II carcere, il cinismo di Nordio e le illusioni di Alemanno di Livio Pepino volerelaluna.it, 5 settembre 2025 L’estate sta finendo e, dopo le illusioni di Ferragosto, quando ci sono state alcune iniziative per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica, sul carcere sono nuovamente calati il disinteresse e il silenzio, nonostante le denunce, le testimonianze, un’inedita unità di intenti di magistrati, avvocati e docenti e l’apporto di alcune voci eccellenti come quella dell’ex sindaco di Roma Alemanno, direttamente toccato dalla detenzione. Quel che non si ferma è la triste conta dei suicidi: arrivati, nel momento in cui scrivo, a 56 o forse a 59 (nemmeno il conteggio dei morti è certo in carcere…), il numero più elevato di sempre, superato solo nel 2024. Una quantità esorbitate, in sé e rapportata alla percentuale dei suicidi in libertà, che solo il cinismo forcaiolo di Carlo Nordio (ex magistrato chiamato all’incarico di ministro della giustizia non per competenza o per meriti ma per affinità politica) consente di qualificare come “dato inferiore alla media”. Il degrado è insopportabile, acuito dal caldo estivo, dal sovraffollamento, dalle carenze igieniche, dalla mancanza di personale educativo (come documentato, proprio in questi giorni, dal rapporto di Antigone di metà anno 2025 e dal Report sui decessi in carcere nel periodo gennaio-luglio 2025 del Garante nazionale delle persone private della libertà personale). Non è, peraltro, una novità. E ciò impone qualche riflessione che vada alla radice del problema e aiuti a capire come mai, pur in queste condizioni, le proposte di riduzione e umanizzazione del carcere - finanche quelle dei Papi e dei capi dello Stato che si sono succeduti negli anni - restano regolarmente inascoltate, le stesse parole “amnistia” e “indulto” sono diventate tabù, il ricorso al carcere aumenta e le sole proposte di soluzione della destra - e non solo - sono la costruzione di nuovi istituti penitenziari (peraltro ferma anch’essa allo stadio di progetto). Alla base di tutto ci sono alcuni paradossi. Primo paradosso. Il carcere cresce mentre i reati diminuiscono. La mancata corrispondenza tra andamento dei reati e presenze in carcere è confermata da tutte le ricerche criminologiche, per tutti i tipi di reato. Basti dire che, nel nostro Paese, il picco dei delitti si è avuto nei primi anni Novanta del secolo sorso, quando in carcere c’erano poco più di 30.000 detenuti (35.485 il 31 dicembre 1991) mentre oggi, con i reati più gravi in netto calo (gli omicidi volontari sono passati, da 1.938 del 1991 a 314 del 2024 e il report di Ferragosto 2025 del ministero dell’Interno segnala che, nei primi sette mesi dell’anno, i reati sono calati complessivamente del 9% rispetto allo stesso periodo del 2024 con una diminuzione del 7,7% dei furti, del 6,7% delle rapine, del 17,3% delle violenze sessuali, mentre le persone denunciate sono scese a 461.495, con un calo dell’8%), i detenuti sono circa il doppio (erano 62.728 il 30 giugno scorso). Il fatto è che l’entità della repressione risente delle politiche “criminali” assai più che dell’andamento della criminalità. Il modello di riferimento è quello degli Stati Uniti dove il diritto penale classico (che commisura la pena in base all’entità del fatto) è stato sostituito da un diritto che punisce le persone non per quello che hanno fatto ma per quello che sono, sino all’assurdo di punire con il carcere a vita, in caso di recidiva, il furto di tre mazze da golf, di una pizza o di una merendina (cfr. E. Grande, Il terzo strike. La prigione in America, Sellerio, 207), con la conseguenza che gli ergastolani presenti nelle carceri statunitensi sono, oggi, circa 200.000, pari a uno ogni 1.500 abitanti. Un ulteriore dato su cui riflettere è che, a dispetto delle apparenze, il numero degli ingressi in carcere dalla libertà è nettamente diminuito rispetto a 30 anni fa e che la crescita delle presenze negli istituti penitenziari è determinata dalla diminuzione delle uscite e, dunque, dall’aumento delle pene, nonostante non si abbia un parallelo aumento della gravità dei reati commessi. Secondo paradosso. Il carcere è inutile ma continua ad aumentare in ogni parte del mondo e anche nel nostro Paese. La detenzione soddisfa (forse) la richiesta di vendetta sociale e isola, per un periodo più o meno lungo, il reo. Ma la sua inutilità, almeno per le finalità dichiarate, è conclamata: non aumenta il senso di sicurezza della collettività, ché il paese occidentale con il maggior indice di carcerazione (gli Stati Uniti d’America, nei quali c’è un detenuto ogni 170 abitanti) è anche il più insicuro, come dimostra il fatto che in esso si vendono più armi per difesa personale che in ogni altro luogo, e non serve a rieducare i condannati, ché la recidiva (cioè la commissione di nuovi reati) è massima tra gli ex detenuti. Alcune ricerche ufficiali fatte nel nostro Paese dagli uffici dell’Amministrazione penitenziaria evidenziano, infatti, che tra i condannati che hanno espiato la pena interamente in carcere il tasso di recidiva supera il 70 per cento mentre tra coloro che l’hanno scontata, in tutto o in parte, in misura alternativa il tasso diminuisce al 20 per cento. Certo, le misure alternative vengono concesse - per definizione - ai condannati “meno pericolosi” ma resta una sproporzione enorme che dimostra come il carcere non diminuisca affatto l’area dei delitti e dei devianti (ma solo isoli, temporaneamente, alcuni di loro). Per questo non sono più i soli abolizionisti storici a contestare il carcere. Ad essi si affiancano operatori di diversa estrazione e persino magistrati. Valga per tutti il caso di Gherardo Colombo, per decenni pubblico ministero milanese impegnato in alcuni dei più rilevanti processi del paese, che, qualche anno fa, ha scritto: “Quando ho iniziato la carriera di magistrato ero convintissimo che la prigione servisse, ma presto ho cominciato a nutrire dubbi. Continuavo a pensare che il carcere fosse utile: ma piano piano ho conosciuto meglio la sua realtà e i suoi effetti. Se il carcere non è una soluzione efficace, ci si arriva a chiedere: somministrando condanne, sto davvero esercitando giustizia?” (Gherardo Colombo, “Il perdono responsabile”, Ponte alle Grazie, Milano, 2011). La domanda è, dunque, obbligata: per quali ragioni il carcere, pur non risolvendo i problemi legati a criminalità e devianza, resiste imperturbabile a ogni critica e, anzi, si estende in tutto il mondo? La risposta rinvia alla funzione sociale che la detenzione riveste nelle nostre società. Le prigioni come oggi le conosciamo, cioè come risposta generalizzata a comportamenti devianti, non esistono da sempre. Al contrario sono relativamente recenti. Fino al sedicesimo secolo esse sono state utilizzate, e in misura limitata, come strumento per assicurare la presenza dell’accusato al processo o come strumento dell’inquisizione. Le prigioni che conosciamo sono nate meno di 500 anni fa. Prima di allora l’idea che la risposta al delitto fosse la chiusura del reo in uno spazio ristretto per un tempo più o meno lungo era semplicemente sconosciuta. Le pene erano altre: varie e talora crudeli e disumane. Non erano migliori. Anzi spesso erano esattamente il contrario. Ma non erano il carcere, che fece la sua comparsa nel secolo sedicesimo, il secolo della grande reclusione, susseguente alla crisi del sistema feudale, quando la cacciata dei contadini dalle terre accrebbe a dismisura miseria e vagabondaggio e provocò, soprattutto nel secolo successivo, un fiorire di bandi, leggi e ordinanze dirette a colpire mendicanti e vagabondi con tanto di guardie ad hoc, a difesa delle città e finanche delle chiese. La nascita della prigione ne rende esplicito anche l’uso politico: controllare poveri e vagabondi e poi, con l’inizio della rivoluzione industriale, disciplinarli al lavoro in fabbrica. La situazione non si è modificata oggi, nonostante i filoni di pensiero che hanno ispirato il costituzionalismo contemporaneo e il sogno di eliminare la povertà e di ridurre il carcere. È sufficiente guardare all’esperienza degli Stati Uniti d’America in cui - secondo le cifre più attendibili (ché, stante la complessità del sistema, i dati variano a seconda dei criteri di rilevazione) - si contano oltre 2 milioni di detenuti su poco più di 340 milioni di abitanti, pari a 580 ogni 100 mila abitanti, cioè uno ogni 170 (mentre in Italia e in Europa siamo intorno a uno ogni 1000 abitanti). Ancora più significativo è il fatto che, mentre la popolazione degli Stati Uniti è circa il 5 per cento di quella mondiale, la sua popolazione carceraria è pari al 25 cento di quella del pianeta. Il che - non essendoci apprezzabili differenze tra la criminalità degli Stati Uniti e quella di stati consimili - dimostra come il ricorso alla carcerazione non è una risposta oggettiva alla criminalità ma lo strumento di una politica di organizzazione sociale. La cosa diventa ancor più chiara se si considera che il 41 per cento dei detenuti del Paese è nero (mentre la comunità afroamericana costituisce solo il 13 per cento della popolazione), con un terzo dei ventenni afroamericani in carcere. In questo modo il carcere ha sempre più il ruolo di strumento per la creazione e il consolidamento di un doppio livello di cittadinanza, con diversità di diritti, funzionale a una organizzazione sociale fondata sulle differenze sociali. E sia - dicono i suoi sostenitori - il carcere esalterà e cristallizzerà le differenze sociali, ma rappresenta pur sempre, prima di tutto e inevitabilmente, la risposta dello Stato alla criminalità. L’affermazione è suggestiva ma smentita dai fatti. Anzitutto - come si è già detto - non è vero che l’aumento del carcere è determinato dalla crescita dei reati commessi. Ma, poi, non è vero neppure che il carcere è una risposta alla criminalità. Basta, limitandosi al nostro paese, leggere i dati sulla composizione della popolazione ristretta risultanti dalle statistiche ministeriali (talora incompleti ma comunque indicativi): nel 2024, oltre il 40 per cento era detenuto per delitti contro il patrimonio o per violazioni della legge sulla droga e meno del 20 per cento per delitti contro la persona (comprensivi anche di lesioni e percosse), mentre per i reati contro l’economia pubblica (comprensivi anche di frodi alimentari e simili) l’aliquota di presenze era inferiore all’1 per cento; il 32 per cento dei detenuti presenti il 31 dicembre 2024 era costituito da stranieri e il 31,9 per cento da tossicodipendenti; dei presenti alla stessa data solo il 9 per cento aveva come titolo di studio la licenza media superiore e l’1 per cento la laurea, mentre gli analfabeti erano l’1,3 per cento e si era fermato alla licenza elementare l’8 per cento. Anche sotto questo profilo, dunque, emerge una indicazione univoca: il carcere non sanziona i comportamenti criminali tout court ma alcuni comportamenti criminali e, per il loro tramite, la povertà e la marginalità sociale. È possibile, a questo punto, trarre qualche conclusione sulle ragioni per cui il carcere è, oggi, intoccabile, ragioni che hanno a che fare con un’opzione politica e non con la necessità di arginare una criminalità dilagante. Aggredire queste ragioni e il loro presupposto ideologico è il solo modo possibile per contenere e umanizzare il carcere. Altrimenti la pena detentiva e le prigioni continueranno a espandersi a dispetto delle denunce e delle proposte di cambiamento. Senza rimetter mano criticamente alla filosofia e alla concezione della società e dello Stato oggi dominanti la realtà resterà immutata o peggiorerà ulteriormente. Nonostante l’illusione di Alemanno sulla conversione del suo vecchio camerata Ignazio La Russa. Le Comunità terapeutiche non sono uno “svuota carceri” di Anna Paola Lacatena Avvenire, 5 settembre 2025 I limiti dell’ipotesi governativa che punta a collocare i detenuti con dipendenze in strutture esterne come risposta al sovraffollamento. I centri riabilitativi sono luoghi di cura, non di reclusione: rischierebbero di diventare colonie penali in balia delle dinamiche tipiche della reclusione. Posti insufficienti, costi insostenibili, modelli rigidi e rischi di conflitti tra giustizia e salute. La funzione terapeutica snaturata dall’esodo verso le “Ct”. La dipendenza patologica da sostanze legali e illegali non è una questione morale. È più realisticamente e scientificamente una questione biopsicosociale, dove nel determinare lo stato di salute o malattia è coinvolta l’interazione tra fattori biologici, psicologici e sociali. Questo approccio non può registrare l’esclusione, per comodità e ricerca di consenso politico, di quanti si trovano in condizione di violazione della legge o in detenzione, senza disattendere il dettato costituzionale per il quale è garantita la tutela della salute come diritto fondamentale per tutti, anche per chi è in carcere (art. 32). Il Governo, pressato dall’annoso problema del sovraffollamento più che dall’impellenza della risposta di cura, ha recentemente affermato che i detenuti con Disturbo da uso di sostanze (Dus) non possono stare in carcere, ipotizzando il collocamento in Comunità Terapeutiche (Ct) come rimedio universale. Poco importano, dunque, la scienza, gli studi, i dati di ritorno, i programmi ambulatoriali dei 571 Serd (Servizi per le dipendenze) afferenti al Servizio Sanitario Nazionale presenti in tutte le province italiane: per una gran parte della popolazione, ben accudita e debitamente orientata in maniera propagandistica, la dipendenza patologica, quando non anche il più diffuso uso da sostanze legali e illegali, era e resta una questione morale. Le strutture terapeutiche gestite dalle organizzazioni del Privato Sociale e rispondenti al flusso informativo semestrale del ministero dell’Interno, al 31 dicembre 2024, sono risultate essere 761 (873 complessivamente esistenti) per un totale di circa 13.862 posti (14,6 per struttura). Perché il ventilato esodo di parte dei detenuti con Dus verso la terra promessa delle Ct non risolverebbe il problema del sovraffollamento e con buona probabilità neanche quello della propria dipendenza patologica? Senza pretesa di esaustività, almeno per dieci ragioni. La prima è l’esiguità dei posti a disposizione. Le Comunità che accolgono, anche e soprattutto, persone in stato di libertà non potrebbero coprire il fabbisogno che verrebbe a determinarsi nel tempo. Quali sarebbero i criteri di accesso a quel punto? Quali quelli per le eventuali liste d’attesa? La seconda dovrebbe farci interrogare sull’incompatibilità della libertà di cura con l’idea dell’obbligo della stessa. La terza, conseguenza della seconda, è che in assenza di una reale compliance terapeutica i risultati sarebbero piuttosto deludenti a discapito soprattutto di nuclei familiari già esasperati. Le Comunità sono luoghi di cura, non di reclusione e, dunque, non sono attrezzate a farne le veci, rischiando di diventare colonie penali in balia di dinamiche tipiche della detenzione. E questa è da considerarsi la quarta ragione. Provate ad oggi da iter estenuanti e spese finalizzate all’adeguamento strutturale e di personale richieste dagli standard per l’accreditamento istituzionale, le Comunità vivono condizioni di grande disagio economico che non sarebbero risolte da una spesa sanitaria che crescerebbe a dismisura a fronte delle contrazioni e dei tagli degli ultimi anni. Ad oggi - sesta motivazione - molte strutture sono ancora legate a vecchi schemi a proposito di programma comunitario con il riscontro del numero bassissimo di ospiti che portano a termine il programma concordato. I dipendenti patologici inseriti nel tessuto sociale, con una propria dimensione lavorativa e familiare, sempre più difficilmente accettano i consueti programmi di 18, 24 fino a 30 mesi. Più spesso utilizzano la Ct per un reset che non va oltre i 3/6 mesi. Per contro è assai frequente che quanti raggiungono il fine programma sono persone senza fissa dimora e senza reti sociali e familiari la cui collocazione diventa particolarmente difficoltosa. In questo caso la struttura viene utilizzata come residenza in assenza di alternative proponibili da parte di altri Servizi. Per quanto tempo tutto ciò potrebbe essere sostenibile da parte della struttura ospitante? Si presuppone, infatti, che all’esigenza di casa e sostentamento non dovrebbero essere preposti Serd e Comunità. La settimana motivazione riguarda ancora la durata dei programmi. Ipotizzando un residenziale terapeutico- riabilitativo di 18 mesi, come da accreditamento e susseguenti accordi contrattuali con l’Azienda sanitaria locale che paga le rette pro die, qualora la persona giungesse dal carcere con una pena anche solo sotto i quattro anni - potrebbero essere di più anche da normativa attualmente vigente - cosa accadrebbe dopo un anno e mezzo? La persona passerebbe al programma ambulatoriale presso il Serd? Continuerebbe a permanere pur avendo terminato il percorso previsto e occupando, dunque, un posto che dovrebbe essere a disposizione di altri? Tornerebbe in carcere? Quest’ultima ipotesi sarebbe davvero fallimentare. Qualora ci fossero liste d’attesa - sempre più diffuse su tutto il territorio nazionale così come il veto delle Regioni a invii fuori dal proprio territorio regionale - con quali criteri le stesse sarebbero costruite? È già successo che famiglie disperate abbiano cercato di acquistare disponibilità all’ingresso, interloquendo direttamente con le strutture. E se la persona in carcere chiedesse al Magistrato (art. 94 Dpr 309/90), in mancanza di disponibilità di posti liberi da parte di Comunità del territorio, di accedere alle misure alternative, a proprie spese, in una struttura accreditata da lui stesso individuata? Quale sarebbe la risposta e sulla scorta di quale formazione biopsicosociale specialistica? Quale potrebbe essere una delle possibili conseguenze se non aprire alla possibilità della gestione diretta delle strutture da parte della criminalità organizzata per offrire comoda ospitalità agli affiliati e per garantire un canale legale al riciclaggio? Allora sì che ancora una volta potrebbe “curarsi” (molto virgolettato) solo chi ha soldi, potere. Allora sì sarebbe opportunismo furbo. La nona motivazione si rifà all’ancora insanata carenza di condivisione tra operatori della Giustizia e operatori della Salute circa la dipendenza patologica (termini, condizioni e contenuti): da una parte il reato, la pena, la condanna dall’altra la malattia. Chi sviluppa questa patologia va quasi con certezza incontro a fasi critiche in cui la sostanza può riaffacciarsi, in molti casi non la stessa, virando in direzione di quelle legali (alcol, psicofarmaci) o verso comportamenti a rischio (gioco d’azzardo). In questi casi, cosa significherebbe per l’Ufficio esecuzione penale esterna e per il magistrato di sorveglianza se non la revoca della misura alternativa e il reingresso in cella. Per finire le Comunità abdicherebbero alla propria funzione terapeutica per assumere quella dei controllori con il rischio di finire in balia dei controllati. Gli interventi di cui questioni così delicate necessitano non vanno d’accordo con la semplificazione che vede nella complessità solo un’inutile sofisticheria. “Così il carcere è solo vendetta, serve la giustizia dell’incontro” di Igor Cipollina Gazzetta di Mantova, 5 settembre 2025 Marcello Bortolato sollecita il percorso riparativo: “Attraverso l’intervento di un mediatore, la vittima può liberarsi dalla tirannia del dolore e il colpevole cambiare il suo sistema di valori”. La sfida è culturale. Anzi, sentimentale, perché ha che fare con la materia incandescente delle emozioni e con l’impasto mutevole delle relazioni. La questione interpella il valore stesso dell’umanità. Da un lato c’è la vendetta di Stato, che priva (legittimamente) i condannati della propria libertà. Dall’altro, “l’idea di curare il male senza produrre altra sofferenza”, il fulcro della giustizia riparativa. La sfida (a lungo termine) è di affrancarsi dalla logica attuale, che riduce la pena alla sua componente vendicativa, per recuperare il principio costituzionale della rieducazione del condannato. E chissà che un giorno la giustizia riparativa non diventi alternativa a quella tradizionale, fondata sul processo e sul carcere. “Per il momento accontentiamoci del riconoscimento della giustizia riparativa come percorso parallelo” invita il magistrato Marcello Bortolato, già componente di due commissioni ministeriali di riforma dell’ordinamento penitenziario, che oggi presiede il Tribunale di sorveglianza di Firenze e in passato ha lavorato anche a Mantova. Se la sfida della giustizia esige tempi lunghi per uno slittamento di prospettiva, quella di appassionare il pubblico di Festivaletteratura a un tema difficile, pieno di spigoli e buche, può già dirsi vinta. Affollato, l’evento nel cortile di Palazzo San Sebastiano, alle due e mezza di un giovedì pomeriggio di sole pieno. Tanti magistrati e avvocati, dipendenti dell’Ufficio di esecuzione penale esterna, referenti del laboratorio Nexus, volontari in carcere e tantissimi cittadini comuni, sull’orlo delle emozioni. Sospesi tra l’istinto della vendetta e la consapevolezza - mediata dalla ragione - che chiudere i condannati in carcere, e buttare via la chiave, non può essere la soluzione. Ecco perché il tema interroga tutti quanti. A orientare le risposte di Bortolato - autore insieme al giornalista Edoardo Vigna del recente saggio “Oltre la vendetta” (Laterza) - sono le domande di Verdiana Benatti, suzzarese, docente di lettere e co-autrice del podcast “Fuori formato”, che racconta l’esperienza del Circolo di lettori della Dozza, nato sette anni fa per condividere il piacere della lettura con i detenuti della Casa Circondariale di Bologna. Assente giustificato, Lorenzo Sciacca - il Milanese del fortunato podcast di Rai Play Sound - rapinatore seriale che nella giustizia riparativa ha trovato il suo riscatto. Il malinteso del perdono - Di cosa parliamo quando ci riferiamo alla giustizia riparativa, riconosciuta con una legge dello Stato nel luglio del 2023? La prima domanda va dritta al bersaglio della questione. “È un tema difficile e misconosciuto, a cui spesso i giornali si riferiscono per sottrazione - osserva Bortolato - La giustizia riparativa è uno strumento che, attraverso l’intervento di un mediatore, consente alle persone coinvolte in una vicenda penale di risolvere alcune questioni connesse a tale vicenda. Quale questioni? Siamo nel campo delle emozioni, dei sentimenti di rabbia, paura e vergogna che nel processo penale non trovano espressione”. Non c’entrano il perdono né la compassione - avverte il magistrato - “la giustizia riparativa non cancella il dolore, ma offre un’alternativa alla vendetta, consentendo alla vittima e al reo, o presunto tale, di confrontarsi rispetto al dolore reale”. Se il percorso va a buon fine, approdando a un accordo, la vittima può affrancarsi dalla “tirannia del dolore”, come la definisce Agnese Moro, dallo schema di sofferenza nel quale spesso la giustizia tradizionale la incasella. Mentre per il reo, o presunto tale, si apre l’opportunità di un cambiamento del proprio sistema di valori. L’accordo? Può tradursi anche solo in una lettera di scusa. L’importante è il percorso. Perché ciò avvenga, attraverso un processo volontario, occorre esercitare “la caparbia volontà di umanizzare l’avversario” espressa da Nelson Mandela che, dopo 27 anni di carcere, promosse quello che ad oggi resta “il più grande esempio di giustizia riparativa della storia”, messa in campo per archiviare la pagina feroce dell’apartheid in Sudafrica. Rispetto alla nostra giustizia riparativa, la Commissione per la verità e la riconciliazione definì un percorso alternativo alla giustizia tradizionale, concedendo la grazia a chi accettò di collaborare. Nel nostro ordinamento sono previsti soltanto dei singoli punti di contatto, “con qualche minimo beneficio nel processo penale”, ma il principio dell’umanizzazione è lo stesso. Vittima e reo sono sollecitati a immedesimarsi reciprocamente l’una nell’altro, sedendo dalla stessa parte del tavolo, alla presenza di un mediatore equiprossimo, che, a differenza del giudice, non sta sopra il conflitto, ma ci si cala dentro. Come nelle società arcaiche, dove le questioni si risolvevano nel perimetro della comunità. In fondo, ricorda Bortolato, il carcere è un’invenzione della modernità, 250 anni fa. Questione di abitudine. Don Oreste e i detenuti: l’uomo non è il suo errore di Giorgio Pieri interris.it, 5 settembre 2025 Don Oreste Benzi è stata una figura centrale nel progetto della Comunità Educante con i Carcerati. Il suo insegnamento ci ha mostrato una strada non violenta per trasformare la società, passando da un modello basato sul profitto a uno fondato sulla gratuità, dove la gioia di uno è la gioia di tutti. Don Oreste ci ha fatto toccare con mano che questo mondo è possibile, attraverso la creazione di quelli che lui chiamava “mondi vitali nuovi”. Questo passaggio è doloroso ma necessario, come un’evoluzione dal buio alla luce. La nostra esperienza con i carcerati è intrisa del pensiero di Don Oreste. L’uomo non è il suo errore. L’errore non definisce una persona, ma è solo una parentesi della sua vita. Dobbiamo guardare al detenuto non per il suo sbaglio, ma per la sua ricchezza e il suo potenziale di rinascita. Il secondo punto è il passaggio dalla “certezza della pena” alla “certezza del recupero”. Non esiste un uomo che non possa essere recuperato. L’errore, se affrontato, può diventare addirittura l’inizio di un cammino di trasformazione che porta a qualcosa di ancora più bello di prima. Infine, l’insegnamento più profondo è che nello sbaglio di uno c’è lo sbaglio di tutti. Siamo tutti corresponsabili, in qualche modo, del male altrui. Per questo, recuperare una persona non è un compito individuale, ma richiede il coinvolgimento di tutta la società. Le nostre comunità sono luoghi in cui questo avviene, dove i volontari accompagnano i carcerati dalla “prigionia del cuore” alla vera libertà. Il nostro sogno è rendere inutile il carcere, moltiplicando queste comunità che sono luoghi di vita e non di morte, di rinascita e non di rovina. In occasione del centenario di Don Oreste, credo che la lezione più importante da portare a casa sia che i poveri non sono un problema, ma un’opportunità. Come ci diceva lui, “lì dove siete voi, lì anche loro”. Se vogliamo un mondo nuovo, dobbiamo ripartire dagli ultimi, sporcandoci le mani e impastando la nostra vita con il Vangelo. “La riforma delle carriere separate è solo l’inizio di un percorso per addomesticare le toghe” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 settembre 2025 Nello Rossi, esponente storico di Magistratura democratica, le toghe ripetono che la riforma della separazione delle carriere condurrà alla loro perdita di autonomia e indipendenza. Eppure il nuovo art. 104 ribadirà questo principio. Siete caduti nella fallacia del pendio scivoloso? Lei pensa che, all’indomani della separazione delle carriere, cesseranno, come d’incanto, le veementi polemiche contro i pm da parte di esponenti della maggioranza di governo? Evidentemente no. Comincerà un secondo tempo della partita, nel quale si contesterà l’esistenza di un corpo indipendente ed autonomo di magistrati dell’accusa e se ne lamenterà l’irresponsabilità, chiedendo l’attribuzione ad un “organo di vertice” politico della determinazione della politica criminale e della direzione degli uffici del pm. Lo dice già oggi, a destra, un autorevole parresiasta, il senatore Marcello Pera, e lo negano solo i farisei della maggioranza, magari assumendo irrilevanti e patetici impegni personali. Infine ci attendono ancora i tempi supplementari delle leggi di attuazione della riforma dai quali, dato il clima politico e gli orientamenti della maggioranza, non c’è da aspettarsi nulla di utile, di mite e di ragionevole. Per i pm ma anche per i magistrati giudicanti. Lei, in un approfondito articolo su Questione giustizia, critica il metodo del sorteggio per il Csm. Se un giudice ha la facoltà di decidere un ergastolo come può non essere all’altezza di Palazzo Bachelet? Per svolgere al meglio una funzione istituzionale occorrono “vocazione” e “competenza”. Anche nel giudiziario vigono criteri di assegnazione automatica degli affari ma essi vengono applicati solo tra magistrati che hanno la stessa specializzazione (cioè la stessa vocazione e la stessa competenza). Invece il sorteggio dei membri togati dei due Csm non garantisce né la vocazione al ruolo né le conoscenze e le attitudini necessarie per il delicato e complesso compito di consigliere superiore. In realtà il criterio dell’”uno vale l’altro” mira a far regredire la magistratura a corporazione indifferenziata, portatrice di elementari interessi materiali e professionali che possono essere amministrati da ciascun membro del gruppo. Detto questo, sulla minore forza e legittimazione dei Consigli superiori formati per sorteggio - metodo proposto per la prima volta da Giorgio Almirante nel 1971 - restano le molteplici considerazioni di segno negativo svolte sulle colonne di Questione Giustizia. Lei si sente di assicurare e rassicurare che attualmente le correnti siano solo gruppi culturali interni alla magistratura e non centri di spartizione del potere? Come in tutte le aggregazioni umane, idealità ed interessi coesistono e si intrecciano. In misura variabile a seconda dei gruppi. Ma la vulgata delle correnti come “mala pianta” da estirpare è volgare e ingannevole perché ignora, volutamente, la storia della magistratura e la positiva funzione svolta dai gruppi associativi per migliorare il governo autonomo e superare il corporativismo. Un altro argomento usato dai detrattori è quello per cui il pm si rafforzerà eccessivamente e perderà la cultura delle garanzie che ha in comune col giudice. Però allo stesso tempo il giudice si rafforzerà secondo i riformisti... Non si rafforzerà nessuno. Si indebolirà invece il ruolo dell’intera giurisdizione e la funzione della magistratura di potenziale argine alla prepotenza, alla volontà di comando ed alla pretesa di obbedienza della cattiva politica. È in gioco la sopravvivenza di una figura centrale dello Stato di diritto: il famoso “giudice a Berlino” invocato dal mugnaio contro l’arbitrio dell’imperatore, che merita cura e rispetto nell’interesse generale e non può essere continuamente aggredito, intimidito, ammonito a essere obbediente ai dettami dei potentati politici. La premier Meloni ha ribadito che non si lascerà fermare da “giudici politicizzati”. Secondo lei vincerà questa sfida al referendum? I sondaggi danno in vantaggio il “sì” alla riforma. Si può ancora ribaltare questo risultato? Vedo circolare un certo nervosismo in ambienti politici sino a ieri sicuri di stravincere il referendum confermativo, che non prevede alcun quorum dei votanti ed è perciò più aperto ed incerto dei referendum abrogativi, condannati al fallimento dall’alto livello di astensionismo. Se è vero che la giustizia funziona male e che i magistrati, agli occhi degli italiani, non sono esenti da colpe, i cittadini hanno molte maggiori ragioni di guardare con sospetto ad una riforma costituzionale che può ridurre il ruolo della giurisdizione a tutto vantaggio del comando politico e dello strapotere del governo. A suo parere una magistratura troppo esposta mediaticamente, pronta a ribattere ad ogni dichiarazione della politica, non rischia di mostrarsi eccessivamente parziale agli occhi dei cittadini? Sobrietà e self-restraint sono certamente virtù da praticare. Ma nel corso della pressoché certa campagna referendaria, nella quale si discuterà della Costituzione, a nessuno - e tanto meno ai magistrati - si potrà chiedere di rimanere assente o defilato. Il problema è se mai la qualità del confronto, il suo livello culturale ed il suo grado di civiltà. Occorrerebbe scongiurare il rischio che la campagna referendaria si risolva in uno scontro senza quartiere al termine del quale rimarrebbero solo macerie istituzionali. Ma la maggioranza di governo e la stampa di destra non sembrano preoccuparsene. La magistratura in questi mesi si è mostrata contraria a tutte le riforme in tema di giustizia, persino alla giornata dedicata alle vittime di errori giudiziari. Questo atteggiamento costantemente oppositivo non gioca a vostro sfavore? Non mi sembra affatto che la magistratura italiana sia stata contraria a tutte le riforme. Al contrario invoca da anni interventi riformatori sull’organizzazione e sulla geografia giudiziaria oltre che sulle norme processuali nel segno dell’efficienza e non del potere (tratto tipico delle riforme della destra). Attenzione però a non fare confusione: nel contesto di violente e sistematiche aggressioni in cui oggi la giustizia è immersa, una giornata per le vittime degli errori giudiziari non sarebbe affatto una “riforma” né l’occasione per riflessioni serie e indispensabili sul tema spinoso dell’errore giudiziario ma l’ennesimo invito ad imbastire campagne di stampa scandalistiche e denigratorie. Magistratura, avvocatura, accademia - anche con un articolo a firma Parodi, Petrelli, Gatta - sono compatte nel denunciare le condizioni disumane delle carceri e a chiedere soluzioni immediate. Paradossalmente, per una eterogenesi dei fini, questo non potrebbe andare a svantaggio delle toghe considerata la cultura carcerocentrica di molti cittadini? Ben vengano tutte le iniziative unitarie sul carcere. Quando si fanno battaglie di umanità e di civiltà è inaccettabile fare calcoli basati su interessi di parte. Che giudizio dà su questi mille e passa giorni di Nordio da ministro? Difficile fare peggio del ministro sul piano istituzionale, politico e mediatico. Su quest’ultimo terreno si è curiosamente diviso tra melense dichiarazioni di attaccamento alla magistratura e stizzosi calci sferrati in continuazione negli stinchi ai magistrati, anche con iniziative disciplinari inique ed imbarazzanti. Sul piano politico istituzionale ha smentito la sua presunta ispirazione liberale e compromesso la sua precedente immagine sottoscrivendo una legislazione penale di pesante criminalizzazione della marginalità e del dissenso. E la sua riforma costituzionale sopravanza, per volontà di mortificazione della magistratura e della giurisdizione, la riforma dell’ordinamento giudiziario dell’ingegner Castelli. Cassazione, si chiude l’era Cassano: il Csm incorona D’Ascola di Simona Musco e Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 5 settembre 2025 Voto sul filo di lana: il nuovo primo Presidente passa con 14 voti contro i 13 a Mogini. Ma è polemica contro Fontana e Mirenda. Pasquale D’Ascola è il nuovo primo presidente della Corte di Cassazione. Lo ha deciso il plenum del Consiglio superiore della magistratura, al termine di una votazione sul filo di lana: 14 voti per l’aggiunto contro i 13 andati al segretario Stefano Mogini. Grande incertezza fino all’ultimo, dunque, e nessuna “unanimità”, come era stato più volte auspicato dal capo dello Stato per una nomina di tale importanza. Un auspicio confermato nelle ore precedenti al voto dai due indipendenti Roberto Fontana e Andrea Mirenda, che con una mossa a sorpresa hanno convocato una conferenza stampa per annunciare l’astensione. Una forma di protesta, hanno sottolineato, contro quel Testo unico ora vigente che consentirebbe, con le sue regole, di mantenere intatto il nominificio svelato dallo scandalo Hotel Champagne. “La proposta alternativa non deve essere letta - come sovente una narrazione approssimativa e interessata, dimentica della natura composita del Consiglio superiore, che è organo rappresentativo per scelta del costituente di ogni sensibilità valoriale e culturale, laica e togata, presente del Paese - in termini di fragilità o addirittura di spaccatura del Consiglio stesso”, ha invece sottolineato il vice presidente Fabio Pinelli, secondo il quale le divisioni rientrano nella “legittima diversità di vedute proprie degli organi di garanzia nelle liberal democrazie”. Unanimità o meno, il voto per il posto occupato dal primo marzo 2023 da Margherita Cassano - prima donna a rivestire quel ruolo - dimostra come due magistrati dai profili professionali diversissimi possano entrambi concorrere per il vertice del principale ufficio giudiziario del Paese. Alla fine quindi il Csm, rispetto a quello dell’organizzatore con esperienze anche in campo internazionale, come sottolineato dalla laica Claudia Eccher relatrice della proposta Mogini, ha optato per il profilo del giurista a tutto tondo incarnato da D’Ascola ed evidenziato dal laico Ernesto Carbone, che ha molto insistito anche sulla sua maggiore esperienza di legittimità e di presidente di sezione. Mogini, a differenza di D’Ascola, ha ricoperto incarichi internazionali quanto mai diversificati, tra cui quello di magistrato di collegamento in Francia e principato di Monaco e di consigliere giuridico presso le Nazioni Unite, oltre ad essere stato capo di gabinetto dell’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella. “Sotto la direzione di Mogini sono stati predisposti 240 decreti organizzativi, alcuni dei quali hanno introdotto innovazioni rilevanti come il rafforzamento del gruppo con la Corte di giustizia europea e la Corte europea dei diritti dell’uomo e l’istituzione dell’ufficio del referente dello spoglio delle sezioni civili”, ha ricordato il togato Eligio Paolini. “Questa funzione, che costituisce un indicatore principale, ha richiesto visione strategica, competenze relazionali, conoscenza profonda dell’ordinamento e capacità di sintesi tra diritto e organizzazione”, ha poi aggiunto Paolini. Mogini, va detto, si è anche attivato nell’ultimo periodo per il ritorno dei brigatisti che si erano rifugiati in Francia. “La Cassazione non è soltanto un ufficio di rilevanza strategica nella giurisdizione italiana, è un ufficio di rilevanza strategica nella geografia culturale del Paese”, sono state invece le parole di Antonello Cosentino, a favore della candidatura di D’Ascola. “Dalla Cassazione passa prima o poi tutta la cronaca e tutta la storia del Paese” e “il mutamento della società italiana”, ha proseguito il giudice progressista, ricordando che D’Ascola “ha attraversato in lungo e largo l’intera storia del diritto civile, ha interloquito per decenni con l’Avvocatura, ha costruito in dialogo continuo con l’Accademia”. Voci fuori dal coro, appunto, quelle di Mirenda e Fontana. Nel mirino dei due magistrati, astenuti come l’intero Comitato di presidenza, l’articolo 23, che “si presta a interpretazioni radicalmente diverse tra loro eppure tutte compatibili. Come non rilevare che la medesima disciplina ha consentito, in modo legittimo e plausibile, di individuare i due candidati del cui valore nessuno discute e che tuttavia sono tra loro diversissimi per storia professionale e curriculum?”, ha precisato Fontana, che nel suo discorso ha anche citato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quando, dopo lo scandalo dell’Hotel Champagne, parlò di “modestia etica”. “Noi riteniamo fondamentale che la discrezionalità del Consiglio nell’esercizio dei poteri di nomina debba essere limitata da autovincoli rigorosi e stringenti, quale decisivo rimedio per rendere maggiormente leggibili, e certamente più trasparenti, le decisioni consiliari e per evitare il rischio del perpetrarsi di derive connotate dalla prevalenza delle logiche di appartenenza e caratterizzate da quella che è stata definita “modestia etica” - ha dichiarato. Condotte che hanno leso profondamente l’onorabilità e il prestigio del governo autonomo della magistratura”. Da qui la proposta di un Testo unico che “vincolasse il plenum a parametri effettivamente stringenti”, proposta bocciata per un solo voto, in favore di un altro testo sostanzialmente “privo di limiti, per gli uffici di grandi dimensioni, per i direttivi di legittimità e per gli incarichi direttivi superiori ed apicali di legittimità”. E a margine non è mancato il commento di Mirenda: “Secondo quella che oramai è tradizione per le nomine apicali, anche oggi abbiamo assistito ad un’imbarazzante spaccatura a metà del Consiglio - ha dichiarato -. Non sfugge a nessuno che - con le stesse regole, deliberatamente di contenuto quanto mai vago - possono essere proposti candidati assolutamente diversi e non sovrapponibili. E sempre, purtroppo, secondo salda tradizione, il metodo assicura alle correnti consiliari di votare “il proprio”, con la consueta irridente disinvoltura. La verità è nuda: senza sorteggio non si va più da nessuna parte. Nihil novi sub sole”. Una presa di posizione, quella dei due indipendenti, che ha infiammato le chat, con dure accuse rivolte dai magistrati di Area ai colleghi. “Altro che correnti! - ha tuonato via agenzie il consigliere Marcello Basilico - La posizione di Fontana e Mirenda, che fingono di non volere decidere proprio nel momento in cui sono chiamati ad assumere una delle decisioni più rilevanti del loro mandato, dimostra quanto sia pericolosa la soluzione futura del sorteggio e l’individualismo irresponsabile che ne deriverebbe. È mortificante per l’istituzione che nel momento in cui si deve scegliere la figura più idonea a presiedere la Cassazione e vi siano in corsa due candidati di alto valore, per unanime riconoscimento - sottolinea Basilico - qualcuno pensi di assumere posizioni dimostrative in una logica tutta personalistica”. Ma alla fine a mettere il sigillo è stato Mattarella. La “autonomia e indipendenza della giurisdizione della giurisdizione rispetto a ogni altro potere” sono principi “irrinunziabili”, nello spirito “dei valori fondamentali della nostra Costituzione”, ha detto salutando Cassano, interprete di quei valori, da tutti elogiata e ringraziata con commozione. Il Capo dello Stato, che non ha partecipato al voto - ricordando di averlo fatto in un solo caso, ovvero proprio per la nomina di Cassano -, ha auspicato “tempestività e trasparenza” nelle decisioni del Csm. “Siamo tutti consapevoli che queste devono essere fondate su criteri ed elementi di valutazione al di sopra di pregiudiziali divisioni di parte”, ha sottolineato. Una raccomandazione, la sua, che risuona come un monito per il futuro. Cosa significa la nomina di D’Ascola per gli equilibri al Csm di Ermes Antonucci Il Foglio, 5 settembre 2025 Il nuovo primo presidente della Cassazione, vicino alla corrente di sinistra Area, affiancherà il pg di Cassazione Gaeta, anche lui vicino alla sinistra giudiziaria. Nel Csm che dovrebbe essere teoricamente “a trazione centrodestra” i due ruoli di vertice della magistratura saranno ricoperti da toghe lontane dal mondo moderato. Pasquale D’Ascola è il nuovo primo presidente della Corte di Cassazione. A nominarlo è stato ieri il Consiglio superiore della magistratura, al termine di un plenum straordinario presieduto dal capo dello stato Sergio Mattarella. D’Ascola sostituisce alla poltrona più alta della Suprema Corte Margherita Cassano, il cui mandato scadrà il 9 settembre per raggiunti limiti di età. Previsioni rispettate, dunque, anche per quanto riguarda la divisione del plenum: D’Ascola, attualmente primo presidente aggiunto della Cassazione, ha prevalso per un solo voto di scarto (14 a 13) nei confronti del candidato concorrente, Stefano Mogini, segretario generale della stessa Cassazione. Cinque gli astenuti: il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, la prima presidente uscente Cassano, il procuratore generale della Suprema Corte Pietro Gaeta, e i due togati indipendenti Roberto Fontana e Andrea Mirenda. Classe 1958, D’Ascola ha svolto i suoi primi anni di attività presso la pretura e il tribunale di Verona, per poi passare nel 2007 al Massimario della Cassazione e continuare la sua carriera a Roma, come consigliere della Seconda sezione civile della Cassazione, poi presidente di sezione e infine, dal settembre, 2023, primo presidente aggiunto. Nel 1988 contribuì alla fondazione del Movimento per la giustizia, nata da una minoranza dissenziente interna alla corrente Unicost. Oggi è ritenuto vicino alla corrente di sinistra Area, che infatti ha sostenuto la sua nomina a primo presidente con tutti i suoi consiglieri togati al Csm. A favore di D’Ascola hanno votato anche i tre consiglieri laici eletti in quota opposizione e gli altri togati appartenenti a Md e Unicost. Mogini, non legato ad alcuna corrente ma con un passato da capo di gabinetto del Guardasigilli Clemente Mastella, ha ricevuto i voti dei sei consiglieri laici di centrodestra e dei sette togati di Magistratura indipendente. Nel corso della discussione al plenum, prima della votazione, sia il vicepresidente Pinelli sia il pg Gaeta hanno voluto sottolineare che la divisione tra i consiglieri “non va letta come un segno di spaccatura o di fragilità, ma come la prova dell’esistenza di un capitale professionale assai considerevole di cui la magistratura dispone”. La divisione sulla nomina “rientra nella piena fisiologia del Csm”, segnata dalla presenza di personalità dai diversi orientamenti culturali, ha evidenziato Pinelli, ricordando che “questa consiliatura si è caratterizzata per il raggiungimento di un voto all’unanimità per circa l’80 per cento delle nomine degli incarichi direttivi e semidirettivi”. Insomma, la divisione tra i consiglieri su una nomina così importante non è la fine del mondo. Potrebbero costituire maggiore spunto di riflessione le ragioni che invece hanno spinto i consiglieri Mirenda e Fontana ad astenersi, in protesta contro i criteri previsti dal testo unico sulla dirigenza giudiziaria che regolano le procedure di nomina, attribuendo - sostengono - eccessiva discrezionalità ai consiglieri: “Come non rilevare - ha affermato Fontana - che la medesima disciplina ha consentito, si badi, in modo legittimo e plausibile, di individuare due candidati del cui valore nessuno discute e che, tuttavia, sono tra loro diversissimi per storia professionale e curricolare”. La divisione registrata ieri sarebbe, insomma, “la cartina di tornasole dell’assenza di alcun serio parametro valutativo volto a governare la discrezionalità consiliare”. Altrettanto meritevole di riflessione è l’esito, per così dire, politico, della nomina di D’Ascola (che diventerà membro di diritto del Csm e componente del suo comitato di presidenza). D’Ascola, vicino alla corrente di sinistra Area affiancherà in plenum il pg di Cassazione Gaeta, , nominato lo scorso febbraio, anche lui considerato vicino alla sinistra giudiziaria. In altre parole, nel Csm che dovrebbe essere teoricamente “a trazione centrodestra” i due ruoli di vertice della magistratura saranno ricoperti da toghe lontane dal mondo moderato. Un paradosso nell’èra meloniana. Campania. Paura West Nile nelle carceri: “Serve una disinfestazione” napolitoday.it, 5 settembre 2025 Il Garante campano delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello ha acceso i riflettori sulle gravi criticità igienico-sanitarie all’interno degli istituti penitenziari della regione Campania. In particolare, segnala l’urgente necessità di interventi di disinfestazione, derattizzazione e sanificazione negli ambienti carcerari, resi ancor più urgenti dalla diffusione del virus West Nile in varie aree del territorio regionale. La preoccupazione è stata espressa in una nota indirizzata al Provveditore della Campania e ai Direttori Generali delle Asl competenti, con la richiesta di attivare al più presto, tutte le misure di prevenzione e contenimento previste dal Piano Regionale di prevenzione, sorveglianza e risposta alle arbovirosi 2025 della Regione Campania. “Alla luce del particolare periodo che stiamo vivendo, è fondamentale garantire ambienti salubri e sicuri anche per la popolazione detenuta e per tutto il personale operante negli istituti penitenziari. In tal senso ho indirizzato una nota ai Direttori Generali delle ASL per un’azione omogenea e tempestiva in tutta la Regione e in tutti gli istituti penitenziari per adulti e minori”. “Le direzioni penitenziarie e le ASL locali intervengano con urgenza per effettuare operazioni di derattizzazione e disinfestazione; attivare azioni di sorveglianza epidemiologica rafforzata; implementare misure preventive contro il virus West Nile, così come indicato dalle linee guida regionali. La tutela della salute all’interno delle carceri è una priorità non derogabile” così il garante Samuele Ciambriello. Modena. Detenuto malato terminale. “Inumano tenerlo in cella” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 5 settembre 2025 Dopo una prima istanza respinta, il tribunale ieri ha disposto la scarcerazione. L’avvocato del 54enne era pronto a fare ricorso alla Corte Europea dei diritti. “Lasciate che trascorra gli ultimi giorni di vita con la sua famiglia, non in carcere”. È con queste motivazioni che la difesa ha fatta istanza di scarcerazione per un tunisino 54enne, malato terminale ma detenuto in carcere, al Sant’Anna. Dopo una risposta negativa arrivata dal magistrato di sorveglianza di Modena, ieri invece il tribunale di sorveglianza di Bologna si è espresso positivamente, disponendone l’immediata scarcerazione. “Era inumano e degradante tenere un malato terminale in carcere, oltretutto detenuto per reati non di particolare gravità, sul semplice presupposto che l’abitazione della persona che lo avrebbe ospitato non era del tutto idonea” sottolinea l’avvocato di fiducia del carcerato. Il legale aveva anche anticipato al tribunale che in caso di un’altra risposta negativa, avrebbe fatto ricorso in via d’urgenza alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. Le condizioni del detenuto, affetto da un tumore, sono peggiorate negli ultimi giorni tanto che, lo scorso 28 agosto, i sanitari hanno deciso di non proseguire i cicli di terapia ma solo di effettuare cure palliative. L’uomo stava scontando la pena detentiva per reati di spaccio e sostituzione di persona: il fine pena era previsto per il luglio del 2027. Il procedimento relativo alle misure alternative alla detenzione in carcere per motivi di salute era stato avviato inizialmente dall’ufficio dal magistrato di sorveglianza di Modena. La ricerca di una struttura idonea, però, non aveva dato esito positivo seppur una lontana parente, così come Porta Aperta, si fossero resi disponibili ad ospitarlo. Nell’udienza di ieri è arrivata la conferma, da parte di una conoscente, della disponibilità ad ospitare il detenuto e, visto il quadro clinico peggiorato, il tribunale di sorveglianza di Bologna, a cui il legale difensore ha fatto istanza, ha dichiarato per il detenuto l’incompatibilità con il regime penitenziario. Da qui la scarcerazione immediata e la detenzione domiciliare. Cuneo. Quel detenuto “dimenticato” in ospedale che nessuno sa dove verrà trasferito di Sandro Marotta La Stampa, 5 settembre 2025 Nessuno al momento sembra conoscere la sorte né lo stato di salute del detenuto che da 12 giorni è piantonato da una decina di agenti della polizia penitenziaria all’ospedale Santa Croce di Cuneo perché obeso e diabetico. L’Asl non fornisce aggiornamenti né sulle condizioni di salute dell’uomo né sull’esito delle domande che dovrebbe aver avanzato all’ospedale Molinette di Torino e ad altri centri italiani che curano l’obesità grave. Nemmeno i garanti dei detenuti di Cuneo e del Piemonte sanno per certo dove sono i poli in grado di ricoverare con spazi adeguati il 50enne che pesa circa 250 chili. Il peso è stato raggiunto progressivamente ma il caso sembra essere finito fuori dai radar delle istituzioni: “Non risulta alcun fascicolo passato con una segnalazione riguardo a quest’uomo - conferma Monica Formaiano, nuova garante dei detenuti del Piemonte -. Oltre a tutelare la salute del detenuto, dobbiamo capire se c’è un’ordinanza che lo rinvia al carcere oppure se lo affida a una struttura sanitaria. Le informazioni che ho sono poche e le ho apprese dai giornali”. La storia del recluso cuneese sta rivelando un vuoto di tutele sanitarie per le persone private della libertà che, a causa del loro peso, non trovano spazi adeguati e non riescono ad essere curate negli ospedali; per 4.479 detenuti piemontesi, solo la Città della Salute di Torino cura i casi di “super obesità”. Il compito del garante regionale è prendere in carico i diritti delle persone private della libertà e sollecitare le istituzioni affinché li rispettino, ma c’è un intoppo: “Essendo stata nominata da poco, devo ancora risolvere delle questioni tecniche e al momento mi manca la firma digitale per approvare i documenti - prosegue Formaiano, nominata a luglio al posto di Bruno Mellano -. Specifico che la colpa non è degli uffici, ma dei problemi informatici dovute al mese di agosto e al passaggio di consegne. Sono operativa a tutti gli effetti, una volta che saranno risolte queste questioni tecniche farò le verifiche e le segnalazioni alle istituzioni”. Due ex detenuti del carcere di Cuneo avevano confermato a La Stampa che le situazioni di sovrappeso durante la detenzione sono frequenti e lo stesso fa la garante: “Ho conosciuto il caso di un uomo molto sovrappeso durante una delle mie prime visite nel carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino, ad agosto, dopo che si era verificato un suicidio. L’amministrazione aveva risolto la situazione unendo due celle, in modo da adattare lo spazio alle esigenze di quella persona”. Nel carcere di Cerialdo non si riesce a trovare una soluzione simile, all’ospedale di Cuneo non c’è un reparto riservato, ma anche alle Molinette di Torino il quadro è più complesso: “Noi della chirurgia bariatrica non abbiamo letti dedicati - spiega Mario Morino, direttore della Chirurgia Generale 1 alle Molinette -, non c’è un reparto specifico, perché l’obesità è solo la situazione che innesca altre patologie; su queste poi intervengono gli specialisti di ciascun settore, per esempio il nefrologo o il cardiologo. Solo successivamente, per chi è super obeso, si ricorre all’intervento chirurgico”. Cuneo. Cella troppo piccola, il detenuto non ci sta. Il caso e i diritti di chi sta in carcere di Sandro Marotta La Stampa, 5 settembre 2025 Gravemente obeso e diabetico non riesce a essere ospitato né ai domiciliari né in carcere, l’appello del garante cittadino Valmaggia. Solo due posti letto per ospitare detenuti obesi in Piemonte: il caso dell’uomo ricoverato al Santa Croce di Cuneo svela il vuoto di tutela sanitaria per chi è in carcere “C’è un detenuto gravemente obeso e diabetico che non riesce a essere ospitato né ai domiciliari né in carcere e quindi è stato ricoverato temporaneamente al Santa Croce di Cuneo”: questa la denuncia dell’ex sindaco Alberto Valmaggia, oggi garante dei detenuti di Cuneo, a proposito del recluso che da fine agosto è piantonato da dieci agenti all’ospedale per mancanza di celle abbastanza spaziose e adeguate alle sue patologie, che sono quelle di tanti altri. Ricoverato in ospedale - La storia dell’uomo, che ora ha una cinquantina d’anni e pesa intorno ai 250 chili, è iniziata con la reclusione nel carcere di Lecce; in seguito il giudice gli ha concesso i domiciliari dal fratello, a Cuneo, dopo aver già ricevuto delle segnalazioni di problemi riguardo alla permanenza in cella. Anche il fratello però si è trovato in difficoltà, ha affidato le sue cure all’amministrazione del carcere del Cerialdo, che a sua volta non ha saputo cosa fare e lo ha ricoverato in ospedale. “Nemmeno il Santa Croce però è un posto adeguato - spiega il garante Valmaggia. Per pazienti come lui, i “grandi obesi”, servono stanze apposite, bagni più grandi e tutta una serie di aggiustamenti”. In Piemonte solo due posti per detenuti come lui - In effetti nella casa circondariale di via Roncata i posti liberi ci sarebbero: al momento sono presenti 376 detenuti su una capienza di 433, a differenza di molti altri istituti italiani, che hanno un tasso medio di affollamento del 133 per cento. In genere una cella singola è di dieci metri quadrati, una multipla 20-25. “Qui si tratta di un problema di spazi - continua Valmaggia -. In Piemonte ci sono due posti letto dedicati a detenuti come lui, si trovano alle Molinette di Torino (nella sezione “dietetica e nutrizione”). Purtroppo però sono entrambi occupati da altri carcerati”. Una soluzione in tempi rapidi - L’Asl e l’amministrazione penitenziaria si sono già attivate: “La sfida è trovare una soluzione in tempi rapidi. Stiamo aspettando risposte da altre regioni d’Italia per trovare una struttura libera, anche perché al momento è in un posto letto improprio, destinato ad altri”. Due stanze per 4.479 condannati presenti in tutte le carceri piemontesi rivelano un vuoto nella tutela sanitaria per chi deve scontare una pena. Tra l’altro, i detenuti pagano per la propria permanenza: in Italia la legge 354 del 1975 prevede la cosiddetta “quota di mantenimento”, che viene trattenuta dal conto di ogni “ospite”; si tratta di 3,62 euro al giorno, cioè 112 euro al mese e 1.300 all’anno che vengono utilizzati per fornire i pasti e ammortizzare i costi sostenuti dallo Stato. Quello dei disturbi alimentari in carcere sembra essere un problema frequente, ma poco indagato. “Le situazioni di sovrappeso sono molto frequenti - racconta un ex detenuto del carcere di Cuneo - non facendo attività fisica l’unica cosa che fai è mangiare e fumare. Per le persone con disturbi particolari l’infermeria e la cucina non possono fare miracoli, perché gli alimenti a disposizione sono quelli, praticamente varia solo la quantità”. La testimonianza di un ex detenuto - Nel trattare i disturbi legati all’alimentazione è importante essere seguiti da medici e infermieri soprattutto durante i pasti, cosa che nelle carceri non avviene: “Non si mangia negli spazi comuni, ma in cella - conferma l’ex recluso -. Non c’è nessuno che ti controlla e quindi puoi fare un po’ quello che vuoi, per esempio scambiare cibo con i compagni. Io mi sono preso cura per diversi mesi di un mio ex compagno che aveva il diabete. Chiaramente non potevo seguirlo 24 ore e se mi chiedeva più cibo io faticavo a dirgli di no, però gli compravo la pasta integrale, le fette biscottate apposta e altri alimenti specifici. È una situazione difficile: o sai regolarti tu oppure devi avere la fortuna di incontrare compagni di stanza che ti stanno dietro”. Torino. Nel carcere Lorusso e Cutugno arriva la “stanza dell’affettività” di Valentina Romagnoli open.online, 5 settembre 2025 Entro fine ottobre nel carcere torinese Lorusso e Cutugno aprirà la “stanza dell’affettività”: sarà il primo grande istituto di pena in Italia a dotarsi di uno spazio riservato ai detenuti per incontri intimi con i propri partner, dopo la pronuncia della Corte costituzionale che ha riconosciuto il diritto all’affettività come parte integrante della vita familiare. “Non può ritenersi che la richiesta di svolgere colloqui con la propria moglie in condizioni di intimità costituisca una mera aspettativa”, hanno scritto i giudici. Sottolineando che tali incontri possono essere limitati solo per motivi di sicurezza, ordine interno o in presenza di procedimenti giudiziari. Come sarà la “stanza dell’affettività” - La struttura è stata ricavata nel padiglione “E”, ora sezione Arcobaleno, che ospita i detenuti in semilibertà e i lavoranti del carcere torinese Lorusso e Cutugno. Lo spazio misura circa quindici metri quadri ed è arredato come una camera essenziale: letto, bagno, doccia. Ogni incontro durerà tra una e due ore, con una frequenza che potrà arrivare fino a tre appuntamenti al giorno. Prima di ogni utilizzo la stanza sarà bonificata dal personale penitenziario. Potranno farne richiesta i detenuti del distretto Piemonte-Valle d’Aosta, con esclusione di chi si trova al 41 bis o è stato coinvolto in episodi di disordine interno. Al termine dell’incontro il detenuto sarà sottoposto a perquisizione, mentre il partner no. Le critiche e le polemiche dei sindacati di polizia penitenziaria - La decisione è stata accolta come un passo avanti da giuristi e associazioni che da tempo chiedevano un adeguamento del sistema carcerario alle garanzie costituzionali. Molto diverso il giudizio dei sindacati di polizia penitenziaria. “Si rompe l’ultimo tabù: il sesso in carcere. Entro fine anno sarà concesso ai detenuti di Torino di avere rapporti sessuali intramoenia”, ha denunciato Leo Beneduci, segretario nazionale dell’Osapp. L’attacco è rivolto al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, accusato di “applicare la sentenza con fulminea velocità. Garantendo l’intimità ai detenuti ma restando in silenzio sulle aggressioni agli agenti che finiscono con naso o costole rotti”. Secondo Beneduci, “uno Stato incapace di proteggere chi lavora nelle carceri ora trasforma le celle in alcove matrimoniali. La penitenziaria, che fatica a limitare droga, telefoni e armi, dovrà gestire anche le prenotazioni delle camere a ore carcerarie”. La funzione rieducativa del carcere - Il tema tocca un punto delicato: la finalità della pena. La Costituzione parla di funzione rieducativa, ma la realtà delle carceri italiane mostra ancora molte contraddizioni. A tal proposito, la redazione di Open ha realizzato il documentario Giudizio sospeso, presentato lo scorso luglio alla Camera dei deputati con la vicepresidente Anna Ascani. “Il nostro ordinamento - ha ricordato Ascani in quella occasione - riconosce alla pena una funzione rieducativa. Ma oggi questo modello è in sofferenza: la carenza di strutture adeguate, il sovraccarico delle comunità, la fatica degli operatori, sono segnali che ci devono far riflettere”. Il film, firmato da Alessandra Mancini e Felice Florio e coprodotto con Eclettica, racconta la vita nei penitenziari minorili di Nisida e del Beccaria attraverso le storie di quattro giovani che cercano di costruire un futuro diverso. Bologna. Sovraffollamento e scarsa igiene, allarme per il carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 settembre 2025 Nel carcere “Rocco D’Amato” di Bologna le lenzuola dei detenuti non vengono cambiate da circa due mesi. Lo denunciano i sindacati Fp Cgil e Fns Cisl, mentre l’Osservatorio Carcere della Camera penale di Bologna chiede un intervento immediato alle autorità competenti. Dentro ci sono 800 persone ristrette, con la prospettiva di ulteriori ingressi: senza biancheria, con cuscini e materassi contati, il rischio di tensioni è concreto. Fp Cgil parla di una situazione “indecorosa” e fotografa il quotidiano: scorte di lenzuola esaurite, ai nuovi arrivati si distribuiscono le poche di carta rimaste. In parallelo emergono carenze strutturali e igienico-sanitarie: fili elettrici a vista negli uffici, infiltrazioni d’acqua da anni in alcune camere dell’infermeria al primo piano, mensa delle sezioni femminili ancora chiusa dopo oltre dodici mesi, ascensori guasti con ricadute sulla gestione dei malori. Un quadro che, nelle parole dei delegati Antonino Soletta e Salvatore Bianco, “basta una scintilla per far saltare il sistema”, perché la sicurezza regge solo sul contenimento del personale di Polizia penitenziaria. La Fns Cisl conferma la notizia della mancata fornitura del cambio biancheria e mette un punto: l’Istituzione ha l’obbligo di garantire il servizio, senza scuse. In un carcere sovraffollato, segnato da povertà diffusa e nervi tesi, togliere la minima igiene significa alimentare conflitti. E non può essere il Corpo di polizia penitenziaria l’unico tampone. La nota della federazione indica la strada: ammettere le responsabilità, “fare mea culpa” e ripristinare subito le condizioni minime di dignità. Il tema non è solo igienico. Riguarda la platea più fragile: chi non ha nessuno fuori che possa inviare biancheria o beni essenziali. L’Osservatorio Carcere delle Camere penali lo scrive in chiaro nella lettera inviata al Provveditore regionale, alla direttrice del carcere Rosalba Casella, agli assessori regionali alla Sanità e al Welfare, al Presidente del Tribunale di sorveglianza e ai Garanti regionale e comunale: se la denuncia sarà confermata, siamo di fronte a una lesione gravissima dei diritti fondamentali, in rotta con l’articolo 27 della Costituzione che impone umanità della pena. A farne le spese, soprattutto, sono i detenuti senza risorse economiche, molti dei quali stranieri privi di reti familiari. Sullo sfondo c’è l’ennesimo nodo irrisolto: la crescita della popolazione detenuta. I sindacati avvertono che “nulla si sta programmando” per l’aumento di ingressi. Le Camere penali aggiungono un elemento: quando la sezione oggi destinata ai giovani adulti verrà riportata alla funzione originaria, si rischia un incremento di circa cento posti, con un totale vicino al migliaio in una struttura che regge meno della metà. Una pressione che travolge ogni argine: dal cambio biancheria alla sanità interna, dagli spazi comuni alla sicurezza. L’elenco delle carenze tecniche non è un dettaglio. Fili elettrici volanti e infiltrazioni d’acqua sono fattori di rischio. Ascensori fuori uso significano ritardi nei soccorsi. La mensa femminile ferma da oltre un anno è una negazione di normalità. Mentre mancano cuscini e materassi, si chiede al personale di “metterci una pezza”, a volte persino immaginando raccolte volontarie per acquistare ciò che spetta all’Amministrazione garantire. È il segno di un arretramento dello Stato proprio dove la legalità dovrebbe avere spalle larghe. Le richieste sono precise. Fns Cisl chiede un intervento immediato e responsabilità piena dell’Istituzione. Fp Cgil pretende programmazione, forniture regolari, ripristino degli impianti e dei servizi fermi. L’Osservatorio Carcere invoca un’azione urgente del Provveditorato e della direzione, con il coinvolgimento della Regione e dei Garanti, perché la catena delle omissioni si interrompa. L’alternativa è scritta nelle cronache di questi anni: picchi di autolesionismo, proteste improvvise, incidenti evitabili. C’è un punto politico che attraversa i tre comunicati: l’assenza di governance. L’Amministrazione penitenziaria conosce da tempo numeri e criticità, eppure la gestione resta emergenziale. Si naviga a vista tra forniture saltate e lavori mai chiusi. Nel frattempo, il personale si consuma a reggere un equilibrio precario, e i detenuti vivono un surplus di sofferenza che non ha nulla a che fare con la funzione rieducativa della pena. Bologna. Carcere sovraffollato, i penalisti: “potrebbe avvicinarsi ai mille detenuti” di Andreina Baccaro Corriere di Bologna, 5 settembre 2025 Il Garante Ianniello: “La sezione donne è satura, si è dovuto utilizzare gli spazi del nido”. Il carcere della Dozza sta scoppiando e i penalisti bolognesi, riuniti nella Camera penale Franco Bricola, lanciano l’allarme: “Quando la sezione destinata temporaneamente ai detenuti giovani adulti verrà chiusa, come da rassicurazioni fornite dal Governo, nel carcere di Bologna potrebbero entrare altre 100 persone e così i ristretti arriverebbero quasi a quota 1.000 a fronte di una capienza regolamentare che si aggira sui 500 posti”. Gli avvocati lo segnalano in una lettera inviata al Provveditorato regionale, alla direzione della Dozza, alla Giunta regionale, al Tribunale di sorveglianza e ai garanti dei detenuti, in cui affermano che questo scenario va “scongiurato con ogni mezzo possibile”. A questo si aggiunge che nella sezione femminile, fa sapere il garante dei detenuti del Comune di Bologna Antonio Ianniello, sono esauriti i posti e nei giorni scorsi due detenute sono state collocate negli spazi della sezione nido, normalmente destinata alle madri con bambini fino a tre anni. “Risultano presenti - scrive il garante - 96 donne, di cui 11 in regime semilibero. Il picco numerico ha reso necessario utilizzare gli spazi del nido per evitare situazioni in cui una cella si trovasse ad avere tre donne al suo interno”. Attualmente la Dozza ospita complessivamente 801 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 457 persone. Un tasso di sovraffollamento senza precedenti. “Quando si arriverà a dover collocare tre persone nella medesima cella - prosegue il garante - avremo la piena configurazione di una flagrante violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea che sancisce il divieto di pene e trattamenti disumani o degradanti”. Una situazione che costituisce anche un’emergenza sanitaria, visto che nei giorni scorsi la Fp-Cgil ha denunciato la mancanza di lenzuola pulite. “Abbiamo letto con preoccupazione la denuncia della Fp-Cgil - scrivono ancora i penalisti nella loro lettera - da cui emerge che all’interno della casa circondariale mancherebbero beni essenziali per i detenuti ed in particolare le lenzuola, che addirittura non verrebbero cambiate dopo due mesi di utilizzo. Se questa denuncia fosse confermata saremmo di fronte ad un fatto di estrema gravità, che determinerebbe una tanto clamorosa quanto grave lesione dei più basilari diritti delle persone detenute, se non della loro stessa dignità di essere umani”. I problemi riscontrati con la fornitura di lenzuola pulite sarebbero dovuti al fallimento della ditta esterna che si occupava della pulizia e sanificazione. Ma “la situazione appare ancor più grave - denunciano ancora i penalisti - laddove si consideri che la problematica riguarda specialmente i detenuti meno abbienti, che non hanno collegamenti con l’esterno su cui poter contare per la fornitura di tali beni di prima necessità”. Pensando che tutto ciò “si aggiunge alla già indecorosa condizione detentiva che le persone ristrette sono costrette quotidianamente a subire in ragione dell’ormai insopportabile sovraffollamento nel carcere della nostra città, con le tante altre criticità strutturali e di personale -aggiunge la Camera penale - allora appare sempre più chiara ed evidente la mortificazione definitiva del principio di umanità della pena previsto quale primario presidio di civiltà della nostra democrazia dall’articolo 27 della Costituzione”. In questa situazione “diventa pressante, e allarmante, la preoccupazione per quello che potrebbe accadere quando, si auspica ormai a breve, la sezione inopinatamente destinata ai giovani adulti verrà restituita alla sua originaria destinazione, con un incremento di circa 100 nuovi ingressi, portando il numero complessivo a quasi 1.000 detenuti”. Solo nel 2013 la Dozza era arrivata ad ospitare un numero talmente alto di persone, ma le condizioni strutturali odierne sono molto peggiorate rispetto ad allora. “Non ci può essere più alcun dubbio - concludono i penalisti - sul fatto che le nostre carceri rappresentano oggi la più grave emergenza umanitaria del nostro Paese”. Genova. La denuncia dei detenuti di Marassi: “Situazione sanitaria disumana” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 settembre 2025 Da giorni il carcere di Genova Marassi è teatro di una protesta collettiva. Non si tratta di rivolte o evasioni, ma del suono metallico delle battiture sui blindi, che da giorni scandisce un’unica, drammatica richiesta: dignità e cure. A lanciare l’allarme sono l’associazione “Quei Bravi Ragazzi Family Onlus” e l’avvocato Guendalina Chiesi, che denunciano una situazione sanitaria “profondamente disumana”. La protesta, partita dalla sezione di alta sicurezza, è un atto di denuncia anche contro il degrado dell’area sanitaria interna. La presidente dell’associazione Quei Bravi Ragazzi Family Onlus, Nadia Di Rocco, parla senza giri di parole: “Il degrado è noto da tempo, ma nessuno ha mai agito. Dopo il drammatico caso di Carmine Tolomelli, morto a Marassi tra omissioni e ritardi sanitari, non possiamo più tacere. Se non si interviene, il rischio è di assistere a nuove tragedie annunciate”. A confermare le denunce è l’avvocata Guendalina Chiesi, del Foro di Roma, che ieri - assieme alla presidente dell’associazione - ha avuto accesso al penitenziario. Racconta di aver ricevuto una lettera collettiva sottoscritta da cinquanta detenuti della quinta sezione, quella riservata ai malati. Nella missiva viene descritto un quadro definito “drammatico e profondamente disumano”. Gli stessi detenuti denunciano pratiche che, se confermate, rendono il quadro ancora più inquietante: farmaci distribuiti senza blister e senza alcuna tracciabilità, visite specialistiche saltate o svolte senza cartelle cliniche a disposizione, locali in condizioni igieniche “inaccettabili”. Tra i casi segnalati spicca quello di Giovanni Giamborino, affetto da una grave patologia renale e in procinto di iniziare una terapia immunosoppressiva con Rituximab. Una cura che comporta un elevato rischio di infezioni: “In queste condizioni - spiega l’avvocata che l’assiste - teme seriamente per la propria vita”. Chiesi annuncia una denuncia immediata, corredata dalla lettera dei detenuti, e la richiesta di un’ispezione urgente. E avverte: “Non vogliamo che si ripetano morti sospette come quella di Tolomelli, deceduto all’ospedale San Martino dopo gravi omissioni riconducibili proprio all’area sanitaria di Marassi”. La denuncia, con la lettera dei detenuti allegata, sarà presentata immediatamente, con la richiesta di un’ispezione urgente. L’obiettivo è chiaro: evitare che a Marassi si consumino nuove “morti sospette” come quella di Tolomelli. Nuoro. L’associazione Luca Coscioni: “Badu e Carros cade a pezzi” di Simonetta Selloni La Nuova Sardegna, 5 settembre 2025 Non solo i gravi problemi strutturali di cui soffre il carcere di Badu e Carros, un penitenziario di massima sicurezza e vecchia concezione che, con il passare del tempo, mostra tutte le sue criticità. Problemi segnalati da alcuni detenuti - sono 215 di cui 7 al 41 bis - all’associazione Luca Coscioni già da un mese; ora si sono aggiunte ulteriori denunce riguardo la spedizione della corrispondenza. “Le operazioni di spedizione della corrispondenza condotte secondo una prassi che appare non del tutto trasparente - riferisce Gianandrea Bufi per conto dell’associazione Coscioni. Uno dei firmatari scrive che “tutte le lettere indirizzate alla vostra associazione (Luca Coscioni ndr), vengono bloccate per impedirci di comunicare con voi, un abuso”“, in pratica una sorta di censura. C’è poi il fatto che a Badu e Carros i colloqui con i familiari avvengono sempre con il controllo a vista: non si è dato ancora corso alla sentenza della Corte costituzionale, risalente ormai a un anno fa, che garantisce ai detenuti il diritto all’affettività, che non necessariamente implica una declinazione sessuale, ma neppure la esclude. Ma questa sentenza di civiltà, che allinea l’ordinamento penitenziario italiano a gran parte degli ordinamenti europei, è impedita dalla mancanza di luoghi adeguati, un problema che non riguarda soltanto Badu e Carros ma in generale tutti i dieci istituti penitenziari isolani. Lo conferma sia la Garante dei diritti dei detenuti, avvocata Giovanna Serra: “La sentenza è di un anno fa, ancora non sono stati individuati gli spazi idonei”, ma anche il provveditore penitenziario regionale, Domenico Arena. “È vero, ci siamo posti il problema dell’individuazione di spazi adeguati, e non solo per Badu e Carros. Tra le soluzioni, abbiamo pensato a dei piccoli prefabbricati che potrebbero consentire al detenuto di esercitare quel diritto all’affettività, non solo sessuale, ma anche con i figli e i familiari. La spesa per realizzare questi prefabbricati non è stratosferica, stiamo parlando di circa mezzo milione di euro. Abbiamo anche già chiesto al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che però non ha fondi”. Da allora è stata avviata una interlocuzione con la presidente della Regione, Alessandra Todde “la Regione ha mostrato sensibilità e ha manifestato l’intenzione di aiutarci”. È uno dei problemi, appunto, sul piano strutturale che riguarda soprattutto i vecchi istituti, quale appunto Badu e Carros. “Il commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria, Marco Doglio, ci ha fatto sapere che per il 2026 c’è in programma un intervento su una serie di strutture. Aspettiamo”. “I problemi strutturali sono noti, e li abbiamo puntualmente segnalati - dice l’avvocata Serra. A Badu e Carros dovrebbero esserci tre cucine, una per l’Alta sicurezza, una per i detenuti comuni, una per il 41bis: ce n’è una sola. Un altro problema ha riguardato l’acqua: dai rubinetti sgorgava scura e maleodorante. Il monitoraggio è costante, con la direzione dell’Istituto e con il Provveditorato regionale”. Da marzo a giugno erano stati rilevati parametri fuori norma di manganese, ai detenuti veniva data l’acqua minerale. Ora è tutto tornato alla norma (le ultime analisi sono di ieri), ma il problema sono le tubazioni. Vecchie, come il carcere, sempre più inglobato nella città e con una pressoché nulla possibilità di trovare nuovi spazi che diano risposte alle esigenze che si manifestano. E tra le criticità, c’è sicuramente l’assistenza sanitaria. Ancora Giovanna Serra: “Non c’è il Serd. E molti detenuti hanno bisogno di assistenza. C’è lo psicologo, l’assistente sociale, ma non il medico. E manca il dentista, ancora non si è provveduto. Una situazione molto, molto grave”. Il carcere è un microcosmo che riflette in dodicesimi ciò che accade fuori: la carenza di medici è un comune denominatore. “Sì, ma i detenuti, diversamente dalle persone libere, non hanno alternative - dice Arena -. Anche su questo abbiamo coinvolto la Regione”. Sulla denuncia dell’associazione Luca Coscioni relativa alla corrispondenza, arrivano le puntualizzazioni del provveditore regionale. “Non c’è alcuna censura, a meno di un provvedimento dell’autorità giudiziaria o delle restrizioni imposte dal regime del 41bis - chiarisce. La corrispondenza viene recapitata in giornata. Se viene consegnata dopo le 13, può slittare di 24 ore, ma sono tempi fisiologici”. Rimini. Carcere sovraffollato. Detenuti oltre il limite: “Spazi riorganizzati e chiesti più agenti” di Francesco Zuppiroli Il Resto del Carlino, 5 settembre 2025 Alla casa circondariale sono recluse 176 persone a fronte di una capienza tollerabile di 165. La direttrice Palma Mercurio: “Scenario aggravato da un’estate tra le più complesse degli ultimi anni”. C’è un numero per ogni carcere. Un numero che indica la capienza tollerabile della casa circondariale in relazione ai limiti di spazio a disposizione per detenuto, scolpiti nei loro parametri dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo. Un numero che per la casa circondariale di via Santa Cristina a Rimini è fissato a 165, a fronte di una capienza ordinaria, invece, di 118 detenuti. Numeri di una vita dietro le sbarre che però, dopo un’estate “molto movimentata” ora scorre per ben 176 persone ristrette nel carcere di Rimini. Un numero che straccia i paletti fissati e quindi “ben al di sopra della capienza tollerabile”. Il grido di allarme, che risuona per le celle e i corridoi del carcere ai Casetti, è quello che viene raccolto anche dalla direttrice stessa dell’istituto, Palma Mercurio, che pur senza nascondere la polvere sotto al tappeto rammenta: “La nostra fortuna è quella di poter contare su celle molto grandi, a cui è stato possibile aggiungere anche alcune brandine e che, al momento, ci consentono comunque di rientrare nei limiti fissati dalla Corte europea”. In caso contrario, d’altronde, “sarebbe arrivato un alert”. E invece, “ci ritroviamo in alcuni casi ad accogliere anche alcuni detenuti sfollati da altri istituti penitenziari più grandi, come Bologna, dove la situazione sovraffollamento è persino peggiore”. A Rimini insomma, “non mettiamo letti in più dove non c’è margine per lo spazio minimo - continua la direttrice Mercurio -, ma facciamo comunque i conti con alcune situazioni di criticità”. A cominciare da “due detenuti gravemente anti-sociali, per i quali non possiamo contare sulla condivisione della cella e ciò si ripercuote a cascata sulla gestione di tutti gli altri spazi rimanenti”. Non solo. “Poiché per questi detenuti abbiamo già chiesto visite psichiatriche urgenti e trasferimento in strutture adeguate, ma l’iter ancora non ci consente di portarli in un luogo diverso. In generale il carcere da tempo richiede una maggiore e più tempestiva assistenza psichiatrica, anche perché stanno aumentando i detenuti per aggravamenti di misura legati al reato di maltrattamenti in famiglia e dei quali viene poi riconosciuta la pericolosità sociale”. Una situazione in costante mutamento quella vissuta dietro alle sbarre del carcere di Rimini, a maggior ragione al termine di una stagione “che è stata tra le più movimentate da quando dirigo io il carcere - ammette Paola Mercurio -. Per questo è doveroso sottolineare che nonostante il piano ferie, il personale non si è mai tirato indietro nel fare turni anche da 8 ore a fronte delle 6 previste da contratto. Senza fare pesare il fatto che ci troviamo in sottorganico di almeno trenta unità di polizia penitenziaria”. Proprio un’integrazione del personale è quella che è emersa come priorità della lista delle cose da fare stilata durante la visita del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. “Il sottosegretario ci ha promesso a fine ottobre i rinforzi necessari, a fronte di una nostra richiesta di almeno venti nuovi agenti”. Per alleggerire una pressione che si fa sempre più forte sulla casa circondariale, poi, “abbiamo un flusso di misure alternative concesse dal magistrato di sorveglianza per i detenuti con condanna definitiva che ne possono giovare e che sono una quindicina di media qui da noi - aggiunge la direttrice dell’istituto -. Un percorso di integrazione che funziona grazie alla collaborazione con aziende e catene del territorio, a cui purtroppo però non si aggiungono le strutture alberghiere. Con Federalberghi che, dispiace dirlo, non ha mai preso nessuno dei nostri detenuti in reinserimento a lavorare nelle proprie strutture ricettive”. Dentro alle mura dei Casetti però, la direzione si prepara a un miglioramento della situazione “atteso per ottobre”. Periodo in cui, all’incirca, potrebbero anche iniziare i lavori alla prima sezione “dopo che l’amministrazione centrale di Roma ha bandito in questi giorni l’appalto per la riqualificazione dell’ala del carcere - conclude Mercurio -. Finalmente, anche qui verranno inserite le docce nelle celle e angoli cottura dignitosi. Questo per forza di cose però diminuirà la capienza chiudendo di fatto la sezione per il tempo necessario a compiere i lavori da oltre un milione di euro stanziato”. Benevento. Parlare di errori giudiziari, diritto e carceri, coinvolgendo il territorio di Enzo Spiezia ottopagine.it, 5 settembre 2025 Presentata la seconda edizione della Law Summer School che si terrà a Telese dall’11 al 13 settembre. Affrontare questioni di scottante attualità - errori giudiziari, la situazione delle carceri e la separazione delle carriere dei magistrati, quest’ultima oggetto di un prossimo referendum -senza confinare la discussione alla sola finalità didattica, formando gli studenti del Corso di laurea in Giurisprudenza dell’Unisannio, ma estendendola al territorio. È la mission della seconda edizione della Law Summer School che si terrà a Telese Terme dall’11 al 13 settembre. L’organizzazione è frutto di una partnership tra l’Università ed il Comune telesino, di uno “sforzo importante - ha sottolineato il presidente del Corso di Giurisprudenza Vincenzo Verdicchio - anche dal punto di vista economico, destinata soprattutto, ma non solo, ai nostri giovani”. Giovanni Caporaso, sindaco di Telese Terme, lo ha definito “un evento importantissimo al quale quest’anno abbiamo riservato una location più adeguata nelle terme, in una struttura, il Caffè letterario, recentemente ‘rinnovata’, che ora ospita una mostra dedicata al passaggio di una divisione americana durante la seconda guerra mondiale”. Caporaso ha ringraziato l’assessore-avvocato Filomena Di Mezza per l’impegno profuso. “E’ una iniziativa nata da una sfida, da una chiacchierata tra amici - ha commentato Di Mezza -, è il mio contributo alla comunità, allo spirito di servzio che anima il mio lavoro”. L’avvocato penalista Vincenzo Regardi ha sottolineato che si tratta di una manifestazione “che non ha eguali in Campania, forse c’è qualcosa a livello nazionale, ma con una dote finanziaria più consistente”. L’ex presidente della Camera penale ha rimarcato lo sforzo dell’Università di “aprirsi all’esterno, proiettando gli studenti nella realtà con argomenti delicatissimi”. Sui quali - ha concluso - si confronteranno “interlocutori di rilievo nazionale assoluto”. Numerose le presenze, tra docenti universitari, magistrati, avvocati, esponenti politici, di governo e della società civile. Rimini. La musica nelle carceri: i Miami & The Groovers in concerto ai “Casetti” chiamamicitta.it, 5 settembre 2025 Il concerto non sarà aperto al pubblico esterno, ma rivolto esclusivamente alle persone detenute. Lunedì 8 settembre, alle ore 17, la Casa circondariale di Rimini aprirà le sue porte a un’iniziativa di grande valore simbolico e sociale: il concerto “La musica che unisce”, promosso dall’associazione Nessuno è cattivo per sempre e organizzato in collaborazione con Cgil, Cisl, Uil Rimini. L’evento, rivolto esclusivamente alla popolazione detenuta, rappresenta un’occasione di incontro e di condivisione che mette al centro la cultura e la musica come strumenti fondamentali di inclusione, riabilitazione e reinserimento. Protagonisti dell’evento saranno Lorenzo Semprini e i Miami & The Groovers, band riminese che da oltre vent’anni porta sui palchi italiani ed europei un rock capace di intrecciare energia, memoria e speranza. Il gruppo proporrà alle persone detenute un repertorio che unisce brani originali a interpretazioni di grandi classici di artisti come Bruce Springsteen, Johnny Cash, Elvis Presley, Rolling Stones, Clash e molti altri. Un viaggio musicale che attraverserà le radici del rock e del folk americano, raccontando storie di vita, di riscatto e di libertà, che parlano al cuore di chi ascolta e diventano occasione di riflessione e di apertura. L’iniziativa nasce dalla convinzione che la cultura, nelle sue diverse forme, abbia un ruolo essenziale nei percorsi di rieducazione previsti dalla Costituzione e possa costituire un potente strumento per abbattere barriere, creare relazioni e restituire dignità. La musica, in particolare, ha la capacità di unire, di far emergere emozioni, di aprire spazi di confronto e di speranza anche nei contesti più difficili. Portare un concerto all’interno di un carcere significa affermare il diritto universale alla bellezza e all’arte, riaffermando che nessuno è cattivo per sempre e che a ciascuno spetta la possibilità di una seconda chance. Cgil, Cisl, Uil di Rimini - che ringraziano la Direzione della Casa Circondariale di Rimini, in primis la Direttrice Dott.ssa Palma Mercurio, unitamente al Dirigente aggiunto Comandante Polizia penitenziaria della Casa circondariale di Rimini Dott.ssa Aurelia Panzeca e al personale di Polizia - hanno scelto di sostenere questa iniziativa proprio per sottolineare il valore della cultura e della socialità all’interno del percorso di reinserimento delle persone detenute. La collaborazione tra organizzazioni sindacali e associazioni del territorio vuole essere un segnale concreto di vicinanza e di impegno verso una comunità che non lascia indietro nessuno. Il concerto non sarà aperto al pubblico esterno, ma rivolto esclusivamente alle persone detenute, per le quali rappresenterà un momento di respiro, di partecipazione collettiva e di apertura al mondo. Sulla soglia del delitto, “dentro” e “fuori” la nostra parte oscura di Cristina Piccino Il Manifesto, 5 settembre 2025 Il film “Elisa”, di Leonardo Di Costanzo, è un dramma sulla colpa e sulla possibilità di una redenzione. I titoli di coda ci dicono che “Elisa”, il nuovo film di Leonardo Di Costanzo presentato in concorso a Venezia - da oggi in sala - è “liberamente” ispirato a “Io volevo ucciderla” (Raffaello Cortina Editore), il libro dei criminologi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali, un’indagine sulla violenza che prova a rispondere sostanzialmente a una domanda: che senso ha cercare le ragioni di un gesto violento al di là di quanto esso afferma? A partire da qui Di Costanzo - che ha scritto la sceneggiatura insieme a Valia Santella e Bruno Oliviero - costruisce una nuova esplorazione in quella soglia (filmica) fra la parola e la sua messinscena affidata come nei precedenti film - L’intrusa; Ariaferma anche se per la prima volta non siamo in una realtà campana - al campo/controcampo fra due personaggi. Da una parte c’è Elisa, ha ucciso la sorella dimenticando il suo crimine, dall’altra c’è il professore Alaoui, un criminologo che cerca di ricomporre l’amnesia della rimozione - vera o presunta - di chi ha commesso un reato in un’assunzione di responsabilità. Che significa riconoscere di avere ucciso e insieme alla rabbia, a quella violenza che hanno condotto fin lì anche le sue ragioni, ciò che è parte di un movimento più complesso. Dal piano strettamente giudiziario dunque ci si sposta a una dimensione etica che in quell’azione interroga i sistemi collettivi siano essi la famiglia o una certa struttura sociale senza per questo negare la volontà del gesto. Siamo in Svizzera, nel carcere modello dove la donna è rinchiusa è come se avesse finalmente trovato un rifugio dal mondo, o alla propria inadeguatezza dell’abitarlo. La vita è ordinata nella ripetizione, quasi un rito quotidiano: la visita del padre due volte alla settimana, il lavoro, il coro, il cibo, il sonno, le passeggiate. Non ci sono manette o celle sovraffollate ma piccoli chalet a due in mezzo a un bosco bianco di neve, a suggerire lo stato di detenzione sono le telecamere di sorveglianza, la rete che interrompe le passeggiate deviandone il tragitto, le guardie pure loro discrete - anzi con una c’è persino un tocco romance nello stupore che prova di fronte a quella donna come gli appare e invece quanto dicono i giornali di lei. Gli incontri con il professore però destabilizzano Elisa come le sue domande e la sua voce pacata, che le lascia piena di libertà di risposta, e la conducono a guardare di nuovo tra i frammenti di sé stessa, in particolare nel rapporto famigliare dove sembra nascondersi il grumo che ha inghiottito la sua vita. Bambina come dirà non voluta dalla madre che aveva già altri due figli e 45 anni quando lei è nata - come aveva sentito dirle una volta alle amiche. Amatissima invece dal padre, lontana da quella sorella che era andata via presto dalla famiglia, un’indipendenza che non le aveva tolto l’amore materno né l’aveva privata almeno in superficie della stima famigliare. Mentre lei rimasta lì si sentiva rifiutata. Era anche per questo che la odiava? O forse perché desiderava essere riconosciuta dal padre, dal fratello, senza capire che l’avevano caricata di pesi assurdi - l’azienda di famiglia per sottrarsene a loro volta. Gelosie, tradimenti, fantasmi. E poi; il teatro famigliare è ciò che appare o quanto si impara subito a rappresentarci nella nostra testa? L’ansia del fallimento quasi come un brutto vuoto a scuola. Una vita che non riconosceva, che non è stata la sua scelta, che non le apparteneva. Quella piccola città e l’indifferenza materna. L’essere vista come una bugiarda: ho imparato presto a non essere creduta. Può bastare a uccidere, a desiderare di farlo fino a renderlo reale? Di Costanzo compone la sua narrazione sulla soglia fra il “fuori” - che non vedremo quasi mai se non in un paesaggio distante, dall’alto del drone, il “dentro” che appartiene solo a Elisa, è il suo quotidiano scandito nella ripetizione. E lo spazio comune fra i due personaggi, la stanza bella, accogliente, dove avvengono le loro conversazioni. E questa nuova scommessa di regia inizia proprio dagli attori protagonisti, Barbara Ronchi e Roschdy Zem, nel loro corpo a corpo raffreddato come la neve che ghiaccia il luogo, i cui sussulti, tensioni, dolori, emozioni vivono nel gesto trattenuto, in una recitazione che è quasi un thriller emozionale senza mai toni di esibizione retorica - insieme a loro Diego Ribon e Valeria Golino. Cosa è allora Elisa? Un racconto morale che ci interroga nelle nostre convinzioni, fra un prologo e un epilogo - prima del finale forse quest’ultimo meno necessario - su una trasformazione dell’esperienza, anche la più atroce, che è il passaggio necessario per poter andare avanti, non nella “punizione” o nella rimozione ma come lavoro in profondità, pure se faticoso e pieno di spavento. Vale per la dimensione privata e per quella collettiva. E si misura, come le questioni che pone con le sue immagini. Di Costanzo accetta la scommessa che dichiara il prologo del professore: perché dare voce a chi ha commesso un delitto? In una forma essenziale il suo sguardo cerca il dettaglio, va avanti e indietro nel tempo, lavora sugli equilibri e le rotture invisibili, libera epifanie e improvvisi passi indietro - “perché ha scelto di fare questo” chiede la donna al professore - per svelare ciò che è nella sua protagonista senza timore di verità, affidandosi al cinema e alla sua costante invenzione. Oltre lo stigma e il pregiudizio: una lezione ai proibizionisti di Andrea Pugiotto L’Unità, 5 settembre 2025 Leggere un libro e rimpiangerne l’Autrice: è ciò che si prova giunti all’ultima pagina di “Stigma e pregiudizio. Uno sguardo dissacrante sulle droghe” (Edizioni Menabò, 2025), distillato del pensiero e delle pratiche che Grazia Zuffa ha dedicato in vita alle politiche sulle tossicodipendenze. Rimpianto per una persona cara, scomparsa il 9 febbraio scorso. Ma anche per un modo di fare politica che giganteggia a confronto con il nanismo attuale: dove una misura di riduzione del danno - la distribuzione di pipe sterili ai consumatori di crack - è denunciata come istigazione e favoreggiamento. Zuffa smantella i due modelli dominanti: quello morale, che vede l’uso di sostanze come un comportamento deviante, e quello patologico, che lo considera una malattia da curare. Due facce della stessa fallimentare medaglia. L’unica strada possibile è la riduzione del danno, che restituisce soggettività al consumatore. Ma il governo guarda altrove. 1. Leggere un libro e rimpiangerne l’Autrice: è ciò che si prova giunti all’ultima pagina di Stigma e pregiudizio. Uno sguardo dissacrante sulle droghe (Edizioni Menabò, 2025), distillato del pensiero e delle pratiche che Grazia Zuffa ha dedicato in vita alle politiche sulle tossicodipendenze da “dirigente, militante, studiosa” (come ricorda Franco Corleone, nella sua affettuosa postfazione). Rimpianto per una persona cara, scomparsa il 9 febbraio scorso. Ma anche per un modo di fare politica che giganteggia a confronto con il nanismo attuale: dove una misura di riduzione del danno - la distribuzione di pipe sterili ai consumatori di crack - è denunciata come istigazione e favoreggiamento perché “la droga è morte e fa schifo. Va fermata, non incentivata” (Salvini dixit). Il che equivale a trattare gli operatori sanitari come spacciatori, denunciati perché svolgono il loro compito mediante un servizio che la legge, dal 2017, inserisce tra i livelli essenziali di assistenza. 2. Inizia trentacinque anni fa l’interesse della senatrice Zuffa per il tema: sono gli anni della svolta proibizionista del governo Craxi che, con l’approvazione del testo unico n. 309 del 1990, allinea la legislazione italiana sulla droga a quella dell’America reaganiana. Da allora, Zuffa non ha mai smesso di elaborare, sperimentare e proporre politiche alternative, fondate su dati ed evidenze scientifiche frutto di ricerche internazionali che veicola nell’autarchico e asfittico dibattito nostrano. Il suo lavoro politico è orientato al consumatore di droga, potenziale utente dei servizi sociosanitari, riconosciuto capace di un uso controllato e non disfunzionale della sostanza che assume. L’esatto opposto della sua vittimizzazione postulata dagli approcci imperanti nella war on drugs: il modello moralistico-penale e quello medico-patologico. Partiamo da qui per meglio mettere a fuoco, di Grazia Zuffa, il “pensiero eccentrico” (così, nella prefazione al libro, Susanna Ronconi e Stefano Vecchio). 3. “Secondo il modello morale, l’uso della droga è visto come un comportamento deviante, meritevole di punizione”. Ogni condotta connessa a sostanze stupefacenti giustifica il ricorso alla leva penale. In quanto tossicodipendente, il consumatore merita lo stigma sociale, così come la riprovazione verso tutte le droghe fonda l’avversione a qualsiasi politica di riduzione del danno, responsabile di banalizzarne il consumo. Dunque, “in questa prospettiva, la droga è un problema di criminalità”. Diversamente, per il modello medico-patologico, “l’uso di droga è visto come preliminare alla tossicodipendenza, una malattia che necessita di cure”. Il ricorso a sostanze stupefacenti è un progressivo avanzamento verso l’irreversibilità della dipendenza. Consumare droghe è quindi una patologia da cui si guarisce solo con l’astinenza, elevata a traguardo del trattamento medico, se del caso da imporre alla volontà dell’utente. Dunque, in questa prospettiva “la droga è un problema di salute”. Apparentemente divergenti, nella realtà - ci avvisa Zuffa - “i due modelli sono meno “alternativi” di quanto possa sembrare” e il perché è persuasivamente dimostrato. La rappresentazione patologica del consumo e del consumatore di droghe converge con l’approccio moralistico negativo nei loro confronti, consacrandolo con l’autorità della medicina: lo stigma verso il drogato non scompare, “semplicemente cambia di segno”. Entrambi i modelli si concentrano sulle proprietà chimiche dannose e additive delle sostanze assunte, relegando il consumatore a soggetto passivo, senza risorse personali, in balia del vizio o della malattia. Da qui il comune approccio dicotomico: come tutti i vizi e tutte le malattie, la tossicodipendenza “è vista come presente o assente. Da qui l’opposizione o astinente o dipendente”. Infatti, per entrambi i modelli, l’astinenza è la terapia d’elezione e comune è l’obiettivo ultimo: “l’eliminazione delle droghe invece della regolazione del loro consumo”. Alla fine - è la chiosa affilata di Zuffa - “l’eccessiva enfasi sul “danno della dipendenza” coesiste con l’atteggiamento morale contro l’uso di droga, entrambi offrendo supporto al proibizionismo”. 3. La decostruzione che Zuffa fa dei due modelli dominanti - le classiche facce della stessa medaglia - ne abbatte tutti i capisaldi. Sul piano scientifico, la scoperta di processi di remissione spontanea nell’assunzione di droghe smentisce il paradigma circa l’irreversibilità della dipendenza, svelandone la natura circolare: poiché il tossico è dipendente, chi smette da sé non è un vero tossicodipendente. Più che una tesi scientifica - annota Zuffa - è una profezia che si autoavvera: “è come dire “Testa, vinco io; croce, perdi tu”“. Sul piano farmacologico, ciò è tanto più vero dovendosi distinguere tra sostanze psicotrope, graduandole in base ai loro danni alla salute. Scoprendo così che - in un’ipotetica scala di rischio - l’uso di cannabis, ad esempio, è meno pericoloso del consumo di alcol, tabacco o psicofarmaci. Sul piano sociale, tutte le indagini empiriche dimostrano che “l’assunzione di droghe è un’attività umana complessa” caratterizzata dalla “grande variabilità nel tempo dei modelli di consumo”. Il soggetto attraversa periodi in cui la sua capacità di governare l’uso della sostanza (self management) viene meno o si affievolisce, per poi essere riconquistata in presenza di varie circostanze ambientali (setting) e condizioni individuali (set). Da qui l’importanza delle variabili sociali e di contesto, con le loro regole d’uso, e della psicologia del consumatore, cui restituire soggettività: considerati fattori di rischio dagli approcci dominanti, sono invece “meccanismi di regolazione” su cui fare leva per un uso controllato della sostanza. Sul piano normativo, la chimera proibizionista di un totale sradicamento delle droghe ha comportato costi (sanitari e sociali, per il consumatore e per la collettività) rivelatisi più dannosi del fenomeno che intendeva debellare. Il fallimento della war on drugs - certificato a livello internazionale - lascia spazio, da tempo, a politiche più flessibili, orientate alla regolazione del consumo e alla riduzione del danno. 4. L’approccio suggerito da Zuffa, infatti, mira a “diminuire le conseguenze negative dell’uso di droghe, senza necessariamente ridurre il consumo di droghe”. Per riuscirci, investe sul soggetto che ne fa uso, sapendolo capace di controllarne il consumo, non diversamente da quanto ciascuno è in grado di fare - ad esempio - nel bere alcolici, nel fumare, nell’assumere psicofarmaci. Concretamente, ai servizi sociosanitari spetta sostenere questo processo di autoregolazione perché “consumatori controllati si diventa, attraverso un’opera di regolazione sociale”. Concordare con l’utente gli obiettivi del trattamento. Valorizzare l’astinenza temporanea come prova di capacità auto-regolativa dell’utente. Verso i consumatori cronici, prevenire e controllare le malattie infettive con interventi di prossimità a scongiurare il peggio. De-medicalizzare i modelli operativi a favore di interventi flessibili e individualizzati, più idonei ad agganciare il consumatore in vista di una sua presa in carico. 5. Per Zuffa, dunque, la riduzione del danno è -a un tempo - “paradigma di interpretazione” dei principi di sanità pubblica nel campo delle droghe e “modello alternativo” alle politiche proibizioniste. Il governo italiano, invece, guarda ideologicamente altrove. Fino a rendere illegale produzione e commercio di estratti derivanti dalla canapa tessile (art. 18, decreto-legge n. 48 del 2025), pur di proibire la cannabis light. Eppure, è un’illusione autoritaria - destinata a fallire - la pretesa di vietare l’esercizio di una facoltà umana praticata a livello di massa. Semmai, va governato (culturalmente e socialmente) e disciplinato con norme ragionevoli. Il grande pregio del libro di Grazia Zuffa è dimostrare che, oltre ai dogmi della “Chiesa della proibizione”, un’alternativa laica è possibile. Ai matti e ai morti, ai poveri e ai malati: il canto degli ultimi che nessuno ascolta di Filippo La Porta L’Unità, 5 settembre 2025 Al centro della rassegna l’opera poetica di Vittorio Pagano, il quale dedicò versi e attenzione ai lati oscuri della sua terra: dal manicomio al cimitero, un viaggio tra gli indesiderati di oggi. Come si conosce una città? In tanti modi, ovviamente, ma occorre anzitutto partire da quelli che ne sono esclusi, dai reietti e dagli sventurati, dagli ultimi e dai poveracci. In che modo è possibile farlo, dato che non hanno né voce né rappresentanza? Forse solo la letteratura è riuscita, in alcuni casi, a dargli voce. Questo almeno hanno dimostrato le “Vertigini urbane” a Lecce, quattro passeggiate letterarie e incontri teatrali per la città diretti da Renato Chiocca su un progetto di Franco Ungaro, e svoltisi alla fine di agosto. Il testo letterario che ha ispirato le “vertigini” sono prose brevi di Vittorio Pagano, immenso “poeta minore” (come dicono i manuali), appartato e sempre in litigio con la realtà, nato nel 1919 a Lecce, dove è morto nel 1979 (si veda Reportages in città e altre prose, Conte Editore, intro di Donato Valli e cura di Paola Greco). In ciascuno degli incontri si raccoglieva, intorno alle 18 - in un luogo cittadino prefissato dal programma - una cinquantina e più di persone per assistere alla performance (lettura di brani, messinscena minimale, gli edifici urbani stessi come quinta teatrale, a volte la musica). Si comincia con il cimitero monumentale di Lecce, dove siamo entrati cantando una nenia insieme a un’attrice. L’ingresso nel luogo dei morti è diventato così un rito collettivo, un momento simbolico - rigorosamente laico - di grande intensità. Qui gli attori hanno recitato il primo reportage di Pagano (risalgono tutti all’immediato dopoguerra e furono pubblicati su rivista). Dall’ingresso si giunge a un convento al centro del cimitero, allora usato per ospitare disabili e anziani. A loro si rivolge perentoriamente Pagano: “Sapere che avremo tutti - se Dio vuole - la vostra età, e che perciò non vale la pena di arrabbiarsi”. In quell’ambiente lui, che era fondamentalmente ateo - benché intriso di sensibilità religiosa - commosso dalla bontà delle suore che si occupano dei “vecchiettini” e dalla “chiarità dell’ambiente” si ritrova a “salutare l’Altissimo”. Scorge in un angolo un pianoforte, chiede a una suora di suonarlo, ma è impossibile: “la vera musica è nel cuore, nell’anima”. La performance tuttavia si concluderà con una ragazza della compagnia teatrale che suona al piano un valzer di Chopin, dietro una porta della chiesa che si apre. Poi ci siamo spostati davanti a uno scheletro di edificio, quasi un dinosauro architettonico del Giurassico, così rimasto da vent’anni: lì è stato raso al suolo un quartiere popolare degradato, detto “Stalingrado”, per far posto a un’edilizia popolare - razionale e funzionale - che però non è mai nata. Lì abbiamo appreso che Lecce, “Firenze del barocco”, città d’arte e del consumo ludico, oggi soffocata dal turismo, capitale del Salento (dunque per estensione brand internazionale delle orecchiette e della taranta), ripiena di abbaglianti edifici storici e religiosi (le chiese sono tutte a pagamento!), è anche una città “povera”, con il centro gentrificato e l’espulsione della popolazione verso una periferia carente di servizi. La prosa di Pagano sulla speculazione edilizia - letta nell’occasione -, rivela come uno squisito poeta ermetico, e finissimo traduttore di Villon, Rimbaud e Mallarmé, allora in visita alle case popolari, si apra “all’umana miseria” e ne sia profondamente turbato: “La mia città una notte s’è spaccata”. Poi l’appuntamento del giorno dopo era alla piazza del duomo, dove sono state lette poesie di Pagano, un poeta - lo abbiamo detto - di area ermetica e di formazione simbolista, non estraneo al surrealismo e tentato dal maledettismo, ma capace di introdurre nelle sue rime e nei suoi metri sapientemente elaborati (come i prospetti delle chiese barocche) la dimensione concreta della sofferenza, della miseria degli ultimi, e l’interrogazione morale stringente che ne deriva: “(…) quale fiore / ho piantato, quale fiore ho colto, / quale camino ho riscaldato, quale /finestra ho chiusa, quale schiavo ho tolto / dai ceppi”. Tutto il suo canzoniere (raccolto in Poesie, Musicaos Editore, con un denso saggio introduttivo di Simone Giorgino), che ci offre versi di accecante, funerea luce barocca, tra ossari, tombe, reliquiari, fichidindia, “miti del Sud”, astri e fiori (“ogni cosa appartiene / a un errore di nuvole”), si può leggere come un diario lirico, una poesia descrittiva e narrativa (“Se potessi narrare…”) in cui parla degli affetti intimi, della moglie, del figlio, della sua percezione del cosmo (in cui l’amore di san Francesco “spegne l’odio del primissimo nulla”). Un barocco dissonante, un ermetico singolarissimo: la poesia per Ungaretti doveva far fiorire la vita e l’umanità, per lui invece non è che “la misura / d’un poco d’ombra”. Ci mostra solo un po’ del lato nascosto di sé, il chiaroscuro lampeggiante e drammatico di Caravaggio. Infine ci siamo ritrovati nell’ex manicomio, dove un attore ha declamato in una atmosfera concentrata le pagine di un reportage di Pagano su quel luogo, risalente come gli altri al lontano 1947. È una catabasi urbana, una discesa negli inferi della sofferenza e desolazione psichica (in quel manicomio venne ricoverato una settimana alla fine degli anni 50 - per problemi con l’alcol - perfino Carmelo Bene, che vi recitò Otello e Amleto per gli internati, felicissimi di applaudirlo!). Le pagine di Pagano fanno pensare a Cechov, con quello psichiatra che non guarda mai negli occhi, resta a capo chino e ride su tutto, anche sulle cose serie e tragiche. E poi la distinzione fondamentale tra padiglione maschile e padiglione femminile: quella delle donne gli appare come una “pazzia completa, del corpo e dell’anima”, mentre quella degli uomini - più agitati - ha “un valore figurativo, che vi distrae da un contenuto profondo” (in qualche modo fanno sempre un po’ teatro). Ricorda in conclusione un caro amico, lì internato nel reparto a pagamento, e che vi morì: “la sua ombra, per me, è il cielo di tutto quello spazio chiuso”. Ora, perché per conoscere una città è necessario cominciare dai matti, dai defunti, dai poveri, dai malati, dai profughi? Perché, come sapeva non tanto e solo Marx quanto il principe Gautama Buddha, queste categorie umane hanno a che fare con la verità ultima della nostra condizione, e dunque con il modo in cui intendiamo rappresentarci, e organizzare la vita individuale e collettiva. Una città gentrificata è Kitsch (ricordate Kundera? Il Kitsch è “rimozione della merda”). Nelle nostre città attuali ci affanniamo a proteggerci, proteggiamo cioè il nostro egoismo e pur precario benessere contro quelle categorie, costruiamo enclave protette e innalziamo muri di pietra per separarcene, perché non vogliamo saperne, non vogliamo riconoscere quanto in realtà ci sono prossimi e fraterni. Per lottare “contro il nulla che avanza”, come si è enfaticamente espressa la nostra premier citando La storia infinita - davanti a un pubblico osannante di cattolici insolitamente acritico - proviamo anzitutto a sottrarre al nulla quella umanità che vi è precipitata dentro. Che poi significa dare visibilità anche alla propria parte più fragile e inferma. Dobbiamo smettere di sottovalutare il crollo della salute mentale nei più giovani di Luigi Gallo* e Francesca Scafuto** Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2025 Cosa fare a fronte di tale epidemia di malessere psicologico globale che sembra connesso al malessere del pianeta? In un tempo di incertezze, guerre, crisi climatica e sfaldamento del senso di comunità e alienazione dalla natura (Chalquist, 2009), non c’è da meravigliarsi che i primi a soffrirne siano i bambini e i giovani. L’adolescenza è un periodo unico della nostra vita, pieno di trasformazioni, con caratteristiche peculiari che rendono ragazzi e ragazze più a rischio. Negli ultimi anni, si assiste ad una riduzione vertiginosa degli indici di salute mentale: a livello globale, uno su sette adolescenti tra i 10 e i 19 anni soffre di un disturbo psicologico diagnosticato (Herbst, 2024). In Italia, alcuni studi dell’autrice hanno rivelato che la dipendenza da Internet e dai social, incrementata dopo la pandemia, ha poi aumentato - anziché ridurlo - l’isolamento, correlandolo alla bassa autostima, alla depressione e all’ansia (Ciacchini et al., 2023; Scafuto et al., 2023). È chiaro che l’intera responsabilità di tutto questo ricade su noi adulti, per il nostro esempio malsano di gestire il tempo, per la società che abbiamo contribuito a disegnare o alla quale ci siamo opposti senza troppa convinzione e impegno o senza una proporzionata azione collettiva. Quando parliamo dei giovani, spesso lo facciamo caricandoli di responsabilità (“leve del cambiamento” o “sono il nostro futuro”), non considerando che hanno pochi strumenti e occasioni reali per poter esprimere il loro potere, al di là dei mondi virtuali. Ci sono tuttavia delle scelte radicali che i ragazzi stanno già realizzando considerando che la seconda causa di morte tra i giovanissimi, dopo gli incidenti stradali, è proprio il suicidio. Le loro relazioni, come le nostre, sono sempre più parcellizzate, precarie, disattente, discontinue e frammentate. Sembra che non tocchiamo più nulla in profondità. I giovani, più di noi, non hanno modo e tempo per avere cura delle emozioni, per testarle, sbagliare e imparare nella vita reale, assorbiti sempre di più da regole, codici e linguaggi del digitale. La concentrazione, la consapevolezza, l’autoriflessione diventano le funzioni da attivare nell’epoca delle distrazioni costanti, in cui tutti sembriamo soffrire di Adhd, con famiglie sempre più impegnate: genitori che lavorano tutto il giorno e figli alle prese con mille corsi e attività. Quanto c’è bisogno di ritornare a guardarsi negli occhi, di un contatto corporeo autentico, una sensibilità al tono di voce, quanto è doveroso affrontare la potenza delle emozioni, anche quelle spiacevoli, per litigare in real time senza rifugio o procrastinazione digitale. Le città, la società e la scuola ci isolano dalla natura, rendendoci analfabeti biologici, mentre i genitori o l’adulto di riferimento ci vieta qualsiasi esperienza significativa nel reale: arrampicarsi, saltare sulle pietre del fiume, buttarsi in un lago, nuotare senza supervisione, andare in bici in strada. Così i ragazzi diventano prigionieri nella realtà e abbandonati e liberi nel mondo digitale. Non è un caso che la metà dei giovani tra i 18 e i 34 anni (48%) ha riferito di sentirsi stressata e di avere eco-ansia a causa del cambiamento climatico nella propria vita quotidiana (American Psychological Association, 2020): una minaccia alla salute globale e alla salute mentale. Cosa fare a fronte di tale epidemia di malessere psicologico globale che sembra connesso al malessere del pianeta? Non risponderemo a questa domanda in un solo articolo, ma possiamo dire che c’è una forte sottovalutazione del problema. Quando c’è un malessere fisico, una frattura ossea ad esempio, lo stato invalidante è evidente, così come il dolore e la necessità di intervenire. Quando invece la malattia o le ferite sono psichiche, ancora purtroppo tendiamo a sminuire e pensare che basti poco, una pacca sulla spalla, basta volerlo, per poter superare un disagio. Senza intervenire, la sofferenza psichica rischia di propagarsi in altre sfere della vita e delle relazioni. La spesa per la salute mentale in Italia rappresenta appena il 3% di un Fondo Sanitario sempre più debole a fronte del 15-20% speso da altri paesi europei. Dedicheremo, probabilmente, al riarmo il 5% del nostro Pil, mentre basterebbe dedicare all’assistenza psicologica lo 0,1% dello stesso Pil per sostenere il piano di cui si avrebbe necessità. A voi le conclusioni. *Politico, ex deputato M5S *Phd Health and Community Psychology, Psychotherapist of adolescents and young adults, Fellow researcher at University of Udine- DILL and Lecturer at University of Pisa Come descrivereste la vostra scuola con una metafora? di Claudia Arletti La Repubblica, 5 settembre 2025 Una ricerca sociologica lo ha chiesto ad alcuni studenti delle superiori. Il risultato? Parole forti come “gabbia” o “inferno”. E un sistema educativo bocciato. Con i suoi leader sempre all’attacco, gli ultimatum e i duelli, la politica italiana più che un’arte è una guerra, un mondo che si racconta come un conflitto senza tregue, puntellato da metafore marziali. Niente di strano, perché sul lavoro così come nella vita privata, pensiamo e ragioniamo dicendo una cosa per dirne con più forza un’altra, e l’esito è quasi sempre potente e rivelatore. Così, se provaste a entrare in un’aula piena di adolescenti, invitandoli a descrivere la scuola con un’immagine, be’, le battaglie magari non entrerebbero nelle risposte, ma ne sentireste comunque delle belle. O delle brutte. Brutte e sconcertanti. Una nuova ricerca ci dice che la nostra scuola superiore è pensata come un carcere. Un canile. Un manicomio. Come l’Urlo di Munch. Espressioni che lasciano basiti i boomer venuti su nell’aria frizzante del Dopoguerra e gli ex ventenni scesi in piazza nel ‘68 a reclamare un mondo nuovo, e che risultano estranee anche a chi era adolescente quando crollava il Muro di Berlino. Soprattutto, questi ragazzi ci dicono che non c’è speranza: nulla cambierà. In ascolto - Se fare parlare gli studenti per metafore non è, nella letteratura scientifica, una novità, oggi abbiamo un lavoro tutto italiano, nato all’interno del più ampio progetto di orientamento Cosa farò da grande? dell’università Guglielmo Marconi. La ricerca ha coinvolto 150 studenti del terzo e quarto anno di un liceo classico, uno scientifico, un artistico, un linguistico e un istituto tecnico, in zone diverse - ricche e povere - della Città metropolitana di Roma. I risultati sono ora pubblicati su Scuola Democratica con la firma della sociologa Rita Fornari. Titolo, Dare voce agli studenti: metafore sull’esperienza scolastica. Un lavoro qualitativo e non sui numeri, con un questionario preliminare dove, racconta la docente, “avevo inserito una domanda che mi premeva: se dovessi descrivere la scuola come una metafora, quale immagine useresti? Quando poi in aula mostravo le slide con le risposte, erano stupefatti: “Ma lo abbiamo detto noi?”“. Nei risultati ha rintracciato alcuni filoni, che proviamo a sintetizzare. Tenetevi forte. Montagne russe e bagni - Le metafore più ricorrenti rimandano al malessere e a una dimensione opprimente: la scuola è gabbia, manicomio, purgatorio, inferno. Richiamano regole, vincoli, barriere. Un posto buio. Matrix. Un ragazzo tira fuori l’Urlo di Munch. Qualcuno evoca le montagne russe, un altro descrive un mare pronto a passare da una tranquillità “che dà certezze e gioia” alla burrasca “che dà ansia e delusione”. La stessa Fornari ha trovato angusta l’atmosfera: le metafore, dice, non bastano a descrivere la frustrante rigidità dello spazio, la fatiscenza di alcune strutture, la chiusura degli ambienti che riflette quella sul futuro, la provvisorietà di certi corridoi adattati a mo’ di aula che mortificano la percezione del valore del sé. Appartengono alla “fenomenologia della finestra” le grate e le aperture talvolta posizionate troppo in alto per guardare fuori. Nel suo piccolo, l’ossessione dei bagni emerge con la forza che hanno i simboli: “La richiesta di andare in bagno è regolamentata e centellinata. Si deve chiedere il permesso, talvolta la grazia. Non a caso è il punto su cui si è giocata da subito la fiducia nei riguardi di noi docenti orientatori, perché, come ha spiegato una studentessa, quel chiedere il permesso crea un’enorme barriera tra l’alunno e il professore”. Avanti senza meta, a parte i voti - La scuola è pedalata, ostacoli, impegno, è tenere duro. Certe metafore non sono per forza negative, però evocano un futuro che non si mette a fuoco: si corre senza intravedere il traguardo. Se all’esterno miete sempre grandi successi la vecchia teoria del capitale umano, per cui l’istruzione è un investimento che un giorno offrirà guadagni individuali e collettivi, nelle aule questa idea è più debole che mai: il futuro è incerto, sicura è solo una sequenza di prove da superare. C’è chi evoca immagini leggere e accoglienti: la casa, l’accademia greca. Ma sono esiti residuali, richiamati per evocare la scuola “come dovrebbe essere”: una farfalla libera, un edificio luminoso, l’albero della conoscenza. Tutto esplode nell’ora della prova: ecco le metafore del tribunale dove ogni parola è pesata, ogni azione giudicata, e dove il voto definisce anche l’identità. Il voto troppo basso è percepito come un fallimento che tradisce le aspettative familiari e sociali: è inesorabile, spietato, definitivo. Ribellarsi? Non scherziamo - La scuola per tanti intervistati è la prima casa dei tre porcellini, quella di paglia, un luogo vecchio e fallimentare. C’è chi dice che è un circo dove siamo clown, un inferno ma divertente, un parco giochi, fino alla drammatica immagine del canile. Il futuro è segnato, proprio come il presente, e non c’è traccia di ribellione: “Non sperano in un miglioramento e per me è l’indice più chiaro della crisi” dice Fornari. Senza che ne avesse le intenzioni, con le sue metafore carcerarie la ricerca sembra specchiarsi nelle direttive law&order brandite dal governo Meloni davanti ai pochi che protestano nei cortei e a chi osa alzare la testa, a uscire dagli schemi. Così inizia anche il nuovo anno, con la stretta sul voto di condotta, una regolamentazione dall’alto sull’uso dei cellulari e naturalmente l’annunciata punizione per chi riproverà a saltare l’orale della Maturità. Fornari: “Ingenuo o eroico che sia, è stato per alcuni un modo di farsi sentire. La risposta? Ordine e disciplina, come se fossero capaci solo di bravate. Il simbolico non lo si vuole vedere”. Cercando la bussola - È sempre stato così? Gli studenti si sono sempre sentiti, in cuor loro, dentro una gabbia? Non disponiamo di studi su come i ragazzi si siano rappresentati la scuola nel corso del tempo: la loro voce non ha mai destato grande interesse, fare raffronti è impossibile. La pedagogista dell’Università Cattolica Carla Ghizzoni, autrice con Chiara Mattioni di Storia dell’Educazione (Il Mulino, 2023), spiega che le fonti per indagare ci sarebbero pubblicazioni periodiche, magari goliardiche, e diari - ma bisognerebbe andare a cercarsele e poi fare un grande lavoro. C’è solo un periodo in cui la voce degli studenti si impone con forza: il 68. “La letteratura è ampia, e abbiamo numerosi documenti prodotti dagli studenti che reclamavano una scuola diversa in una società diversa. Avanzavano richieste fondate e volevano essere ascoltati”. Oggi sono soprattutto i ragazzi del Tecnico, alcuni dei quali bocciati più volte, a mostrarsi rassegnati. Niente desideri, zero aspettative: “Mi adatto”, “mi va bene tutto”. Fornari: “Se provi a incoraggiarli con un “puoi farcela” rispondono “non me l’aveva mai detto nessuno”. Se gli si chiede se ci rimangono male quando i professori gli dicono “cretini”, cosa che è successa in mia presenza e a momenti svenivo, alzano le spalle, “siamo abituati”“. I peggiori sono i migliori - Non si stupisce il docente e scrittore Eraldo Affinati, un’esperienza quarantennale tra tecnici e professionali, fondatore delle scuole Penny Wirton dove si insegna l’italiano agli stranieri attraverso un sistema di volontariato 1-1 (un volontario-un allievo): “La scuola era ed è percepita come un carcere perché tutto ruota ancora intorno all’aula, un luogo chiuso dove il tempo è scandito dal suono della campanella, e siamo fermi alle lezioni frontali, che implicano un rapporto di sorveglianza e punizione, come direbbe Foucault”. Alle spalle Affinati ha titoli come Via dalla pazza classe e ora sta dando gli ultimi ritocchi a Per amore del futuro. Educare oggi (in uscita a ottobre con San Paolo). Dice: “I grandi educatori ci insegnano che lo spazio didattico non è solo un contenitore. E ormai da anni la soluzione è nota: apprendimento cooperativo, con i gruppi, affiancare esperienze conoscitive alle lezioni, tenere presente la stazione di partenza di ognuno, così da premiare il percorso più che il traguardo, e basta con interrogazioni costruite come una gara olimpica per salire sul podio. Ma in Italia non riusciamo a uscire da dimensioni sperimentali, di buone pratiche che non si mettono a sistema”. La Penny Wirton di Roma registra ogni anno un gran via vai di adolescenti impegnati nel Pcto, il tirocinio obbligatorio prima della Maturità, dove fanno l’esperienza di insegnare, loro, agli immigrati. “Succede invariabilmente una cosa straordinaria. Quelli che definiscono canili la loro scuola sono così disinvolti e freschi da lasciare ammutoliti i loro docenti accompagnatori. Chi è vicino alla bocciatura rivela le doti più inaspettate”. Siamo proprio sicuri? - Nemmeno Fabio Lucidi, pro rettore della Sapienza con delega fra l’altro ai rapporti con gli studenti, è sorpreso dalle metafore carcerarie, però ci ricorda che questi ragazzi hanno vissuto il Covid (eh già), “sperimentando la completa assenza di regole e l’esplosione delle relazioni digitali, senza corpi da prendere in giro né da idealizzare”. Con il ritorno alla normalità è arrivata quella che metaforicamente chiama la fine del mondo: “L’illusione di non avere corpo né regole sociali è crollato. Sono aumentati i disturbi legati all’ansia, all’umore, alla depressione, le condotte autolesive. E il rientro in aule anguste è stato vissuto come inaccettabile”. Ma aggiunge due cose. La prima: “Siamo sicuri che si debbano drammatizzare i risultati di questa ricerca? Verso i 16-17 anni la stragrande maggioranza abbandona lo sport: sarà perché l’adolescenza porta con sé una generale insofferenza alle regole?”. E poi: “Un certo livello di contenimento è indispensabile. Ma oggi il sistema, oltre e a contenere il corpo, lo mortifica. Gli studenti sono visti come creature con necessità mentali e basta. Eppure le alternative ci sono. Il sistema finlandese, per dire, non ha programmi particolari di matematica, però ogni tot minuti manda tutti a camminare”. E a proposito della Finlandia - La via di uscita, dicono gli esperti, sono i progetti dal basso: non fanno sistema, ma tengono accesa l’idea che un altro mondo è possibile. Qui segnaliamo la Rete delle scuole dialogiche: sono circa cento, molte in Sicilia. Con il coordinamento scientifico dell’Università di Pisa, ciascuna ha scelto un ambito su cui concentrarsi (il rapporto con i ragazzi, il lavoro dello staff…), attraverso un modello di pratiche basato su comunicazione e relazione, per esempio sottoscrivendo “patti di corresponsabilità”, elaborati da tutta la comunità scolastica, studenti inclusi, non documenti precotti, sottoposti alle famiglie solo per la firma. Il responsabile della Rete è Marco Braghero, e siccome è tornato in Italia dopo avere insegnato a lungo all’università di Jyväskylä, fa presente che la stragrande maggioranza degli adolescenti finlandesi, nel rispondere al nostro questionario, esprimerebbe contentezza: “Hanno grande autonomia e vivono la scuola tutto l’anno, come una casa”. Ah, non serve il permesso per andare in bagno: se ti scappa, vai. Ex cathedra - E voi? Qual è la vostra metafora?, abbiamo chiesto infine ai nostri interlocutori. Fornari ha risposto il viaggio. Lucidi, la paura e il desiderio. Braghero: una palestra o un cantiere rumoroso. Ghizzoni: un viaggio come è la vita. Eraldo Affinati invece si riconosce nell’idea della gabbia, “però poi sono diventato un insegnante, chi l’avrebbe mai detto?”. Nella scuola italiana uno studente su otto è senza cittadinanza di Giulio Cavalli Il Domani, 5 settembre 2025 Lo studio “Chiamami col mio nome” fotografa una realtà in cui la disuguaglianza è strutturale. Il 12,2 per cento degli studenti della scuola italiana siede in aula con un permesso di soggiorno e un cognome che ancora oggi può valere un consiglio orientativo al ribasso. La segregazione formativa alimentata da pregiudizi inconsapevoli, orientamenti svalutanti e dal cosiddetto white flight. Nell’anno scolastico appena concluso, 865mila alunni non avevano la cittadinanza italiana. Uno su otto. Il 12,2 per cento degli studenti della scuola italiana siede in aula con un permesso di soggiorno e un cognome che ancora oggi può valere un consiglio orientativo al ribasso. Nel 2002 erano il 2,7 per cento. Oggi il 65,4 per cento è nato in Italia, ma continua a essere trattato come se fosse appena arrivato. Il rapporto di Save the Children “Chiamami col mio nome”, pubblicato giovedì 4 settembre, fotografa una realtà in cui la disuguaglianza è strutturale. La regione con più studenti senza cittadinanza è la Lombardia (231.819), seguita da Emilia-Romagna (111.811) e Veneto (99.604). Ma per incidenza, è l’Emilia-Romagna a guidare (18,4 per cento), seguita da Lombardia (17,1 per cento), Liguria (15,8 per cento) e Toscana (15,1 per cento). In fondo, Molise, Puglia, Campania e Sardegna restano sotto il 4 per cento. I divari - A livello educativo, i divari sono ovunque. La dispersione implicita, cioè il mancato raggiungimento delle competenze minime a fine ciclo scolastico, riguarda il 22,5 per cento degli studenti stranieri di prima generazione, quasi il doppio degli italiani (11,6 per cento). Va meglio tra i nati in Italia (10,4 per cento), ma restano comunque indietro. Il ritardo scolastico colpisce il 26,4 per cento degli studenti con cittadinanza non italiana, contro il 7,9 per cento dei coetanei italiani. I test Invalsi confermano le distanze. In italiano e matematica, gli studenti con background migratorio segnano risultati significativamente più bassi a ogni livello scolastico. In terza media, lo scarto in italiano arriva a 22,6 punti percentuali. Unica eccezione: l’inglese, dove gli studenti stranieri ottengono punteggi superiori, specie nella prova di ascolto. Una competenza che si sviluppa spesso in casa, in ambienti multilingue, ma che non basta a compensare i gap in italiano e matematica, le due materie che pesano nei percorsi e nelle valutazioni. La selezione non avviene solo in uscita ma anche in entrata. L’orientamento scolastico è un collo di bottiglia. Tra i migliori studenti delle medie in condizioni socioeconomiche basse, il 60,7 per cento degli italiani si iscrive al liceo. Ma la percentuale scende al 52,7 per cento tra gli studenti di seconda generazione e al 48,7 per cento tra quelli nati all’estero. Anche chi si definisce “molto bravo a scuola” si autoesclude: solo il 47,8 per cento degli studenti di prima generazione e il 60,6 per cento dei nati in Italia punta al liceo, contro il 70 per cento degli italiani. Segregazione formativa - Le cause non sono solo economiche. Il rapporto denuncia una segregazione formativa alimentata da pregiudizi inconsapevoli, orientamenti svalutanti e dal cosiddetto white flight: la fuga di famiglie italiane da scuole con alta presenza di studenti stranieri, che produce classi-ghetto e accentua l’isolamento. Secondo Save the Children, è l’intero sistema ad essere strutturalmente inadatto: i percorsi scolastici sono più accidentati anche a parità di rendimento e condizioni economiche. Anche il supporto allo studio è diseguale. Gli studenti raccontano un sostegno “discontinuo e poco fruibile”, soprattutto nella scuola superiore. La figura del mediatore culturale è spesso assente. L’alleanza educativa viene affidata, nei fatti, a reti informali tra pari. Ma non può bastare l’autorganizzazione degli studenti a colmare un vuoto istituzionale. Lo stesso schema si ripropone all’università. Solo il 3,9 per cento degli iscritti non ha cittadinanza italiana. E anche tra chi ha ottimi risultati, le aspettative restano più basse: il 74,4 per cento degli studenti italiani vuole iscriversi all’università, contro il 64,4 per cento dei nati in Italia da genitori stranieri e appena il 61,1 per cento di chi è nato all’estero. La cittadinanza, qui, non è solo una questione simbolica: è accesso a borse di studio, concorsi, mobilità, sport agonistico. È la possibilità di costruire il proprio futuro come i coetanei. Essere riconosciuti - Uno studio condotto dal think tank Tortuga per Save the Children dimostra che ottenere la cittadinanza riduce di quasi la metà i divari scolastici. Inoltre, stimando salari e occupazione a dieci anni, ogni 100 nuove cittadinanze garantirebbero un beneficio fiscale netto tra gli 800 mila e i 3,4 milioni di euro. Il titolo del dossier - Chiamami col mio nome - non è retorica. È l’istanza di chi chiede di essere riconosciuto. Una ragazza, intervistata, dice: “Io non sono di prima o seconda generazione. Sono una ragazza. Sono qua, studio, vivo”. Leila, ora al primo anno di liceo, ricorda che alle medie i professori le dissero che non ce l’avrebbe fatta. “È vero, avevo qualche difficoltà. Ma sono migliorata e ora ho una buona media”. Nel rapporto l’ong chiede una riforma della legge sulla cittadinanza: ius soli temperato per chi nasce in Italia da genitori regolarmente residenti, e percorsi semplificati per chi è cresciuto qui. In parallelo, Save the Children propone un Piano per l’educazione inclusiva e interculturale, con investimenti in formazione, orientamento, mediazione e lotta ai pregiudizi. “Le risorse ci sono, ma serve volontà politica per usarle dove servono davvero”. In un paese che invecchia e si svuota, trattare da estranei i figli di chi vive, lavora e studia in Italia non è solo ingiusto. È irresponsabile. Migranti e disabili: doppiamente invisibili eppure ad alto valore umano di Laura Zanfrini Avvenire, 5 settembre 2025 Sono vittime di un duplice svantaggio. E combattono quotidianamente contro il pregiudizio e le difficoltà fisiche. Il progetto “CiSiamo” sa valorizzare il loro patrimonio di esperienza. Pedro è un giovane originario di un Paese latino-americano, arrivato in Italia quand’era poco più che bambino sulle orme della mamma che, grazie al suo lavoro di collaboratrice domestica, gli aveva preparato la strada. Costretto su una sedia a rotelle a causa di una grave disabilità, Pedro ha dovuto subito fare i conti con un problema ancora oggi molto diffuso: l’indisponibilità dei proprietari di case ad affittare agli immigrati. Tra le diverse giustificazioni, la più fantasiosa e sconcertante è che il rumore delle ruote avrebbe dato fastidio ai vicini! Per anni, non avendo l’ascensore, Pedro ha fatto su e giù dalle scale “col sedere” (come dice lui), prima di ottenere un alloggio popolare grazie a un’organizzazione di advocacy che gli ha spiegato che in Italia le persone con disabilità godono di tutele speciali e hanno il diritto di saltare le lunghe liste di attesa. Quando utilizza i mezzi pubblici per recarsi al lavoro, non sempre trova le piattaforme elevatrici funzionanti. E tuttavia, sostiene che a Milano si può andare dappertutto, diversamente da quanto avviene nel suo Paese d’origine dove per le persone con disabilità non esiste ancora oggi praticamente nulla, ricordandoci il privilegio di essere nati in una nazione europea. Jonas, come molti altri migranti fuggiti dal Corno d’Africa, ha ottenuto lo status di rifugiato con relativa facilità; la sua condizione di non vedente lo avrebbe comunque automaticamente incluso tra quanti sono considerati meritevoli di una protezione speciale. Approdato nell’affollato sistema di accoglienza per richiedenti asilo, non è riuscito a frequentare le lezioni di italiano perché, racconta, non c’era nessuno ad accompagnarlo dove si teneva il corso. Dopo anni di soggiorno in Italia continua ad avere difficoltà nell’esprimersi nella nostra lingua. Probabilmente anche per questo non è ancora riuscito a trovare un vero lavoro, a dispetto della sua formazione post-universitaria e della sua menomazione sensoriale, tra le meno “problematiche” per le aziende soggette all’obbligo di assumere una certa percentuale di disabili. Quelle di Pedro e Jonas (nomi di fantasia) sono due storie diverse, al pari delle innumerevoli storie delle persone con disabilità e background migratorio: diverse per età, genere, origine nazionale, status migratorio, livello di istruzione… ma assai spesso accomunate dall’essere vittime di un duplice svantaggio: quella che oggi è d’uso chiamare “discriminazione intersezionale” che deriva dalla somma delle difficoltà connesse all’essere immigrato e dall’avere una disabilità. Non esistono sistemi istituzionali in grado di produrre statistiche attendibili su questo gruppo sociale, ma possiamo tentare di quantificarne il numero complessivo applicando il tasso di persone con disabilità nella popolazione generale alle stime relative al volume dei migranti internazionali, arrivando a contare, a livello globale, decine di milioni di migranti con disabilità, oltre 18 milioni solo tra i migranti forzati. Sebbene la necessità di prestare attenzione a questo gruppo sociale sia stata più volte riconosciuta a livello nazionale, europeo e internazionale, l’universo delle persone con disabilità e background migratorio si presenta come particolarmente complesso ed eterogeneo e, anche per tale ragione, come altrettanto sfidante per tutti gli attori implicati nella governance dei processi migratori, di accoglienza e di integrazione. Com’è noto, le migrazioni sono per loro natura un fenomeno selettivo, così che sono soprattutto i soggetti nelle migliori condizioni fisiche e di salute a partire. Tuttavia, non sono rari i casi in cui le menomazioni sono acquisite durante il viaggio, specie nelle situazioni di sfollamento forzato e di chi percorre tratte particolarmente pericolose, che fatalmente possono portare non solo a traumi difficili da superare, ma anche a vere e proprie disabilità conseguenti a incidenti, torture, abusi. Al tempo stesso, i sistemi di welfare possono costituire, al di là delle loro criticità, un fattore attrattivo per quelle famiglie che, avendo al proprio interno uno o più componenti con disabilità, farebbero qualsiasi cosa pur di offrire loro l’assistenza e le opportunità impensabili in molti Paesi del c.d. “Sud globale”. Infine, le condizioni di vita e di lavoro di molti immigrati, impiegati in mansioni spesso pericolose e usuranti, li sovraespongono al rischio di incorrere in incidenti anche gravi e malattie croniche e invalidanti. È dunque facile attendersi che sempre più spesso ci si troverà, anche in Italia, a rispondere ai bisogni e alle aspettative di persone che assommano gli svantaggi collegati alla disabilità con quelli tributari del background migratorio che, nel nostro Paese, significa molto spesso avere un basso status economico e culturale. Tra i pochi dati disponibili, quelli riferiti al sistema scolastico ci dicono effettivamente di una incidenza di studenti con disabilità significativamente superiore tra gli alunni con cittadinanza non italiana (5%) che non tra gli italiani (3,5%). Come ci rammenta la Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, quest’ultima si costruisce nell’interazione tra persone con menomazioni e il complesso delle barriere comportamentali e ambientali. È dunque intuibile perché il rischio di essere esclusi da ambiti significativi della vita sociale (a partire dal lavoro) che “normalmente” scontano le persone con disabilità si amplifichi nel caso degli immigrati e dei loro figli, notoriamente sovrarappresentati all’interno delle fasce più vulnerabili della popolazione, oltre che penalizzati dalle barriere linguistiche e dalla scarsa familiarità con la società italiana e i suoi codici culturali e comunicativi. Per di più, tanto gli operatori dei servizi pubblici quanto quelli impegnati nelle organizzazioni solidaristiche sono spesso inconsapevoli della situazione e dei bisogni specifici delle persone con disabilità e background migratorio, o comunque impreparati a rispondervi in maniera efficace. La sostanziale invisibilità di questo gruppo si traduce dunque nella sua discriminazione implicita, non intenzionale ma altrettanto rilevante. Accade così che nella costruzione delle politiche per la disabilità si sottovalutino aspetti quali la provenienza geografica e le differenze linguistiche e culturali; così come, nell’universo di attori impegnati a sostenere i migranti, il tema disabilità è poco considerato e trova risposte decisamente insufficienti: emblematica, in tal senso, la desolante insufficienza di strutture d’accoglienza idonee a ospitare richiedenti asilo con disabilità. È questo il quadro che fa da sfondo al progetto CiSiamo (www.ismu.org/progetto-ci-siamo/), realizzato da Fondazione Ismu in collaborazione con Ledha (Lega per i diritti delle persone con disabilità) e Caritas Ambrosiana nella scia di uno studio preparatorio promosso dall’Università Cattolica, ateneo che ospiterà, lunedì 15 settembre, il convegno finale che sarà anche l’occasione per ascoltare alcune testimonianze emblematiche degli immigrati con disabilità. Come appunto evoca il titolo scelto per il progetto, ancorché vittime di una invisibilità che concorre a oscurarne i bisogni, limitarne l’accesso ai servizi, ostacolare la segnalazione degli episodi di discriminazione, inibire la valorizzazione del loro potenziale, i migranti con disabilità ci sono. E sono in grado, come questo progetto ha voluto dimostrare, di sollecitare risposte innovative, costruite dal basso imparando dalle situazioni concrete (come quelle di Pedro e Jonas) e valorizzando lo straordinario patrimonio di conoscenze, esperienze e sensibilità di cui sono depositari tanto gli operatori dei servizi, quanto le stesse persone a rischio di esclusione. Con l’ambizione di promuovere un salto di qualità nella capacità di corrispondere ai bisogni e alle potenzialità di una società sempre più eterogenea. E di trasformare la vulnerabilità in valore aggiunto. Migranti. Nuovi dubbi di incostituzionalità, il sistema Albania perde pezzi di Giansandro Merli Il Manifesto, 5 settembre 2025 La Cassazione rinvia alla Consulta la detenzione “senza titolo” di chi chiede asilo a Gjader e viene riportato in Italia. La norma è stata introdotta in fase di conversione del decreto per neutralizzare le decisioni della Corte d’appello di Roma. Il progetto Albania rischia di perdere un altro pezzo. Ieri la prima sezione penale della Cassazione ha sollevato “palesi” dubbi di illegittimità costituzionale su una norma introdotta, con un emendamento “fuori sacco”, nella conversione in legge del decreto del 28 marzo scorso. Quello che estende l’uso dei centri di trattenimento di Gjader ai migranti “irregolari” già presenti sul territorio nazionale. Per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana un governo ha provato a legittimare per legge la privazione della libertà personale senza alcun titolo. Una misura degna dei peggiori regimi, dove il potere politico decide di mandare le persone dietro le sbarre senza motivazione né controllo dei giudici. Una misura che, secondo gli ermellini, rischia di intaccare le fondamenta stesse dell’ordinamento costituzionale, a partire dai principi inderogabili di status libertatis e habeas corpus (che hanno le loro radici nella Magna Charta Libertatum del 1215 e sono codificati sin dalla rivoluzione inglese del Seicento). Per questo la Cassazione ha rinviato alla Consulta la modifica legislativa. La norma era stata pensata dal governo Meloni per neutralizzare le decisioni della Corte d’appello di Roma che da aprile dispone il rientro in Italia di chi chiede asilo a Gjader. I giudici della capitale hanno rilevato, sin dal primo momento, il contrasto tra la direttiva accoglienza e la presenza fuori dal territorio nazionale di chi fa domanda d’asilo secondo procedure diverse da quelle “accelerate di frontiera”. Un ragionamento sostenuto dal rinvio alla Corte di giustizia Ue che la Cassazione ha avanzato il 29 maggio per chiarire se questo aspetto - e quello precedente: il trasferimento degli “irregolari” dall’Italia - siano compatibili con il diritto europeo. In pratica, cercando di ovviare al bug per cui chiunque chiedeva asilo a Gjader tornava non solo in Italia ma anche in libertà, il governo ha stabilito - tra il varo del decreto e la conversione in legge - che dopo il rientro sul territorio nazionale, nel porto di Bari, e prima di una nuova richiesta di trattenimento del questore il migrante “permane” in detenzione. E proprio in questo segmento, che può durare fino a 48 ore, la persona resta privata della libertà personale senza giustificazioni. Come nei regimi, appunto. Da queste parti invece, almeno per ora, c’è la Costituzione e il dubbio degli ermellini è che la prassi violi gli articoli 3, 11, 24, 111 e 117 della legge fondamentale dello Stato. Non poco, anche perché lo stesso dubbio riguarda una corposa serie di sentenze della Consulta e della Corte di Lussemburgo, di normative Ue e convenzioni internazionali. Tutto nasce dal caso di un cittadino senegalese rinchiuso nel Cpr di Bari alla fine di aprile e trasferito a Gjader il 9 maggio. Dove successivamente ha chiesto asilo. Così alla Corte d’appello di Roma, competente sui chi fa domanda di protezione nei centri d’oltre Adriatico, è arrivata una nuova richiesta di convalida. Bocciata: il magistrato ha disposto liberazione e trasferimento in Italia. L’uomo è arrivato a Bari il 4 luglio, ma il giorno seguente il questore ha emesso un nuovo provvedimento detentivo, confermato dai giudici locali. Già nel ricorso contro questa decisione la difesa aveva chiesto il vaglio della Consulta. Ma gli era stato negato. A torto secondo la Cassazione, che in un passaggio della decisione di ieri sembra tirare le orecchie alla Corte d’appello pugliese. Scrive che spettava a quel giudice “provocare, mediante il potere diffuso che gli è attribuito dalla Costituzione, l’intervento della Corte costituzionale” su una norma “in patente violazione dei diritti costituzionali fondanti l’ordinamento” e che “non trova neppure alcun appiglio nel diritto unitario” (quello Ue). Il cittadino senegalese resta comunque in detenzione, perché gli ermellini hanno sospeso il giudizio e non potevano disporne la liberazione. Hanno però dato un’indicazione forte: possono disporla altre autorità. Come un giudice di merito. “Faremo domanda di riesame - afferma l’avvocato Salvatore Fachile, che con la collega Ginevra Maccarrone difende il migrante - In una vicenda simile persino la procura generale ha chiesto di liberare la persona perché in attesa della decisione della Consulta, che richiede tempi lunghi, viene violato il suo diritto di difesa: avere un responso in dieci giorni”. Il caso, comunque, non riguarda solo il singolo cittadino straniero. Ma, almeno fino alla sentenza della Consulta, tutti quelli che chiederanno asilo a Gjader (al due settembre i trattenuti erano 24). Perché se tecnicamente al rientro in Italia il questore di Bari può ancora chiedere un nuovo trattenimento e la Corte d’appello convalidarlo, “il giudice - afferma Fachile - deve per forza considerare che una eventuale convalida riprodurrebbe un cortocircuito giudiziario a fronte di un costo economico e di uno sforzo giudiziario dello Stato del tutto ingiustificabili”. Al termine di ricorsi e riesami la persona, in ogni caso, tornerà libera. Sei milioni di bambini senza istruzione entro il 2026 di Lucia Ori Il Domani, 5 settembre 2025 Per i tagli agli aiuti pubblici per lo sviluppo, tutto il mondo sarà colpito da una crisi scolastica. I paesi a basso reddito i più a rischio: 28 gli stati che perderebbero un quarto dell’assistenza all’istruzione. In un report di Unicef uscito nei giorni scorsi, entro la fine del 2026 circa 6 milioni di bambini non potranno più frequentare la scuola. È il risultato dei tagli ai fondi globali per l’istruzione che porterà a una crisi educativa per i minori in tutto il mondo. Secondo Catherine Russell, Direttrice generale dell’Unicef: “I paesi ottengono risultati migliori quando i loro bambini sono istruiti e in buona salute, e questo contribuisce a un mondo più stabile e prospero”. Nel complesso, gli aiuti pubblici allo sviluppo (Oda) stanziati per l’educazione diminuiranno di 3,2 miliardi di dollari, segnando un calo del 24 per cento sul 2023. Secondo Unicef aumenterà così il numero di bambini non scolarizzati a livello globale da 272 milioni di persone a 278 milioni. È come svuotare tutte le scuole primarie di Germania e Italia insieme. Secondo le previsioni Unicef, la regione del mondo più colpita sarà l’Africa occidentale con 1,9 milioni di bambini che rischiano di non poter più andare a scuola. Al secondo posto il Medio Oriente e il Nord Africa (Mena) con tagli fino a 769 milioni di dollari: qui i minori a rischio sono circa un milione e mezzo. È l’istruzione primaria la più colpita dai tagli di aiuti economici con 856 milioni di dollari in meno. Senza questi soldi si aggraverà soprattutto la crisi dell’istruzione già presente nei paesi a basso e medio-basso reddito, dove a oggi solo un bambino su dieci sa leggere e comprendere un testo semplice. In molti di questi paesi le scuole sono dei veri e propri rifugi che garantiscono sicurezza, stabilità, acqua potabile, servizi igienici, pasti e assistenza sanitaria. Alcuni di questi servizi essenziali, come i programmi di alimentazione scolastica, rischiano tagli del 57 per cento (190 milioni di dollari). Un esempio concreto sono i servizi di assistenza e di sostegno scolastico dato ai rifugiati rohingya, gruppo etnico perseguitato in Birmania. Senza gli aiuti i centri scolastici chiuderebbero lasciando soli e vulnerabili allo sfruttamento minorile circa 350mila bambini. Altra categoria fortemente colpita saranno gli aiuti destinati all’istruzione incentrata sul genere. Fino a dieci anni fa una ragazza di un paese meno sviluppato aveva il 20 per cento in meno di possibilità di terminare la scuola rispetto a un ragazzo. Grazie ai finanziamenti umanitari questo gender gap si era quasi del tutto appianato, ma ora la forbice rischia di allargarsi di nuovo. Questo tipo di aiuti saranno tagliati del 28 per cento (123 milioni di dollari). “Ogni dollaro tagliato all’istruzione non è solo una decisione di bilancio, ma mette a rischio il futuro di un bambino”, ha affermato la direttrice Russell. A rischio è il futuro dei bambini che non potranno più andare a scuola, ma anche di quelli che continueranno ad averne la possibilità. Senza fondi i governi non potranno più avere dati precisi per elaborare piani strutturali per il futuro e per capire dove poter migliorare. Saranno così compromessi la qualità dell’apprendimento e anche lo sviluppo degli insegnanti, che intanto perderebbero il loro lavoro. Saranno almeno 290 milioni gli studenti in tutte le regioni che dovranno affrontare un calo della qualità dell’istruzione. Il progetto della Global Sumud Flotilla non può e non deve fallire: la posta in gioco è molto alta di Paolo Maddalena* Il Fatto Quotidiano, 5 settembre 2025 Un atto estremamente rischioso e coraggioso, contro il quale si è già levata la minaccia del governo israeliano di “trattare tutti come terroristi”. Di fronte all’efferata violenza del governo Netanyahu, che ha perseguito con una crudeltà senza limiti il genocidio del popolo palestinese, procedendo poi all’occupazione militare di Gaza, dopo aver vietato qualsiasi aiuto umanitario (l’esercito è arrivato addirittura a sparare su bambini in fila per avere un po’ d’acqua), hanno suscitato disappunto e preoccupazione per un verso l’atteggiamento di Trump, il quale, ispirandosi al criterio della forza e negando validità al diritto internazionale, si è dichiarato pienamente “complice” di Netanyahu, chiedendogli di “fare presto” e sostenendo la proposta, non smentita, di creare sulle rive di Gaza una “Trump Riviera”; per altro verso l’atteggiamento, sia dell’Europa che si è limitata a condanne formali, sia del governo Meloni il quale ha continuato a mantenere rapporti economici con Israele e ha votato contro la proposta della Commissione Europea di adottare sanzioni, le quali molto probabilmente avrebbero potuto fermare i crimini in atto, considerato che Israele dipende quasi interamente dall’estero per i suoi approvvigionamenti. Tuttavia di fronte a tanta crudeltà, a tanta depravazione, a tanto cinismo e a tanta corruzione, una luce improvvisa è scaturita da centinaia e centinaia di persone che non sono state sorde alla voce della coscienza e hanno dimostrato la loro più intima ribellione a tanta disumana prepotenza, con una serie di manifestazioni: a Milano, chiedendo la fine dei legami politici ed economici con Israele, a Stoccolma, accusando Israele di “genocidio”, a Berlino, chiedendo la fine dell’esportazione di armi, a Londra, chiedendo la fine della guerra e giustizia per le vittime palestinesi, a Roma, a Piazza S. Giovanni, dove sono convenuti oltre 300mila persone, al Lido di Venezia, in occasione della Biennale del cinema, a Genova con una affollatissima e fortemente sentita fiaccolata, e, soprattutto, via mare, con la grandiosa iniziativa del Global Sumud Flotilla, cui stanno partecipando decine e decine di imbarcazioni, provenienti da 44 Paesi diversi e dirette a Gaza per portare viveri e medicinali. Un atto, quest’ultimo, estremamente rischioso e coraggioso, contro il quale si è già levata la minaccia del governo israeliano di “trattare tutti come terroristi”. Una atroce minaccia alla quale ha risposto uno dei valorosi partecipanti all’iniziativa, Tony La Piccirella, dichiarando “noi non abbiamo paura”. Questo atto eroico non può e non deve fallire. Esso deve estendersi al maggior numero possibile di persone e dimostrare che, contro l’atteggiamento cinico e corrotto dei governi europei, è insorta, coraggiosa e vincente, la coscienza morale dei popoli. Non si dimentichi che i governi europei, in primis il nostro, seguendo l’erroneo pensiero “neoliberista” hanno agito proprio contro i popoli (e quindi contro gli Stati), realizzando, con leggi incostituzionali, l’accentramento della ricchezza nelle mani di pochi, attraverso il metodo della forte competitività tanto caro a Mario Draghi, e l’esclusione dell’intervento dello Stato (e cioè dei popoli) dall’economia. Obiettivo, quest’ultimo, pienamente attuato, con le micidiali privatizzazioni. Una operazione che ha avuto come conseguenza necessaria la fine di democrazie efficienti e l’avvento di regimi “oligarchici”, come quello di Trump. Come si nota, la posta in gioco è molto alta. E moralmente grave appare l’atteggiamento di chi non sostiene le descritte manifestazioni e, in particolare, l’iniziativa del Global Sumul Flotilla. Se ne dovrebbe dedurre che costoro hanno perso la propria coscienza morale, e sono divenuti sordi e indifferenti di fronte alle ingiuste sciagure di un popolo inerme. *Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale Medio Oriente. 3 detenuti palestinesi su 4 sono civili e non combattenti di Eliana Riva Il Manifesto, 5 settembre 2025 L’inchiesta di +972 e Guardian. Tel Aviv tiene anziani, medici, giornalisti e persone ammalate in “detenzione amministrativa”. Tre persone su quattro tra le migliaia che Israele ha arrestato a Gaza sono civili. Le prigioni di Tel Aviv sono piene di anziani, ammalati, medici, giornalisti i cui nomi non sono mai stati inseriti nella lista di sospetti affiliati ad Hamas e alla Jihad Islamica. Un documento in continuo aggiornamento, che contiene oltre 47mila nominativi raccolti attraverso informatori, intercettazioni, documenti del gruppo palestinese. La campagna di sequestri di massa cominciata con l’invasione della Striscia, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, ha prodotto migliaia di nuovi prigionieri politici. Tutti detenuti senza capi di accusa e senza processo, come prevede la legge contro i “combattenti illegali”. La quale permette a Israele di trattenere i prigionieri per 180 giorni, senza il supporto di un avvocato e senza contatti con il mondo esterno. Prima della guerra il termine era di 75 giorni. La “detenzione amministrativa” è uno strumento che Israele utilizza da anni e attraverso il quale reclude centinaia di palestinesi senza presentare accuse formali e senza processo. Tel Aviv ha sempre affermato che la “maggior parte” delle persone fermate a Gaza sono combattenti di Hamas e di altri gruppi armati. In realtà, in diversi momenti, l’esercito ha rilasciato circa la metà di quei prigionieri, liberandoli all’interno dei confini di Gaza senza spiegazioni o giustificazioni per gli arresti illegittimi. Eppure, quei civili hanno trascorso lunghi mesi nelle carceri israeliane in difficili condizioni: prigionieri palestinesi, carcerieri israeliani, immagini e filmati, testimoniano abusi, torture, trattamenti disumani e degradanti, assenza di supporto sanitario. Un’inchiesta del quotidiano inglese The Guardian, coordinata con la rivista israelo-palestinese +972 e il quotidiano in lingua ebraica Local Call, ha rivelato che solo una su quattro delle persone catturate a Gaza è identificata da Israele come combattente. I giornalisti sono venuti in possesso del database riservato contenente i nomi di tutti coloro che Tel Aviv ritiene siano membri dei gruppi armati della Striscia. A maggio, delle circa 6mila persone sequestrate a Gaza, solamente 1.400 erano su quella lista. Non c’era, ad esempio, il nome di Fahamiya al-Khalidi, la donna 82enne sequestrata insieme alla sua badante e chiusa in una prigione israeliana per sei settimane. Il medico israeliano che l’ha curata nel centro di detenzione di Anatot ha dichiarato che era ferita e disorientata, non ricordava la sua età né capiva dove si trovasse. Un soldato in servizio nella famigerata prigione di Sde Teiman, ha raccontato che le persone disabili e anziane erano tante da riempire un’ala della struttura, soprannominata dalle guardie “il recinto geriatrico”. Lo stesso medico di Fahamiya ha detto di aver curato una donna con una grave emorragia causata da un aborto. E un’altra che aveva appena partorito e chiedeva disperatamente un tiralatte, per alleviare il dolore al seno provocato dal mancato deflusso di latte materno. Non era su quella lista nemmeno Abeer Ghaban, rapita dall’esercito a un posto di blocco. I suoi figli di sette, nove e dieci anni sono rimasti soli a Gaza. I militari l’hanno arrestata perché suo marito aveva lo stesso nome di un presunto combattente di Hamas. Dopo aver riconosciuto l’errore, tuttavia, l’hanno trattenuta per altre sei settimane. Quando è tornata dai suoi figli, li ha trovati che chiedevano l’elemosina per strada. Secondo le informazioni del Guardian, nessuno dei palestinesi sequestrati a Gaza è stato sottoposto a processo. Intanto, nella Striscia, è trascorsa un’altra “notte infernale”, come l’hanno descritta gli abitanti. Bombardamenti e artiglieria hanno investito la parte orientale di Gaza City. Le tende degli sfollati sono state attaccate in diversi accampamenti. A Nassr, un quartiere a ovest della città, dopo un bombardamento i rifugi di plastica e stracci hanno preso fuoco, causando un incendio. Anche nel centro di Gaza sono stati attaccati i campi profughi. A Nuseirat una famiglia di sette persone è stata trucidata mentre dormiva in tenda. E l’esercito continua a bombardare anche la zona di al-Mawasi, nel sud, dove intima alla popolazione di dirigersi. 84 persone ammazzate in 24 ore. Nonostante i bombardamenti, i militari stimano che il 20 per cento dei residenti di Gaza City, oltre 200mila palestinesi, si rifiuterà di evacuare. Motivo per cui Tel Aviv potrebbe, nei prossimi giorni, aumentare l’intensità degli attacchi. Hamas ha dichiarato di essere ancora in attesa di una risposta da parte di Israele sul piano di cessate il fuoco che ha accettato. Torna anche a dirsi disponibile a un accordo che preveda il rilascio di tutti gli ostaggi in cambio della liberazione di alcuni prigionieri palestinesi; l’istituzione di un’amministrazione indipendente formata da tecnocrati; il ritiro dei militari, l’apertura dei valichi e l’inizio della ricostruzione. Il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, ha definito la proposta “una trovata pubblicitaria” e ha dichiarato che gli attacchi a Gaza termineranno solo se Hamas accetterà la resa e tutte le condizioni imposte da Tel Aviv, senza chiedere alcun compromesso. Dichiara di offrire “la fine della guerra” ma i piani a cui fa riferimento prevedono che Israele continui a controllare Gaza, chiudendo la popolazione civile in aree di detenzione in attesa che venga deportata.