto e dagli stessi detenuti”. “Nel mese di agosto - aggiunge Costantino - il sovraffollamento delle carceri del Lazio è stato di 1.519 detenuti, secondo il dato del ministero della giustizia aggiornato al 31 Agosto 2025. A fronte dei 5.308 posti previsti in carcere sono presenti 6.827 detenuti. Quindi, la percentuale di sovraffollamento carcerario è del 28,6%. Ciò significa che le carceri sono sovraffollate di circa un quarto rispetto alla capienza regolamentare prevista ma attualmente manca circa il 19% di personale di polizia penitenziaria: dovrebbero essere 214 ma ve ne sono solo 175, senza contare poi i servizi esterni che espletano ed il dato peggiora ulteriormente”. Torino. Dal Cpr al carcere, chi ha ucciso Hamid Badoui? di Luna Casarotti* napolimonitor.it, 6 settembre 2025 All’alba del 19 maggio scorso, tra le 4:30 e le 6:09, nella cella 214 del padiglione B del carcere torinese Lorusso e Cutugno, Hamid Badoui si tolse i lacci delle scarpe e li legò al collo. In quell’istituto i lacci vengono ritirati solo ai detenuti classificati come “ad alto rischio suicidario”. Hamid non era tra loro, e quei lacci, apparentemente un dettaglio, divennero una condanna. Passarono ventidue lunghissimi minuti prima che qualcuno aprisse la porta: ventidue minuti in cui rimase solo, avvolto da un silenzio che lo soffocava. Quando gli agenti entrarono, alle 6:31, per lui non c’era più tempo. Hamid aveva quarantuno anni e da quindici viveva a Torino. Era nato a Oued Zem, in Marocco, in una famiglia a cui era legatissimo. A soli quindici anni aveva lasciato la sua terra per la Spagna, accolto in una comunità per minori. Lì aveva studiato, ottenuto i documenti spagnoli e un diploma da cameriere. Con i suoi primi lavori riusciva a mandare denaro alla madre, gesto che non interruppe neppure durante i periodi difficili. Anche durante la detenzione a Fossano, nonostante le ristrettezze, continuò a inviarle parte dei piccoli guadagni ottenuti dentro il carcere. Era il suo modo di restare figlio presente, anche dietro le sbarre. Sua sorella Zahira lo ricorda con tenerezza: “Mamma era il suo punto debole, la sua gioia più grande”. In Italia Hamid continuò a lavorare in cucina, a studiare, a conservare con cura documenti e ricevute, segni concreti della sua volontà di costruirsi un futuro dignitoso. Ma le difficoltà non mancavano: i documenti scaduti, la vicinanza a persone sbagliate, la lotta con la dipendenza dal crack. Più volte chiese aiuto, affidandosi al Gruppo Abele per percorsi di cura e disintossicazione. Con Zahira parlava spesso del desiderio di tornare al Sert, curarsi e riavvicinarsi alla famiglia. “Parlavamo ogni giorno”, ricorda la sorella. “Poi, all’improvviso, il suo telefono è rimasto spento. Il lunedì è arrivata la notizia che nessuno di noi avrebbe mai voluto ricevere”. Dopo più di una detenzione Hamid era stato trasferito nel Cpr di Bari e poi deportato in Albania, nel centro di Gjadër. Era rimasto lì trentatré giorni, lo aveva definito “un inferno”. “Meglio il carcere che Shengjin”, aveva confidato al suo avvocato, spaventato da quella esperienza che lo aveva segnato profondamente. La decisione di un giudice romano, che ne dispose la liberazione, sollevò dubbi sulla legittimità costituzionale del trattenimento nei Cpr. Hamid era tornato a Torino di venerdì notte, libero sulla carta, ma attanagliato dalla paura di essere nuovamente rinchiuso. Sabato 17 maggio, poco dopo le 14:00, davanti a una tabaccheria di corso Giulio Cesare, chiamò la polizia per denunciare una truffa: la Sim che aveva acquistato non funzionava. Quel gesto, nato dal desiderio di giustizia, si trasformò in un arresto per resistenza a pubblico ufficiale. Da quell’istante la sua fragile traiettoria cambiò. Hamid trascorse oltre dieci ore in una camera di sicurezza, senza alcuna assistenza. Solo alle 3:43 del 18 maggio varcò l’ingresso del carcere torinese. Alle 4:20 un medico lo visitò per dieci minuti, troppo poco per cogliere il suo stato d’animo. Segnalò di assumere Lyrica e Rivotril, ma il rischio suicidario fu giudicato “basso”. Da quel momento si apre il primo vuoto temporale: dalle 4:30 del mattino fino alle 19:00 nessuna annotazione, nessuna osservazione, quasi quindici ore in cui Hamid rimane invisibile. Sappiamo che poco prima delle 19:00 ha trascorso circa un’ora nell’ufficio del sovrintendente, perché aveva rifiutato di condividere la cella. Poco dopo viene riaccompagnato nella 214 e si apre il secondo intervallo di silenzio: dalle 19:00 circa fino alle 4:30 del mattino successivo. Alle 4:30 gli agenti effettuano il giro di controllo per verificare che i detenuti stiano bene. È nel letto, apparentemente dormiente. Alle 6:09 il suo corpo viene trovato legato alle sbarre del cancello della cella 214. Le chiavi sono al piano terra: trascorrono ventidue minuti prima che venga aperta. Alle 6:31, quando gli agenti entrano, è troppo tardi. Zahira, insieme all’avvocato Luca Motta, ha presentato un esposto in procura. Denuncia omissioni, silenzi, ritardi. Ricorda che Hamid avrebbe potuto andare ai domiciliari, che l’arresto non era obbligatorio, che la sua fragilità era evidente. L’esposto parla chiaro: quattordici ore dall’arresto alla visita medica, oltre dieci in isolamento, diciassette escoriazioni sul corpo. Il medico legale ha confermato: non furono le ferite a ucciderlo, ma l’asfissia da impiccagione. Il 27 maggio Corso Palermo si riempì di persone. Fiori, cartelli, passi condivisi. Circa duecento voci unite per dire che nessuno deve morire così, nel silenzio di una cella. Hamid aveva scelto di vivere, di curarsi, di ricominciare. Ma in carcere ha trovato tutto fuorché custodia o protezione. Dopo l’autopsia, Zahira ha completato le pratiche per riportarlo in Marocco, come desiderava la madre. Un ultimo gesto d’amore, per restituirgli dignità e pace. Rimane la memoria: il suo sorriso, i suoi gesti di affetto, la sua forza fragile che chi lo ha amato custodirà sempre. *Yairaiha Ets Salerno. Malore fatale in carcere: escluse responsabilità dei medici di Viviana De Vita Il Mattino, 6 settembre 2025 Secondo i periti, la “macchina sanitaria” del carcere ha attuato la procedura corretta. Nessun responsabile per la morte di Renato Castagno, il 37enne di Mariconda spirato lo scorso marzo in seguito a un malore accusato nel carcere di Fuorni. È la tesi del sostituto procuratore Morris Saba che ha chiesto l’archiviazione per le due dottoresse indagate per le quali era ipotizzato l’omicidio colposo e la responsabilità colposa per morte in ambito sanitario: C.B., 31 anni di Sarno, medico di turno finita sul registro degli indagati per aver gestito l’emergenza e le concitate fasi successive al malore, e A.D.C., 36 anni di Pellezzano, dirigente del servizio sanitario penitenziario. La richiesta della Procura si fonda sulla relazione dei medici legali De Caro, Mastrangelo e Iorio che, nelle conclusioni e sulla base dell’esame autoptico, hanno escluso profili di responsabilità penale da parte delle indagate in relazione al decesso. Secondo i periti, la “macchina sanitaria” del carcere ha attuato la procedura corretta. La morte del detenuto, che già aveva avuto due ictus e soffriva di cardiomiopatia ipertrofica e ipertensione cronica, è stata causata da un “tamponamento cardiaco” dovuto alla rottura improvvisa dell’aorta. Al massimo - si legge nella perizia - potrebbe ravvisarsi qualche responsabilità nell’operatrice del 118 che inviò un’ambulanza priva di medico, ma le condizioni erano talmente gravi che il decesso sarebbe comunque avvenuto. Le già precarie condizioni di salute del detenuto, evidenziate dal suo legale Bianca De Concilio, prevedevano sempre secondo i periti un approccio ambulatoriale e non giustificavano né il trasferimento nella sezione detenuti dell’ospedale di Salerno né i domiciliari richiesti dalla difesa. Una ricostruzione che non convince i familiari, intenzionati a opporsi all’archiviazione. La vicenda di Castagno inizia nel marzo 2022 con l’arresto per associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti. Pochi giorni dopo, il gip di Salerno Domenico D’Agostino concede i domiciliari, riconoscendo l’incompatibilità della detenzione con le sue condizioni di salute. “Le patologie già acclarate - scrive il giudice - potrebbero portare a conseguenze letali”. A settembre 2022 arriva la condanna in primo grado, confermata in Appello e resa definitiva dalla Cassazione nell’ottobre 2023: sei anni e due mesi di reclusione. Il 20 ottobre 2024 Renato torna in carcere, denunciando un peggioramento del suo stato già compromesso da due ischemie. Pressione alta, mal di testa continui e cure ritenute inadeguate - secondo la difesa - aggravano il quadro clinico. In questo contesto, il 19 marzo scorso Castagno si presenta in infermeria lamentando dolori al petto e alla testa. La dottoressa di turno rileva una pressione altissima, abbassata solo parzialmente da un farmaco che però acuisce i dolori toracici. Viene chiamata un’ambulanza che arriva senza medico; solo dopo una nuova richiesta un’automedica raggiunge il carcere. Trasferito d’urgenza, Castagno muore in ambulanza prima di giungere al pronto soccorso. Già il 13 febbraio l’avvocato De Concilio aveva presentato un’istanza al magistrato di sorveglianza per verificare la compatibilità del detenuto con il regime carcerario. La richiesta resta senza risposta fino al 21 marzo, quando - due giorni dopo la morte - viene emesso il provvedimento di “non luogo a provvedere” per intervenuta morte del reo. Torino. Nel carcere Lorusso e Cutugno nasce la “stanza dell’amore” di Giuseppe Legato La Stampa, 6 settembre 2025 Aprirà a ottobre per l’intimità dei detenuti di Piemonte e Valle d’Aosta. La protesta degli agenti: “La nostra sicurezza viene dopo il diritto degli ospiti”. È pronta la “stanza dell’affettività” all’interno del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. La previsione di apertura è entro la fine del prossimo mese, ottobre dunque. Torino è la prima delle grandi case circondariali d’Italia - e quindi degli istituti di pena - a dotarsi di questa struttura (il Dap ha individuato anche Genova Marassi), all’interno del carcere, la cui realizzazione è divenuta nei fatti non più rinviabile dopo la pronuncia della Consulta che afferma il diritto dei detenuti ad avere la possibilità di incontri in intimità. Nella pronuncia di legittimità i giudici hanno stabilito come non possa “ritenersi che la richiesta di svolgere colloqui con la propria moglie in condizioni di intimità, costituisca una mera aspettativa, essendo stato affermato che tali colloqui costituiscono una legittima espressione del diritto all’affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari e possono essere negati solo per ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della sicurezza, ovvero per il comportamento non corretto dello stesso detenuto, o per ragioni giudiziarie, in caso di soggetto ancora imputato”. L’uso della stanza - La stanza, con le proporzioni e le cautele del caso, può essere paragonata a una camera di uno spartano albergo: con arredo base, un bagno e una doccia. Gli incontri - secondo quanto si apprende da fonti carcerarie di provata credibilità - potranno essere da due a tre al giorno e - se sarà seguita la scia di altri istituti penitenziari più piccoli rispetto a Torino che hanno già sperimentato l’utilizzo della struttura e quindi lo hanno normato in concreto - dureranno tra l’una e le due ore. Le regole per l’accesso - La stanza è stata realizzata all’interno del Padiglione “E” ribattezzato sezione “Arcobaleno”, deputato a ospitare i detenuti in semilibertà e i lavoranti. È grande all’incirca una quindicina di metri quadri. Prima di ogni incontro andrà “bonificata” da personale della penitenziaria e - se non interverranno decisioni più dettagliate - sarà usata da ospiti delle carceri di tutto il distretto di Piemonte e Valle d’Aosta. Il detenuto sarà perquisito al termine dell’incontro, non così per la moglie o la convivente. Tutti ne possono fare richieste fatta eccezione per i detenuti in regime di carcere duro (il cosiddetto 41 bis) o coloro che si sono resi protagonisti di disordini all’interno dell’istituto. Per tutta una serie di casi sono previste preventive istruttorie anche da parte di equipe allargate al personale carcerario. Per autorevoli giuristi e opinionisti si tratta di una conquista attesa da troppo tempo: un passo nella direzione della civiltà e del rispetto del carcerato. Critiche del sindacato di polizia - Non così per diverse frange della polizia penitenziaria. Il segretario nazionale del sindacato Osapp, Leo Beneduci, è molto critico: “Si rompe l’ultimo tabù: il sesso in carcere. Entro fine anno - racconta - sarà concesso ai detenuti di Torino di avere rapporti sessuali intramoenia”. L’affondo è contro il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria definito “fulmineo nell’applicare la sentenza della Corte Costituzionale e nell’organizzare l’intimità con una velocità che stupisce. Ecco il pugno duro del governo della sicurezza: botte di creatività istituzionale immediate per garantire l’intimità ai detenuti, silenzi di tomba per le aggressioni subite dagli agenti che finiscono con il naso o le costole rotti”. Beneduci è inarrestabile nel tono critico e nel mettere al centro delle polemiche “uno Stato - a suo dire - incapace di proteggere chi lavora nelle carceri ma ligio nel trasformare le celle in alcove matrimoniali. La penitenziaria che già fatica a limitare droga, telefoni e armi, ora - dice il segretario sindacale - dovrà gestire anche le prenotazioni delle camere a ore carcerarie”. Bologna. Visita dei Radicali: “All’Ipm del Pratello partono le ristrutturazioni” di Sofia Pellicciotti Corriere di Bologna, 6 settembre 2025 Il Partito in visita al carcere minorile: “Situazione ancora complicata ma impegno degli operatori”. Nuovi fondi in arrivo per la ristrutturazione del carcere minorile di via del Pratello e della comunità educativa adiacente, dove vengono svolte le misure alternative di collocamento. L’annuncio è arrivato ieri durante la visita di una delegazione del Partito Radicale, composta da Monica Mischiatti, Gemma Gasponi, Ivan Innocenti e Fausto Forti, agli istituti penitenziari bolognesi. “L’istituto minorile è un palazzo storico, ma i locali sono fatiscenti - ha spiegato Mischiatti. I progetti, sospesi ad agosto, riprendono ora e torneremo a verificare i progressi”. I lavori partiranno nei prossimi giorni: lunedì è previsto l’avvio dell’imbiancatura delle pareti. Un primo passo per migliorare una struttura che ad oggi ospita 38 detenuti, la capienza massima è di 40, mentre altri 17 ragazzi sono temporaneamente collocati alla Dozza. La visita ha avuto un carattere duplice: “Dall’istituto di via del Pratello, infatti, alcuni maggiorenni che avevano commesso reati da minori sono stati trasferiti alla Dozza - ha raccontato Mischiatti -. Non abbiamo potuto vedere le celle, ma solo le aree comuni”. Tra le criticità, la carenza di personale sia nell’area sanitaria che nella polizia penitenziaria. Mancano psicologi e psichiatri, figure fondamentali per garantire un percorso educativo e di reinserimento. “La cura degli aspetti psichiatrici e mentali dei detenuti, soprattutto dei ragazzi, è centrale. Sono persone che torneranno nella società e necessitano di un adeguato supporto - ha aggiunto Innocenti- . Le risorse sono regionali e servirebbe un intervento rapido per colmare i vuoti”. Alla Dozza, la delegazione ha riscontrato condizioni analoghe, con la speranza, ribadita anche dal direttore, di chiudere entro breve la sezione. La delegazione ha riconosciuto l’impegno degli operatori: “Abbiamo molto rispetto per tutti gli operatori che combattono con delle grosse difficoltà. Oggi abbiamo incontrato dei minori che hanno prospettive concrete, grazie ai laboratori di formazione professionale, come quello legato alla ristorazione”, hanno sottolineato i membri del Partito Radicale. Particolare attenzione è stata dedicata poi alla tossicodipendenza trai giovani detenuti. In diversi ca sila magistratura di sorveglianza dispone il collocamento dei minori in comunità terapeutiche, ma i ritardi burocratici finiscono per mantenere in carcere ragazzi che dovrebbero essere presi in carico dal Sert. “C’è un detenuto che dovrebbe stare fuori dal carcere in quanto riconosciuto come malato, e che invece per questi motivi rimane dentro. Parliamo di minori, anche un solo un caso è un caso di troppo per una società civile”, ha concluso Mischiatti. La visita si inserisce nel solco delle iniziative che il Partito Radicale porta avanti da anni negli istituti penitenziari italiani, con l’obiettivo di monitorare le condizioni di vita dei detenuti e richiamare l’attenzione delle istituzioni su criticità strutturali e gestionali. Genova. L’avvocato Cafiero è il nuovo Garante dei diritti delle persone private della libertà genova24.it, 6 settembre 2025 Cafiero è stato nominato con ordinanza dalla sindaca Silvia Salis, e ricoprirà il ruolo per il prossimo triennio. Marco Cafiero è un avvocato penalista, abilitato all’esercizio della professione forense presso la Corte di appello di Genova, specializzato in criminologia clinica con indirizzo sociopsicologico. Attualmente consulente e membro del Consiglio di amministrazione della cooperativa centro di solidarietà a titolo gratuito e consulente della Fondazione Centro di solidarietà Bianca Costa Bozzo Onlus e della Fict Federazione italiana comunità terapeutiche. Nel 2025 ha partecipato alla VII Conferenza Nazionale Dipendenze, in qualità di esperto e rappresentante di reti di comunità, e dal 2019 partecipa al Gruppo Gdl “Persone private della libertà personale” all’interno del forum del Terzo settore in qualità di portavoce, sui tavoli dedicati al lavoro e alla giustizia, con particolare riferimento alla giustizia riparativa. “Sono molto onorato dell’incarico ricevuto - dichiara l’avvocato Cafiero - che mi consente di esprimere una storia personale durata 40 anni. Ringrazio l’amministrazione per aver riconosciuto un impegno sociale che mi ha permesso di crescere nella solidarietà”. Nuoro. La direttrice: “Le criticità di Badu e Carros, un lavoro collettivo per superarle” di Simonetta Selloni La Nuova Sardegna, 6 settembre 2025 “È evidente che il carcere di Badu e Carros soffra di una serie di criticità dovute ad una struttura vecchia, realizzata con criteri non più adeguati. E infatti, la parte che nel 2008 è stata ristrutturata è più funzionale. Ma siamo impegnati, anche con il Provveditorato regionale, con la magistratura di sorveglianza, con la garante dei diritti dei detenuti e anche con le amministrazioni locali, a garantire le migliori condizioni previste dalla legge per le persone recluse”. Marianna Madeddu è la direttrice reggente del carcere di Badu e Carros, incarico ricevuto nel febbraio 2024, dopo la tragica scomparsa della direttrice Patrizia Incollu, avvenuta alcuni mesi prima. Sassarese, è titolare del carcere San Daniele di Lanusei. Due giorni fa l’associazione Luca Coscioni ha reso noto che alcuni detenuti lamenterebbero ritardi, e perfino censure, nella spedizione della posta, punto sul quale è già intervenuto, sulla Nuova di ieri, il provveditore regionale Domenico Arena. Sulle criticità strutturali, così come sulle difficoltà legate all’assistenza sanitaria, la direttrice fa alcune precisazioni. Al di là dei problemi legati alla potabilità dell’acqua, risolti dopo un attento monitoraggio (ultimo prelievo il 2 settembre, si attende l’esito degli esami), il nervo scoperto del sistema è il tema della socialità e dell’assistenza sanitaria. “Dobbiamo ricordarci che nel 2023 questo istituto è stato interessato da due gravi vicende, che hanno inevitabilmente rallentato e in qualche caso bloccato le varie attività”. Il riferimento è alla morte della direttrice Patrizia Incollu, in seguito a un incidente stradale, e all’evasione del boss della mafia di Vieste, Marco Raduano. “Abbiamo lavorato molto per riproporre le attività che avevano subito uno stop. Abbiamo avviato laboratori teatrali, corsi di formazione in diverse discipline, incontri: per esempio, parteciperemo con il Comune alla Notte dei ricercatori, il 25 settembre prossimo”. Anche il rapporto con i volontari e soprattutto con la Caritas è molto importante. “Il nostro cappellano, don Roberto Dessolis, è responsabile della Caritas. Questo aiuta. Ma quello che mi preme dire è che stiamo impegnandoci per creare un rapporto con la città, per interagire con le scuole. Ci vuole tempo, ma devo dire che questa città ha una attenzione e una sensibilità che non si riscontrano in tutte le realtà. Per esempio, abbiamo già incontrato il sindaco e siamo stati già contattati dall’assessorato ai Servizi sociali”. Assodato che resta inattuata la sentenza della Corte costituzionale sul diritto all’affettività. “Come ha già chiarito il provveditore regionale, si pensa a dei prefabbricati da mettere a disposizione dei detenuti”, l’altra nota dolente è quella legata all’assistenza sanitaria. “I problemi ci sono, siamo riusciti però, proprio da qualche giorno, a garantire la presenza del dermatologo, dell’oculista e del dentista. Mentre un altro aspetto migliorato è quello legato all’alimentazione. Con una loro delegazioni e gli esperti abbiamo ritoccato i menu, quello invernale lo hanno gradito, quello estivo meno e sono quindi allo studio variazioni e integrazioni. Abbiamo tanto lavoro da fare, ma molto è stato fatto”. Cuneo. Dal carcere al lavoro: nasce l’associazione “Articolo 27” cuneodice.it, 6 settembre 2025 Industriali e terzo settore insieme per dare una risposta alla piaga della recidiva. A Cuneo torna il festival Articolo 27 Expo, tra gli ospiti Brunetta e Colombo. “Quante mamme sarebbero disposte ad affidare i figli o ad assumere per attività domestiche donne che stanno scontando la pena in carcere, pur senza aver commesso reati violenti?”: la domanda che pone Giuliana Cirio - “anche a me stessa” precisa - ha il merito di rompere quella coltre di ipocrisia che sovente circonda i discorsi sul reinserimento lavorativo dei carcerati. Perché è facile - troppo facile - parlare in qualche salone d’onore del valore rieducativo della pena e della bellezza dei principi costituzionali sottesi. Molto più difficile è sporcarsi le mani. Lo testimoniano i numeri, impietosi, che squaderna il presidente della cooperativa Panatè Davide Danni: in Italia ci sono 64mila detenuti e solo il 5% di questi lavora per un datore di lavoro esterno al carcere. L’80% di questi datori di lavoro impiega al massimo due detenuti, il 64% dei progetti non supera i due anni. Eppure il lavoro “cura” sul serio: secondo gli studi del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), oltre il 70% dei detenuti in Italia torna a delinquere dopo l’uscita dal carcere. Per quanti sono coinvolti in progetti lavorativi e di formazione, invece, la recidiva crolla sotto il 10%. Non è tutta colpa della burocrazia o della mancanza di buona volontà, anzi. C’è da fare i conti con tante difficoltà che riguardano in primo luogo loro, i carcerati: c’è chi spreca le occasioni, chi cade in qualche dipendenza, chi torna a sbagliare dopo aver pagato il debito. È per questo che assumere un detenuto, o un pregiudicato, significa assumere un rischio: la presidente della Fondazione Industriali non se lo nasconde, nel momento in cui lancia insieme l’associazione Articolo 27 e la terza edizione del festival Articolo 27 Expo, la rassegna di economia e vita carceraria che torna a Cuneo dal 12 al 14 settembre. Un’impresa in cui Fondazione Industriali, il braccio “sociale” della Confindustria cuneese, si è gettata insieme a La Gemma Venture srl di Fondazione CRC e alla cooperativa sociale astigiana La Strada. A fare da collante è l’esperienza della cooperativa Panatè - Gli Evitati, che dal 2019 gestisce la panetteria interna alla casa circondariale di Cerialdo: Massimiliano Cirillo, ex detenuto del carcere, la dirige coordinando il lavoro di altri undici “galeotti”. Nel 2023 è nata l’idea di un festival per raccontare questa e le altre “buone pratiche” che fioriscono in Italia, sovente circondate dal deserto: “Il tema non è essere buoni, ma essere più umani. - chiarisce Cirio - Crediamo che nelle qualità della persona ci sia la solidarietà e che sia una componente sempre più importante per l’imprenditore. Noi impattiamo sull’ambiente e sulla società con il tipo di contratti di lavoro che facciamo, le delocalizzazioni o le aperture di filiali in altri siti”. Grazie a Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti fino a poche settimane fa, gli imprenditori hanno intrapreso questo cammino di responsabilità già da diversi mesi: “Significa prendersi un rischio grande che non deriva soltanto dal pericolo di recidiva, ma dalla necessità di una formazione in ambito lavorativo”. La costituzione in associazione porta questo impegno a uno stadio successivo: “L’obiettivo - spiega Danni - è fare advocacy con il movimento delle imprese e le istituzioni, ma soprattutto con la società civile”. Il presidente di Panatè è anche presidente della neonata associazione, nel consiglio direttivo con lui ci sono Matteo Rossi Sebaste, Davide Gioda, Gabriele Cigliutti, Claudia Martin, Elio Parola e Giuliana Cirio, nominata presidente onorario. Nell’ottica dello sviluppo nazionale del progetto, rimane centrale la tappa cuneese, che anche quest’anno invaderà il centro storico di Cuneo con un fitto programma di iniziative gratuite e aperte al pubblico. Via Roma resta il fulcro della manifestazione, con il villaggio e la mostra mercato che ospiterà i banchetti di 24 realtà di economia carceraria. La novità di quest’anno è il salotto della Fondazione Industriali, allestito nel cortile del municipio: accoglierà le 22 esperienze verranno a raccontarsi nella sezione dedicata alle “buone pratiche” e i diversi talk in programma. Il programma dell’iniziativa guarda a un pubblico eterogeneo: oltre ai diversi tavoli di riflessione tecnica, che riuniranno alcuni tra i principali esperti di tematiche legate alla giustizia e dell’organizzazione dei sistemi carcerari su scala nazionale, saranno infatti numerose le occasioni di approfondimento indirizzate alla cittadinanza nel suo complesso, con concerti, spettacoli teatrali, talk e presentazioni che uniranno libri, fumetti e poesia. Come di consueto, il festival viene inaugurato con un primo tavolo tecnico giovedì 11 settembre alle ore 17 presso la casa circondariale di Cuneo, che vedrà l’introduzione dei lavori a cura di Renato Brunetta, presidente del Cnel. L’inaugurazione pubblica del festival si terrà venerdì 12 settembre alle 10 presso il cortile del Comune di Cuneo con la presenza della sindaca del Comune di Cuneo, Patrizia Manassero. A partire da quel momento, si alterneranno una serie di tavoli tecnici nel cortile del Comune e sarà possibile visitare l’area mostra-mercato in via Roma. Questa una selezione dei principali appuntamenti in programma: venerdì 12 settembre si terrà in via Roma alle ore 20 il primo concerto a ingresso gratuito a cura di “Parole Liberate”. A seguire, alle ore 21, andrà in scena nel cortile del comune di Cuneo Gherardo Colombo - ex magistrato protagonista di alcune fra le più storiche inchieste giudiziarie del nostro paese, impegnato in un’intensa attività di divulgatore per la diffusione della cultura della legalità - con un monologo dal titolo “Giustizia e democrazia: il senso del carcere”, a cura di Fondazione Industriali. Evento gratuito. Nel corso della giornata di sabato 13 settembre sono previsti due tavoli dedicati alle buone pratiche in ambito carcerario, oltre a una doppia sessione di concerti a ingresso gratuito a cura di “Parole Liberate” alle ore 15.30 e alle 17.30. Alle ore 17, nel cortile del Comune di Cuneo, si terrà il l’evento gratuito dal titolo “Immaginare il carcere tra poesia, fumetti, scrittura e storia”. L’incontro, moderato da Stefania Soma, sarà introdotto dalla lettura di una selezione di poesie su carcere e prigionia a cura di Poeticôni con Donatella Signetti e Riccardo Meynardi, e vedrà la presenza di Stefano Tamiazzo, autore del fumetto “L’ergastolo di Santo Stefano” (Ultima Spiaggia, 2024), di Elena D’Incerti, autrice del libro “Dentro San Vittore” (Meltemi editore, 2024) e di Pierangelo Gentile, presidente della Società Studi Storici Archeologici Artistici della Provincia di Cuneo. Sempre sabato 13 settembre, alle ore 21 andrà in scena al Teatro Toselli di Cuneo lo spettacolo teatrale “Ma l’amore no”, a cura della compagnia teatrale Voci Erranti, con la regia di Grazia Isoardi (biglietti disponibili a questo link e sul sito). Il festival si conclude con le attività di domenica 14 settembre mattina. In programma alle ore 10.30 nel cortile del Comune un tavolo a cura di Fondazione Crc dedicato alle esperienze teatrali in carcere, a seguire il pranzo sociale (prenotazioni info@art-27.it) nell’area della mostra-mercato di via Roma. Il programma completo è disponibile sul sito. Per informazioni: info@art-27.it Spoleto. (Pg). La direttrice: “Più corsi formazione al lavoro, per far cambiare vita ai detenuti” perugiatoday.it, 6 settembre 2025 Il carcere sempre più come una gabbia dove scontare la pena e sempre meno come luogo dove poter ricostruirsi un futuro, una professione, una seconda possibilità una volta tornati in libertà. Purtroppo i dati ufficiali, validi anche per l’Umbria, dimostrano come percorsi formativi e lavorativi siano meno rispetto al passato e quindi meno carcerati occupati in queste attività. Nel 2024, la media di detenuti impiegati in attività lavorative è del 28,4%, in calo rispetto al 32,6% del 2023. Tali criticità sono stati oggetto di un incontro tra l’assessore regionale al welfare, Fabio Barcaioli e la direttrice della Casa di Reclusione di Spoleto, Bernardina Di Mario, culminato con una visita alla struttura dove si svolgono attività a disposizione dei detenuti. La direttrice Di Mario ha evidenziato la necessità di attivare nuovi corsi di formazione, pensati per impegnare i detenuti, stimolare le loro competenze e favorire percorsi di apprendimento e lavoro. Tutto questo per coinvolgere sempre più persone che hanno intenzione di voler cambiare vita e non ritornare a ingrossare le file della criminalità. Percorsi nuovi con gli obiettivi di stimolare le loro competenze e favorire percorsi di apprendimento e lavoro. “La richiesta che viene dal carcere è dunque aumentare l’opportunità di formazione dei detenuti e noi sosterremo quanto richiesto dalla direttrice Di Mario - ha sottolineato l’assessore Barcaioli - Durante la visita ho potuto vedere da vicino la falegnameria, la biblioteca e le classi pronte per ospitare l’inizio dell’anno scolastico del Liceo artistico e dell’Istituto Alberghiero, osservando come questi spazi contribuiscano a creare opportunità di crescita personale e professionale per i detenuti. Conoscere da vicino i nostri istituti è fondamentale per capire come intervenire. Dobbiamo affrontare i nodi strutturali che incidono sulla vita delle carceri e lo faremo insieme alle istituzioni penitenziarie”. Questa tappa è il primo passo di una serie di visite che vedranno l’assessore recarsi, nelle prossime settimane, nelle case circondariali di Perugia, Orvieto e Terni, con l’obiettivo di costruire un quadro chiaro e aggiornato della situazione penitenziaria regionale. Oristano. Quattro detenuti nel carcere di Massama non potranno completare gli studi youtg.net, 6 settembre 2025 Quattro detenuti della Casa di reclusione di Oristano-Massama non potranno completare il loro corso di studi. Lo fa sapere Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che su una nota scrive: “La decisione di cancellare la classe quinta del corso di Amministrazione Finanza e Marketing dell’Istituto Tecnico Commerciale ‘Lorenzo Mossa’ per l’esiguo numero di studenti non è solo un atto discriminatorio nei confronti di persone, che non hanno alternative, ma attenta pesantemente al diritto all’istruzione e all’articolo 27 della Costituzione”, sostiene Maria Grazia Caligaris aggiungendo che “non possono essere applicati alle classi scolastiche delle carceri i criteri ministeriali già peraltro fortemente criticati in diverse realtà dell’isola dove lo spopolamento incide negativamente sul numero degli iscritti”. “Apprendere che 3 detenuti della sezione alta sicurezza e uno ‘comune’ dell’Istituto Penitenziario oristanese, arrivati alla classe quinta con fatica, non potranno concludere il corso di studi - sottolinea Caligaris - appare davvero inaccettabile. È vero che non si tratta di scuola dell’obbligo, tuttavia riguarda il diritto allo studio di persone che, private della libertà, hanno manifestato una costante volontà di migliorare sé stesse e raggiungere un obiettivo importante. Anche la scelta di accorpare le classi per ovviare ai numeri esigui di iscritti appare umiliante e non risponde auna corretta gestione del percorso scolastico”. “È paradossale - rileva ancora la presidente di Sdr - che lo Stato attraverso le leggi voglia promuovere il riscatto sociale e favorire il reintegro nella comunità delle persone che scontano un reato mentre nei fatti, come in questo caso, non isolato purtroppo, nega la prosecuzione e conclusione di un corso di studi. La formazione è un caposaldo di un Paese civile e non può rispondere esclusivamente a questioni numerico-ragionieristiche”. “Auspichiamo un ripensamento sulla decisione e riteniamo che su questa questione debbano intervenire i Consiglieri regionali e la Presidente della Regione. La Sardegna che ospita 3 Colonie Penali, per 6mila ettari di territorio, detenuti al 41bis e il 26,5% di cittadini stranieri ha il diritto - conclude Caligaris - di esigere una maggiore attenzione proprio in un ambito, quello della scuola particolarmente importante”. Pescara. Suor Livia, giustizia e grazia di Francesco Lo Piccolo* L’Osservatore Romano, 6 settembre 2025 Suor Livia Ciaramella da diciannove anni dedica la sua vita a chi vive dietro le sbarre. In tempi in cui la giustizia a volte smarrisce una parte fondamentale di sé, la capacità di farsi anche misericordia, ogni mattina, dal lunedì al sabato, questa religiosa dall’abito color panna e voce gentile, arriva nel carcere San Donato di Pescara alle 8 e vi rimane fino alle 17.30, spesso fino alle 18, con solo una breve pausa pranzo. Trascorre intere giornate nelle celle, nei corridoi, nella cappella sopra al teatro dell’istituto penitenziario abruzzese, in mezzo a quelli che chiama “fratelli oltre le sbarre”, offrendo sostegno spirituale, conforto, un contatto umano che spesso è l’unico possibile. Suor Livia, suora dal 1977, nata a Pescara, 71 anni, appartiene alla Congregazione delle Figlie dei Sacri Cuori di Gesù e Maria e porta nel suo ministero carcerario un background utilissimo: anni da missionaria in Africa e in Albania, e un passato da maestra dell’infanzia. In un luogo di ferro e cemento, dove 400 persone patiscono quotidianamente la lontananza da una madre anziana e malata, da un figlio problematico, da una famiglia che non sa più dove sbattere la testa, suor Livia si è guadagnata il titolo di “la mano di Dio”. Non per retorica, ma per l’integrità con cui, giorno dopo giorno, tende la propria. La sua presenza non trasforma la dura realtà della detenzione, ma per molti la migliora portando dignità umana e compassione, ricordando che la giustizia non deve essere ridotta a gestione della pena, che punire non è l’unico compito che le spetta. Il lavoro di suor Livia è una testimonianza di ciò che la giustizia è quando è unita alla grazia: non mera punizione, ma possibilità di redenzione, perdono e connessione umana anche nei luoghi più bui. Come ricordava Papa Francesco, e prima di lui Giovanni Paolo II nella Giornata mondiale della pace del 2002: “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”. Suor Livia, dove è Dio in carcere? Dio è ovunque, dunque anche in carcere. Dio è dove c’è qualcuno che ti aiuta, quando trovi una persona che ascolta, comprende e conforta nel momento del dolore e della disperazione. Lì e in quell’attimo, in quella mano tesa e in quell’abbraccio, c’è la mano di Dio. Io ascolto, ed è la cosa fondamentale che faccio, e poi cerco di rimediare come posso. Ascolto le preoccupazioni di chi è qui dentro impotente mentre, ad esempio, fuori gli stanno togliendo la casa perché la famiglia non ha i soldi per pagare l’affitto, o perché la moglie ha perso il lavoro, o per i figli che non vanno a scuola. L’altro giorno non funzionavano i telefoni: gran parte dei detenuti ha solo 10 minuti di telefonata a settimana, se gli togli anche quel momento… Le tragedie possono scoppiare anche per un niente, ma è un niente solo per noi che siamo fuori, loro è tutto quello che hanno. E allora lei ascolta e aiuta... Perché sono persone. Hanno sbagliato, ma restano persone e vanno aiutate. Qui dentro e poi fuori, senza pregiudizi, senza frapporre barriere. Chiunque può sbagliare, anche io. Ricordiamo il messaggio di Papa Francesco ripetuto: non cancelliamo la speranza. Quando escono li aiuto come posso, nella ricerca di un alloggio, nella ricerca di un lavoro. E converte anche? E sono vere conversioni? La mano va data a tutti. Poi si vede. Due-tre conversioni all’anno avvengono. Quando uno esce dal carcere mi scrive e mi manda i messaggi per telefono. Ho tenuto i contatti con tantissimi. Ricordo uno di loro, un giovane albanese, qui ha preso Battesimo, Cresima e Comunione e quando è uscito mi ha chiesto di battezzare anche i suoi tre figli. Il più grande ha undici anni, e il padre un po’ si vergognava di battezzare i figli nella sua parrocchia e allora abbiamo organizzato la cerimonia nella cappella della Cittadella della Caritas qui vicino al carcere. Come è la sua giornata con loro in carcere? Vi sono i colloqui, il lunedì nella sezione penale, il venerdì al giudiziario. Poi c’è il catechismo, mi aiutano anche due seminaristi, e i lavoretti nel laboratorio che ho al piano terra vicino alla cappella al quale partecipano 10-15 detenuti perché la stanza è piccola e di più non ci entrano. E ancora la recita del rosario, le novene, il coro, la preparazione alla messa che purtroppo si tiene al sabato. Perché purtroppo? Gli agenti di polizia sono meno del previsto e visto che almeno due devono essere presenti alla messa, la direzione ha deciso di farla il sabato. Ma il sabato ci sono anche i colloqui con i famigliari e gli incontri con gli avvocati e perciò molti non possono venire. Giornate piene? Senza sosta e senza dimenticare le iniziative con i detenuti che riesco a portare fuori. Da sette anni tra giugno e luglio porto una decina di detenuti al Santuario di Loreto con l’Unitalsi, l’associazione cattolica dedicata al servizio degli ammalati ed in particolare al loro trasporto in pellegrinaggio presso i santuari italiani. La loro gioia è enorme e aiutano i volontari con le carrozzine. Un giorno d’amore, quello che manca. E che apre nuove strade. Quest’anno, l’8 maggio, festa della Madonna del Rosario di Pompei, ho fatto portare in carcere una corona da rosario lunga 86 metri, arrivava dal primo cancello fino alla chiesa. Abbiamo pregato per i Popoli e per la Pace. Quel giorno è stato eletto Papa Leone. Mi auguro che sia un segnale che il Papa un giorno verrà nel carcere “S. Donato. Poi la sera se ne torna a casa... “Sì, con una auto, una piccola Hyundai che mi ha regalato un detenuto. Usata. E quando si è guastata, me l’ha riparata un altro detenuto. Come io cerco di riparare le loro vite”. *Direttore di “Voci di dentro” Verbania. Sfilata di moda in carcere, i sarti-stilisti sono tre detenuti di Cristina Pastore La Stampa, 6 settembre 2025 L’appuntamento è venerdì 19 ma per partecipare bisogna iscriversi entro martedì 9. Far conoscere la realtà del carcere, sostenere attività di rieducazione e reinserimento sociale, dare un contributo all’economia circolare, contro lo spreco e per il riuso: sono le finalità dell’evento che si terrà nella casa circondariale di Verbania la mattina di venerdì 19 settembre. È una sfilata di capi a cui i detenuti Lorenzo, Michele e Thomas hanno lavorato per tutta l’estate. Rientra nel progetto di economia carceraria “Ri-Vesti” lanciato in collaborazione con l’associazione Mastronauta e il Comune di Omegna. In passerella i volontari - I vestiti recuperati e rielaborati dai tre sarti in corso di espiazione di pena verranno indossati dai volontari delle associazioni locali, a partire da “Camminare Insieme”, impegnati nel rendere la detenzione un’esperienza su cui ricostruire la vita di chi ha sbagliato, aiutandolo a ricominciare. La collezione creata dai tre detenuti comprende abiti casual, da sera, da cerimonia e da sposa. Di loro solo Michele sapeva cucire prima di fare i conti con la giustizia. Glielo aveva insegnato sua nonna. In carcere il cucito e il ricamo sono diventati un motivo per cui vivere le giornate e poco a poco una passione, che ha trasmesso a Lorenzo e da ultimo a Thomas. L’arte del riuso - “L’associazione Mastronauta da tempo raccoglie abiti usati per poi organizzare mercatini: Michele ha avuto la possibilità di selezionarne un buon numero, avendo già l’idea di cosa farne. E così giacche da uomo sono diventate gilet da donna decorati con passamaneria e inserti in seta abitini arricchiti di voile e accessori si sono trasformati in mise da cerimonia e tanto altro” riporta la direttrice del carcere di Verbania Claudia Piscione. Il défilé del 19 è un’iniziativa di beneficenza aperta alla cittadinanza: vi si può partecipare inviando entro il martedì 9 alla mail progetti@coopilsogno.it copia del documento di identità e del versamento di 25 euro all’Iban IT58B062302240100 0015035665 intestato a “Camminare insieme”. Chi ha già visto e provato le creazioni ha chiesto di poterle acquistare a fine sfilata. “Metà del ricavato - riporta la direttrice Piscione - lo utilizzeremo per nuove attrezzature per il laboratorio di sartoria e l’altra metà, come espressamente richiesto dai nostri tre sarti, per iniziative di formazione all’interno del carcere, in collaborazione con Sefors Vco”. È il Sistema edile per la formazione e la sicurezza diretto da Marco Porini che alla casa circondariale ha già organizzato un corso per piastrellisti. “Vorremmo continuare con quelli da cartongessista e muratore, perché danno competenze molto richieste e da subito sono “spendibili” nella manutenzione della struttura” continua Piscione. Attualmente i detenuti a Verbania sono 75, di cui 13 con i presupposti per poter svolgere attività esterna al carcere. “Siamo in attesa di trasferimenti di altri detenuti con le caratteristiche per lavorare al laboratorio, ampliato, di dolci della Banda biscotti, progetto della coop Il Sogno” continua la direttrice Piscione. La colonna sonora della sfilata sarà a cura dei musicisti della cappella del duomo di Novara e di Giobi Fasoli, la presentazione è affidata alla giornalista (e nell’occasione anche indossatrice) Claudia Carbone e al termine un momento di ristoro sarà offerto dall’ente di formazione Casa di carità-Arti e mestieri con il servizio degli allievi del Formont di Villadossola. Modena. Alla Festa Pd i tortellini dei detenuti Il Resto del Carlino, 6 settembre 2025 Sono fatti a mano dai detenuti del carcere di Modena i tortellini che si possono mangiare in due ristoranti alla festa provinciale de l’Unità di Modena. La specialità culinaria famosa in tutto il mondo è realizzata nel laboratorio gastronomico Sant’Anna-artigiani della pasta, avviato nel maggio 2024 dalla cooperativa sociale Eortè di Carpi. “L’iniziativa è partita in collaborazione con la direzione della casa circondariale di Modena - spiega la direttrice di Eortè Valentina Pepe - l’obiettivo è trasformare il lavoro in uno strumento di crescita, formazione e reinserimento sociale per le persone detenute”. Fino al 14 settembre presso i ristoranti Osteria 467 e Fish e pig, allestiti nella kermesse del Pd modenese, è possibile ordinare i tortellini e tortelloni (verdi alla boscaiola nel primo ristorante, con mortadella e pistacchio nel secondo) realizzati dai detenuti che partecipano al laboratorio gastronomico allestito nel carcere. “Si tratta di un’ulteriore modalità per sostenere i progetti virtuosi del territorio, come quello portato avanti dalla cooperativa Eortè - dichiara la segretaria provinciale del Pd modenese Marika Menozzi - si possono unire divertimento, convivialità e buona tavola con l’attenzione alla comunità e a chi, dopo aver pagato per i propri sbagli, ha bisogno di reinserirsi nel tessuto sociale”. Il progetto ha coinvolto fino a oggi sette detenuti (due dei quali sono stati assunti), che hanno intrapreso un percorso di formazione e lavoro, affiancati da uno chef, un aiuto cuoco, due volontari, due addetti a vendite e logistica e dalla responsabile del progetto. Temperiamoci di Donatella Borghesi Il Foglio, 6 settembre 2025 Siamo tutti smarriti e nello stesso tempo smodati, esagerati. E quindi violenti, e non solo a parole. In una ridda infinita di troppe fake news, di troppe guerre feroci, di troppi bambini uccisi e rubati, di ragazzi senza più voglia di vivere, di cattive maniere, di incontinenza verbale, di narcisismo maligno di cui Trump è grande maestro, di giornalisti che non lasciano parlare gli interlocutori, di titoli intollerabili, di notizie che si smentiscono e si dissolvono in un baleno, di anatemi e censure. Di genitori che picchiano gli insegnanti dei loro figli, di uomini e donne che hanno perso il contatto. Di troppe chat, troppi tatuaggi, troppi coltelli in tasca, troppo esibizionismo, troppi tristi guardoni, troppi deep-date, troppo poco amore. Soli, nel clamore della babelica post-verità, e un futuro indecifrabile. Questo pezzo è nato per un caso. Da quello che gli antichi greci chiamavano kairòs, un rapido momento di illuminazione che ti apre a un pensiero o a un’emozione. Stavo guardando una serie in costume, quelle che si consumano per insonnia o per dimenticare l’orrore che ci circonda, e più lunghe sono meglio è. La parola magica è stata “temperanza” (in quella serie, The Gilded Age, era legata al più prosaico abuso di alcol). Ecco cosa è successo, mi sono detta: abbiamo perso la Temperanza, quella che era una virtù etica è diventata un disvalore. Per i filosofi greci essa, la Sofrosune, è l’esatto contrario - e quindi anche il controveleno - della Hybris, l’onnipotenza che sfida gli dèi, proprio quella che stiamo praticando oggi in tutti i modi possibili, in un girone infernale. Nelle carte dei tarocchi la Temperanza è raffigurata come una donna che ha in mano due brocche d’acqua, e travasa l’una nell’altra. Ha l’aria serena, è un gesto di vita quotidiana, a volte ha intorno un bambino o due che la guardano. Quattordicesima carta degli arcani maggiori, simboleggia l’equilibrio tra gli opposti, la moderazione e l’armonia. Ma è anche molto di più: è la quarta delle virtù cardinali nella dottrina cattolica, dopo prudenza, giustizia e fortezza. Quattro virtù che tutte insieme costruiscono il carattere della persona, e la temperanza ne conclude proprio il percorso. La stessa immagine calma e rassicurante della donna dalle due brocche la si ritrova nell’elegantissima raffigurazione del Pollaiolo: quel versare da un contenitore all’altro, magari per smorzare il vino con l’acqua, sicuramente avrà un significato… “Si cita sempre la Repubblica, per la temperanza come virtù sociale, ma Platone ne tratta anche nel Simposio, dove Eros è il mediatore con il divino”, ci dice la filosofa Annarosa Buttarelli, docente all’università Cattolica di Milano. “Quel semplice gesto è il simbolo della capacità di mediazione fra sé e il mondo. E’ la virtù che fa uscire dalla stretta dicotomica tra bene e male, tra giusto e ingiusto”. Ma che ne è oggi di quel gesto? La temperanza - ovvero la misura che ognuno dovrebbe dare a sé stesso - l’abbiamo travolta con il pensiero duale. “Prendiamo il caso emblematico del caos attuale in cui siamo immersi, dove confondiamo conflitto e guerra”, continua Annarosa Buttarelli che ai temi morali ha già dedicato il saggio Bene e male sottosopra. La rivoluzione delle filosofe (Tlon 2023) e che da settembre è in libreria con Pensiero osceno. Lo scandalo delle donne che pensano (sempre edito da Tlon). “Il conflitto è l’esatto contrario della guerra, ha bisogno della sapienza filosofica, della temperanza, per mediare tra le posizioni diverse, solo così lo si supera. Pensare l’impensabile, suggeriva Angela Merkel. Una filosofa del Novecento come Maria Zambrano aveva colto l’importanza di questo concetto”. Saltando le grandi filosofie sistematiche proviamo a capire cos’è oggi per noi, per la cultura del nostro occidente disorientato, nel nostro caos cognitivo. A riportare nella filosofia contemporanea il tema della temperanza così caro alla filosofia antica era stato Michel Foucault, uno dei protagonisti del pensiero strutturalista che ha tanto influenzato gli anni dai Sessanta agli Ottanta del Novecento. Gli dedicò un seminario (Tecnologie del sé, pubblicato da Boringhieri) e il tema percorre tutti i suoi tre volumi sulla storia della sessualità, in particolare l’ultimo, La cura del sé (Einaudi). Esercitare l’autocontrollo per raggiungere “la sovranità di sé, in un’esperienza in cui il rapporto con sé stessi assume la forma non solo di un dominio ma di un piacere senza desiderio e senza turbamento”. Nella stessa direzione è andato anche Pierre Hadot, studioso del pensiero greco e del neoplatonismo, che ha lavorato sulle meditazioni di Marco Aurelio (La cittadella interiore, Vita e pensiero) riproponendo la formula degli “esercizi spirituali”, perché intende la filosofia non come sistema teorico compiuto ma come modo di vivere (titolo anche di un suo libro). Un ruolo, quello di questi due pensatori francesi, che ha aperto la strada all’esperienza contemporanea delle pratiche filosofiche, sempre più diffuse, intrecciate spesso con la psicoanalisi o in un sincretismo culturale con altre forme di meditazione. Vediamo allora chi gli esercizi spirituali li ha fatti. Lezioni di felicità, Esercizi di filosofia per il buon uso della vita, edito da Einaudi, è il libro della scrittrice Ilaria Gaspari, laurea in Filosofia alla Scuola Normale Superiore di Pisa e dottorato alla Sorbonne di Parigi. Il suo è un percorso nelle scuole della filosofia greca antica, da quella pitagorica a quella stoica, dalla scettica alla cinica. Rincorrendo la Sofrosune, la forma di saggezza “per capire cosa è abbastanza per sé stessi”, Ilaria Gaspari ha provato a vivere una settimana da epicurea per uscire dal cinismo della nostra epoca, che disprezza l’aristotelica via di mezzo: “Con Epicuro ho cominciato a trattare i miei desideri con scanzonata familiarità, a essere generosa e non avara di quello che provavo, come bisogna essere con gli amici”. Sotto l’influsso dei social viviamo in una rappresentazione continua, con in più l’ossessione identitaria, esisti per quello che appari, annota la giovane scrittrice. “Si continua a stare nella realtà come spettatori, e questo modo di guardare suscita l’invidia, lo diceva già Aristotele. La spinta costante a identificarsi porta tutti a essere immersi in un’immensa asta pubblicitaria. Entriamo in relazione con chi ci sembra al nostro livello, con l’illusione di un rapporto orizzontale”. È un cambiamento non solo culturale, anche antropologico. “Come non vederlo come il prodotto dell’ideologia dell’uno vale uno? Il risultato non è l’uguaglianza, bensì restare indifferenziati: nel momento in cui l’identità diventa perenne, non ci si rinnova. La storia della filosofia dimostra che hai bisogno dell’altro, la propria voce deriva da questo rapporto”. Che cosa rimane del desiderio: “Mi sono resa conto che cercavo di disciplinarlo, mi sembrava meno faticoso rinunciare a qualcosa anziché ragionare, lavorarci. La prima cosa che ho realizzato è quanto di superfluo ci fosse nella mia vita”. Che cosa le fa più paura? “La rabbia così diffusa. Ci riporta al mondo pre-dialettico, quando l’altro da te veniva annientato dall’affermazione del proprio io. Gli algoritmi hanno intercettato le passioni tristi, che sono disgreganti, e ci siamo assuefatti”. Per Ilaria Gaspari la nostra soglia di attenzione si è abbassata e tutto è successo con grande velocità, riportandoci a una dimensione quasi arcaica. “Velocità e violenza sono legati. La cosa che mi spaventa di più è la violenza dei ragazzi molto giovani sulle ragazze. E’ vero, l’eros lo abbiamo liberato, ma è una liberazione che si è rivelata incompleta, quando compare la gelosia non la si sa gestire. Vado nelle scuole con il mio libro, e mi dicono che di amore non sanno proprio parlare”. La pratica filosofica, in un mondo in cui non ci sono più grandi sistemi teorici, deve ripartire dalla biografia, e da una biografia ben temperata, come il clavicembalo di Bach… La metafora è del filosofo e psicoanalista di formazione junghiana Romano Màdera, che nel 2006 a Milano ha fondato Philo, Scuola superiore in analisi biografica a orientamento filosofico. Questa sua scuola, attiva anche a Roma, è il punto di arrivo della sua esperienza di docente universitario, prima nell’università della Calabria, poi a Ca’ Foscari di Venezia e a Milano Bicocca. Nel lavoro per le tesi di scienze sociali, antropologia filosofica e filosofia morale, le sue materie di insegnamento, partiva infatti dall’analisi della biografia dello studente per individuare il tema da portare all’esame di laurea. “Mi facevo raccontare la loro storia, finché non trovavamo insieme il nocciolo che era per loro più importante. La biografia non poteva ovviamente esistere fuori dalla storia collettiva, ma doveva essere appunto temperata da una forte motivazione personale, ed esprimere sì l’educazione ricevuta, i valori, i riconoscimenti degli altri, ma soprattutto il proprio riconoscimento”, spiega Romano Màdera. “La temperanza deve essere temperata a sua volta, non può portare ad accomodamenti rispetto alla realtà, deve tenere insieme tutte le sue caratteristiche di virtù cardinale che si ricorda delle altre - prudenza, giustizia e fortezza. Esistono infatti anche gli usi perversi delle virtù… Prendiamo per esempio il coraggio, può deviare in temerarietà o in vigliaccheria, così anche la temperanza può deviare in rigidità o riduttività - quelli che dicono: eh, non esageriamo - rispetto a un fenomeno rilevante. Qual è allora la temperanza di cui avremmo bisogno di questi tempi? Quella che riesce a tenere insieme tutti gli elementi”. E una prova dell’importanza veramente capitale di questo saper “tenere insieme” Romano Màdera la dà anche nel suo ultimo libro, Una spiritualità laica, La vocazione di essere finalmente umani (Bollati Boringhieri), dedicato ad atei e credenti, sganciandosi dall’opposizione con la dimensione religiosa e pensando a una spiritualità aperta al confronto. “D’altra parte la parola laòs, da cui deriva laico, in greco antico vuol dire popolo. Sbagliamo a pensare che laico voglia dire non credente, semplicemente non è un sacerdote. La spiritualità, la ricerca del senso della vita, è di tutti”. Alla fine, qual è il carattere complessivo della temperanza? Stefano Levi della Torre, architetto e pittore, infaticabile presenza nei dibattiti su Israele, autore di Dio, edito da Bollati Boringhieri (“La questione di Dio è una questione troppo seria per essere lasciata ai soli credenti, riguarda la forma complessiva della conoscenza e del pensiero”), osserva le immagini della Temperanza che ci ha lasciato la storia dell’arte. Ecco le sue parole come didascalie perfette. Quella del Pollaiolo, sovrana su un trono, è spirito sovrano di potere su sé stessi e sulla qualità del potere. Controllando il getto dell’acqua nel vino ci dice che è contro l’ossessione della purezza, propria del fondamentalismo, del razzismo e dell’estremismo ideologico. La postura della Temperanza di Giotto, invece, si contiene silenziosa nel riquadro oscuro, mentre l’ira a lei contrapposta ne fuoriesce urlante, chiassosa, scarmigliata. L’ira mostra impudicamente le sue pulsioni, l’intimità del seno, del cuore, mentre la Temperanza è sovranamente ordinata, ordinante e pudica. Da decifrare il suo diadema, forse uno specchio che riflette il cielo, la cui dimensione relativizza gli eventi immediati e li confronta con l’eterno e nell’eterno li contestualizza. Giotto mette il morso alla parola, al linguaggio in generale, e trattiene la spada, cioè l’azione. In Ambrogio Lorenzetti infine contempla la clessidra, che relativizza nel tempo le passioni immediate, la clessidra ha funzione simbolica analoga al diadema-specchio di Giotto. “Considerare la complessità delle singole azioni e delle reazioni ad esse, vedere il positivo e il negativo della relatività storica di ogni cosa e di ogni idea. Capire le mutazioni nel tempo di ogni realtà. Sono queste le indicazioni che ci vengono dalla virtù della temperanza”, conclude Stefano Levi Della Torre. E come memento cita il Kohèlet, cap. 4 (a cui ha dedicato uno studio anche Erri De Luca): “Ogni fatica e tutta l’abilità messe in un lavoro non sono che invidia dell’uno contro l’altro. Anche questo è vanità e un inseguire il vento”. E se provassimo a fare un po’ di digiuno digitale? E’ il suggerimento che ci arriva da Donatella Siti, ricercatrice dell’università del Salento. Non c’è momento migliore, sembra dirci. In fondo l’aveva già previsto Foucault, parlando di tecnologia del sé. L’onda della rivoluzione digitale era in arrivo, ma avevamo lasciato solo agli scrittori di fantascienza e di romanzi distopici di prevedere le conseguenze degli algoritmi e dell’intelligenza artificiale. Resistere alle tentazioni del web e alle notifiche inviate dall’algoritmo per catturare la nostra attenzione potrebbe diventare la nuova frontiera dei bisogni e degli appetiti, una nuova pratica di astinenza per mettere alla prova l’antica virtù della temperanza. Forse ce la possiamo fare. La vicina di cella di Cecilia Sala, Pier delle Vigne e il dolore delle iraniane di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 6 settembre 2025 Sono rimasto molto colpito dal nuovo libro di Cecilia Sala, “I figli dell’odio”, Mondadori. È il racconto dettagliato dei suoi reportage dal Medio Oriente, e sarebbe un grande libro anche senza l’ultimo capitolo. L’ultimo capitolo però è un pugno nello stomaco. Racconta la sua prigionia, ingiusta e terribile, nel carcere iraniano di Evin. Privata di tutto, della libertà, del telefonino (come reagiremmo se restassimo senza telefonino?), del computer con il suo lavoro, dei libri. Ma la pagina più dura è quella in cui si parla della vicina di cella. Una donna che Cecilia non ha mai visto in volto, con cui non ha mai parlato, di cui non ha mai conosciuto il nome. Ma l’ha sentita, attraverso lo spioncino della porta. E ha intuito quello che stava facendo: prendere la rincorsa, per quanto si può fare in una cella chiusa di due metri, e lanciarsi con tutte le forze contro la porta blindata, nella speranza di perdere i sensi, di ferirsi, di uscire in qualche modo di lì, se necessario morta. Si suicidò nello stesso modo, picchiando la testa contro il muro della cella, Pier delle Vigne, uno dei grandi personaggi dell’inferno dantesco (“uomini fummo, e or siam fatti sterpi...”). Di fronte a tanta disperazione, due luci. Un gattino rosso che Cecilia sente accanto ai suoi piedi, mentre cammina in cortile incappucciata. E la mamma, che dimostra un grande talento giornalistico rivolgendo tre domande secche nell’unica telefonata che può ricevere dalla figlia - in cella hai un letto? No. Hai un materasso? No. Hai un cuscino? No. Quelle tre notizie, rese pubbliche dalla madre, sono servite a dare un segnale all’opinione pubblica italiana, e indirettamente al regime iraniano. Anche se sono costate a Cecilia una terribile intimidazione, la vista di un’impiccagione, in carcere. Quanto dolore devono sopportare le donne iraniane. Quanta ingiustizia. E quanta forza morale stanno dimostrando. Grazie Cecilia per averlo vissuto sulla tua pelle, e per avercelo raccontato. Riforme costituzionali, ma verso dove? di Enzo Cheli Corriere della Sera, 6 settembre 2025 Il dibattito si gioca sulla contrapposizione tra quella “democrazia liberale” di cui abbiamo finora goduto in base alla costituzione ed un modello di “democrazia autoritaria” o “populista” dalle forme ancora incerte. Alla ripresa autunnale, dopo l’approvazione in prima battuta della riforma in tema di ordinamento giudiziario avvenuta alla vigilia della chiusura estiva del Parlamento, cosa possiamo aspettarci sul terreno delle riforme costituzionali? Per formulare qualche previsione legata alla fase politica che stiamo attraversando occorre, a mio avviso, portare l’attenzione su tre aspetti. Sugli umori variabili di un corpo sociale inquieto che appare sempre meno interessato alla politica condotta dai partiti, ma che pur sempre esprime la voce di quel popolo cui la costituzione affida sia la titolarità che l’esercizio delle sovranità nazionale. Sulla politica condotta da un governo caratterizzato da una notevole stabilità, espressione di una maggioranza che per la prima volta trova il suo perno nella presenza di una forza politica in passato esclusa dalla guida del paese in quanto non solo estranea, ma anche ostile ai caratteri originari del nostro impianto repubblicano. Infine, su una costituzione quasi ottuagenaria che nel complesso ha retto sinora bene le sorti del paese funzionando, peraltro, meglio sul terreno delle libertà che sul terreno delle funzioni di governo. Costituzione che sembra attualmente godere, grazie anche all’azione efficace dei suoi organi di garanzia, di un largo consenso nel corpo sociale. Per il momento, considerata la fluidità del rapporto che lega tra loro questi tre elementi resta difficile, se non impossibile, formulare previsioni su quello che potrà essere il futuro prossimo del nostro assetto repubblicano. Futuro che, peraltro, molto probabilmente si verrà a giocare sul terreno della contrapposizione che si va accentuando tra quella “democrazia liberale” di cui abbiamo finora goduto in base alla costituzione vigente (frutto di una cultura costituzionale maturata sulle ceneri di una dittatura) ed un modello di “democrazia autoritaria” o “populista” dalle forme ancora incerte, ma che trova espressione in esperienze che si vanno sempre più affermando nel contesto internazionale. In Italia le linee di questa contrapposizione stanno oggi emergendo con sempre maggior chiarezza in alcuni campi: nella politica della sicurezza, nella politica della giustizia, nella politica dell’informazione e, in primo luogo, nella politica costituzionale dove la maggioranza, pur tra forti contrasti, sta svolgendo un vasto piano di riforme. Un piano il cui punto di approdo viene insistentemente indicato nella forma di governo, cioè in quel progetto di “premierato” già votato dal Senato a cui la maggioranza sembra ancora non voler rinunciare, ma che nulla ha a che fare con il “premierato” di tradizione anglosassone dal momento che mira a concentrare, attraverso l’elezione popolare diretta del Primo Ministro, la massima quota di potere politico non nelle mani del “Governo in Parlamento”, ma nelle mani della persona fisica chiamata a guidare il governo e l’amministrazione del paese. Formula del tutto inedita nelle democrazie moderne in quanto priva di quei contrappesi che caratterizzano le forme del governo presidenziale e, pertanto, anche in grado di aprire la strada a forme di “cesarismo”, quando il culto della personalità possa condurre ad oscurare quella separazione dei poteri su cui le moderne “democrazie liberali” si sono fondate. Questo progetto supera quindi ampiamente la soglia di una normale riforma costituzionale diretta a stabilizzare i governi dal momento che nella sostanza si presenta innanzitutto diretto a tagliare le radici antiautoritarie del nostro impianto costituzionale per sostituirle con radici diverse, e in un certo senso, opposte. Il fatto è che, a ben guardare, il “premierato” come punto di approdo del processo riformatore in atto, ma anche come punto di partenza per possibili riforme future (in quanto “riforma delle riforme”) non trova la sua prima motivazione politica in una esigenza di tecnica costituzionale diretta a rafforzare il governo, bensì nella volontà di operare una vera e propria “rivoluzione” culturale diretta a incidere e comprimere quei principi di pluralismo e garantismo che hanno orientato nel dopoguerra il processo costituente e che rappresentano tuttora le basi del nostro assetto repubblicano. Dunque: democrazia liberale o democrazia autoritaria? Democrazia partecipativa, retta da comuni valori costituzionali, o democrazia maggioritaria pronta a calpestare le ragioni della minoranza? Continuità o rottura rispetto ad una storia costituzionale che ha trovato il suo perno non nell’autorità dello Stato, ma nelle libertà della persona e delle formazioni sociali? Questa si sta delineando come la scelta sostanziale che alla fine del percorso riformatore oggi in atto il popolo si troverà a dover operare in sede referendaria dentro una cornice europea e mondiale che certamente eserciterà la sua influenza. Scelta non lieve sulle cui conseguenze è bene che il paese prenda coscienza in tempo utile. Volontariato, ecco i dati Istat: numeri in calo, sale la qualità e i giovani scelgono l’ambiente di Giulio Sensi Corriere della Sera, 6 settembre 2025 L’impegno è calato del 3,6 % in dieci anni, ma i volontari in Italia sono ancora 4,7 milioni e il loro coinvolgimento si moltiplica su ambiti diversi: maggiore attenzione a civismo e ambiente, più giovani in campo nelle emergenze, migliorano le risposte create su misura per bisogni diversi. Chiara Tommasini (Csvnet): “In Italia ruolo centrale”. Fare volontariato continua a essere non solo una scelta, ma quasi una missione per tanti italiani: sono ancora 4,7 milioni quelli che chi si rimboccano ogni giorno le maniche per gli altri. Li ha nuovamente registrati in modo approfondito l’Istat nell’indagine campionaria sull’uso del tempo del 2023, replicando a distanza di dieci anni la prima ricerca dedicata al lavoro volontario. Sono calati del 3,6% rispetto al 2013, ma rimangono una solida certezza per la società e l’ammontare delle ore che dedicano al volontariato equivale a quelle di 527 mila persone impiegate a tempo pieno. Diminuisce il numero assoluto dei volontari, tendenza che è stata fotografata anche da altre ricerche di settore, ma aumentano quelli che sono attivi su più fronti. Sono 3,2 milioni gli impegnati in gruppi, associazioni o organizzazioni, mentre arriva a 2,5 milioni la quota di chi fornisce aiuti diretti a persone esterne alla propria famiglia, alla comunità o all’ambiente. Toccano quota un milione coloro che uniscono le due modalità. “La diminuzione del numero dei volontari - commenta Tania Cappadozzi, responsabile per Istat della rilevazione - è stata limitata dal fatto che hanno aumentato il proprio impegno e ampliato gli ambiti di attività. Il volontariato diventa una sorta di missione e in tanti lo fanno sia in forma organizzata sia con aiuti diretti. C’è una maggiore attenzione all’ambiente e al civismo, tendenze che traspaiono anche dai dati sui volontari diretti: prima davano aiuto alle proprie cerchie ristrette, adesso alla comunità”. Il numero dei volontari più giovani cala, ma è un dato che va letto dal punto di vista demografico: in un Paese in cui l’età media sta crescendo anno dopo anno è comprensibile che tenga di più il numero dei volontari di età più avanzata che, ed è una buona notizia, sono attivi e hanno voglia di impegnarsi per gli altri. “Sono quelli - aggiunge Cappadozzi - che resistono di più. È vero che i giovani hanno meno continuità, ma si muovono sulle emergenze. Hanno bisogno di nuovi modi di coinvolgimento, sono più estemporanei, ma ci sono”. Evidente è anche il divario territoriale della partecipazione: il Nord-Est è l’area più attiva, seguita dal Nord-Ovest, mentre nel Centro e nel Sud le cifre sono più basse e i cali più marcati. Anche il legame fra volontariato e livello di istruzione si conferma molto solido. La maggioranza ha titoli di studio più elevati, anche se il calo fra i laureati negli ultimi dieci anni è stato più alto di quello delle persone con titoli di studio più bassi. Inedite, e sorprendenti, invece le statistiche di genere. Le donne hanno meno tempo a disposizione degli uomini perché oltre al lavoro sono più gravate da impegni di cura e domestici. Ma nonostante questo è donna il 48,1% di chi fa volontariato in strutture organizzate e ben il 53,1% degli attivi negli aiuti diretti. E il calo rispetto al 2013 è più marcato fra gli uomini. “Spesso le donne - prosegue Cappadozzi - hanno più carichi familiari e l’impegno continuativo le allontana di più rispetto a quello diretto. La loro presenza è aumentata nei ruoli dirigenziali di una decina di punti, ma c’è ancora una forte differenza di genere nelle posizioni apicali delle organizzazioni. Nel volontariato l’impegno è quasi identico. È un mondo più inclusivo rispetto al mercato del lavoro”. Negli ultimi anni sono cambiati i settori: più praticati sono i ricreativi e culturali, seguiti da assistenza sociale, protezione civile, attività religiose, sanità, sport, ambiente e istruzione e ricerca. Trasformazioni che sfidano le associazioni a adattarsi ed evolvere. “Il volontariato in Italia - commenta Chiara Tommasini, presidente di Csvnet, l’associazione nazionale dei Centri di servizio per il volontariato - sta cambiando: reagisce alle crisi e ne è anche colpito, ma mantiene il suo ruolo centrale per la tenuta delle comunità. Sono un milione i volontari che si impegnano sia con organizzazioni strutturate sia in modo diretto, questo dimostra come le forme stanno cambiando e si alimentano, diffondendo la cultura della partecipazione. È in continua evoluzione, ma la voglia di partecipare si mantiene alta e va incoraggiata e alimentata in modo corretto”. La diminuzione dei volontari in alcuni settori, come il sanitario, è anche la controprova del rafforzamento del Terzo settore nei servizi forniti. I volontari non vengono mai meno, sono la colonna portante delle organizzazioni, ma servono sempre di più anche gli operatori professionali. “Stiamo assistendo all’emergere di nuovi bisogni sociali - conclude Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum del Terzo Settore - che necessitano di nuove tipologie di risposte. Da questo punto di vista, le organizzazioni sono direttamente chiamate in causa, nel compiere passi avanti nella comprensione di una realtà che cambia e nell’adeguamento ad essa”. Don Luigi Ciotti, una vita di impegno libero. “Sporchiamoci le mani per il bene” Antonio Maria Mira e Costanza Oliva Avvenire, 6 settembre 2025 Il sacerdote fondatore di Libera compirà 80 anni il 10 settembre e ripercorre i grandi nodi affrontati in decenni di sfide: “Pace da edificare nel pensiero, nel linguaggio e nelle pratiche”. La tregua armata non basta, “la logica di deterrenza va scardinata”. Semplicemente perché “una pace vera non può essere fondata sull’equilibrio delle forze”. Don Luigi Ciotti va subito al cuore della questione, e come fa da sempre non rinuncia a mettere in discussione uno dei concetti “mainstream”. Il 10 settembre compirà 80 anni, e anche se non ama particolarmente festeggiarsi, dalla Certosa di Avigliana dove Libera ha radunato gli amici sacerdoti e vescovi come ogni anno a fine estate, si concede ad Avvenire in una lunga intervista, in cui ripercorre e mette insieme i grandi nodi che ha affrontato in una vita passata a costruire e al tempo stesso a scardinare. A partire dalle guerre, naturalmente: Come diceva don Tonino Bello, la pace va costruita, non bastano parole e proclami. Come farlo, oggi, sui tanti fronti di guerra e sui nostri fronti sociali e personali? La pace va costruita su tre fronti. Nel pensiero: dobbiamo pensarla possibile non come sospensione temporanea del conflitto, ma situazione di giustizia duratura. Nel linguaggio: disarmare le parole per disarmare i comportamenti, come ha detto Papa Francesco. Senza scordare che la pace ha bisogno anche di silenzio, preghiera, digiuno. Infine nelle pratiche: pacifista non è chi vuole “uscirne pulito” senza compromettersi col male, ma chi si sporca le mani tutti i giorni per il bene. Come chi soccorre i migranti in mare, cura le persone malate senza mezzi, educa i giovani a relazioni sane, rifiuta di caricare i container di armi nei porti, coltiva le terre sottratte alle mafie, respinge l’ordine di combattere per non uccidere persone innocenti. La pace si costruisce con gli strumenti della pace: la diplomazia, il dialogo, gli aiuti umanitari, le giuste garanzie di sicurezza per le persone, i popoli, le minoranze. Siamo tutti molto preoccupati ma anche incapaci di uscire da schemi e parole tradizionali. Forse avremmo bisogno di litigare un po’ di più con la nostra coscienza? Esatto. La pacificazione delle coscienze è la peggiore nemica della pace fra le persone e i popoli! Quel sentirsi sempre dalla parte giusta, intoccabili, “a posto”. Invece le coscienze inquiete, sempre piene di dubbi e domande, sono quelle capaci di suscitare cambiamenti. Anche di perdonare? Ne parliamo molto, ma… Per noi cristiani il perdono è o dovrebbe essere una meta, qualcosa verso cui tendere sull’esempio di Gesù in croce. Se parliamo della dimensione civile del perdono verso chi ha commesso un crimine, mi sembrano illuminanti le parole della “Misericordiae Vultus” di Papa Francesco: giustizia e misericordia “non sono due aspetti in contrasto fra di loro, ma due dimensioni di un’unica realtà”. “Chi sbaglia dovrà scontare la pena, solo che questo non è il fine, ma l’inizio della conversione, perché si sperimenta la tenerezza del perdono”. La misericordia non giudica, non respinge. Accompagna le persone ad affrontare le proprie fragilità, aiutandole a cambiare. Ma è possibile perdonare tutti? Oggi ce lo chiediamo se guardiamo alle guerre, lei nella sua vita ha affrontato il dolore e la richiesta di verità e giustizia delle vittime della mafia... La misericordia non esclude la fermezza, il diritto delle vittime e delle loro famiglie di essere riconosciute e tutelate nei loro diritti. Gli sconti di pena per i collaboratori di giustizia sono un discorso a parte che a volte suscita fraintendimenti. Non implicano l’idea di “perdono”: sono frutto dell’intuizione di magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che credevano nella possibilità di combattere le mafie dall’interno, offrendo ai loro esponenti di rimettersi in gioco e rinnegare il male commesso. Lei sostiene di essersi sempre sentito parte della Chiesa anche quando parte della Chiesa non lo capiva, accettava, sosteneva. Perché “un irregolare” (come lo definisce monsignor Galantino) non ha mai “rotto” con la Chiesa? La mia fedeltà alla Chiesa è semplice fedeltà al Vangelo. C’è chi guarda alla Chiesa come istituzione, ma la Chiesa è innanzitutto una comunità di persone che credono e si affidano alla Parola di Gesù. Se continuo a riconoscermi in quella Parola, e farne la mappa della mia vita, continuerò a sentirmi parte di quella comunità, cioè sentirmi a casa dentro la Chiesa, pur nelle differenti sensibilità su alcuni temi o alcune forme di espressione. Lo dico con molta umiltà e molta riconoscenza per ciò che la Chiesa, a partire da quella torinese, mi ha dato. I giovani sono alla ricerca di senso, di impegni concreti e di adulti che “accompagnino”. Cosa è cambiato rispetto a 60 anni fa quando col Gruppo Abele avete cominciato proprio coi giovani? Rilancio: cosa è cambiato da quando Don Bosco, in quella stessa Torino ma centovent’anni prima, ha avviato il suo incredibile cammino accanto ai giovani più emarginati? Tutto e niente. Sono cambiati i volti, le provenienze, le ragioni dell’emarginazione, ma non il bisogno di riferimenti educativi credibili, di opportunità di studio e lavoro, di riconoscimento e riscatto sociale. Col Gruppo Abele ci siamo inventati dei percorsi inediti per rispondere a problemi che si presentavano in forma nuova, ma avevano radici storiche. Oggi c’è chi propone di abbassare l’età della punibilità dei giovani... Ancora oggi basterebbe rileggere don Bosco per capire che la repressione da sola non serve, anzi peggiora le cose. Lui diceva che “un sistema repressivo può impedire un disordine, ma difficilmente può rendere migliori i giovani delinquenti”. E se non aiuti le persone a cambiare, non cambieranno mai le situazioni. Abbassare l’età della punibilità non ha senso, dobbiamo piuttosto investire nella prevenzione dei reati minorili, e potenziare gli interventi di sostegno che includano anche le loro famiglie. Spesso vediamo i giovani protestare, ma di solito vengono spesso accusati di non farlo nel modo giusto. Cosa direbbe loro e quali strumenti di disobbedienza si possono usare? C’è il rischio di guardare i percorsi esistenziali dei giovani con gli occhi del passato. Dobbiamo invece cogliere i loro percorsi inediti, dentro i problemi di oggi. Ovviamente si tratta di restare dentro l’argine della nonviolenza. Ma da adulto, so che devo mettermi in una posizione di ascolto attento e non giudicante. Chi se la prende con le forme di disobbedienza dei giovani spesso guarda il dito per ignorare la luna. Su temi come il cambiamento climatico, le guerre o le ingiustizie sociali sono i giovani a fare la differenza, a indicarci con forza la necessità di cambiare i nostri stili di vita, produzione e consumo. Sono sempre loro a dire dei “no” importanti: no a una eccessiva richiesta di protagonismo produttivo, efficientismo fisico e psichico, no a una prospettiva basata sul “di più è meglio”. Davanti a tanti giovani che si sentono fuori posto - come si è sentito lei quando era giovane - è possibile ribaltare lo sguardo e vederlo in modo positivo? Come chiave empatica e una spinta che porta ad agire? Non esiste una strada sola verso l’impegno. Alla base, come dicevo, serve conoscenza. Capire il presente, nelle sue molte storture, ti dà l’innesco per volerlo cambiare. Poi certo vivere alcune ingiustizie o fragilità sulla propria pelle può trasformarsi nello stimolo a fare qualcosa per altri che le subiscono. Ma ognuno ha i suoi percorsi. L’essenziale come dico sempre è che quei percorsi si intreccino e arricchiscano a vicenda, perché il cambiamento sociale non è per navigatori solitari. I giovani questo lo capiscono bene: un altro grande motore del loro impegno è infatti la relazione, il ritrovarsi insieme a vivere visceralmente certe esperienze. Abbiamo ancora negli occhi le immagini del Giubileo dei giovani a Tor Vergata, ma anche quelle dei giovani che vediamo arrivare a migliaia ai campi estivi di Libera, con loro voglia di partecipazione e di ascolto. La corruzione è sempre più diffusa. Le stesse mafie ne hanno fatto loro strumento più della violenza, eppure appare tollerata. Tutti parlano di legalità ma lei ripete spesso che è solo uno strumento verso la giustizia. Ce lo spiega? È sbagliato vedere nel rispetto delle regole un fine a sé stante. La legalità è il mezzo, ma la giustizia sempre lo scopo. Dove per giustizia intendiamo l’uguaglianza dei diritti, dei doveri, delle opportunità e dei servizi. Le leggi le fanno le persone, e le persone a volte sbagliano. Quindi possono esistere leggi sbagliate, che contrastano coi dettami della coscienza e, nel caso di un cristiano, con la Parola di Gesù. Le norme italiane ed europee sull’immigrazione, con la loro disumanità di fondo, per quanto mi riguarda sono un esempio. La cultura della legalità deve distinguersi dal semplice legalismo, e affondare le radici in un profondo senso etico. Per questo la responsabilità individuale resta l’architrave del sistema. L’assenza dello Stato nei confronti dei migranti rende più facile per le mafie approfittarsi della loro vulnerabilità? Magari potessimo parlare di assenza dello Stato! La verità è che oggi lo Stato contro le persone migranti spesso si accanisce, con leggi e procedure che tendono a sospingerle dentro un limbo d’invisibilità, povertà e illegalità, di cui approfittano appunto i poteri criminali. Abbiamo alcune buone leggi, ad esempio quelle per il contrasto alla tratta o la legge recente contro il caporalato. Ma servono risorse, investimenti, controlli. Serve che l’Italia - e anche l’Europa - imparino a proteggere le persone, per trasformarle in cittadini fedeli e responsabili, anziché disperati al soldo delle mafie. La droga, della quale non si parla più, se non come questione criminale e non sociale. Così come delle altre dipendenze: alcol, azzardo, ecc. Ci stiamo assuefacendo? Mettiamo la testa sotto la sabbia, approfittando del fatto che le dipendenze di oggi ci sembrano più “compatibili” con la vita quotidiana. Ma è un’illusione! Le dipendenze continuano a essere un dramma per tante persone e famiglie, a produrre costi sanitari e tensioni sociali. Abbiamo depotenziato i servizi terapeutici e la prevenzione è quasi scomparsa. Tutti i colori del pacifismo mobilitati contro il genocidio di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 6 settembre 2025 In movimento All’Altra Cernobbio organizzata da Sbilanciamoci! e dalla Rete Pace e Disarmo il progetto di un’agenda politica in comune. Acli, Arci, Anpi, Marcia Perugia Assisi, e oltre: “Creare unità, fare da collante”. Lo slancio della Global Sumud Flotilla ha investito ieri l’Altra Cernobbio, l’incontro organizzato dalla campagna Sbilanciamoci! e dalla Rete pace e disarmo in alternativa al Forum Ambrosetti che si sta svolgendo nella Villa d’Este sul quel ramo del lago di Como. La quindicesima edizione del forum nazionale quest’anno è attraversata dalla nuova stagione del pacifismo internazionale che sta declinando la larghissima opposizione al genocidio di Gaza con la ricerca di una politica di pace che prefigura un progetto di mondo opposto al regime di guerra in cui viviamo. “Addio alle armi”, titolo hemingwayano dell’iniziativa che prosegue anche oggi, è la sintesi che cerca di coniugare una nuova sensibilità globale con le proposte di mobilitazione già in atto e quelle che verranno nelle prossime settimane. “L’auspicio - ha detto Giulio Marcon, portavoce di Sbilanciamoci! - è che il prossimo sia un autunno caldo non solo per i rischi che dobbiamo fronteggiare, ma anche per la nostra capacità di mobilitarci, di promuovere iniziative, di suscitare un movimento popolare largo e unitario”. L’idea non è nuova, ma è da riscoprire: non delegare, ma partecipare. Hanno iniziato le Acli con la carovana “Peace at work - L’Italia del lavoro costruisce la pace”, organizzata dalle Acli e dalle Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani. È partita il 2 settembre a Palermo, sta risalendo la penisola e prevede 57 città. La marcia terminerà a Strasburgo il 15 dicembre, in concomitanza con la plenaria del Parlamento europeo. Il mondo cattolico, laico, dei sindacati e della società civile, oltre che dei movimenti parteciperà alla Marcia Perugia-Assisi il prossimo 12 ottobre. Così farà la Cgil, che ha sostenuto l’organizzazione dell’Altra Cernobbio a livello nazionale e lombardo, oltre che di categoria. Il sindacato guidato da Maurizio Landini oggi è mobilitato al Campidoglio in una vasta convocazione di soggetti che sostengono la Global Sumud Flotilla. E sta organizzando un’altra piazza per la pace e contro la prossima legge di bilancio che non promette nulla di buono. Non era facile vedere insieme le maggiori realtà organizzative e di base in una conferenza pubblica in modalità mista in cui si è parlato di un’”agenda di lavoro” comune. È un altro segno dell’urgenza attuale: fermare il governo israeliano e opporsi alla spinta al riarmo che viene dalla Commissione Europea e dagli Stati Uniti. Sono questioni intrecciate, e enormi, che attraverseranno anche le iniziative dei sindacati di base, e dei movimenti in autonomia nell’autunno che viene. “Ci vuole calma e sangue freddo - ha detto Emiliano Manfredonia (Acli) - È facile farsi travolgere da quello che sta accadendo e perdere di vista la politica. È da apprezzare il fatto che le forze di centrosinistra saranno presenti all’Altra Cernobbio oggi per parlare della pace, uno dei temi che crea una coscienza politica. La pace non è dei militari, non è nemmeno dei pacifisti. La pace è di tutti o non è di nessuno. Tutti la costruiscono, anche nel linguaggio, come nel lavoro. Oppure non ci sarà mai”. “La nostra azione sarà efficace tanto più saremo uniti” ha Gianfranco Pagliarulo (Anpi). Lo stesso ha detto Flavio Lotti, presidente della Fondazione Perugia-Assisi: “Abbiamo bisogno di fare l’unità e di una strategia comune, non basta fare l’addizione, la marcia per la pace è a disposizione”. Lotti ha anche denunciato “un tentativo di mettere in difficoltà la Marcia. Oltre che gli indifferenti, c’è il problema degli ipocriti”. “Ci sono state decine di manifestazioni, il paese oggi è in mobilitazione - ha detto Walter Massa (Arci) - Manca ancora il collante, è un ruolo che ci dobbiamo assumere”. Invece dell’idea della difesa armata, è stata proposta da Alex Zanotelli quella della difesa civile basata sulla cooperazione, sulla crescita sociale e la “disobbedienza”, l’”obiezione di coscienza” e quella “fiscale”. Sono pratiche evocate insieme alla possibilità di bloccare i porti se la Global Sumud Flotilla sarà toccata dai militari israeliani. A tutti i parlamentari è stato chiesto di “incaternarsi” davanti al parlamento per ottenere dal governo Meloni almeno la decenza di opporsi seriamente al genocidio. Stati Uniti. L’ultima di Trump: il Pentagono diventa “Dipartimento della guerra” di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 6 settembre 2025 Il presidente Usa ha deciso di ripristinare il nome originale cancellando la parola “difesa”: “Gli stati Uniti sono una grande potenza offensiva”. C’è chi, come Filippo Tommaso Marinetti, nella guerra vedeva l’”igiene del mondo” e chi vi scorge l’eco terribile di un dio arcaico, capace di pretendere sacrifici umani in cambio di gloria. Marte, divinità romana della battaglia, torna oggi a incarnarsi simbolicamente a Washington, dove Donald Trump ha deciso di riportare il Pentagono al suo nome originario: non più Dipartimento della Difesa, ma Dipartimento della Guerra. Il decreto è stato firmato con la motivazione spiegata dallo stesso presidente: “Difesa è un termine inadeguato, gli stati Uniti sono una grande potenza offensiva”, spiega il tycoon. Un ribaltamento lessicale coerente con il nuovo ordine planetario perseguito dalla Casa Bianca. Dopo la catastrofe della Seconda guerra mondiale, molte nazioni hanno deciso di cambiare il nome dei propri ministeri militari: la parola “guerra” fu progressivamente sostituita da “difesa” per rappresentare una nuova era in cui lo Stato armato deve proteggere i propri cittadini e non aggredire altre nazioni, nello spirito della nascente Onu e del nostro articolo 11 della Costituzione che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. In Europa e oltreoceano, questo slittamento semantico servì anche a dare legittimità morale alle forze armate nel contesto della Guerra fredda: una difesa prudente, non aggressiva, era il segnale che la violenza militare restava un’ultima risorsa, mentre la diplomazia e la cooperazione internazionale dovevano prevalere sullo sfondo della deterrenza atomica. La decisione di Trump rompe decisamente questa grammatica post-bellica, dando ragione a chi vede nell’avvento al potere di The Donald una brutale cesura con il mondo nato dalle macerie della più sanguinosa guerra della Storia e un ritorno della forza come sostituto della concertazione diplomatica. Presentato dalla Casa Bianca come un atto volto a “ristabilire il nome storico” del Pentagono, in vigore dal 1789 fino al 1949, il decreto non è solo un’operazione di facciata. Pete Hegseth, che Trump, per portarsi avanti con il lavoro, già chiama “segretario alla Guerra”, è stato incaricato di avviare le procedure legislative necessarie per rendere definitiva la trasformazione. “Tutti apprezzano il fatto che, quando eravamo il Dipartimento della Guerra, abbiamo conosciuto una straordinaria serie di vittorie e abbiamo trionfato nei due conflitti mondiali. Poi siamo diventati Difesa e abbiamo iniziato a perdere”, ha detto Trump davanti ai cronisti. La Casa Bianca, nel documento ufficiale, ha sottolineato come la nuova denominazione “trasmetta un messaggio più forte di preparazione e determinazione”, rispetto a una parola che sembra evocare soltanto resistenza passiva. Dietro la retorica c’è però la strategia politica di Trump, piena di paradossi e controsensi: far regnare “la pace con la forza”, riaffermare che gli Stati Uniti hanno “una potenza militare senza eguali” e che per questo devono essere protagonisti assoluti sulla scena globale. Dal suo ritorno alla Casa Bianca il presidente Usa ha posto un’attenzione speciale verso il Pentagono, accusandolo addirittura di “deriva woke” per la sua gestione delle risorse e per l’orientamento verso programmi di diversità e inclusione, considerati incompatibili con l’efficienza militare di una nazione dominatrice come gli Stati Uniti. Tra i suoi primi decreti emanati dopo il 21 gennaio c’è l’Executive Order 14183, intitolato Prioritizing Military Excellence and Readiness, che ha stabilisce il divieto per le persone transgender di servire apertamente nelle forze armate. L’ordine esecutivo ha imposto restrizioni sull’uso di strutture separate per sesso (come dormitori e bagni) per i trans impiegati del Pentagono obbligandoli a utilizzare quelle corrispondenti al sesso assegnato alla nascita. Diverse cause legali sono state intentate per contestare queste politiche di esclusione, con alcune decisioni giudiziarie che hanno temporaneamente sospeso la loro attuazione, mentre altre le hanno legittimate, creando una selva di ricorsi per quadro giuridico incerto. I suoi oppositori parlano apertamente di una svolta autoritaria, di un capo di Stato che considera i militari un’estensione del proprio potere e carisma politico come testimonia l’invio della Guardia nazionale in California e a Washington (uno Stato e un distretto feudi storici del partito democratico) ufficialmente per sedare rivolte e invasioni immaginarie. Il cambio di nome al Dipartimento della difesa segna oggi uno scarto ulteriore. Evocare la “guerra” non significa solo richiamarsi a un passato glorioso, ma dichiarare che il futuro sarà plasmato dall’offensiva, dalla deterrenza aggressiva, dall’idea che il rispetto internazionale si conquista attraverso il timore che si è capaci di incutere alle altre nazioni. Con un gigantesco paradosso: mentre rievoca i fasti bellici del passato e mostra i muscoli al pianeta, Trump non rinuncia al sogno di un riconoscimento assai diverso. Da mesi lascia trapelare la sua aspirazione a un premio che consacri, agli occhi del mondo, la sua grandezza di uomo di Stato: il Nobel per la pace. Forse, nella sua logica, non c’è contraddizione. La guerra, dopotutto, rimane - per chi la evoca come igiene del mondo - la via più breve per conquistare la pace. Iran. Incombe lo spettro di un nuovo massacro dei prigionieri politici di Virginia Pishbin L’Unità, 6 settembre 2025 Sono un medico educato a osservare e valutare sintomi. Vedo i sintomi di una febbre mortifera del passato tornare nel mio Paese, l’Iran. E allora lancio l’allarme prima che sia troppo tardi. I presagi del massacro del 1988, quando 30.000 prigionieri politici furono sistematicamente giustiziati, si stanno manifestando. Scrivo oggi perché so che cinque prigionieri politici sono stati condannati a morte e separati dagli altri, un terrificante indicatore, questo della separazione, della loro imminente esecuzione. I loro nomi sono: Vahid Bani Amerian, Pouya Ghobadi, Shahrokh Daneshvarkar, Babak Alipour e Mohammad Taghavi. Sono stati condannati per la loro appartenenza al principale gruppo di opposizione, i Mojahedin del Popolo Iraniano (Pmoi/Mek), dopo aver subito processi farsa. La notizia della loro condanna a morte segue di poche settimane quella della esecuzione di altri due prigionieri politici, Mehdi Hassani e Behrouz Ehsani, appartenenti allo stesso movimento. Notizie di morte che si susseguono in un Iran che quest’anno ha già superato le 950 esecuzioni secondo il monitoraggio di Nessuno tocchi Caino. Amnesty International ha scritto: “Behrouz Ehsani e Mehdi Hassani sono stati giustiziati arbitrariamente nel mezzo della terribile crisi delle esecuzioni in Iran. Sono stati giustiziati in segreto, senza che né loro né le loro famiglie venissero informati, dopo un processo gravemente iniquo tenuto da un tribunale rivoluzionario. È stato loro negato l’accesso agli avvocati per quasi due anni, prima di un processo durato solo cinque minuti e durante il quale non è stato loro permesso di parlare in propria difesa. Confessioni forzate, estorte tramite percosse, prolungato isolamento e minacce di ulteriori danni a loro e alle loro famiglie, sono state utilizzate come prove per condannarli”. Da medico dico che non si tratta di un atto isolato di repressione ma del ritorno di una febbre letale. I media statali iraniani hanno iniziato a elogiare e rivendicare apertamente il massacro del 1988, segnalando l’intenzione del regime di ripetere quanto compiuto in passato quando l’Ayatollah Ruhollah Khomeini, emise una fatwa che ordinava l’esecuzione di tutti i prigionieri politici che non avessero, di fronte a speciali “commissioni della morte”, rinnegato le loro convinzioni. Parliamo di crimini contro l’umanità e genocidio, come più volte considerato dall’ex Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Iran, il professore Javaid Rehman. Il quotidiano statale Kayhan, il cui direttore è nominato dalla Guida Suprema Ali Khamenei, ha recentemente difeso quelle uccisioni del 1988 definendole un atto “decisivo” e “coraggioso”, invocando sostanzialmente la stessa risolutezza contro i prigionieri politici di oggi. Stiamo dunque assistendo alla metodica preparazione di un altro massacro sancito dallo Stato. Annovero tra questi preparativi anche l’annuncio delle autorità di Teheran di trasformare la sezione 41 del cimitero di Behesht-e-Zahra in un parcheggio. La sezione 41 del cimitero di Behesht-e-Zahra è luogo di sepoltura di migliaia di militanti dell’Organizzazione dei Mojahedin del Popolo dell’Iran (Ompi/Mek), giustiziati durante i primi anni della rivoluzione e lì sepolti in segreto, spesso in fosse comuni. Un annuncio, presentato come forma di sviluppo urbano, che mira in realtà a trasformare quel cimitero di martiri in un cimitero della conoscenza e della verità. Maryam Rajavi, presidente eletta del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (CNRI), di cui il MEK è membro, la cui piattaforma politica per un Iran libero, laico e democratico è sostenuta dalla maggioranza del Parlamento italiano, ha esortato le Nazioni Unite e gli organismi internazionali a intervenire immediatamente e ha chiesto un’indagine internazionale indipendente su quelle decine di migliaia di esecuzioni. E mentre il regime cerca di mettere a tacere il suo popolo, di annientare chi osa dar corpo e voce a ogni benché minima opposizione, la voce della diaspora iraniana non resta in silenzio. Infatti il 6 settembre decine di migliaia di iraniani si riuniranno a Bruxelles per chiedere alla comunità internazionale di fermare le esecuzioni in Iran invocando un cambio di regime che avvenga senza intraprendere la via violenta delle armi né quella altrettanto insopportabile della politica di accondiscendenza con il regime dei Mullah, ma attraverso il riconoscimento politico della Resistenza iraniana quale movimento di opposizione e liberazione dell’Iran. Ciad. Le carceri di massima sicurezza “inghiottono” dissidenti, anche minorenni Nigrizia, 6 settembre 2025 Siguide Djimtoide è un attivista ciadiano delle opposizioni, che da mesi si trova in carcere senza che né lui né i suoi avvocati possano sapere di cosa è accusato. Ha subito torture e da settimane è detenuto in condizioni definite “disumane” nel più famigerato istituto penitenziario di massima sicurezza del paese, Koro Toro, due edifici nel cuore del deserto a centinaia di chilometri dalla città più vicina e ad anni luce dal rispetto di qualsivoglia diritto dei detenuti. Il carcere di Koro Toro è di per sé un insulto ai diritti umani. È una struttura di cui si chiede la chiusura o la completa ristrutturazione, da parte di diverse organizzazioni locali e internazionali che si battono per i diritti umani. La sola esistenza di Koro Toro nelle condizioni attuali rappresenta una violazione della stessa Costituzione del Ciad e dei numerosi impegni in termini di rispetto dello stato di diritto che il paese ha assunto con le istituzioni internazionali. Peggio dell’inferno. La prigione è salita agli onori delle cronache a partire dal 20 ottobre 2022, quando centinaia di manifestanti arrestati durante quello che è passato alla storia come “giovedì nero” vi sono stati trasferiti e detenuti per mesi. Diverse persone, almeno 10 secondo quanto riportato dalla Ong Human Rights Watch (Hrw) in un suo rapporto dal titolo eloquente, Peggio dell’inferno, sono morte lungo il tragitto verso Koro Toro o dietro le sbarre. Il carcere è costituito in realtà da due strutture distanti circa un chilometro l’una dall’altra, Koro Toro 1, più vecchio e fatiscente, e Koro Toro 2. Entrambe sono isolate e prive di copertura telefonica. Un carcere in mezzo al nulla dove si soffre un caldo estremo. Come spiegato a Nigrizia dall’attivista esperto di diritti umani Pyrrhus Banadji Boguel, la prigione si trova nella provincia di Borkou, nel centro del paese, a circa 700 chilometri di strada dalla capitale e circa 1.300 chilometri da altre città più grandi come Abechè, nell’est. Le condizioni climatiche estreme e la conformazione dell’area in cui si trova il carcere rendono l’accesso alla struttura molto difficile. Evadere è praticamente impossibile. A meno che non si voglia andare incontro a morte certa per fame o sete. “La semplice menzione di questo nome sinistro fa tremare più di un ciadiano a causa delle condizioni disumane che si vivono e dell’ostilità del clima”, afferma Boguel in riferimento a Koro Toro. 639 detenuti compresi 4 ragazzini. Nel carcere sono rinchiuse 639 persone, fra le quali quattro minori. Queste cifre sono verosimili ma va tenuto conto che molte delle persone che vengono portate in questa prigione vi arrivano al di fuori di ogni procedura. Il loro iter viene formalizzato mentre si trovano dietro le sbarre, in genere in occasioni di udienze itineranti”. Secondo HRW, sono detenuti anche presunti appartenenti alle milizie di gruppo ilamista Boko Haram, in condizioni di totale isolamento. I reclusi sono sottoposti a lavori forzati assieme e minorenni tenuti nelle stesse celle e alle stesse condizioni degli adulti. Il difficile contesto ciadiano. La storia di Djimtoide non è un caso isolato. Per quanto sia difficile reperire numeri ufficiali, in Ciad si continuano ad arrestare o far sparire persone per ragioni che sembrano essere legate alla loro attività politica. Da oltre 100 giorni del resto, il leader delle opposizioni, l’ex primo ministro e candidato alla presidenza Succés Masra, si trova in carcere dopo essere stato condannato a 25 anni di reclusione con accuse che molti reputano politicamente motivate. Gli impuniti che comunque restano al potere. Il paese si è lasciato alle spalle una transizione politica violenta, come ricordano diverse testimonianze di operatori umanitari sul campo - ma che non ha avuto conseguenze per chi ha manutenuto il potere, anche perché la cosiddetta evanescente “comunità internazionale” sembra ben poco interessata a ciò che succede in Ciad. E questo nonostante N’Djamena - capitale e sede del Governo - sia a lungo stata un’alleata chiave delle potenze occidentali nel mantenimento della sicurezza nel Sahel e nel bacino del Lago Ciad. I forti legami con l’Eliseo, oggi affievoliti. Ma sempre parlando di transizione, sono in molti a sottolineare i forti legami tra la famiglia Déby e il governo francese, ex potenza colonizzatrice in Ciad. Un rapporto che spiega molto il forte sostegno di Parigi al passaggio dei poteri, dopo la morte di Idriss Déby nel 2021, culminato nel governo del figlio Mahamat Idriss Déby. Anche se quei legami si sono oggi affievoliti perché il Ciad ha disdetto l’accordo di difesa con la Francia, accompagnato dal progressivo allontanamento dall’influenza di Parigi nel Sahel. Sparizioni continue. Solo negli ultimi mesi, secondo una stima dell’attivista Boguel, 12 attivisti sono stati incarcerati in circostanze riconducibili all’arresto extragiudiziario. Otto, dei giovani fermati per aver fatto proselitismo religioso cristiano nella capitale, sono stati rilasciati dopo oltre un mese di detenzione. Altri quattro attivisti restano invece in carcere. I casi di dissidenti o presunti tali che vengono fatti sparire per settimane e mesi per poi essere rilasciati si sono moltiplicati. Il caso più noto è quello di Robert Gam. È il segretario generale del Partito socialista senza frontiere (PSF) rilasciato lo scorso giugno, dopo oltre otto mesi di prigione trascorsi in assoluta segretezza. Diversi altri elementi del PSF, fra i quali il segretario generale del partito Abakar Turabi, sono stati poi arrestati a febbraio 2024 e tenuti per mesi, anche loro, a Koro Toro senza che potessero comparire davanti a un giudice, fra i quali tre minorenni e alcune persone in precarie condizioni di salute. In galera anche due banchieri. Ma si ricordano anche gli arresti dei banchieri Ismaël Ngakoutou e Bichara Ibrahim Kossi, liberati lo scorso novembre rispettivamente dopo cinque e un mese. Una vera epidemia di sparizioni, dunque, a cui non tutti i ciadiani vogliono abituarsi - scrive Nigrizia - come dimostra la storia di chi sta seguendo il caso di Siguide Djimtoide e le attività delle organizzazioni locali che reclamano il rispetto dello stato di diritto e degli impegni assunti dallo stato ciadiano. La voglia di ammutolire il dissenso. Il presidente e maresciallo Mahamat Dèby Itno - si legge su Nigrizia - sembra voglia ammutolire completamente qualsiasi forma di dissenso e garantirsi lunga vita al potere. Il padre, Idriss Dèby, era rimasto alla guida del Paese per 30 anni, fra il 1991 e il 2021. È stata proprio la sua uccisione al fronte nell’aprile 2021 - questa è almeno la controversa versione ufficiale - ad avviare la transizione che è finita per consolidare il potere del figlio e con lui dei militari che da 50 anni governano il paese. Le proteste spente nel sangue, con oltre 200 morti. Il consolidamento di Mahamat Dèby Itno al potere è passato per una serie di controversi passaggi istituzionali, un referendum per cambiare la Costituzione e infine le elezioni nel maggio 2024, contestate, come spesso quasi tutte le elezioni africane. Nel mezzo, diverse promesse infrante sul ritorno dei civili al potere e proteste spente nel sangue, con oltre 200 morti secondo organizzazioni della società civile locale. Povertà e speranza di vita a 59 anni con 1 bambino su 4 che muore prima di 5 anni. Tutto questo avviene in un Paese dove quasi la metà della popolazione ha 15 anni, ma è letteralmente annichilito dalla povertà diffusa, con l’85% di analfabetismo e una speranza di vita che non arriva a 60 anni, secondo OMS. Soprattutto a causa delle profonde disuguaglianze e delle condizioni socio-economiche e sanitarie, a dir poco disastrose. La disponibilità di acqua potabile è limitata e la mortalità infantile è tra la più alta al mondo: con 1 bambino su 4 che non arriva a compiere i cinque anni. Seguito sui social da 11mila persone. In un clima politico e sociale di questo tipo, il caso di Djimtoide appare emblematico, sottolinea Nigrizia. Geografo di formazione, specialista in risorse umane e formazione dei giovani, nasce nel 1988 nella città di Bodo, nella provincia meridionale del Logone orientale. L’attivista fa parte da alcuni anni del partito Les Transformateurs, la formazione guidata da Masra, e fino al momento della sua sparizione era anche l’animatore della pagina Facebook Révolutionnaire Tchadien, seguita da oltre 11mila persone. Djimtoide aveva anche un incarico come consulente per il comune di Doba, il capoluogo del Logone orientale. Nigrizia lo aveva intervistato più volte in Ciad e da remoto ed era in contatto con lui anche nei giorni immediatamente precedenti al suo arresto, che è avvenuto il 22 maggio nella sua città di residenza, la capitale N’Djamena. La cronistoria. Da quel momento è iniziato il calvario dell’attivista. Calvario che secondo i suoi legali può prendere anche una definizione più precisa: “Detenzione extragiudiziaria, illegale e arbitraria”. Anche per questo gli avvocati hanno presentato il suo caso anche al Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria, all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani e al Relatore speciale dell’ONU sulla libertà di opinione e di espressione. Minacce anonime, un appuntamento e poi la sparizione. In effetti è utile iniziare col dire che Djimtoide non è stato propriamente arrestato. Dopo giorni di minacce telefoniche anonime e dopo essere stato invitato a un appuntamento da un non meglio identificato ex collega, l’attivista è semplicemente scomparso. Solo col tempo si sono potute acquisire le informazioni necessarie per capire che era stato arrestato dai temuti servizi di sicurezza del paese, l’Agence nationale de sécurité (ANS). Nei giorni precedenti alla sparizione, l’attivista aveva lanciato sui social degli appelli per il rilascio di Masra, adottando come foto profilo anche un’immagine recante un appello per la sua liberazione. L’uccisione di oltre 40 pastori in scontri con i coltivatori. L’attivista aveva anche denunciato la presunta morte sotto tortura di un dirigente della procura di una cittadina del Logone orientale. La morte dell’uomo sarebbe legata all’uccisione di oltre 40 pastori in scontri con i coltivatori, avvenuta a maggio nella provincia. Masra è in carcere proprio con l’accusa di aver istigato quelle violenze al punto da esserne stato complice, avendo lui invocato l’autodifesa anche armata dei contadini contro i continui attacchi degli allevatori nomadi. L’atavica lotta pastori-contadini, strumentalizzata dalla politica. Le violenze fra coltivatori e pastori sono una costante della vita sociale del Ciad e di tutta la regione del Sahel. Le tensioni fra questi due gruppi sociali vengono spesso strumentalizzate dalla politica e sono parte di una più ampia “faglia” che segna tutta la società ciadiana, anche a causa di queste stesse strumentalizzazioni: da una parte i pastori, per lo più musulmani originari del Nord del paese, ritenuti molto vicini alle élite politiche, che da mezzo secolo controllano il Ciad; dall’altra parte, i contadini, cristiani o animisti originari del Sud, emarginati dalla classe dirigente e bacino di consenso delle opposizioni, che proprio nella parte meridionale del Paese trovano le loro tradizionali roccaforti.