Record di reclusi: il carcere è sempre più una tortura di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 settembre 2025 I numeri parlano chiaro e sono impietosi: al 31 agosto 2025 i detenuti nelle carceri italiane sono 63.167, ben 598 in più rispetto ai 62.569 del mese precedente. In un solo mese, mentre la politica andava in vacanza, quasi seicento persone in più si sono aggiunte a un sistema penitenziario già al collasso. Il tasso di affollamento ha raggiunto il 134,3%, con circa 16mila persone che non hanno nemmeno un posto letto regolamentare. La capienza regolamentare resta inchiodata a 51.274 posti (con un aumento risibile di soli 26 posti rispetto a luglio), ma da questa cifra vanno sottratti i 4.559 posti non disponibili per inagibilità o ristrutturazioni. Facendo i conti, abbiamo 12mila detenuti in più rispetto alla capienza. Una situazione che trasforma la detenzione in tortura quotidiana. Il grido: “Il tempo è vita” - Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino, è in sciopero della fame da 25 giorni, mentre “la politica è andata in vacanza senza muovere un dito sulla condizione delle carceri”. Le sue parole risuonano come un atto d’accusa verso istituzioni sorde: “Il tempo morto e di morte delle istituzioni italiane. In questo 2025 tutta la politica è andata in vacanza senza muovere un dito sulla condizione delle infami carceri italiane, vergogna per uno Stato di Diritto di un Paese che continua a volersi definire democratico”. Bernardini ha colto tutti i segnali di apertura offerti dalle istituzioni: dal presidente del Senato Ignazio La Russa al vicepresidente del Csm Fabio Pinelli, fino alla visita di Ferragosto con il vicepremier Matteo Salvini a Rebibbia. Ma nulla di concreto è stato fatto. “Deciderò il 10 settembre, quando il Parlamento riaprirà e sarò al 30esimo giorno, se ci saranno o meno le condizioni di dialogo vero per sospenderlo o proseguirlo”. Il suo appello riecheggia le parole di Marco Pannella: “Hic et nunc”, qui ed ora. Perché “in carcere i detenuti con il tempo ci fanno i conti minuto dopo minuto. L’attesa di una risposta che non arriva per vedere riconosciuti i propri diritti è mortifera”. Quando i numeri diventano sofferenza - Analizzando nel dettaglio i dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, emerge un quadro drammatico che va ben oltre le medie nazionali. Sono 62 gli istituti dove il tasso di affollamento supera il 150%, mentre in 8 carceri si va oltre il 190%. Milano San Vittore guida questa classifica dell’orrore con un tasso del 236% nel reparto femminile, seguito da Foggia (214%) e Milano San Vittore maschile (213%). Il Dap e il Garante nazionale continuano a sostenere che le persone detenute in meno di 3mq sono praticamente inesistenti. Ma c’è un trucco: l’Applicativo informatico spazi/ detenuti non sottrae dalla superficie delle celle gli arredi fissi come i letti a castello, che occupano in media 1,8mq. La Cassazione invece è chiara: vanno detratti tutti gli arredi “tendenzialmente fissi al suolo”. Il risultato? Più di 4.000 ricorsi per condizioni degradanti vengono accolti ogni anno dai tribunali italiani. In tutto questo si inseriscono anche le morti in carcere. Da ricordare che nel 2024 rispetto al 2023 i tentativi di suicidio sono cresciuti del 9,3 per cento. Nel 2024 si sono suicidate almeno 91 persone che si trovavano in carcere, il dato più alto mai registrato. Da gennaio ad a fine agosto di quest’anno sono già 58 i suicidi, 11 solo tra giugno e luglio. Il più giovane aveva appena 20 anni, morto a Barcellona Pozzo di Gotto. Il 70% dei suicidi avviene in sezioni a custodia chiusa. Ogni 100 detenuti, 22,3 commettono atti di autolesionismo (erano 17,4 un anno fa). I tentati suicidi sono 3,2 ogni 100 detenuti (erano 2,3). L’uso di psicofarmaci è endemico: il 14,2% dei detenuti ha diagnosi psichiatriche gravi, il 21,7% assume regolarmente antipsicotici o antidepressivi, il 45,1% assume sedativi o ipnotici. Il fallimento della politica - Da quando è insediato, il governo ha ereditato e aggravato un’emergenza carceraria che appare sempre più irrisolvibile. Nonostante i proclami, le carceri italiane contano ancora oltre diecimila detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare - numero che supera i 16.000 se si includono le celle inagibili. Il cosiddetto “Decreto Carceri” del luglio 2024, presentato dal ministro Nordio come “un passo molto importante” per il reinserimento sociale e la riduzione del sovraffollamento, ha prodotto risultati opposti alle attese. A un anno dalla sua approvazione, i detenuti sono aumentati di 1.248 unità. La task force per le misure alternative annunciata da Nordio non è mai diventata operativa, e l’elenco delle strutture residenziali idonee all’accoglienza - che doveva essere pubblicato entro sei mesi - ancora non esiste. Nel frattempo, 23.970 detenuti con pena residua inferiore ai tre anni restano in cella, bloccati dall’inerzia burocratica. L’approccio del governo è stato chiaro: al fallimento delle misure per mettere fine all’emergenza si è affiancato il Decreto Sicurezza di giugno 2025, che ha introdotto 14 nuovi reati e inasprito pene esistenti. Tra questi, il reato di occupazione abusiva, la penalizzazione del blocco stradale, la negazione del rinvio obbligatorio della pena per donne madri o in gravidanza, e la resistenza passiva dei detenuti punibile fino a 8 anni. Secondo l’Unione delle Camere penali, si tratta di “un’inutile introduzione di nuove ipotesi di reato, con aumenti di pena sproporzionati”, destinata a produrre un “conseguenziale aumento della popolazione carceraria”. Anche il piano di edilizia penitenziaria ha mostrato gravi criticità. Quello che prevedeva 7.000 nuovi posti entro fine 2025 ha finora prodotto un aumento di soli 42 posti in un anno, mentre i posti non disponibili sono aumentati da 4.123 a 4.559. Il nuovo piano 2025- 2027, da 758 milioni di euro, ha già subito un primo intoppo significativo: come ha rivelato Luca Rondi di Altreconomia, la gara per 16 padiglioni prefabbricati in 9 istituti, inizialmente budgettata a 32 milioni di euro, è stata annullata perché le imprese hanno giudicato i costi sottostimati di 13 milioni. Il nuovo bando (45,62 milioni, scadenza 25 settembre) prevede tempi di realizzazione di 48 mesi, con un ritardo che compromette la consegna dei primi 384 posti previsti entro il 2025. L’ordinanza di Torino - Il tribunale di Sorveglianza di Torino ha recentemente assunto una decisione significativa in tema di detenzione domiciliare per detenuti malati, prendendo in considerazione non solo le condizioni cliniche di gravità, ma anche la condizione di sovraffollamento del carcere. Un detenuto con obesità e cardiopatia ischemica, patologie non gravi, ha ottenuto i domiciliari perché il sovraffollamento del carcere Lorusso-Cotugno (oltre il 130%) rendeva la sua detenzione un “surplus di sofferenza” che viola l’articolo 27 della Costituzione e l’articolo 3 della Cedu. Per Antigone si tratta di una svolta: “Non è una valutazione sanitaria ma il riconoscimento che il sovraffollamento può trasformare la detenzione in trattamento inumano, anche senza patologie gravi”. Il Tribunale ha certificato che le condizioni attuali violano principi costituzionali e convenzionali. “Quando un giudice riconosce che patologie lievi diventano insostenibili per il sovraffollamento, il problema non è gestionale ma strutturale”. Mentre le carceri scoppiano, ci sono 23.970 detenuti con pena residua inferiore ai tre anni che potrebbero, in assenza di cause ostative, accedere a queste misure. Non lo fanno per burocrazia, mancanza di risorse, inerzia del sistema. Mentre Rita Bernardini continua il suo sciopero della fame, mentre i detenuti muoiono di caldo e disperazione, mentre i tribunali riconoscono che la detenzione è diventata tortura, tranne eccezioni, la politica tace. Il 10 settembre il Parlamento riaprirà. Sarà l’ennesima occasione mancata o finalmente qualcuno avrà il coraggio di dire che il re è nudo, che le carceri italiane sono una vergogna per una democrazia, che è tempo di agire? Estate, tutto sospeso: per i detenuti è peggio di Maria Teresa Caccavale vocididentro.it, 4 settembre 2025 Per molti l’estate è sinonimo di vacanze, mare e leggerezza. Ma non per tutti. Dietro la facciata di spensieratezza, il caldo e la chiusura di scuole, uffici e servizi creano disagi che colpiscono famiglie, anziani e malati. In agosto, il Paese sembra sospeso: ospedali a ranghi ridotti, pubblica amministrazione rallentata, genitori in difficoltà nell’affidare i figli, anziani senza assistenza, i soggetti fragili esposti alle intemperie della mente e del corpo. Se questa sospensione pesa sulla società civile, nelle carceri diventa dramma. Ogni estate, puntualmente, le attività trattamentali (come previste dall’Ordinamento Penitenziario e che dovrebbero essere obbligatorie per realizzare il pieno reinserimento sociale e lavorativo) si fermano, le scuole chiudono, i volontari diminuiscono. Il personale amministrativo e quello facente parte della Polizia penitenziaria è ridotto al minimo e il sovraffollamento acuisce il disagio. I detenuti restano senza corsi, senza stimoli, senza prospettive e soprattutto senza punti di riferimento e sostegno psicologico. Per loro, si pensa, tutto può essere rimandato: cure, diritti, dignità. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: suicidi, morti per malattie non curate, tensione crescente. Nonostante appelli di associazioni, magistrati, avvocati, politici, del Presidente della Repubblica e persino del Papa, nulla cambia. Il Governo promette, ma non interviene con provvedimenti che diano concretezza ai proclami. La logica resta immutata: carcere uguale sicurezza, senza spazio per il recupero. Eppure basterebbe poco: una programmazione che mantenga vive attività culturali e formative anche d’estate, laboratori, corsi, iniziative creative, sportelli di ascolto e di sostegno psicologico. Le risorse esistono, così come volontari disponibili a impegnarsi. Ciò che manca è la volontà politica e il coraggio delle direzioni carcerarie, che spesso si rifugiano nel “no” della Polizia penitenziaria per carenza di organico. Meglio bloccare tutto che rischiare. Le proteste non sono mancate: dallo sciopero della fame di Rita Bernardini alle visite di “Nessuno tocchi Caino”, dalle lettere giornaliere di Gianni Alemanno sulle afflittive situazioni carcerarie, alle astensioni degli avvocati ed alle sentenze di condanna dell’Italia da parte della Corte Europea e di diversa magistratura locale. Tutto inutile. La politica resta sorda, indifferente a tutto ciò che riguarda il carcere, con il cuore e la mente chiusi. La domanda è inevitabile: fino a quando si continuerà a tollerare questo scempio? Si può ancora sperare in una riforma, o bisogna rassegnarsi al paradosso di carceri che chiudono per mancanza di dignità, non di “clienti”? Speriamo nella mancanza di clienti. Pena a domicilio in caso di sovraffollamento: a Torino dicono che si può di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 4 settembre 2025 Ma allora si può fare. Si può mandare, in alcune situazioni, un detenuto a scontare la pena al domicilio con la motivazione che in carcere non c’è posto, c’è un eccesso di folla. Era già accaduto, durante la pandemia da Covid, per il timore del contagio, con un decreto del ministro. Ma oggi lo decide, con una motivazione decisamente innovativa e che richiama al sovraffollamento, il tribunale di sorveglianza di Torino. Il detenuto, con una condanna a quattro anni, era obeso e soffriva di patologie cardiache, ciononostante le sue condizioni erano state ritenute compatibili con il carcere dal giudice di sorveglianza. Ma a un successivo ricorso al tribunale, era avvenuto il “miracolo”. Il penitenziario Le Vallette di Torino, cui il condannato era destinato, presentava numeri da far paura: 1.466 posti occupati su una capienza massima di 1.117. Impossibile trovare altra disponibilità in una situazione da galline in allevamento. Un clima incompatibile per una persona di salute già precaria, per quanto teoricamente curabile anche in carcere. Ecco quindi la motivazione della sentenza: se non c’è posto, si sta a casa. La speranza ora, con la carceri italiane con un tasso di sovraffollamento pari al 134%, è che il caso singolo faccia scuola e determini una sorta di contagio che moltiplichi i casi. La dignità va garantita sempre. Anche in carcere di Massimo Giannini La Repubblica, 4 settembre 2025 La lettera di Damien, detenuto transgender di Bollate, che chiede a tutti di guardare in faccia la verità: chi ha sbagliato deve pagare, ma la dignità non va negata. Ce ne dobbiamo far carico, e cito di nuovo Voltaire: la civiltà di un Paese si misura dalla condizione delle sue prigioni. L’Italia è incivile, la gente “normale” non vuole vedere, ma io suggerisco a chiunque una visita nelle patrie galere. Io l’ho fatto, a Rebibbia e a San Vittore: un’esperienza che mi porto nel cuore. Ciao Massimo, mi chiamo Damien e sono detenuto nel carcere di Bollate. Vorrei tanto che, anche solo per un giorno, per desiderio o magia, politici, giornalisti, uomini di potere, fossero costretti alla verità. Ho sicuramente sbagliato, ma un errore dettato dalla miseria e dalla disperazione mi è costato carissimo. Sono un ragazzo transgender di 36 anni, anagraficamente uomo, biologicamente nel limbo tra i due sessi. Qui mi sono trovato a fare i conti con la “non previsione della mia esistenza”. Di fatto, sono confinato nella Sezione Femminile. Sto meglio, ma sono serviti scioperi e perseveranza per uscire dall’isolamento e per avere i farmaci. Non voglio angustiarti con le disgrazie del sistema penitenziario. Vorrei solo chiederti un incontro qui in carcere, sempre che tu abbia voglia e tempo. Ti saluto e aspetto. Damien Ciao Damien, grazie della tua bellissima lettera, così densa di umanità. Riconosci il tuo errore, stai scontando la tua pena. Posso solo immaginare la tua sofferenza interiore, acuita dalla tua condizione di transgender che una cella non aiuta. Non vuoi parlare del sistema carcerario, ma io sì. Ce ne dobbiamo far carico, e cito di nuovo Voltaire: la civiltà di un Paese si misura dalla condizione delle sue prigioni. L’Italia è incivile, la gente “normale” non vuole vedere, ma io suggerisco a chiunque una visita nelle patrie galere. Io l’ho fatto, a Rebibbia e a San Vittore: un’esperienza che mi porto nel cuore. Chi ha sbagliato deve pagare. Ma a nessun essere umano va negato il diritto alla dignità, alla redenzione, a una seconda possibilità. A nessun essere umano va negato il diritto alla propria identità, anche sessuale. Se avrò un permesso verrò a trovarti, Damien. Un’altra vita è possibile. Il pellegrinaggio della Madonna di Fatima nelle carceri italiane di Roberta Barbi vaticannews.va, 4 settembre 2025 Partito il primo luglio da Reggio Calabria, il viaggio, organizzato dall’Apostolato internazionale di Fatima, si è concluso domenica 31 agosto a Verona ed è stato fatto d’estate perché è il momento più difficile per i detenuti, tra il vuoto delle attività, la lontananza dagli affetti e l’emergenza caldo. Don de’ Paoli, assistente nazionale dell’Apostolato: “Maria è Madre di tutti, anche di chi ha sbagliato”. L’idea è venuta dalla lettura della “Spes non confundit”, la Bolla d’indizione del Giubileo 2025 dedicato alla speranza, in cui Papa Francesco chiedeva un segno concreto di vicinanza ai detenuti, che li invitasse a guardare il proprio futuro con speranza. “Eravamo stati altre volte in carcere, su invito delle diocesi o nei luoghi che la statua della Madonna di Fatima aveva visitato - racconta ai media vaticani don Vittorio de’ Paoli, assistente per l’Italia dell’Apostolato internazionale di Fatima - ma stavolta volevamo prendere noi l’iniziativa. La risposta ce l’ha data direttamente la bolla di Papa Francesco, dove dice che la speranza trova nella Madre di Dio la sua più alta testimone”. Partito dalla casa circondariale di Arghillà a Reggio Calabria e conclusosi in quella di reclusione di Verona Montorio, il viaggio silenzioso e intimo della Madonna ha fatto tappa in diversi istituti di pena: Vibo Valentia, Saluzzo, Civitavecchia, Ferrara, Ancona, Pesaro, Varese, Padova e Verona, oltre a visitare alcune strutture collaterali quali cliniche, case-famiglia o comunità che si occupano di disagio giovanile o di donne detenute. “Ogni carcere è una realtà a sé, naturalmente la sua vita interna dipende dal direttore e dalla polizia penitenziaria oltre che dai ristretti - prosegue don de’ Paoli - la grande sorpresa è stata il mondo del volontariato, attivo e commovente”. La statua che è stata portata “dentro” è una delle immagini ufficiali realizzata secondo le indicazioni di suor Lucia, una dei tre pastorelli di Fatima, e dal 1947 in viaggio per portare pace e amore: “In realtà la statua è un segno, quella che noi portiamo in carcere è la luce di Maria - precisa il segretario dell’Apostolato - in particolare abbiamo cercato di trasmettere alcuni messaggi specifici per le persone private della libertà personale: innanzitutto che Maria vuole loro bene perché i figli restano figli anche quando hanno sbagliato; poi di trasformare la loro vita detentiva in un’occasione di crescita personale perché imparare dall’errore mette le ali; di offrire i propri momenti di rabbia e sofferenza a Gesù per qualcuno a cui si vuole bene e infine, ma non meno importante, non dimenticarsi mai di pregare”. Realizzata con il legno recuperato dai barconi carichi di migranti naufragati a Lampedusa, nel laboratorio di falegnameria interno alla casa circondariale di Secondigliano a Napoli grazie al progetto Metamorfosi della Casa dello Spirito e delle Arti, la cosiddetta “chitarra del mare” - suonata in passato anche da Sting - ha accompagnato con la sua musica i momenti di preghiera e raccoglimento negli istituti di pena: “Abbiamo cantato insieme ai detenuti e abbiamo insegnato loro una preghiera da recitare, hanno avuto in questo modo anche l’occasione di ricordare i migranti morti in mare, soprattutto i bambini - conclude don Vittorio - ma soprattutto si sono inginocchiati tutti davanti a Maria, io ho imposto loro le mani invocando la benedizione dello Spirito, tutti sono stati benedetti e tutti sono scoppiati a piangere”. Fuoco incrociato sulle toghe: Governo già in marcia per il Sì al referendum di Valentina Stella Il Dubbio, 4 settembre 2025 L’Esecutivo ma anche l’Anm pronti a tutto ormai pur di vincere la consultazione sulle carriere separate. In campo anche i ministri “estranei” al dossier, come Musumeci e Zangrillo. Fuoco incrociato del governo contro la magistratura. Quando mancano pochi giorni alla ripresa, nella commissione Affari costituzionali della Camera, della discussione sulla riforma della separazione delle carriere, sia la presidente del Consiglio Giorgia Meloni che tre dei suoi ministri rilasciano dichiarazioni che alzano il livello di scontro con l’Anm. E Cesare Parodi non resta a guardare, con la replica affidata a un’ampia intervista alla Stampa. Sembra solo l’antipasto delle prossime tre stagioni di ping pong dialettici sempre più feroci tra gli avversari in campo. Ma vediamo cosa è successo nel dettaglio. Qualche giorno fa il ministro della Protezione civile, Nello Musumeci, dal palco dell’Etna Forum ha dichiarato che “il magistrato ha il compito di fare il killer, la stampa ha il compito di darne notizia”; poi ieri, in una intervista a Repubblica, il ministro della Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, ha invocato una riforma sulle valutazioni dei magistrati “perché non è possibile che risultino tutti eccellenti”. Qualche giorno fa era stato il guardasigilli Carlo Nordio a sostenere, forse anche con una iperbole, che “il magistrato che sbaglia deve cambiare mestiere”, e prima ancora la premier, dal Meeting di Rimini, aveva assicurato e rassicurato che “giudici politicizzati” non freneranno il cammino della riforma costituzionale che divide la carriera dei giudici da quella dei pubblici ministeri. Insomma, nel giro di pochissimi giorni, l’Esecutivo ha schierato quattro pezzi di peso sulla scacchiera che vedrà fronteggiarsi nei prossimi mesi i due schieramenti sulla riscrittura radicale dell’ordinamento giudiziario. L’attacco quasi simultaneo sulla magistratura, in particolare su quella requirente, può considerarsi quasi certamente casuale dal punto di vista temporale. Quello che si capirà dalle prossime settimane è se tutto questo possa dare forma a una vera e propria strategia, sempre più ampia, di delegittimazione della magistratura, man mano che si avvicina l’appuntamento referendario. Se è vero che il ministro della Giustizia, e autore del ddl costituzionale, ufficialmente ha auspicato che il plebiscito non si trasformi in un sondaggio sulle toghe in generale ma punti alle questioni tecniche della riforma, come pure chiede l’Unione Camere penali, è chiaro fin da ora che sarà inevitabile usare argomenti collaterali per vincere la partita. Dall’una e dall’altra parte. Non a caso anche le toghe spesso escono fuori dal recinto argomentativo tecnico, e abbracciano quello più pop per cui, ad esempio, la riforma non va approvata dal popolo perché sarebbe frutto del pensiero del massone della P2 Licio Gelli. Non ci sono, in pratica, regole di ingaggio, per questa battaglia. E Parodi, da presidente Anm, pur essendo una persona mite e non avvezza allo scontro, sa che dovrà sporcarsi le mani e parare diversi tiri. Oltre che con l’intervista alla Stampa, ieri lo ha fatto anche a margine di un convegno tenutosi in Cassazione. “Se bisogna vincere un referendum denigrando la magistratura, allora questa è una cosa che io non accetto assolutamente, perché vuol dire che forse gli argomenti che ci sono a supporto della riforma non sono così buoni”. Il leader del “sindacato” delle toghe ha poi aggiunto: “Chi parla con una certa leggerezza, specialmente molti giornali e molti mezzi di informazione, di errori giudiziari, anche per vicende che sono ancora in corso, magari in primo grado, dove quindi è tutto da verificare, fa un’attività strumentale, secondo me non condivisibile e finalizzata a danneggiare ulteriormente l’immagine della magistratura presso l’opinione pubblica in funzione di quelli che saranno poi gli esiti referendari”. Parodi mentre parla sta pensando molto probabilmente al ministro Musumeci ma forse pure al dibattito, alimentato dallo stesso inquilino di via Arenula, seguito alla presentazione a Venezia della nuova serie tv firmata da Marco Bellocchio, “Portobello”, sulla vicenda di Enzo Tortora. Così come al caso Garlasco bis, che da molti viene raccontato come un esempio di errore giudiziario, anche se in realtà non lo è (ancora): secondo diversi commentatori la magistratura avrebbe mandato in carcere un innocente - in questo caso Alberto Stasi - perché incapace di fare indagini corrette, e perché non avrebbe cercato un altro presunto colpevole. In pratica ogni argomento sarà buono per minare dinanzi all’opinione pubblica la credibilità della magistratura. Certo, bisognerà vedere quanto questa tattica potrà funzionare. Lo diranno innanzitutto i sondaggi interni che i partiti hanno già iniziato a commissionare sul tema. Governo e maggioranza potranno limitarsi a fare una comunicazione che miri a presentare la riforma come una soluzione alle degenerazioni del correntismo o dovranno ampliare, come in questi giorni, il bersaglio di tiro? Parodi (Anm): “La separazione delle carriere è un regalino gli avvocati” di Errico Novi Il Dubbio, 4 settembre 2025 In un’intervista alla “Stampa”, il leader dei magistrati dimentica l’articolo 111 della Carta e sul sorteggio dei togati dice: “Risponderanno comunque alle correnti”. Cesare Parodi ha un pregio: parla fuori dai denti. È il tratto che lo rende davvero un magistrato, che lo affranca dalla degenerazione politicista in cui parte dell’ordine giudiziario italiano è scivolata da lustri. A volte il candore lo espone a gaffes. Il che può essere un danno ma anche una benedizione. Nella sua sfacciata innocenza, il presidente dell’Anm ha svelato, in una densissima intervista rilasciata alla Stampa, una raffica di verità indicibili. Accusa il governo, la maggioranza, di voler distruggere l’immagine della magistratura pur di vincere il referendum sulla separazione delle carriere. Gli si potrebbe rispondere che la magistratura non si è fatta alcuno scrupolo nel distruggere l’immagine della politica pur di conquistare un effimero primato nella fiducia degli elettori. È la guerra dei roses fra i poteri dello Stato, bellezza, verrebbe da aggiungere. Ma sarebbe fuorviante. Piuttosto, in due passaggi la schiettezza di Parodi si traduce in uno spettacolare autogol. Innanzitutto nella tesi per cui il cuore della riforma Nordio, la separazione “sistemica” dei giudici dai pm (due distinti Csm, scatti di carriera e nomine stabilite da giudicanti e requirenti in autonomia gli uni dagli altri) sia un contenuto irrilevante: “È stato inserito per avere il pieno consenso dell’avvocatura italiana”. Come se l’articolo 111 non esistesse, come se quel chiarissimo principio costituzionale non reclamasse un giudice “imparziale” ma anche “terzo”, rispetto alle parti, rispetto alla difesa ma anche all’accusa, cioè al pubblico ministero. Come si può ridurre il dettato della Carta a quisquilia per elargire una presunta mancetta agli avvocati? Vuoi vedere che il non detto è “noi magistrati siamo superiori pure alla Costituzione”? La seconda confessione involontaria riguarda il sorteggio: il giornalista chiede se così verrà stroncato il potere delle correnti, e Parodi - forse per cinismo, ma probabilmente per spirito di verità - replica che, anche con l’estrazione a sorte, le stesse correnti riassorbiranno tranquillamente i componenti togati dei due eventuali futuri Csm, visto che “il 94% circa dei magistrati è iscritto all’Anm e la maggior parte simpatizza per un gruppo associativo”. Della serie: guardate che la correntocrazia è immortale. Il che, detto con franchezza, rischia di convincere a votare sì alla riforma pure Elly Schlein. Parodi squarcia altri veli, con la propria sincerità. È di una correttezza disarmante quando ricorda che il governo, Giorgia Meloni in persona, non ha potuto annacquare il ddl costituzionale sulla magistratura anche perché l’aveva promesso “ai suoi elettori”. A un interlocutore di così rara trasparenza ci permettiamo di offrire un po’ di consigli non richiesti. Dismetta lo snobismo con cui l’Anm da trent’anni liquida la separazione delle carriere. Rinunci al tono apocalittico che spinge il suo sindacato a evocare un attacco, in realtà inesistente, che la riforma porterebbe all’autonomia delle toghe, e dei pm in particolare. Accetti, convinca i colleghi ad accettare l’idea che sì, con la separazione delle carriere, i requirenti, le Procure, avranno minor ascendente sui giudici, sui gip soprattutto, riscuoteranno meno successi dunque nelle richieste di carcerazione preventiva con cui si distruggono le carriere dei politici come le vite dei poveracci. Ma forse i magistrati torneranno a ciò che dovrebbero essere: un ordine dello Stato che esercita un potere, non un contropotere mascherato che corrode le basi della democrazia. Anche perché, ci teniamo a ricordarlo, oggi i magistrati italiani - per cultura, per la selezione a cui devono sottoporsi, dagli studi al concorso - rappresentano in ogni caso un’élite intellettuale che dà un’infinità di piste alla classe politica. E da una posizione del genere, le toghe potranno contribuire alla rinascita civile del Paese in modo assai più incisivo di quanto non abbiano fatto con le 17 indagini e i rinvii a giudizio inflitti ad Antonio Bassolino finiti tutti in inesorabili assoluzioni. Dire sì al sorteggio poteva “salvarci”: parola di giudice di Natalia Ceccarelli* Il Dubbio, 4 settembre 2025 Nel dibattito in corso sul progetto governativo di riforma della magistratura, l’Associazione Nazionale Magistrati ha scelto di impiegare tutte le sue energie per opporsi alla ratifica referendaria del disegno di legge costituzionale. Trattasi di scelta senz’altro legittima, in quanto proveniente dall’organo sindacale di rappresentanza della categoria interessata. Ciò che, peraltro, non può essere sottratto a giusta critica sono il modo in cui tale impegno si sta esplicando e il contenuto degli argomenti che si stanno spendendo nel confronto informativo sul tema. L’Anm sta compiendo, a mio avviso, un errore veniale di metodo e un grave errore di merito. Quanto al primo, non c’è chi non veda il recente incremento esponenziale dell’esposizione mediatica dell’Associazione. I profili social dell’Anm sovrabbondano di interventi e interviste pressoché quotidiani dei rappresentanti dei gruppi associativi di maggioranza. Il salto di qualità è evidente. Si è passati dalle discussioni interne dentro le mailing list alla divulgazione fruibile da tutti i cittadini. La novità piace ai magistrati, che si sentono parte attiva del villaggio globale. Il punto è che gli argomenti di contrasto alla riforma validi nelle discussioni tra colleghi non hanno la medesima efficacia persuasiva dentro la società civile, e nel tritacarne mediatico rischiano di amplificare il sospetto che l’Anm sia diventata un soggetto di opposizione politica, tanto caro quanto utile ai sostenitori della riforma. Ma l’errore piu’ grave è, a mio avviso, di merito. Si è scelto di non accettare nulla di questa riforma, che pure una cosa (più che) buona la contiene. Il sorteggio dei consiglieri superiori è misura ineludibile per il recupero di credibilità della categoria agli occhi dell’opinione pubblica, dopo i recenti (troppo recenti) scandali palamariani e il negazionismo autoassolutorio interno, che hanno spianato autostrade all’intervento di riforma. Sul tema nessuna apertura si è registrata nelle esternazioni degli organi rappresentativi dell’Associazione, nemmeno in termini di interlocuzione sulle future leggi attuative, e l’unico gruppo in Cdc (da tempi non sospetti) favorevole al sorteggio, il Movimento Articolo 101 (che per tale ragione non è entrato nella Giunta esecutiva centrale) è stato sempre deliberatamente escluso da ogni recente occasione di incontro istituzionale, con il conseguente oscuramento delle adesioni interne a questa parte della riforma. Diversamente dal sorteggio, la separazione delle carriere non è stata preceduta da alcun processo sociale di metabolizzazione. Essa si innesta storicamente come corpo estraneo tra il codice di procedura penale di stampo accusatorio del 1988 e la riforma verticistica delle Procure del 2006, celando, più che il rischio di sottoposizione del Pm all’Esecutivo, quello della creazione di un autonomo centro di potere dei Procuratori, del tutto avulso dalla nostra tradizione ed esperienza giuridica, e, quel che è peggio, dal sistema di bilanciamento interno dei meccanismi di carriera e di controllo disciplinare (in combinato disposto con l’istituzione dell’Alta Corte). In definitiva, nello scenario normativo attuale, successivo alla riforma del 2006, la separazione delle carriere rappresenta una colossale incognita rispetto alla salvaguardia dell’indipendenza dell’intero ordine giudiziario, senza essere, peraltro, qualcosa in più di un semplice manifesto programmatico per il redattore politico. Le recenti esternazioni “off record” di qualche illustre sottosegretario sottendono analoghi timori. Il che dimostra che la falla è aperta e che in essa si poteva entrare. Perciò, la strategia del muro contro muro alla riforma rischia di rivelarsi fatale. L’accettazione del sorteggio come unico (e necessario) strumento di riforma, e magari la sua spendita in cambio di una rimeditazione degli altri due punti programmatici del progetto (separazione ed Alta Corte), potrebbero rappresentare, invece, una dignitosa soluzione transattiva per tutte le parti in causa, e scongiurare le incognite della riscrittura degli equilibri di potere attuali, senza contare il valore simbolico di tale scelta, che farebbe senz’altro lievitare il numero di follower della categoria su tutti i social media. *Consigliera della Corte d’appello di Napoli, componente del Comitato direttivo centrale dell’Anm per la lista “Articolo Centouno” Il Csm sceglie il nuovo primo presidente di Cassazione. Sfida a due di Ermes Antonucci Il Foglio, 4 settembre 2025 Si prospetta una spaccatura netta al plenum straordinario che il Consiglio superiore della magistratura terrà oggi pomeriggio, alla presenza del capo dello stato, per nominare il nuovo primo presidente della Corte di cassazione. Sono due i nomi in lizza per sostituire Margerita Cassano, il cui mandato scade il 9 settembre per raggiunti limiti di età: Pasquale D’ascola e Stefano Mogini, rispettivamente primo presidente aggiunto e segretario generale della Corte di cassazione. Nonostante l’opera di moral suasion svolta nelle ultime settimane dal Quirinale per spingere i consiglieri a trovare un accordo unanime su un candidato, le previsioni vanno verso una sfida all’ultimo voto. Il favorito alla vigilia è D’Ascola, che nella Quinta commissione del Csm, cioè quella competente sugli incarichi direttivi, ha ottenuto quattro voti favorevoli su sei. Al plenum D’Ascola, vicino alla corrente di sinistra Area, dovrebbe ricevere le preferenze dei tre consiglieri laici eletti in quota opposizione (Romboli, Carbone e Papa) e dei 13 togati appartenenti alle correnti Area, Md e Unicost. Mogini, non legato ad alcuna corrente ma con un passato da capo di gabinetto del Guardasigilli Clemente Mastella, dovrebbe ricevere i voti di sei consiglieri laici di centrodestra e dei sette togati di Magistratura indipendente. I consiglieri togati indipendenti Roberto Fontana e Andrea Mirenda hanno annunciato ieri in una nota la propria astensione, motivando la loro decisione come una protesta contro il meccanismo di nomina previsto dal testo unico sulla dirigenza giudiziaria. Dovrebbero astenersi anche i componenti del comitato di presidenza: il vicepresidente Fabio Pinelli, la presidente Cassano e il procuratore generale della Cassazione Piero Gaeta. Se dunque le previsioni saranno rispettate, a prevalere nella procedura di nomina sarà D’ascola con poche preferenze di scarto (16 a 13?). Insomma, a meno di novità dell’ultimo momento (cioè il ritiro della candidatura da parte dello sfavorito Mogini), il capo dello stato assisterà a una deliberazione segnata da uno spirito ben distante da quello della concordia e dell’unanimità. Va ridimensionato, tuttavia, l’impatto che un’eventuale spaccatura su una nomina così importante avrebbe sull’immagine del Csm. Per quanto l’auspicio di Mattarella per nomine così rilevanti sia sempre volto all’unanimità, non sarebbe la prima volta che l’organo di governo autonomo si mostra profondamente diviso nelle sue sedute solenni di fronte al capo dello stato. E’ accaduto in parte lo scorso febbraio, in occasione della nomina di Gaeta come nuovo pg della Cassazione (ottenne venti voti, contro i nove a favore dello sfidante Pasquale Fimiani). Ma la storia ci consegna anche spaccature proprio sulla nomina del primo presidente della Corte di cassazione. Nel 2013, per esempio, Giorgio Santacroce (all’epoca presidente della corte d’appello di Roma) venne nominato dal plenum del Csm alla poltrona più alta della Suprema Corte con tredici voti a favore, contro i nove andati al suo diretto concorrente, il presidente della seconda sezione civile della Cassazione Luigi Rovelli. Il tutto di fronte all’allora capo dello stato Giorgio Napolitano. Lo stesso Napolitano fu testimone di una frattura ancora più clamorosa, nel dicembre 2006, quando il plenum straordinario del Csm bocciò con 12 voti a favore, 12 contrari e un astenuto la proposta di nominare Vincenzo Carbone come primo presidente della Cassazione, per via di un incarico universitario non autorizzato. La situazione si risolse soltanto nei mesi successivi, quando la giustizia amministrativa diede ragione a Carbone, confermando la legittimità della sua candidatura. Nel luglio 2007 Carbone venne definitivamente nominato al vertice della Suprema Corte dal plenum del Csm. Insomma, anche se i consiglieri del Csm oggi dovessero “spaccarsi”, non sarebbe la fine del mondo. Intanto si è insediato ieri a Palazzo Bachelet, dopo l’approvazione unanime da parte del plenum della delibera di convalida dei titoli, il professore Daniele Porena, eletto lo scorso 5 agosto dal Parlamento in seduta comune come membro laico del Csm in quota centrodestra, in sostituzione della dimissionaria Rosanna Natoli. Csm, fronda di Fontana e Mirenda: “Non avalliamo il nominificio” di Simona Musco Il Dubbio, 4 settembre 2025 I due consiglieri indipendenti annunciano l’astensione dal voto nel plenum di oggi per il nuovo primo presidente della Cassazione. “Non accolto l’auspicio del Colle all’unità”. Colpo di scena alla vigilia dell’elezione del nuovo primo presidente della Cassazione: i consiglieri indipendenti Andrea Mirenda e Roberto Fontana hanno annunciato la loro astensione dal voto. Una decisione che rende ancora più turbolento il quadro, considerando l’auspicio del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che in occasioni di nomine di tale rilievo ha sempre manifestato la preferenza per una candidatura condivisa e approvata all’unanimità. Una prospettiva già sfumata, poiché a contendersi la successione di Margherita Cassano, oggi, ci sono due magistrati: Pasquale D’Ascola e Stefano Mogini. Due profili “eccellenti”, ci tiene a specificare Fontana, ma diversissimi tra loro e proprio questo dimostrerebbe come il meccanismo delle nomine e la disciplina prevista dal testo unico siano un modo per mantenere in vita il nominificio. “Io e Mirenda, sul tema di fondo del sorteggio, la pensiamo in modo diametralmente opposto - ha esordito Fontana -. Io sono tra coloro che ritengono che il sorteggio depotenzi autorevolezza e ruolo del Csm, Mirenda no. Ma abbiamo condiviso la battaglia sul testo unico”. Il nesso con le degenerazioni nel sistema delle nomine starebbe nella eccessiva ampiezza di discrezionalità del Consiglio in questo campo, “discrezionalità che non riteniamo essenziale”. Al contrario, ciò che conta è fissare “in modo preciso delle regole, dei parametri e dei rapporti tra questi parametri, in modo che la scelta diventi l’applicazione della regola enunciata” e non una scelta dettata da altre regole, in questo caso legate all’appartenenza correntizia. Proprio per tale motivo, insieme a Mimma Miele di Md e ai consiglieri di Unicost, i due indipendenti avevano proposto un Testo unico che stringesse le maglie della discrezionalità, testo votato anche da tutti i laici - escluso Ernesto Carbone - ma comunque uscito sconfitto in plenum. “L’ampiezza e l’evanescenza delle regole ha consentito la degenerazione del sistema delle nomine”, ha aggiunto Fontana, precisando che il testo unico ha contribuito alla polarizzazione tra i due candidati, entrambi eccellenti, ma scelti sulla base di criteri ampi e non oggettivi. È l’articolo 23 del Testo unico, che disciplina queste nomine, a contenere - denunciano i due consiglieri - una serie di criteri solo apparentemente gerarchici, ma che, come recita la clausola finale, devono essere comunque valutati “unitariamente”. Una formula che consente di giustificare tutto e il contrario di tutto, trasformando la regola in una foglia di fico per ogni scelta. Il loro orientamento, dunque, è di astenersi finché il testo unico non verrà modificato introducendo criteri più stringenti. “È una battaglia che non finisce certo domani. Non vuol dire che non parteciperemo a tutte le votazioni, ma a quelle inficiate da quegli articoli dove il tasso di criticità è più forte”, ha concluso Fontana. “Sono il primo sorteggiato e spero non l’ultimo - ha poi affermato Mirenda -. Al consigliere Fontana mi accomuna la battaglia per le regole che rendono leggibili e trasparenti le deliberazioni consiliari. E c’è solo un modo, quello di un ancoraggio forte a testi normativi”. La norma attuale - “il Testo unico delle mani libere” - è “priva di limite”. E lo è in quanto “ideologicamente pensata in questo modo da Area e MI, che hanno voluto reagire alla nostra proposta per avere le mani libere”. Basta leggere l’articolo 23, appunto, per comprendere “come entrambi gli odierni candidati - benché assai diversi per storia professionale e curriculum - siano comunque paritariamente riconducibili al labirinto normativo menzionato. Insomma, un Tu che consente di dire tutto e il suo contrario, scientemente pensato per consentire ai gruppi consiliari di “portare comunque i propri”, a prescindere da ogni oggettività e merito”. “Io non ci sto e semplicemente non voto - ha sottolineato Mirenda -. Avete deciso di fare un atto di forza e non accogliere l’auspicio del Quirinale per valutare il vostro potere negoziale in plenum, allora è una vostra battaglia e ve la vedete tra voi”. Quella di Fontana e Mirenda è una “battaglia per la trasparenza” e per “far cessare il nominificio attraverso regole stringenti”. Una “battaglia d’amore per la magistratura, nella speranza di ridare dignità al Consiglio e dire alla società civile che si può fare diversamente”, ha aggiunto Mirenda, secondo cui l’ultimo problema dell’autogoverno - a fronte di questioni deontologiche, disciplinari e di efficienza degli uffici - è quello del nominificio. “Il Consiglio, se avesse il coraggio di intraprendere una seria strada riformista, potrebbe continuare a vivere senza bisogno del sorteggio e con un sistema di rappresentanza elettiva. Se tutto questo non accadrà, potrò dire alla mia coscienza che ho fatto tutto il possibile per riportare al Consiglio dignità e autorevolezza”. Un assist a chi sostiene la necessità di separare le carriere? Non per Fontana, secondo cui la battaglia sul Testo unico nasce proprio “per dare una risposta a un problema” nato con il Palamaragate e mai risolto. “Non siamo riusciti a liberarci di certe logiche. E il nostro è un tentativo di dimostrare che l’autogoverno, almeno questa è la mia posizione, ha le risorse e la capacità di correggere e rispondere a determinati fenomeni, senza la necessità di una riforma costituzionale. Non si butta via il bambino con l’acqua sporca”. Quel che è certo, per entrambi, è che non si può continuare a riproporre le stesse dinamiche correntizie, che non sono più figlie di divisioni ideologiche, ma di “logiche prosaiche”, legate ai meccanismi di costruzione del consenso. E proprio per la loro pochezza, queste logiche finiscono per indebolire ulteriormente il Consiglio superiore della magistratura. Diversa, sul punto, la posizione di Mirenda. “Qualcuno dirà che queste critiche indeboliscono il Consiglio e legittimano il disegno di legge costituzionale - ha concluso -. Io dico subito una cosa: il sorteggio non è la causa, ma è la conseguenza. E allora: chi non ha la forza di riformarsi, viene fatalmente riformato. E per le nomine abbiamo sacrificato l’autorevolezza della magistratura. Abbiamo distrutto la credibilità del Csm”. Al Csm opposizione “gandhiana” degli indipendenti di Mario Di Vito Il Manifesto, 4 settembre 2025 Fontana e Mirenda si asterranno al plenum con Mattarella. Due astensioni davanti a Mattarella, che oggi pomeriggio presiederà a palazzo Bachelet il plenum del Csm dedicato alla nomina del nuovo primo presidente della Cassazione. È la protesta degli indipendenti Alberto Fontana e Andrea Mirenda, annunciata alla vigilia perché non vuole essere uno sgarbo a nessuno, tantomeno al presidente della Repubblica, ma un modo per riaccendere un faro sull’annosa questione del testo unico delle nomine giudiziarie. Per quello che riguarda la presidenza della Corte, i nomi in corsa si sanno da luglio: uno è il presidente aggiunto della Pasquale D’Ascola, l’altro è il segretario generale Stefano Mogini. Il primo, in teoria, partiva favorito, con l’appoggio di Area, Magistratura democratica, Unicost e dei laici di centrosinistra. Ma con le astensioni di Fontana e Mirenda, il gioco si è improvvisamente riaperto. “Sappiamo che il nostro è un gesto clamoroso - dice Fontana - ma la nomina sarà fatta lo stesso, quindi non c’è danno per l’attività istituzionale”. Prosegue Mirenda: “La nostra è una protesta gandhiana”. I motivi? La troppa discrezionalità lasciata al consiglio dal testo unico sulle nomine giudiziarie approvato a ottobre dell’anno scorso. La polemica, al tempo, fu forte: da una parte Md, Unicost e gli indipendenti a sostenere un metodo “a punteggio” per decidere gli incarichi direttivi nei tribunali e dall’altro un sistema che lascia l’ultima parola in mano al plenum del Csm, proposta sostenuta da Area e Magistratura indipendente, i due gruppi maggioritari. “È questo testo unico che ha fatto sì che non si è arrivati a una proposta unitaria per la presidenza della Cassazione, come avrebbe voluto il Quirinale - attacca ancora Fontana -, il nostro gesto serve ad attirare l’attenzione su questo: è chiaro che non si potrà revocare il provvedimento assunto l’anno scorso, ma è possibile rivederlo nella sua parte più clamorosamente svincolata da ogni regola, quella sugli incarichi direttivi”. Si tratterebbe di riscrivere due articoli in tutto, in effetti. “Il testo unico - prosegue Mirenda - è privo di limiti. È stato pensato da Area e Mi per tenersi le mani libere in consiglio. Al Csm si parla quasi sempre di nomine, ma in realtà è un problema irrisorio rispetto ai tanti che ha la magistratura”. Gli incarichi, i posti da procuratori, i trasferimenti li decide tutti il Csm. E ancora nella memoria collettiva dell’universo giudiziario c’è il caso dell’Hotel Champagne, la “degenerazione correntizia” che vedeva al centro della scacchiera l’ex magistrato Luca Palamara. Storie vecchie, probabilmente. O forse no. “Lo scandalo emerse nel 2019 - ricorda Mirenda - ma tutti i magistrati sapevano benissimo come funzionavano le cose”. E ora? Spiega Fontana: “Noi vorremmo dare una risposta a questo problema, e per noi questo si può fare solo introducendo delle regole chiare per le nomine”. Sullo sfondo c’è sempre la riforma della giustizia firmata da Carlo Nordio, quella che non solo separerà le carriere di magistrati requirenti e giudicanti, ma sdoppierà anche il Csm, togliendogli ogni competenza in materia disciplinare e sorteggiandone i membri in maniera integrale. Tutto questo, come sappiamo grazie alle pressoché quotidiane esternazioni del guardasigilli, per combattere le correnti (leggi: le famigerate toghe rosse, cioè tutte quelle che per un motivo o per un altro hanno assunto decisioni sgradite al governo). “Mirenda e io siamo su due fronti opposti per quanto riguarda il sorteggio - dice in ultima analisi Fontana - com’è noto, lui è favorevole e io no. In questa battaglia però ci troviamo insieme perché entrambi pensiamo che ci sia troppa discrezionalità sulle nomine giudiziarie. Inserire delle regole chiare significa dimostrare che la magistratura è capace di correggersi e che non c’è alcun bisogno della riforma costituzionale”. E Mirenda, più dubbioso di Fontana, conclude: “Chi non è capace di riformarsi fatalmente verrà riformato”. Dalla Chiesa. Beato il Paese che non ha bisogno di eroi di Vincenzo Scalia L’Unità, 4 settembre 2025 L’eccidio di via Isidoro Carini rappresenta uno spartiacque relativamente alla questione mafiosa. Fu a partire da quel tragico evento che lo Stato italiano, 122 anni dopo l’unità nazionale, riconobbe che esisteva la criminalità organizzata. Dopo il 3 settembre 1982 venne introdotto il reato 416 bis, di associazione per delinquere di stampo mafioso, e che fu approvata la legge Rognoni-La Torre, che andava a colpire gli interessi economici mafiosi. Già Leopoldo Franchetti, nel 1876, aveva analizzato a fondo la configurazione della mafia, definendola “industria della violenza” promossa e praticata dai “facinorosi della classe media”. Dall’altro lato, l’opposizione sociale e politica, dai Fasci Siciliani al giornale L’Ora, passando per le occupazioni delle terre, era sempre esistita. Proprio nei primi anni Ottanta, attorno al pacifismo, si era coagulata una società civile attenta anche alle questioni mafiose. Eppure, si aspettò il 3 settembre 1982. Cosa Nostra si poneva in posizione organica rispetto alle relazioni politico-economiche del tempo. Tuttavia, fu necessario il clamore suscitato dall’omicidio di un alto, popolare, funzionario dello Stato. Che rischiava di delegittimare ulteriormente una classe politica alle prese con l’instabilità economica e accuse di corruzione. Di conseguenza, la lotta alla mafia diventò la nuova frontiera della legittimazione statuale, succedendo all’emergenza terroristica appena terminata. La figura del generale Dalla Chiesa, ricopre una valenza simbolica rilevante nel passaggio di consegne tra un’emergenza e un’altra. Era stato il protagonista della lotta alle organizzazioni armate, dalle infiltrazioni, ai blitz, alla gestione dei pentiti. Una stagione che lo aveva visto protagonista di episodi discussi, come la repressione della rivolta al carcere di Alessandria, il 9-10 maggio 1974, culminata con 7 morti e 15 feriti. O che lo vide rivendicare, nella trasmissione di Zavoli “La notte della Repubblica”, il carattere difensivo dell’azione dei Carabinieri in via Fracchia, a Genova, il 28 marzo 1980, culminata con la morte di quattro brigatisti. Per quanto le testimonianze e le prove balistiche andassero in direzione contraria. Un’emergenza legittimata, secondo le parole dello stesso generale, del carattere levantino del capoluogo ligure, refrattario ad ogni regola di vita associata di stampo occidentale. Giunto a Palermo nel 1982, lo schema applicato nei confronti del terrorismo viene riprodotto nella lotta contro la mafia. Da un lato, la denuncia della gravità della situazione, e la conseguente, costante richiesta, di disporre di pieni poteri. Una formula che presuppone la possibilità di leggi speciali e prerogative straordinarie, in pieno emergenzialismo. E che fa leva, come nel caso di Genova, su di una lettura lombrosiana. In un’intervista del 6 agosto 1982 a questo giornale, auspica che tra i mafiosi nasca “un gene che produca qualcosa di diverso dalla vendetta e dalla paura”. Come se la mafia fosse il prodotto del determinismo biologico, quindi intrinsecamente siciliana, e non la conseguenza di rapporti di potere asimmetrici. L’eredità di Dalla Chiesa proietterà la sua ombra sullo sviluppo della cultura e delle politiche antimafia. L’idea di un deficit di legalità innato nei siciliani, il bisogno di una educazione al civismo, accompagnata dalle misure di emergenza, scaturisce da questa impostazione, che sorvola sulla vivacità della società civile dell’isola. Figure come Pippo Fava, Pio La Torre, Peppino Impastato, sono lì a smentire il determinismo biologico. Sulla stessa falsariga, misure come il 41 bis (carcere duro) e il 4 bis (ergastolo ostativo), sono figlie della vocazione a chiedere poteri e leggi straordinarie. Quando invece, Falcone e Borsellino, avevano dimostrato che la lotta alla mafia, oltre che questione di metodo investigativo, ovvero seguire la via del denaro, riguardava la capacità di disporre di risorse sufficienti e adeguate. Il paradigma della legalità, tuttavia, continua a prevalere. Intendendo con questa definizione non il rispetto delle regole dello Stato di diritto, bensì l’utilizzo di leggi speciali e tecnocrazie repressive, nonché la convinzione che la criminalità organizzata riguardi soltanto i gruppi sociali marginali. Beato il paese che non ha bisogno di eroi, diceva Brecht. Mai, come in questo caso, fu più vero. Sicilia. L’estate sta finendo, nelle carceri nulla è cambiato di Pino Apprendi* blogsicilia.it, 4 settembre 2025 “L’estate sta finendo” diceva una vecchia canzone ed io aggiungo che nulla è cambiato, se non in peggio, in carcere. Una estate caldissima, soffocante, per chi vive per oltre 20 ore in pochi metri quadrati. Pronti, si fa per dire, ad affrontare l’inverno con i problemi legati alle basse temperature. Abbiamo assistito alle passerelle di agosto di alcuni parlamentari che, il massimo che hanno fatto, oltre al comunicato stampa, è stata la presentazione di una interrogazione parlamentare, che probabilmente riceverà risposta fra 4 o 5 mesi. Risposte del ministro senza alcuna concretezza, che ha già dimostrato quanto abbia a cuore i detenuti anche quando si è parlato di suicidi, minimizzando il tutto come fatti naturali. In Sicilia, dove mancano le REMS per accogliere coloro che hanno problemi di salute mentale e le comunità per i tossicodipendenti, il Presidente ha aspettato 5 mesi per nominare il nuovo garante regionale, al quale auguro buon lavoro. Cosa possiamo aspettarci da una regione che ha lunghissime liste di attesa nella sanità per chi detenuto non è e dove il detenuto viene considerato rifiuto della società. In carcere non si muore solo per i suicidi, si muore anche e spesso, per gravi patologie trascurate e non per responsabilità del personale sanitario del carcere ma per una sanità quasi inesistente. *Ex deputato regionale e Garante dei detenuti di Palermo Umbria. Garanti regionali, si cambia: “Figure che danno voce a disabili, minori e detenuti” di Silvia Angelici La Nazione, 4 settembre 2025 Sarah Bistocchi illustra la proposta di legge per razionalizzare e rendere più efficiente il ruolo. Previsto un ufficio unificato a Palazzo Cesaroni. Dovranno avere la laurea, agiranno in autonomia e in piena indipendenza dagli organi politici e regionali. Per loro a disposizione un ufficio a palazzo Cesaroni, che fornirà i locali e i mezzi strumentali. Nuove norme e soprattutto più potere decisionale ai garanti dei detenuti, dei minori e quello dei disabili. Si basa su questi presupposti la proposta di legge per il “Riordino della disciplina legislativa dei Garanti regionali in Umbria”, presentata dalla presidente dell’Assemblea legislativa regionale, Sarah Bistocchi. “Tre figure importantissime - rimarca Bistocchi - che danno tutela a fasce specifiche di fragilità e voce a chi voce non ne ha”. “L’obiettivo è chiaro: rafforzare questi ruoli per rendere così più efficace la garanzia e la tutela dei diritti dei cittadini, in particolare quindi per le categorie più vulnerabili. Per queste figure - spiega Bistocchi - c’era la necessità di una normativa più coerente e uniforme, per avere tre garanti non come corpi estranei e diversi ma come dita di una stessa mano. La proposta di legge nasce quindi dalla necessità di riordinare, rendere omogeneo e semplificare il panorama normativo regionale. Attualmente le disposizioni relative alle tre figure dei garanti regionali sono frammentate in diversi atti normativi. L’intenzione di questa iniziativa legislativa è, pertanto, di unificare in un unico testo organico tutte le norme pertinenti, garantendo maggiore chiarezza, coerenza e funzionalità all’azione di queste figure regionali di garanzia, apportando elementi di novità rispetto all’attuale normativa”. Bistocchi ha precisato che un punto cardine della proposta è la piena affermazione dell’autonomia e dell’indipendenza degli organi di garanzia. Opportuno poi, secondo la presidente dell’assemblea legislativa, che i tre Garanti vengano riportati a Palazzo Cesaroni liberando spazi in altri luoghi dove avevano sede. Tra le novità anche la durata del mandato, che sarà triennale, non più quinquennale, e rinnovabile. La proposta di legge vuole infine rendere omogenea anche l’indennità da loro percepita, che sarà pari al 15% di quella di un consigliere regionale. Inoltre è richiesto il possesso della laurea. Lunedì la proposta di legge sarà all’ordine del giorno della Prima commissione consiliare, per poi procedere con l’iter legislativo. Senigallia (An). “La giustizia penale non mi ha dato nulla, la giustizia riparativa ricuce le ferite” di Carlo Leone vocemisena.it, 4 settembre 2025 Tra gli appuntamenti significativi dell’edizione 2025 di Destate La Festa, c’è certamente l’incontro sulla giustizia riparativa, con la testimonianza toccante e potente di Giovanni Ricci. È il figlio di Domenico Ricci, carabiniere e membro della scorta di Aldo Moro, ucciso 47 anni fa nella strage di via Fani. Ed è lui, intervistato da Laura Mandolini a spiegare la necessità dell’ascolto e del dialogo con chi ha “sbagliato” e “fatto del male”. L’audio, disponibile in questo articolo grazie al lettore multimediale, è in onda su Radio Duomo Senigallia (95.2FM) mercoledì 3 e giovedì 4 settembre alle ore 13:10 e alle ore 20, con una replica anche domenica 7 alle 17 circa. L’uomo delle Marche e la sua missione - Domenico Ricci era nato nelle Marche e decise di lasciare la sua vita contadina per arruolarsi nei Carabinieri, con l’obiettivo di offrire un futuro migliore alla sua famiglia. La sua carriera lo portò, nel 1963, a diventare parte della scorta di Aldo Moro, un legame che durò più di 16 anni. In Moro trovò una fonte di ispirazione perché “le sue parole chiave erano ascolto e dialogo. Moro non era un politico distaccato, ma un uomo che portava i suoi studenti di diritto penale nelle carceri e negli ospedali psichiatrici giudiziari, per far capire loro che chi sta peggio di noi non va dimenticato, ma riconosciuto come persona, con dignità”. La tragedia e la scelta - Il 16 marzo del 1978, la vita di Domenico Ricci si spezzò in via Fani. Quel giorno non avrebbe dovuto essere in servizio, ma aveva scambiato il turno con un collega. Insieme a lui persero la vita gli altri uomini della scorta: Francesco Zizzi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Oreste Leonardi. Giovanni Ricci ha sottolineato come la giustizia penale, pur condannando i colpevoli, non sia riuscita a riparare il dolore delle vittime. “Non mi ha dato nulla, se non vedere delle persone in carcere”. Da qui, la sua scelta di intraprendere un percorso di giustizia riparativa, un cammino che, come ha spiegato, “non si sostituisce alla giustizia penale, ma le si affianca. È una giustizia che, con ago e filo, ricuce le ferite”. La tua croce - L’esperienza più forte per Giovanni è stato l’incontro con i carnefici di suo padre: Adriano Faranda, Franco Bonisoli e Valerio Morucci. “Li ho guardati negli occhi. Ho visto persone. E a Valerio Morucci, l’assassino di mio padre, ho detto: ‘La croce che porti tu è molto più grande della mia’”. Questo perché, come ha spiegato, le ferite dei carnefici, che si rendono conto della follia dei loro gesti, non si rimargineranno mai. La storia e la verità - La testimonianza di Ricci è anche un monito contro la retorica e la negazione della storia. “Finora abbiamo parlato di guerra civile, di lotta armata, ma non è così. I terroristi credevano in un ideale, un ideale di giustizia sociale e uguaglianza, ma hanno scelto la via delle armi. Hanno sbagliato. E la cosa più importante è che oggi, proprio loro, lo ammettano”. Giovanni Ricci collabora con ex brigatisti come Franco Bonisoli e Adriana Farano per portare la loro testimonianza nelle scuole e tra i giovani. Come avvenuto a Senigallia, nell’ambito di Destate La Festa, un momento dei giovani, dedicato ai giovani ma con iniziative di ampio respiro come quella del 16 agosto che rimarrà certo impressa in chi vuole andare oltre l’odio e oltre la giustizia penale, verso una giustizia “liberante”. Treviso. Cosa non torna nel caso di Danilo Riahi di Giulia Casula fanpage.it, 4 settembre 2025 Nella storia di Danilo Riahi, il diciassettenne tunisino morto il 13 agosto dopo un presunto tentativo di suicidio commesso all’interno dell’Istituto penale minorile di Treviso dove era stato rinchiuso qualche giorno prima, ci sono parecchi punti irrisolti. Per cercare di fare chiarezza e portare luce sulla vicenda abbiamo parlato con l’eurodeputata Ilaria Salis, che giovedì scorso ha condotto un’ispezione all’interno del carcere minorile in cui era stato rinchiuso. Lo stesso giorno, il collettivo Rotte Balcaniche assieme ai centri sociali Django di Treviso e Arcadia di Schio, ha organizzato un presidio davanti all’istituto per chiedere “verità e giustizia” per il ragazzo arrivato in Italia un anno fa dopo aver attraversato il Mediterraneo. L’arresto, il tentato suicidio e il ricovero: la storia di Danilo Riahi - “All’interno del carcere si trova una struttura che si chiama Cpa, ovvero centro di prima accoglienza, destinata ai minori fermati ma in attesa di convalida dell’arresto da parte del giudice. Sono strutture che per legge non dovrebbero stare all’interno delle carceri minorili (dato che l’arresto non è stato ancora convalidato per chi ci si trova), ma in prossimità dei tribunali così da poter condurre i minori alle udienze di convalida”, ci spiega l’europarlamentare di Alleanza Verdi-Sinistra. Danilo si trovava lì in custodia dopo esser stato immobilizzato con un taser e arrestato sabato 9 agosto con l’accusa di furto. “All’interno del Cpa di Treviso ci sono due celle: una da due posti e una da un posto. La notte del 9 agosto non erano stati fermati altri ragazzi, Danilo era solo in quella stanza, con due agenti a presidiarlo. Secondo quanto ci ha detto la direttrice, Danilo è stato visitato al suo arrivo, sabato verso le 2 di notte, dal medico di guardia della casa circondariale per adulti adiacente al carcere minorile”, racconta Salis. I punti oscuri e le omissioni - Il medico - lo stesso intervenuto quando è avvenuta la tragedia, circa 22 ore dopo - non avrebbe rilevato criticità tali da valutare ulteriori controlli più specifici da pare di uno psichiatra o psicologo. Nella sua permanenza all’interno dell’Ipm, durata quasi 24 ore, Danilo non ha incontrato altre figure oltre agli agenti che erano di guardia. “Il fatto che non fossero state rilevate criticità è molto strano perché dalle carte lui viene descritto, al momento del fermo, in uno stato di evidente agitazione psicofisica. È molto strano che questo non sia apparso evidente a chi ce l’aveva in custodia”, dice l’eurodeputata. Perché allora non sono stati svolti ulteriori accertamenti? Secondo il racconto della direttrice nella notte fra domenica 10 e lunedì 11 agosto (giorno in cui Danilo sarebbe dovuto andare in tribunale per la convalida dell’arresto) gli agenti in servizio si sarebbero insospettiti perché il ragazzo non usciva dal bagno da un po’ troppo tempo. Ma anche su questo punto le informazioni sono confuse. Quanto a lungo Danilo è rimasto chiuso in bagno? “Nonostante ritenessero di essere allarmati gli agenti hanno ritenuto opportuno, prima di aprire la porta della stanza per vedere effettivamente cosa stava succedendo, chiamare di rinforzo altri colleghi che si trovano all’interno dell’Ipm perché - sostengono - temevano un’evasione. Quando poi hanno aperto la porta si sono resi conto della situazione e hanno fatto intervenire il medico, che era di turno ormai da quasi 24 ore”, dice l’eurodeputata. Il diciassettenne, che avrebbe tentato di togliersi la vita impiccandosi, è stato portato d’urgenza all’ospedale di Treviso. Una volta arrivato è stato messo direttamente in terapia intensiva, ma dopo qualche giorno di agoni, il 13 agosto, è deceduto. “Un suicidio in un carcere minorile non avveniva da più di 20 anni, cioè dal 2003. È un segnale del fatto che la giustizia minorile italiana si sta deteriorando ed è un aspetto che la storia di Danilo mette in luce”, osserva Salis. Nella storia di Danilo sono diverse le cose che non tornano. “Il racconto è molto strano. È strano che se c’erano due agenti con il compito di sorvegliare una sola persona, sotto custodia dello Stato, sia avvenuto un fatto così. La dinamica è strana e ci sono delle responsabilità da chiarire”, rimarca l’europarlamentare. Inoltre l’Ipm, secondo quanto riferito dalla direttrice a Salis, non sarebbe stato informato dell’uso del taser al momento del fermo. Perché omettere quest’informazione? “Un altro gravissimo problema perché la struttura doveva sapere cos’era avvenuto prima per capire come intervenire nei confronti del ragazzo. Ci sono delle indagini e la vicenda verrà approfondita ma questa storia ha molti punti oscuri”, prosegue. Le terribili condizioni delle carceri minorili in Italia - Ma questa tragedia ci porta inevitabilmente a parlare, ancora una volta, delle condizioni carcerarie in Italia, comprese quelle degli istituti minorili. “La situazione è terribile. Si tratta di una struttura assolutamente inadeguata”, dice Salis a proposito dell’Ipm di Treviso. “In origine l’edificio costituiva la vecchia palazzina dove stavano i semi-liberi del carcere per adulti, cioè persone che trascorrono 8-10 ore al giorno in carcere, essenzialmente per dormire. Insomma non era una struttura adibita ad ospitare ragazzi con la necessità di svolgere una serie di attività formative, educative e che là dentro devono passarci 24 ore. È estremamente piccola: non ci sono spazi, c’è un cortiletto per l’aria”, aggiunge. “Sono anni che si dice che questo carcere minorile verrà chiuso per trasferirlo a Rovigo”. Lo spostamento è atteso tra dicembre e gennaio ma potrebbero esserci ulteriori rinvii. “Ci sono materassi a terra perché non ci sono abbastanza brandine. Nei bagni all’interno delle celle la doccia si trova direttamente sopra la turca con risvolti igienico sanitari che lascio immaginare”. Quello di Treviso è tra i più sovraffollati in Italia. “Nonostante una capienza di 12 posti, al momento ospita 15 ragazzi e quest’anno si sono toccati dei picchi di sovraffollamento oltre al 200%”, arrivando ad ospitare fino a 28 ragazzi. A condizioni diverse - domandiamo - sarebbe potuta andare diversamente anche la vicenda di Danilo? “Se ci fosse un ricorso maggiore ad altre figure professionali, che possono favorire il benessere della persona, sì. Danilo viene descritto proprio come un ragazzo che aveva bisogno di aiuto e di cure. Secondo me sarebbe dovuto esser portato in un ospedale, non in un Cpa annesso a un carcere e in cui non ha avuto la possibilità per quasi 24 ore di parlare neanche con uno psicologo o comunque con una figura, come un educatore, che si ponesse in condizione di ascolto”, risponde. Perché non è stato fatto? “Naturalmente non si può fare la storia con i se e con i ma però credo che bisognerebbe privilegiare questo tipo di interventi che non siano legati alla repressione, ma all’ascolto appunto”, aggiunge. L’eurodeputata insiste poi, sul grave deterioramento delle carceri per i minori italiane: “Se l’Italia fino a dieci anni fa era all’avanguardia in Europa per la gestione della giustizia minorile, perché vedeva il carcere come qualcosa di assolutamente residuale, da utilizzare solo in casi estremi in cui non fosse possibile intraprendere altri percorsi, ora non è più così. Prima i minorenni che si trovavano all’interno di questi istituti avevano molte più possibilità riabilitarsi, di portare avanti appunto un processo educativo che gli permettesse di non finire nel cortocircuito del carcere”, afferma. “Il governo Meloni è responsabile”, accusa Salis - E accusa il governo Meloni, che ritiene responsabile del peggioramento delle condizioni della carcerazione minorile. “Soprattutto dopo il decreto Caivano che ha ampliato le possibilità di carcerazione minorile, anche in fase cautelare, quindi anche prima di una sentenza, la giustizia minorile si è progressivamente deteriorata anche in Italia portando a condizioni estreme gli istituti. Ormai è come se si applicasse ai minorenni gli stessi criteri di quelli che si applicano alla giustizia per adulti, nonostante il diritto di internazionale ricordi che la giustizia minorile deve rispondere a bisogni e finalità diverse e che siano innanzitutto formative. Dopo il decreto Caivano il sovraffollamento è aumentato notevolmente. Moltissimi ragazzi in attesa di una sentenza sono costretti a stare in queste strutture, sottoposti a luoghi che sono scuola di criminalità, stando a contatto solo ed esclusivamente con ragazzi che hanno analoghe problematiche”, prosegue. Luoghi del genere per i ragazzi diventano “una sorta di scuola di crimine perché non stanno a contatto con esempi virtuosi, come invece potrebbero essere se fossero inseriti in percorsi più aperti al contatto con il territorio, se avessero la possibilità di stare con persone della loro età che possono stimolare la loro crescita”, spiega. Ragazzi come Danilo sono giovani, in alcuni casi bambini, con problemi di devianza e marginalità che spesso vengono lasciati completamente soli, abbandonati a loro stessi. “È davvero straziante vedere la loro sofferenza. Ho visto con i miei occhi i segni dell’autolesionismo sulle loro braccia. Tutto questo non può favorire dei percorsi di crescita positiva che siano virtuosi. Così si crea ancora più marginalità, cioè chi c’è già viene posto in una condizione ancora più marginale, ancora più stigmatizzata”, continua Salis. “In generale mette una profonda tristezza vedere il dolore di questi ragazzi rinchiusi in un luogo che in teoria dovrebbe puntare alla loro educazione”. Le rivolte sono frequenti, com’è accaduto nell’istituto penale minorile di Milano ‘Cesare Beccaria’ che l’eurodeputata ha visitato a metà agosto. “Sono entrata all’interno di una sezione che era completamente allagata. Mi hanno spiegato che avevano dovuto accendere gli idranti perché dei ragazzi la notte prima avevano dato fuoco a dei materassi”, racconta. “Insomma questi luoghi possono diventare estremamente pericolosi. Il problema è che la logica del carcere difficilmente riesce a produrre qualcosa di diverso da se stesso: o produce altro carcere perché fin da giovani sono sottoposti a una scuola di delinquenza, oppure genera altra sofferenza e in alcuni casi, come quello di Danilo, anche la morte. Difficilmente riesce a generare qualcos’altro. Il che lo pone in contraddizione molto forte con il proprio mandato istituzionale che dovrebbe essere di riabilitazione. Si crea un circolo vizioso per cui fin da minorenni rischiano di finire in una spirale di recidiva potenzialmente distruttiva”, conclude. Brescia. Presentazione de “La stanza”, libro per ragazzi illustrato dai detenuti comune.brescia.it, 4 settembre 2025 Sabato 6 settembre, alle 11.30 alla Cascina Parco Gallo in via Corfù 100, viene presentato “La stanza”, libro illustrato realizzato nell’ambito del progetto Evasione Creativa, promosso dalla Associazione Carcere e Territorio Odv e Ets, al termine del percorso di formazione, espressione e umanità sviluppato tra ottobre e dicembre, che ha coinvolto i partecipanti in un laboratorio di scrittura e illustrazione con l’obiettivo di raccontare, attraverso parole e immagini, l’esperienza del carcere vista da chi la vive. Il libro è pensato per le ragazze e i ragazzi dell’ultimo anno della scuola primaria e per le e gli studenti della scuola secondaria e non intende soffermarsi sui concetti di condanna o colpa, ma vuole dare voce al lato umano di chi, pur consapevole dell’errore commesso, responsabilmente affronta un percorso di riflessione e di cambiamento. “La Stanza” nasce dalla raccolta delle storie di detenuti ed ex detenuti, che l’autrice ha ascoltato, rielaborato e trasformato in una narrazione corale, frutto di dodici incontri, durante i quali i partecipanti hanno esplorato il linguaggio del fumetto e della graphic novel, lavorando su personaggi, ambientazioni, trame e tavole illustrate. “La Stanza” è un’opera collettiva che racchiude esercizio creativo e un messaggio specifico: anche dietro le sbarre esiste uno spazio di immaginazione, di sogno e di rinascita. Alla serata partecipano il professor Carlo Alberto Romano, Presidente dell’Associazione Carcere e Territorio OdV e ETS, Alessandra Spreafico, volontaria della Associazione e autrice del testo, Laura Salata, pedagogista e volontaria della Associazione curatrice della parte organizzativa del progetto, Cristina Arnaboldi, volontaria della Associazione e Roberto Rossini, Presidente del Consiglio Comunale di Brescia. Reggio Calabria. Vernissage della mostra fotografica “I volti della povertà in carcere” ilreggino.it, 4 settembre 2025 La mostra, visitabile fino al 21 settembre 2025, è il frutto di un lungo lavoro di ascolto e documentazione nel carcere di San Vittore. Il 5 settembre 2025 alle ore 10:30, la Sala Ferdinando I d’Aragona del Castello Aragonese di Reggio Calabria ospiterà il vernissage della mostra fotografica “I volti della povertà in carcere”, tratta dall’omonimo libro edito da EDB con prefazione del Cardinale Matteo M. Zuppi e postfazione di Filippo Giordano, a cura di Matteo Pernaselci e Rossana Ruggiero. La mostra - visitabile fino al 21 settembre 2025 - è il frutto di un lungo lavoro di ascolto e documentazione nel carcere di San Vittore: i racconti di detenuti e operatori raccolti da Rossana Ruggiero si intrecciano con i ritratti in bianco e nero di Matteo Pernaselci, componendo un mosaico di volti, storie e speranze. È un viaggio visivo e narrativo che restituisce umanità a chi spesso viene ridotto a un numero di matricola, e invita a riflettere su temi come il reinserimento, la dignità e la “rivoluzione della tenerezza” evocata da papa Francesco. Il vernissage sarà aperto dai saluti istituzionali di Giuseppe Falcomatà - Sindaco di Reggio Calabria; Daniela Tortorella - Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Reggio Calabria; Giuseppe Aloisio - Garante comunale dei diritti delle persone detenute o private della libertà; Giuseppe Borrelli, -Procuratore Capo della Repubblica di Reggio Calabria; e Francesco Siclari - Presidente della Camera Penale “G. Sardiello” Reggio Calabria. Seguirà l’intervento di Rossana Ruggiero - coautrice del volume, che racconterà la genesi del progetto e l’esperienza vissuta a contatto con i detenuti. Il dialogo si arricchirà con le voci di Rosario Tortorella - Direttore degli Istituti Penitenziari ‘G. Panzera’ di Reggio Calabria; Giovanna Russo - Garante regionale Calabria dei diritti delle persone detenute o private della libertà; Caterina Malara - Segretario della Camera Penale “G. Sardiello” Reggio Calabria; e Alessandra Lo Presti, Presidente dell’Associazione Tra Noi Calabria. Il momento inaugurale sarà impreziosito da un intermezzo musicale a cura del M° Roberto Caridi dell’Associazione Musicale Millenote, che accompagnerà il pubblico in una dimensione emotiva coerente con lo spirito dell’esposizione. L’iniziativa ospitata dal Comune di Reggio Calabria è stata curata dall’Associazione Retrosguardi e dall’Associazione Tra Noi Calabria e con il sostegno di Fondazione Roma. Hanno, altresì collaborato la Camera Penale di Reggio Calabria, la Direzione degli Istituti Penitenziari ‘G. Panzera’ di Reggio Calabria e i Garanti - comunale e regionale - dei diritti delle persone detenute o private della libertà. Venezia. Isola Edipo ha ospitato il documentario “Le farfalle della Giudecca” di Gloria Satta I Messaggero, 4 settembre 2025 In occasione della 82esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Il documentario di Rosa L. Galantino e Luigi G. Ceccarelli “Le Farfalle della Giudecca” è stato ospite di Isola Edipo, il festival dedicato ad arti, cinema e attualità all’insegna dei diritti e della sostenibilità il cui titolo quest’anno è stato “Visionaria” a conferma del suo essere avamposto di sguardi e di ospiti capaci di suggerire, un punto di vista sull’oltre confine, sull’oltre mare, sull’oltre terra. La proiezione, che ha avuto luogo alla Sala Laguna giovedì 28 agosto, ha visto la presenza di tre ospiti del penitenziario e anche degli autori, Mons. Davide Milani, presidente Fondazione Ente dello Spettacolo e Segretario Generale Pontificia Fondazione “Cultura per l’Educazione”, il Patriarca di Venezia Mons. Moraglia, la nuova direttrice del carcere Maurizia Campobasso e Ottavia Piccolo, voce narrante nel film. Le farfalle della Giudecca è un viaggio di 75 minuti nell’unico carcere femminile che ha ospitato, su indicazione di Papa Francesco, un Padiglione della Biennale Arte. Le detenute, introdotte da Ottavia Piccolo, hanno raccontato l’emozione di diventare guide della Biennale, ma anche responsabili di un servizio di lavanderia e stireria che serve i migliori hotel di Venezia, di una sartoria che fa sfilate e veste le madrine del Festival del Cinema, di una cereria artistica, di un reparto cosmetica con terminali in tutta la città di Venezia. E anche di un orto che vende i suoi ottimi prodotti fuori dal carcere. Ottavia Piccolo, voce narrante del film: “In questo racconto corale femminile non mancano le voci delle altre donne che vivono il carcere: le agenti di polizia penitenziaria, le insegnanti, le volontarie, le amministratrici, le responsabili delle cooperative che insieme fanno della Giudecca un’esperienza unica, in controtendenza nel sistema carcerario nazionale”. E parla Venezia, e i suoi fili di solidarietà che aprono la Casa di Reclusione alla città, all’arte, alla cultura, a sinergie internazionali, senza preclusioni. Ceccarelli: “Le Farfalle della Giudecca fa vivere allo spettatore la quotidianità di un carcere, portandolo a rivedere convinzioni e preconcetti di fronte alla sorprendente vitalità, alla ricchezza di umanità e ai tanti sentimenti, delusioni e speranze, che ogni giorno si alternano in un laboratorio di consapevolezza e ricostruzione situato nell’ex monastero della Fondamenta delle Convertite, Giudecca, Venezia”. “È una storia che chiedeva d’essere raccontata - aggiunge Rosa L. Galantino - questa e? stata infatti la convinzione che ci ha accompagnato visitando la prima volta la Casa di Reclusione Femminile della Giudecca, dove eravamo pervenuti quasi accidentalmente un anno prima per un documentario sulle vigne urbane (e gli orti) di Venezia”. Il documentario è patrocinato da Ministero della Giustizia, Dicastero per la Cultura e l’Educazione del Vaticano, Patriarcato di Venezia, Comune di Venezia, Hilton Molino Stucky, D’Uva Srl, San Giorgio Cafè, Centre Pompidou-Metz, Fondazione Querini Stampalia, Ass. Antigone. La proiezione è stata preceduta da un incontro dal titolo “Oltre il carcere” promosso da Isola Edipo e Archivio Basaglia in collaborazione con Patriarcato di Venezia, Caritas, Cooperativa Nova-Fondazione Esodo, Pastorale del Lido. Ripensare la natura umana: tra cooperazione, fiducia e giustizia sociale di Sara Santilli unipd-centrodirittiumani.it, 4 settembre 2025 Nel saggio “Humankind: A Hopeful History” (2020), tradotto in italiano come “Una nuova storia (non cinica) dell’umanità”, Rutger Bregman avanza una tesi controcorrente rispetto alla visione dominante della natura umana, mettendo in discussione i paradigmi culturali e scientifici che hanno sostenuto una narrazione fondata sul presupposto dell’egoismo, della competizione e della violenza come tratti originari dell’essere umano. L’assunto secondo cui l’uomo sarebbe “naturalmente cattivo” ha attraversato secoli di pensiero filosofico, politico e psicologico, da Machiavelli a Hobbes, da Freud fino alle scienze sociali contemporanee, permeando tanto l’immaginario collettivo quanto le architetture istituzionali. La costruzione delle norme, delle politiche pubbliche e dei sistemi educativi si è spesso fondata su un’idea restrittiva della natura umana, da disciplinare, contenere e guidare attraverso strutture verticali e dispositivi di controllo. In questo contesto, Bregman propone una rilettura storica e antropologica dell’umanità degli ultimi 200.000 anni, fondata su un’impostazione che egli stesso definisce di “realismo speranzoso”. A partire da dati provenienti da ambiti diversi - dalla biologia evolutiva alla psicologia sociale, dall’archeologia all’antropologia culturale - l’autore ricostruisce un quadro alternativo, nel quale la cooperazione, la solidarietà e la gentilezza emergono come strategie evolutive centrali nella storia dell’Homo sapiens. In netto contrasto con la narrazione hobbesiana della “guerra di tutti contro tutti”, Bregman mostra come numerose società umane, anche in condizioni di crisi, abbiano espresso capacità diffuse di resilienza collettiva, cura reciproca e organizzazione egualitaria. Una parte significativa del lavoro di Bregman consiste nella decostruzione critica di alcuni degli esperimenti psicologici più noti del Novecento, come lo Stanford Prison Experiment di Philip Zimbardo (1971) e il celebre studio sull’obbedienza di Stanley Milgram (1961). In entrambi i casi, l’autore evidenzia come le interpretazioni dominanti abbiano accentuato gli aspetti di conformismo e aggressività a scapito della complessità delle reazioni individuali e collettive. L’intervento diretto di Zimbardo nel ruolo di “supervisore carcerario” e l’assenza di rigore metodologico sollevano dubbi sulla validità scientifica dell’esperimento e sulle sue conclusioni. Analogamente, l’analisi dei dati dell’esperimento di Milgram rivela che numerosi partecipanti mostrarono disagio, opposizione o rifiuto attivo, aspetti spesso omessi nelle narrazioni successive. Bregman sottolinea come tali letture riduzioniste abbiano contribuito a costruire e legittimare una visione distorta e pessimistica della natura umana, che ha avuto implicazioni profonde nel campo delle politiche sociali, educative e di giustizia. Accanto a questa revisione critica, Bregman recupera episodi storici emblematici di altruismo spontaneo, come la tregua di Natale del 1914 tra i soldati al fronte, la solidarietà nei quartieri di Londra durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale, o la storia poco nota di un gruppo di adolescenti naufraghi nel Pacifico che, contrariamente alla distopia narrata in Il signore delle mosche, riuscirono a costruire una micro-società fondata sulla cooperazione. Questi episodi, lungi dall’essere eccezioni, rappresentano per Bregman una base empirica da cui partire per ripensare le categorie di fiducia, responsabilità e potere. Tali riflessioni trovano un potente riscontro nell’opera The Dawn of Everything (2021) di David Graeber e David Wengrow. Gli autori, attraverso una sintesi monumentale di studi antropologici e storici, smantellano il “mito della guerra primitiva” e mettono in discussione la narrativa evoluzionista lineare che associa lo sviluppo della complessità sociale alla coercizione e alla gerarchia statale. Al contrario, mostrano come molte società abbiano elaborato forme sofisticate di governance non autoritaria, gestito i conflitti con strumenti rituali e non violenti, e spesso alternato consapevolmente periodi di strutturazione verticale con fasi di orizzontalità e rifiuto dell’autorità permanente. Centrale è la valorizzazione del ruolo delle donne come agenti di mediazione, così come l’attenzione alle pratiche culturali che promuovevano la pace come scelta politica e non come mera assenza di conflitto. L’impianto teorico offerto da Bregman, Graeber e Wengrow invita a ripensare radicalmente la relazione tra natura umana, costruzione sociale e giustizia. Nella misura in cui le istituzioni si fondano su un’antropologia della sfiducia, esse tendono a riprodurre meccanismi escludenti, autoritari e punitivi. Al contrario, una concezione della persona come agente cooperativo e dotato di competenze etiche innervate nella storia evolutiva e culturale dell’umanità può costituire il fondamento per politiche educative, sociali e culturali realmente orientate all’inclusione e alla giustizia sociale. Ciò implica un ribaltamento epistemologico: non è la violenza a dover essere assunta come dato di partenza, bensì la possibilità concreta di costruire relazioni fondate sulla fiducia, la reciprocità e la cura. In un tempo segnato da polarizzazioni, crisi globali e sfiducia sistemica, il contributo di queste ricerche rappresenta non solo un contro-narrativo necessario, ma anche un invito urgente a ridefinire le coordinate etiche e politiche su cui costruire istituzioni inclusive, solidali e capaci di affrontare le sfide del presente con spirito cooperativo e visione trasformativa. Fuochi anticamorra di Emily Menguzzato Il Manifesto, 4 settembre 2025 I campi estivi dell’associazione antimafia Libera nei beni confiscati del casertano, affidati ad associazioni e cooperative sociali. In viaggio all’ora arancione del tramonto, lungo la strada statale campana che collega Casalnuovo di Napoli a Casal di Principe, il paesaggio scorre tra colline che di dolce hanno poco perché fanno subito pensare a cumuli di rifiuti sotterrati. Marzia Caccioppoli porta nei suoi occhi, scuri e profondi, il carico di una sofferenza collettiva. Indica, oltre il finestrino aperto che lascia entrare un odore acre, alcuni siti sospetti e racconta di suo figlio Antonio, morto a nove anni per un glioblastoma multiforme. Un tumore, secondo i medici che lo hanno seguito, riconducibile al danno ambientale della Terra dei Fuochi: l’area di 1.474 chilometri quadrati tra Napoli e Caserta rinominata così da Legambiente a causa degli sversamenti tossici, guidati da camorra e parti oscure di industria e istituzioni, che contaminano da decenni il suolo, l’acqua e l’atmosfera. “Antonio era affetto da una malattia che colpisce le persone anziane, non i bambini - ricorda Marzia - All’ospedale Gaslini di Genova mi chiesero se abitassi vicino a un sito radioattivo e mi dissero che potevo fare qualsiasi analisi genetica, ma il tumore era correlato all’ambiente”. LA Forza di marzia, oggi, sono i figli degli altri. “Nel 2013, assieme ad altre mamme, dopo il grande dolore per la perdita dei nostri bambini, decidemmo di fondare l’associazione Noi genitori di tutti per aiutare e sostenere le famiglie che vivevano il nostro stesso dramma. Fondamentale fu l’aiuto di Padre Maurizio Patriciello: I figli di questa terra sono ancora figli tuoi, mi disse qualche giorno dopo il funerale di Antonio”. E proprio qui, dove vive Marzia, in Campania, nella regione più giovane d’Italia secondo i dati dell’Istat, chi paga il prezzo più alto di questo scempio ambientale sono i bambini. Nonostante alcuni studi, come quello del Registro tumori infantili della Campania istituito dalla Regione (ma fermo all’anno 2021), abbiano mostrato che l’incidenza dei tumori pediatrici nella regione sia sovrapponibile a quella nazionale, altre voci come il progetto Epica, che coinvolge una settantina di medici di famiglia dei comuni della Terra dei fuochi, sostengono che sia in corso un abbassamento dell’età dei malati oncologici. Lo stesso Istituto Superiore di Sanità, con il report Sentieri del 2015, metteva in luce un “quadro di criticità meritevole di attenzione, in particolare eccessi di bambini ricoverati nel primo anno di vita e per tutti i tumori nel primo anno di vita e nella fascia di età 0-14 anni”. L’altra faccia della medaglia di questa drammatica situazione è una lenta rivoluzione fatta in gran parte di battaglie civili che ripartono proprio dai più giovani, dando nuova vita ai beni tolti alla camorra e restituiti alla collettività. Tra gli attivisti c’è Beatrice Paolis, 23 anni, studentessa all’Orientale di Napoli, originaria di Castel Volturno. Seduta al centro di una tavolata, nel giardino di una villa confiscata appartenuta alla camorrista Pupetta Maresca, è circondata da un gruppo di ragazzi di Bergamo, Potenza e Firenze che trascorreranno qui una settimana, dormendo nelle tende all’ombra di alcuni alberi di limoni. Beatrice sta coordinando le attività di quella che oggi è La casa di Alice, l’unico centro di aggregazione di Castel Volturno, (nella zona di Baia Verde) gestito dalla Cooperativa Sociale Esperanto e dall’Associazione Jerry Essan Masslo, che in estate apre le porte ai giovani - anche minorenni - che provengono da tutta Italia, talvolta anche dall’estero, per partecipare ogni settimana ai campi di volontariato e formazione nei beni confiscati. La casa di Alice diventa così un luogo di incontro con i ragazzi locali, alcuni di loro volontari del servizio civile. “Io credo che i giovanissimi di oggi siano più preparati di quanto lo fossimo noi”, osserva Beatrice. Il campo di Baia Verde fa parte del progetto nazionale E!State Liberi! promosso da Libera, l’associazione fondata da don Luigi Ciotti che coinvolge ogni anno centinaia di realtà sociali in tutta Italia con l’obiettivo di sensibilizzare i volontari sui temi dell’antimafia sociale. Nella provincia di Caserta sono stati organizzati altri campi estivi di Libera, grazie ad associazioni e cooperative principalmente legate al Comitato don Peppe Diana e alla Nuova Cooperazione Organizzata, a Sessa Aurunca, Casal di Principe - San Cipriano d’Aversa, Teano, Carinola, Aversa e Casapesenna. Tra le attività previste ci sono incontri con i testimoni di giustizia, laboratori di agricoltura sociale, visite alla Fattoria sociale Fuori di Zucca all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Aversa e alla Spiaggia Libera Stefano Tonziello, un bene sequestrato e in attesa di confisca che è stato affidato al Comitato Terra dei Fuochi, impegnato nelle battaglie ambientali. “Quando i ragazzi arrivano, spesso dal nord, hanno l’aria un po’ smarrita - osserva Pasquale Corvino, presidente della cooperativa Agropoli di San Cipriano, mentre di fronte al computer è intento a preparare gli ultimi dettagli logistici per l’arrivo dei nuovi campisti - Certo, il viaggio un po’ stanca e la sensazione di straniamento si fa strada con prepotenza. La nostra risposta, immediata, è: siete atterrati in un luogo fuori dalle rotte commerciali turistiche tradizionali per trascorrere una settimana in un territorio disastrato, ma ricco di fatti che possono aiutarvi a capire un fenomeno che coinvolge anche i vostri territori”. A pochi chilometri, a Casapesenna, anche Elisabetta Reccia, presidente della cooperativa Artespressa, è pronta ad accogliere i giovanissimi volontari all’interno di una villa confiscata dove un tempo si selezionavano potenziali malavitosi osservandoli giocare a biliardino. Oggi qui, oltre ai progetti educativi, c’è un caffè letterario con pasticceria artigianale in cui si promuove l’inserimento lavorativo. “Il contesto in cui siamo immersi inizialmente è stato molto ostile alla nostra presenza”, spiega Elisabetta mentre appoggia sul bancone due tazzine di caffè. Nel frattempo, in questa battaglia collettiva per le nuove generazioni, c’è chi - undici anni fa - ha denunciato le autorità italiane alla Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu) per non aver preso le dovute misure, pur conoscendo la situazione, per tutelare la vita dei quasi tre milioni di abitanti della Terra dei fuochi. A gennaio scorso la Cedu ha emesso la condanna all’Italia per violazione dell’articolo 2 sul diritto alla vita, riconoscendo un rischio “sufficientemente grave, reale e accertabile”. Nei mesi scorsi il governo italiano, che ha due anni di tempo per prendere provvedimenti, ha nominato Giuseppe Vadalà come Commissario unico nazionale per la bonifica. Proprio in queste settimane è stato approvato il Decreto legge che inasprisce le pene per i reati ambientali e prevede un budget da 15 milioni di euro. Tra le 5 associazioni e i 41 cittadini firmatari del ricorso alla Corte Europea c’è Vincenzo Tosti, portavoce della rete Stop Biocidio: “Non ho grande fiducia nelle autorità - dice con gli occhi improvvisamente inumiditi - ma all’indifferenza si è sostituita una lenta consapevolezza dei cittadini. Sono cresciuto a Caivano e ho la leucemia, ma non ho mai voluto andare via da queste terre. Non vedrò il cambiamento, spero lo vedranno i miei nipoti”. anche Marzia, la mamma di Antonio, è firmataria del ricorso alla Cedu e con la sua associazione entra spesso nelle scuole: “Gli studenti ci riempiono di domande - aggiunge, mentre l’auto arriva a destinazione, una pizzeria a Casal di Principe per una cena tra operatori sociali - Saranno loro gli amministratori dello Stato, le forze dell’ordine, saranno medici, politici. Devono sapere che qui abbiamo smaltito i rifiuti di tutta Italia, e anche dell’estero, e allo stesso tempo non avevamo i soldi per curarci. Sappiamo che questa è la nostra ultima opportunità: se le cose non verranno fatte nel modo più giusto noi moriremo ancora. Ma io devo rimanere speranzosa, proprio per i figli di domani”. Ieri i manicomi oggi i Cpr. Marco Cavallo contro i lager di Gianfranco Schiavone L’Unità, 4 settembre 2025 Il cavallo azzurro di legno e cartapesta che nel 1973 uscì dai cancelli dell’ospedale psichiatrico di Trieste, diventando il simbolo della rivoluzione basagliana, il 6 settembre tornerà in cammino. Destinazione: i centri per il rimpatrio. Il 25 febbraio 1973 un cavallo azzurro di legno intrecciato e cartapesta esce dai cancelli dell’ospedale psichiatrico di Trieste e inizia il corteo che lo porterà lungo le vie della città. “Marco Cavallo comincia il suo viaggio per il mondo” era scritto in un manifesto dell’iniziativa frutto di un laboratorio artistico durato circa due mesi che aveva coinvolto artisti, pazienti, medici, infermieri e cittadini. Per molte ragioni, non ultima la bellezza dell’opera, Marco Cavallo diventerà presto il simbolo della rivoluzione psichiatrica che porterà, pochi anni dopo, all’approvazione della legge 13.05.1978 n. 180 con la quale veniva sancito che “gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione relativi alle malattie mentali sono attuati di norma dai servizi e presidi psichiatrici extra ospedalieri” (art.6) e che i trattamenti sanitari obbligatori divenivano possibili solo in casi limitati e che andavano sottoposti a un rigoroso controllo per evitare che si potessero riproporre nuove forme di internamento più o meno mascherate. Si cercò così di porre fine ai manicomi che, pretendendo di curare la malattia mentale, erano in realtà una delle più articolate e dure istituzioni totali che perseguiva ben altri scopi politico-sociali di isolamento, controllo ed etichettamento della persona rinchiusa. Una volta messa in moto la macchina istituzionale, essa si auto-riproduce creando le stesse condizioni necessarie a giustificare la decisa limitazione della libertà personale. Il 6 settembre 2025 Marco Cavallo si rimetterà in viaggio andando fisicamente di fronte ai CPR (centri per il rimpatrio) di Gradisca d’Isonzo, Milano, Roma, Palazzo San Gervasio, Brindisi e Bari (altre tappe in programmazione) e sarà accompagnato da iniziative pubbliche e momenti di confronto su quella forma di istituzione totale rappresentata dai centri di detenzione amministrativa per l’esecuzione dell’espulsione degli stranieri (consultabili su https://www.news-forumsalutementale.it/il-viaggiodi-marco-cavallo-nei-centri-di-permanenza-per-il-rimpatrio/). Un viaggio collegato alla campagna “180 Bene Comune. L’arte per restare umani”, promossa dal Forum Salute Mentale e realizzato insieme al Tavolo Asilo e Immigrazione (TAI) e a molte associazioni, gruppi e comitati informali. Il viaggio di Marco Cavallo sarà accompagnato in ogni tappa da bandiere realizzate con tessuti di scarto quali simboli delle vite ignorate degli internati. Chiudere i manicomi, negli anni ‘70, appariva una proposta impossibile e assurda. Si poteva forse negare che i “matti” esistessero? E come potevamo curarli e proteggerli (e soprattutto proteggere noi da loro) senza gli ospedali psichiatrici? Negare la necessità di tali ospedali sembrava dunque negare la necessità di una realtà dura ma necessaria. Oggi sappiamo che non è così, e che anzi, all’esatto opposto, era l’istituzione totale rappresentata dai manicomi a impedire di affrontare il tema della cura della malattia mentale nel rispetto dei diritti fondamentali della persona che ne è affetta. Proporre di chiudere i CPR appare oggi a molti una proposta ugualmente folle e impraticabile. Come negare infatti che ci sono situazioni in cui è necessario espellere degli stranieri irregolari? E come farlo, se non con la coazione e la detenzione amministrativa? Il controllo delle frontiere, la gestione dei flussi migratori, e in ultima istanza, la sicurezza della collettività, renderebbero dunque necessarie tali strutture, che andrebbero aumentate, non certo ridotte o chiuse. Per quanto facilmente vendibile e persuasiva, si tratta di una risposta sbagliata basata sulla negazione e mistificazione della realtà. In primo luogo, è falso che la detenzione amministrativa degli stranieri da espellere sia parte fondamentale della gestione delle migrazioni e più esattamente sia indispensabile per attuare un efficace contrasto dell’irregolarità di soggiorno. Non ci sono dati certi su quanti siano gli stranieri irregolari in Italia. Al 1° gennaio 2024, la Fondazione ISMU stimava circa 321.000 unità. Altre stime danno numeri anche maggiori e comunque la pluridecennale storia dell’immigrazione in Italia è sempre stata caratterizzata in modo strutturale da numeri elevatissimi di presenze di persone senza un permesso di soggiorno, né potrebbe essere diversamente dal momento che, come ho scritto più volte su queste pagine (e da ultimo commentando il logoro decreto flussi il 3.07.25), è la mancanza di canali regolari di ingresso per lavoro e studio, nonché la parallela mancanza di procedure di regolarizzazione a regime e di stabilizzazione delle presenze, a generare incessantemente la condizione di irregolarità, la quale non è una scelta degli stranieri, ma la conseguenza di una normativa irrazionale. La risposta demagogica a una situazione che andrebbe modificata in profondità è la finzione dell’allontanamento, una finzione perché gli stranieri effettivamente rimpatriati nel corso del 2024 - secondo i dati forniti dal Ministero dell’Interno nel consueto rapporto del 15.08.25 - sono stati 5.414 in tutto il 2024, mentre erano 4.751 l’anno precedente. Il Ministero enfatizza l’aumento, ma il quadro rimane uguale, come lo è sempre stato. Si tratta infatti di numeri che sono risibili, e tali resteranno anche in futuro, e che nulla hanno a che fare con il cosiddetto contrasto alla clandestinità. Nel 2023, l’allora garante nazionale per le persone private della libertà personale, Mauro Palma, metteva in luce nella sua splendida relazione che nell’anno precedente “delle 6383 persone che nel sono state ristrette nei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) soltanto 3154 sono state effettivamente rimpatriate (….)” evidenziando come “circa la metà delle persone trattenute - esattamente il 50,6 percento - ha avuto un periodo di trattenimento detentivo senza il perseguimento dello scopo per cui esso era legalmente previsto. Spesso senza che tale scopo fosse già ipotizzabile al momento dell’inizio del trattenimento stesso”. Si è trattato, quindi, secondo Palma, con le cui conclusioni concordo, “di una sottrazione di tempo vitale non giustificata di fatto dalla finalità che il primo comma dell’articolo 5 della Convenzione europea per i diritti umani assume come previsione per la privazione della libertà”. Non siamo di fronte, come alcuni commentatori e politici talvolta hanno sottolineato, a meccanismi di allontanamento totalmente inefficienti, ma a qualcosa di molto diverso, che emerge dalle parole di Palma laddove sottolinea come “il rischio è che la privazione della libertà dei migranti irregolari tenda a legittimarsi più come misura rassicurante della collettività che non come tassello efficace per una strategia che (...) riesca a ridurre le situazioni di irregolarità”. Come i manicomi non servivano alla cura del malato di mente, ma a mantenere l’istituzione totale che si occupava di loro, la finalità primaria dell’altra istituzione totale rappresentata dai centri di trattenimento/detenzione amministrativa non è quella di contrastare l’irregolarità di soggiorno, bensì quella di svolgere la funzione simbolica del controllo, da utilizzare in sede politica per alimentare la macchina della paura, e di conseguenza, il consenso. In tutte le istituzioni totali si produce uno schiacciamento radicale dell’individuo e i rapporti di potere tra trattenuto/detenuto/internato sono talmente enormi e privi di ogni forma di reale controllo indipendente da generare un contesto di violenza strutturale e permanente. Non devono stupire le (poche) immagini agghiaccianti che filtrano dai CPR e che mostrano, inalterate nel tempo, un degrado assoluto (per riprendere ancora una volta le parole di Palma, i CPR sono “luoghi emblematici del vuoto, sia spaziale che temporale”), come oggi non ci stupiscono le immagini del feroce contenimento che fu nei manicomi. Esse ci mostrano la stessa logica di annientamento della dignità dell’individuo. Non può esistere un CPR che non sia degradato e violento, indipendentemente da chi lo gestisce, come non poteva esistere un manicomio “umano”. I centri di detenzione amministrativa hanno quasi trent’anni (sono nati nel 1998) e fin dal primo momento si poteva sapere l’orrore che sarebbe accaduto, se solo si fossero ascoltate le voci di chi si opponeva alla loro nascita. Invece con cieca ideologia governi di diverso orientamento politico si sono trovati concordi nell’andare avanti sulla medesima strada, distinguendosi talvolta solo tenuemente, ma senza mai comprendere quanto accadeva sotto i loro occhi. Chiudere i CPR è l’unica scelta che possiamo fare dopo decenni di errori, non per negare che ogni Stato deve avere nel proprio ordinamento procedure che prevedano in alcuni casi l’espulsione degli stranieri, ma per riconoscere che la detenzione amministrativa non è la strada da seguire, nello stesso modo in cui abbiamo faticosamente riconosciuto che i manicomi non erano la strada per la gestione della malattia mentale (anche se ci sono persino coloro che su ciò vorrebbero tornare indietro). Come disse Basaglia entrando nel manicomio di Gorizia, e che oggi possiamo ugualmente dire dei CPR, “questo qui è un lager e finché c’è un lager nessuna terapia è possibile”. Zuppi: “Papa Leone come Francesco: difenderà gli stranieri perché è scritto nel Vangelo” di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 4 settembre 2025 Intervista al presidente della Cei: “Il Conclave? C’era chi temeva i dossier, ma questo non ha avuto conseguenze. Meloni? I rapporti sono buoni e per questo, se serve, dialettici. Se il mondo cattolico svolta a destra dopo il suo successo a Rimini? Sono stato a Rimini anche io, sono cattolico anche io, e sono cattolici anche loro” Cardinale Matteo Maria Zuppi, don Matteo, è la sua prima intervista dopo il conclave. Ci dica allora: com’è andato il conclave? (Il presidente dei vescovi italiani sorride, ndr). “Per principio, bene”. Come le è sembrato? “Chiesa. Molta Chiesa. Le dirò quello che mi ha colpito dentro, e quello che mi ha colpito fuori”. Cominciamo da dentro il conclave… “La rapidità con cui le diverse storie, le diverse sensibilità, che sarebbe stupido negare o edulcorare, hanno trovato l’unità. È durato poco più di un giorno! Ho avvertito un senso di Chiesa, tanta comunione. Non perché non ci siano differenze di culture e di visioni: un nordamericano è diverso da un sudamericano, un africano da un europeo, e tra gli europei non è facile mettere insieme, che so, un polacco e un belga. Ma tutte le interpretazioni politiche e complottistiche sono state lasciate fuori. Mi verrebbe da dire che proprio sono caricature con cui si interpreta una realtà diversa come la Chiesa”. E all’esterno del conclave, che cosa l’ha colpita? “Da una parte, l’aggressività dei social. Io non sono sui social, ma ogni tanto mi segnalavano un articolo o un post contro di me. Cose tipo “quel pretaccio con la faccia da faina...”. Quanta aggressività! E non lo dico perché ce l’hanno con me, fanno bene, figuriamoci, ma per l’odio e il pregiudizio che viene versato, ed è sempre un veleno”. È così un po’ per tutti... “I social hanno vissuto moltissimo nel Totopapa, il che ha aspetti divertenti. L’altro giorno in stazione un gruppo di ragazzi mi ha chiesto di fare una foto insieme dicendo: “Noi abbiamo tifato per lei!”. Anche in un paesino sulle montagne reggiane una barista mi ha detto: “Dobbiamo fare un selfie e mandarlo a mia figlia, che tifava per lei”. Quanti anni ha sua figlia?, ho chiesto”. Quanti anni aveva la figlia della barista? “Quattordici. Alla sua età non avrei davvero saputo, non dico per chi tifare, ma anche solo i nomi di chi andava in conclave. Tutto sommato mi pare un segno di vitalità e anche un dono di papa Francesco che ha avvicinato la Chiesa a tutti, se una ragazzina può avere simpatia, sentire vicino quello che riguarda un gruppo di uomini anziani”. Com’era l’atmosfera nella Sistina? “C’era chi temeva i dossier; e in effetti sui siti, molti americani, c’erano tanti dossier sui cardinali. Ebbene, tutto questo all’interno mi sembra che non abbia avuto nessuna conseguenza. Oltre alle diverse sensibilità, ci si è resi conto che il problema dell’unità riguarda tutti. Chiunque viva nella Chiesa se lo deve porre, per evitare quello che i greci chiamavano “diaballon”: dividere”. Da cui la parola diavolo... ““Il divisore”. La diversità nella comunione è ricchezza e responsabilità. Nella divisione o diventa condominio oppure ostilità. Esattamente il contrario di quello che Gesù ha fatto, e con il suo esempio ci chiede di fare”. Eminenza, le dico invece cosa ha colpito me, dall’esterno: l’aggressività dei conservatori. I cardinali Burke, Sarah, Mueller alla vigilia del conclave hanno dato interviste durissime, auspicando l’elezione di un Papa “non eretico”; come se Francesco lo fosse stato. Sia pure con ben altro stile, il cardinale Ruini ha indicato la necessità di un Papa che riunificasse la Chiesa; all’evidenza ritenendo che Francesco l’avesse divisa... “Questa lettura, a partiti, a schieramenti, a mio parere non interpreta correttamente il conclave. La Chiesa è più complicata e molto più semplice di così. Non lo dico io, lo disse papa Francesco, in un’omelia nella festa della Pentecoste: progressisti contro conservatori, il mondo ci vede così; ma noi siamo fratelli e sorelle, uniti nello spirito. Il vero problema è la comunione, che è la nostra forza, dove si partecipa molto più di qualsiasi democrazia e si è insieme in modo che io e noi si completano, mio e tuo coincidono. A volte si sente l’esigenza di andare incontro agli altri. Altre volte si sente di più l’esigenza di difendere la propria identità”. Nel conclave ha prevalso questa seconda esigenza? “Ha prevalso la continuità con papa Francesco. Stili diversi, ovviamente. Continuità con la novità che ognuno porta con sé. Leone è un Papa missionario. Ha vissuto praticamente sempre in missione: un americano di Chicago che parte per il Perù. Nello stesso tempo, è uomo di governo: ha governato la sua congregazione, la sua diocesi, poi il dicastero dei vescovi, con modi necessariamente diversi. E il suo primo discorso è stato un riassunto dell’Evangeli Gaudium”. Alla morte di Francesco si sono sentite molte voci critiche... “Di più. Francesco è stato apertamente oltraggiato. E anche Leone: qualche rivista, qualche sito ha gettato fango sul Papa appena eletto. Un atteggiamento divisivo o intimidatorio”. È stato detto che Francesco piaceva più agli atei che ai fedeli... “Sì, qualcuno ha commentato di aver parlato più a quelli di fuori che a quelli di dentro. In realtà, parlando ai non credenti, papa Bergoglio ha parlato ai cattolici, perché non diventiamo come il fratello maggiore della parabola. L’uscire ha rivelato molte resistenze, molte debolezze, molte fragilità. Resto convinto che ci sia dialettica e non opposizione tra essere chiamati e essere mandati, il nostro stare insieme e l’andare verso gli altri, lo spirituale e il sociale, l’evangelizzazione e la promozione umana, la preghiera e l’amore concreto per il prossimo”. Altro che Chiesa ong. Prendersi cura dei poveri non è altro rispetto al Vangelo; è il Vangelo... “Certo. Don Milani avrebbe detto: “Non so se ho amato di più i bambini del Padreterno; ma Lui me lo metterà a sconto”. A volte, preso più dal servizio, dimentichi la preghiera. Ma se non c’è la preghiera, perdi il servizio, diventi sterile. Francesco teneva insieme la cura della comunità e l’accoglienza. Una delle cose che ci disse fu: “Tutti”. A Lisbona lo disse tre volte: dobbiamo aprirci a tutti, e tutti debbono sentirsi a casa”. Come si fa ad accogliere tutti? “Questo mette in difficoltà alcuni preti, preoccupati comprensibilmente che così diventiamo un’altra cosa: non contrastiamo più il mondo, e il mondo entra dentro di noi. Le regole esistono e si fanno rispettare. Ma integrando, cioè facendo sentire a casa, non tollerati o condannati. Colui che sembra straniero entra perché in realtà è figlio Suo e fratello nostro. E come impara quelli che sono stati chiamati i principi non negoziabili? Stando dentro, vivendo con gli altri. Noi dobbiamo essere la casa di Dio, non l’albergo, come avrebbero detto i nostri genitori, almeno i miei. Tutti dobbiamo imparare a vivere a casa, a pensare in relazione al Signore e agli altri”. Pensa che il bilancio di Francesco sia positivo? “Certo. Molti hanno ricominciato a guardare alla Chiesa con simpatia e affetto. Eppure Francesco non faceva sconti. Con lui non c’erano i saldi di fine stagione cristiana. Era molto esigente. Non era un filantropo. Ma ha insegnato a tanti a amare l’altro. Fratelli tutti. Dava amore, chiedeva amore”. Però non ha cambiato la Chiesa... “A lui interessava più avviare i processi che pensare di avere risolto tutto perché si era elaborato un programma. La nostra responsabilità è continuarli e costruire. Ognuno prende, completa, porta avanti. La tradizione non è mai fissità; la si consegna non congelata nella vita. Ogni Papa porta il suo contributo. Chi passa il tempo a fare confronti non si interroga su quello che ogni Papa porta. Giovanni XXIII era il Papa buono; questo significa che Pio XII era cattivo? E Paolo VI, un gigante della storia? E Giovanni Paolo II? Ognuno porta qualcosa di originale, di unico. Francesco e Benedetto erano diversi; però hanno scritto un documento insieme, per la prima volta un Papa ha detto: l’ho fatto con il mio predecessore. E papa Francesco si è messo in cammino proprio come auspicava papa Benedetto. Poi, capiremo tutto solo alla fine”. Papa Francesco andava a Lampedusa. Papa Leone riceve Salvini. Sono scelte oggettivamente diverse... “Contrapporre il parlare con il fratello minore e il parlare con il fratello maggiore è sbagliato. Il Papa è padre, e parla con tutti. Parla al fratello maggiore e gli spiega perché ama il fratello minore”. Salvini è il capo dell’estrema destra italiana... “È vero che Francesco non l’aveva mai incontrato. Però Leone aveva già incontrato la premier Meloni e il vicepremier Tajani. È normale che abbia incontrato anche l’altro vicepremier. Poi bisogna vedere cosa gli ha detto. Ripeto: non mi pare un segno di contrasto tra Francesco e Leone. Leone difenderà l’accoglienza, difenderà gli stranieri, perché è nel Vangelo: “Ero forestiero e mi avete accolto”. Troverà modi diversi per fare la stessa cosa, per vivere la stessa preoccupazione”. Libero titola: “Il Papa fa, i vescovi disfano”. “Cosa avremmo disfatto?”. Il tema era la politica estera, il rapporto con Netanyahu, il giudizio su Gaza... “Ma su Gaza papa Leone è stato durissimo! Ha chiesto più volte il cessate il fuoco! Il patriarca Pizzaballa ha detto che i cristiani rimarranno a Gaza; ma lei pensa che potrebbe farlo, se il Papa non fosse d’accordo? Nello stesso tempo vigiliamo contro l’antisemitismo, amiamo gli ebrei, dialoghiamo con i loro rappresentanti religiosi. Qui a Bologna abbiamo firmato una dichiarazione comune con il presidente della comunità ebraica. Il titolo era: fermi tutti! Aggiungerei: subito!”. Giorgia Meloni ha avuto un trionfo a Rimini. Il mondo cattolico svolta a destra? “Sono stato a Rimini anch’io, anch’io sono cattolico, e sono cattolici anche loro... (il cardinale Zuppi sorride, ndr). La Chiesa è tutta la stessa. Guai a dividerla. Soprattutto, guai alla Chiesa che si fa dividere. Io poi cerco di vivere la comunione che vuol dire amicizia e relazione con tutti, con Cl e con i tradizionalisti... Sempre fratelli sono. Io ci credo alla comunione. Qualcuno ci crede un po’ di meno e pensa che la comunione c’è se gli si dà ragione. Al Papa si obbedisce sempre”. Oltre a essere entrambi cattolici, lei e Meloni siete entrambi romanisti... “Ho visto che hanno provato a far passare per romanista pure il Papa... A dire il vero, non sono mai stato allo stadio a vedere una partita in vita mia. E poi devo stare attento, qui c’è il Bologna, che è una grande squadra”. Come sono davvero i suoi rapporti con Meloni? “Buoni, come deve essere con le istituzioni. Ci conosciamo da tanti anni. Buoni e per questo, se serve, dialettici. La Chiesa parla quando parla la Cei. Se un vescovo dice una cosa, la dice lui, il vescovo. Siamo sempre stati molto attenti a esprimere posizioni unitarie. Quando abbiamo una preoccupazione sui problemi, la diciamo. Sull’8 per mille. Sulla necessità di salvare le vite umane, sempre, di garantire un sistema di accoglienza”. Vi siete espressi pure contro l’Autonomia differenziata... “Il consiglio permanente, anche perché alcune conferenze regionali avevano già scritto documenti molto contrari. Mi pare che la riforma si sia lasciata cadere, ma speriamo che sia garantito lo sviluppo delle regioni più povere e delle aree interne”. E contro la legge elettorale… “Per difendere la partecipazione, consentire agli elettori di scegliere i loro rappresentanti, evitare che i partiti si trasformino in comitati elettorali”. Papa Francesco le aveva affidato il dossier Ucraina. A che punto siamo? “Spero proprio che il dialogo sia iniziato davvero. È decisivo il coinvolgimento internazionale. Compresa la Cina”. Trump che effetto le fa? “Ha riaperto l’idea che si parla, che si dialoga perché solo così si arriva alla pace. Forse servirebbero meno dichiarazioni a effetto, perché poi se non funziona si fa peggio! Il rischio è la logica della forza, distruggere l’edificio comune multilaterale, sovranazionale, che era frutto della Seconda guerra mondiale. Va fatto funzionare, non smantellato”. I giovani del Giubileo che impressione le hanno fatto? “Quanta attenzione, e quanto silenzio! È la conferma che c’è una grande domanda di spiritualità. E che non c’è contrasto tra il discorso spirituale e la promozione umana, la cattedrale e il marciapiedi, l’identità e l’accoglienza. Al contrario; se c’è identità, non hai paura di accogliere. Francesco diceva: abbiamo tanto da dare, e dobbiamo dare tanto. La Chiesa è una riserva di umanità in un mondo sempre più difficile”. Migranti. I fermi alle navi delle Ong sono illegittimi: violano il diritto e la dignità umana di Salvatore Curreri L’Unità, 4 settembre 2025 Mediterranea, Ocean Viking e Trotamar III: il triplo stop inferto alle navi di soccorso è un abuso: le convenzioni internazionali impongono di sbarcare i migranti nel più breve tempo possibile, e non di torturarli. “Lo Stato contrasta i trafficanti e coordina i soccorsi in mare, non le Ong” ha scritto su X il ministro Piantedosi. Ha ragione: dai numeri forniti dallo stesso Ministero dell’Interno solo il 15% dei naufraghi viene salvato dalle navi delle Ong. Ma se così è, viene smentita la tesi, sostenuta dallo stesso ministro, per cui le navi delle Ong sarebbero un fattore di attrazione (pull factor) perché evidentemente i migranti partono lo stesso, anche quando non sono certi di essere raccolti in mare, tantomeno dalle navi delle Ong. Ma se così è, c’è di più, molto di più. Negli scorsi giorni il ministro ha disposto, in rapida sequenza, il fermo amministrativo di tre navi di Ong - la Mediterranea Savings Humans (25 agosto); l’Ocean Viking (26 agosto), dopo peraltro che questa era stata mitragliata dalle milizie libiche; la Trotamar III (25 agosto) - colpevoli: le prime due di aver fatto sbarcare i naufraghi soccorsi nel porto più vicino e sicuro (Trapani), disattendendo le indicazioni vincolanti del Viminale che, come al solito, aveva loro assegnato come porto sicuro una località molto distante rispetto ai luoghi di salvataggio (rispettivamente Genova e Marina di Carrara) all’evidente scopo di allontanarle il più possibile da tali zone. La terza, sequestrata a Lampedusa, per non aver informato preventivamente dell’operazione di salvataggio quella Guardia di costiera libica che aveva mitragliato l’Ocean Viking a bordo di una motovedetta fornita dal governo italiano. Ma tali fermi amministrativi sono costituzionalmente legittimi? Com’è noto, questa è l’ultima soluzione introdotta per tentare di limitare l’opera di salvataggio delle navi Ong, nel presupposto, come detto smentito dallo stesso ministro, che la loro presenza costituisca il maggior incentivo alla immigrazione clandestina. Prima di essa tutte le altre soluzioni sono state dichiarate illegittime. Si è cominciato con i respingimenti in mare dei naufraghi verso i porti di partenza della Libia, non essendo tale paese considerato un porto sicuro ai sensi delle convenzioni internazionali poiché non garantisce i diritti dei migranti (Corte europea dei diritti dell’uomo, 23.2.2012 Hirsi Jamaa c. Italia) per poi proseguire negando e/o ritardando lo sbarco immediato e/o totale (c.d. sbarchi selettivi) dei migranti nei porti italiani (Cass., III pen. 6626/2020 sul c.d. caso Rackete). Oggi, invece, le navi delle Ong devono raggiungere tempestivamente e senza ritardo il POS (point of safe) assegnato dal Ministero dell’Interno, volutamente spesso identificato in porti del Centro-Nord molto distanti dal luogo di salvataggio. Inoltre, tali navi, effettuato il primo salvataggio, non ne possono effettuare ulteriori se non espressamente autorizzate, per cui non possono stazionare nell’area, trasbordando i migranti salvati in imbarcazioni più piccole. Infine, esse hanno l’obbligo di raccogliere le domande di protezione internazionale dei migranti nel tentativo di spostare la competenza della loro gestione sugli Stati di cui battono bandiera. Chi non rispetta l’assegnazione del porto sicuro, è punito con multe e fermi amministrativi delle navi la cui durata è stabilita con provvedimento dal Prefetto, contro di cui si può ricorrere entro appena dieci giorni. Si tratta di misure sotto il profilo etico intollerabili perché l’assegnazione come porto sicuro di una località molto distante costringe persone che hanno visto la morte in faccia, per di più talora segnate a vita dalle torture e dalle violenze di ogni tipo subite in Libia, in condizioni di salute precarie nonché di estrema fragilità e vulnerabilità, ad ulteriori giorni di navigazione in mare. Per di più, mentre le barche sono portate lontano dalle zone di salvataggio o bloccate per fermo amministrativo, i naufragi continuano e i migranti muoiono… Ma oltreché eticamente intollerabili, tali misure sono illegittime perché in contrasto con gli obblighi internazionali rispetto ai quali la nostra legislazione, tanto più in materia di condizione giuridica dello straniero, non può contrastare secondo gli articoli 10 e 117 della nostra Costituzione. Difatti, in base al paragrafo 3.1.9 della Convenzione sulla ricerca e il salvataggio marittimo - Sar acronimo di Search and Rescue - ratificata con legge n. 147/1989 e attuata con D.P.R. 662/1994 i naufraghi, dopo essere stati soccorsi e adeguatamente assistiti sulla nave, vanno “sbarcati e condotti in luogo sicuro [c.d. place of safety (POS)] (…) nel più breve tempo ragionevolmente possibile” (as soon as reasonably practicable), come ricordato dalla Corte costituzionale nella recente sentenza n. 105 dello scorso 8 luglio. Tutto questo è stato confermato di recente dal Consiglio di Stato (III sezione, sentenza 1615/2025 del 25 febbraio) secondo cui, se da un lato il punto di sbarco sicuro non va semplicemente identificato con il porto geograficamente più vicino all’intervento di salvataggio, dall’altro esso non può essere frutto di una valutazione totalmente discrezionale. Nell’individuare tale porto, infatti, il Ministero dell’Interno deve tenere conto di una molteplicità di fattori legati al caso concreto, quali lo status delle persone tratte in salvo, il numero dei naufraghi, la situazione a bordo, le condizioni di salute dei soccorsi, le condizioni metereologiche, la presenza di persone fragili o di minori tra i soccorsi, la prossimità e la capienza dei centri di accoglienza dislocati sul territorio in cui i migranti dovranno essere inseriti in attesa dell’esito della loro domanda di asilo. Giorni fa la presidente del Consiglio, intervenendo al meeting di Rimini, ha rivendicato il diritto del Governo di regolare l’immigrazione clandestina, senza subire impedimenti da parte di giudici, politici o burocrati. Vorrei sommessamente chiedere a lei - ed a quella platea che, per ragioni di fede, dovrebbe essere sensibile ai valori di accoglienza e di solidarietà - se sia veramente necessario, per contrastare l’immigrazione clandestina, costringere senza giustificato motivo le navi delle Ong ad ulteriori giorni di navigazione per raggiungere il porto indicato come sicuro, infliggendo ai naufraghi ulteriori sofferenze. Perché il giudice nazionale o sovranazionale che - presto o tardi - dichiarerà sul punto illegittimo il decreto Piantedosi non sarà una “toga rossa” che rema contro il Governo ma, più modestamente e semplicemente, colui che ha voluto affermare, ancora una volta, il primato del rispetto della dignità umana. Nessuna misura concreta dall’Europa su Gaza: un fallimento morale e un errore storico di Giovanni Fattore* Il Fatto Quotidiano, 4 settembre 2025 Nessuna misura concreta dall’Europa su Gaza: un fallimento morale e un errore storico. In molti, in Italia e in Europa, vivono con crescente scoramento e imbarazzo quanto sta accadendo a Gaza. Nonostante la scarsa enfasi dei media - anche di quelli tradizionalmente progressisti - e le flebili reazioni dei leader politici, è ormai evidente che, a partire da una reazione comprensibile alla tragedia del 7 ottobre 2023, il governo israeliano ha intrapreso un’azione che molti osservatori internazionali definiscono senza esitazione come genocidio, accompagnata da una volontà di deportazione sistematica della popolazione palestinese. L’obiettivo sembra chiaro: cancellare ogni possibilità che i palestinesi possano avere una terra. Eppure, le risposte politiche sono rimaste drammaticamente inadeguate. Al di là di qualche condanna formale, i Paesi europei non hanno adottato alcuna misura concreta, né sul piano economico né su quello diplomatico. L’Italia, in particolare, non ha nemmeno compiuto il gesto simbolico - ma significativo - di riconoscere lo Stato di Palestina. Un atto che, oggi, rischia di arrivare troppo tardi: uno Stato, per esistere, ha bisogno di un popolo, ma anche di un territorio. Nel frattempo, l’Europa continua a investire risorse e attenzione nella guerra in Ucraina, senza esitazioni nel finanziare armamenti. Solo poche voci, come quelle di Vincenzo De Luca e Giuseppe Conte, hanno avuto il coraggio di denunciare il doppio standard morale: ciò che vale per Kiev non vale per Gaza. Il sentimento più diffuso è la vergogna. Vergogna per lo Stato di Israele, ma anche per l’inerzia dei governi europei e la Commissione. La maggioranza dei cittadini è affranta, vorrebbe che Netanyahu si fermasse, ma la politica non ascolta. L’Europa, fragile e divisa, sembra più preoccupata di non incrinare i rapporti con gli Stati Uniti, da cui è stata già più volte umiliata, che di difendere i propri valori fondanti. Una fragilità che persino Mario Draghi ha recentemente stigmatizzato. Dall’altra parte dell’Atlantico, la situazione è ancora più cupa. L’attuale amministrazione americana appare priva di qualsiasi bussola morale, guidata unicamente da logiche di potere. Gli Stati Uniti sono un Paese in declino sociale e civile: disuguaglianze crescenti, indicatori sanitari da Paese a medio reddito, criminalità elevata, un sistema carcerario ipertrofico. Una società spaccata tra oligarchi che sostengono Trump e un’élite intellettuale sempre più isolata. L’Europa non è messa meglio, ma per ragioni diverse: manca di coesione interna e di autonomia strategica. Inseguire un’America in crisi non è una strategia, è una resa. Se l’Europa crede davvero nei valori di giustizia e libertà, deve dimostrarlo con atti concreti, non con retorica. La crisi di Gaza è una prova decisiva. Se i governi europei e la Commissione continueranno a restare immobili, la disillusione verso la politica nazionale ed europea crescerà ancora. E con essa, il rischio di un allontanamento sempre più marcato dei cittadini dalle istituzioni democratiche. In particolare i giovani, già distanti, potrebbero perdere del tutto fiducia nella possibilità di un cambiamento attraverso i canali democratici. E quando la politica non offre risposte, qualcuno potrebbe cercarle altrove, anche in forme radicali e violente. La politica non è solo esercizio di potere: è anche visione, valori, responsabilità. Abbandonare la Palestina al suo destino non è solo un fallimento morale. È un errore storico che rischia di compromettere la credibilità stessa delle nostre democrazie. *Professore di Economia e Management Medio Oriente. Quattro parlamentari italiani salgono a bordo della Flotilla di Giansandro Merli Il Manifesto, 4 settembre 2025 In missione verso Gaza. I deputati fanno parte di Pd, 5S, Avs. Schlein e Conte: “Il governo tuteli tutto l’equipaggio”. Questa volta la missione della Global Sumud Flotilla, la più grande di sempre da quando si tenta di rompere l’assedio israeliano a Gaza, diventerà anche un caso di politica interna. Anzi lo è già diventato. Perché dopo l’enorme mobilitazione di Genova e le promesse dei portuali del Calp (“se perdiamo il contatto con le navi anche solo per venti minuti blocchiamo tutto”) ieri quattro parlamentari italiani hanno annunciato che saliranno a bordo. Sono l’eurodeputata di Avs Benedetta Scuderi e la collega Pd Annalisa Corrado, il deputato Pd Arturo Scotto e il senatore 5 Stelle Marco Croatti. Una scelta forte, che coinvolge tutti i partiti di opposizione e va a colmare quello che rischiava di essere un vuoto del centrosinistra italiano. Sulle imbarcazioni, infatti, saranno presenti esponenti politici francesi, spagnoli e portoghesi. “Le parole di Ben Gvir vanno prese con serietà, abbiamo visto che il governo israeliano non si ferma davanti a niente. Ha superato quasi tutte le linee, violando il diritto internazionale. Quindi tutto è possibile. Ma questo non deve fermarci né intimidirci”, ha dichiarato Scuderi. Il riferimento è alle minacce dell’estremista di destra che nell’esecutivo Netanyahu riveste il ruolo di ministro della Sicurezza nazionale: nei giorni scorsi Ben Gvir ha minacciato i membri della Flotilla: “Li tratteremo come terroristi, li sottoporremo a carcere duro”. E proprio per chiedere “tutela e sicurezza per tutto l’equipaggio” ieri la segreteria dem Elly Schlein ha preso carta e penna e scritto alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e al ministro degli Esteri Antonio Tajani. La leader dem, nonostante una parte della minoranza interna sia rimasta su posizioni ambigue o ancora apertamente filo-israeliane, negli ultimi mesi ha alzato il tiro contro il massacro che Tel Aviv conduce ogni giorno a Gaza e contro le violazioni del diritto internazionale in Cisgiordania. Ieri Schlein ha fatto un passo in più sostenendo un’azione diretta di disobbedienza che punta sulla Striscia per portare aiuti e rompere il blocco. Sulla stessa linea d’onda il capo dei 5 Stelle Giuseppe Conte: “La Spagna ha deciso di dare protezione diplomatica a chi sarà su quelle imbarcazioni. Noi chiediamo al governo italiano di fare lo stesso”. Dalle parti di palazzo Chigi e Farnesina tutto tace. Ma il silenzio sarà più difficile se l’esecutivo israeliano, criticato da Meloni solo a parole, metterà dietro le sbarre quattro parlamentari, insieme a decine di attivisti, giornalisti, sindacalisti, esponenti della società civile. Tra cui diversi italiani. Del resto, nella prima missione della Flotilla dopo l’inizio del genocidio, Tel Aviv non si è fatta problemi a detenere per alcuni giorni l’eurodeputata della France insoumise Rima Hassan, in mezzo ai balbettii del governo Bayrou. Ma anche in mezzo a grosse mobilitazioni stimolate proprio da quella presenza a bordo. I Centri sociali del nord-est e il sindacato Adl, reduci dal corteo dello scorso sabato al Lido di Venezia, hanno rilanciato l’appello del Calp genovese: “Se bloccano la Flotilla, blocchiamo il porto di Venezia”. Nella serata di ieri, intanto, a Catania è sfilata una manifestazione di sostegno alle imbarcazioni che si aggiungeranno nei prossimi giorni alla Global Sumud Flotilla. “Questa mobilitazione, le migliaia di persone in piazza per il popolo palestinese contro le scelte di Netanyahu, sono il volto bello della Sicilia, che dice no al genocidio, al massacro continuo, alla guerra”, ha affermato il segretario generale della Cgil Sicilia, Alfio Mannino. E la protesta contro i crimini di guerra israeliani dilaga in Spagna, dove ieri la tappa ciclistica della Vuelta con partenza e arrivo a Bilbao non ha avuto un vincitore. I manifestanti con le bandiere palestinesi, che da giorni contestano la partecipazione del team Israel-Premier Tech, hanno bloccato la corsa a pochi chilometri dal traguardo. Così ora anche il direttore tecnico della Vuelta dice: “La squadra di Israele si renda conto che stando qui non facilita la sicurezza degli altri”. Gli studenti di RomaTre, Tor Vergata e Sapienza in piazza a sostegno della Global Sumud Flotilla di Valeria Costantini Corriere della Sera, 4 settembre 2025 Giornata di mobilitazione studentesca nazionale a sostegno della Global Sumud Flotilla: il 4 settembre studenti sotto i rettorati delle università capitoline. Come avverrà anche nel resto del paese, anche a Roma i movimenti studenteschi promuovono per giovedì una serie di proteste e iniziative in appoggio alla flotta partita da Genova per aiutare il popolo palestinese in ginocchio. Gli appuntamenti sono: alle 10 al rettorato di Romatre, poi alle 11 a Tor Vergata, alle 14.30 presso l’Ufficio scolastico regionale e poi alle 16 al rettorato della Sapienza. “Dopo giorni di raccolta di beni di prima necessità in tutta Italia, a cui abbiamo contribuito attivamente, - fanno sapere da Cambiare Rotta e Osa Roma, movimenti studenteschi dei licei e delle università - questo sabato dal porto di Genova è partita una nave della Global Sumud Flotilla, la più grande missione umanitaria civile della storia contemporanea, carica di 300 tonnellate di beni umanitari per la popolazione di Gaza. Centinaia di volontari hanno contribuito alla realizzazione dell’iniziativa, un enorme corteo di solidali ha attraversato le strade di Genova sabato 30 agosto, e il 4 settembre partiranno le navi da Catania con a bordo anche i compagni portuali di Genova”. Gli studenti hanno deciso di rispondere “all’appello del Calp e della classe operaia che si organizza per bloccare la macchina del genocidio: se toccheranno la Flotilla non si muoverà più un chiodo!” ricordano sottolineando come “il ministro della sicurezza nazionale israeliano Ben-Gvir ha già presentato al governo un piano per fermare questa spedizione e i governi occidentali, complici di fronte al genocidio negli ultimi due anni, sono per ora silenti. Israele vuole trattare gli attivisti come terroristi, chiudendoli in carceri di massima sicurezza, e requisire le navi per metterle a disposizione dell’esercito sionista: ancora una volta si conferma essere uno stato terrorista!”. Gli studenti hanno anche sollecitato la rettrice della Sapienza Antonella Polimeni a esporsi in prima fila a sostegno della flotta: “Per più di un anno il boicottaggio accademico è stato ignorato da Sapienza, mentre in altri atenei riportava importanti vittorie. - la nota di Cambiare Rotta - La Polimeni ha aggirato il problema di Israele con finte soluzioni come ‘corridoi umanitari’ e magri aiuti per Gaza. La mobilitazione non si deve fermare. La nave partita qualche ora fa da Genova lancia un segnale importante: bloccare gli ingranaggi bellici e la complicità dei governi occidentali nel genocidio è possibile, soprattutto con il sostegno della classe operaia”. “Chiamiamo quindi ancora una volta tutto il mondo della formazione, - la nota dei movimenti per la mobilitazione del 4 settembre - dagli studenti ai docenti, passando per tutto il personale tecnico e amministrativo, a mobilitarsi giovedì 4 settembre presso gli Uffici Scolastici Regionali e i rettorati di tutto il paese perché le nostre istituzioni scolastiche e accademiche prendendo posizione in sostegno alla più grande missione umanitaria civile di tutta la storia contemporanea! Se non fermano il genocidio fermeremo il paese, se gli operai e gli sfruttati si mobilitano nulla è impossibile!”. Le esecuzioni sommarie e le libertà di Mario Ricciardi Il Manifesto, 4 settembre 2025 Quando politici e opinionisti gonfiano il petto e affermano la superiorità dei “valori occidentali” è sempre più difficile non pensare che lo stesso tipo di suprematismo è stato utilizzato in ogni parte del mondo per dare una patina morale alle peggiori nefandezze. Si può vedere facilmente il filmato, perché è stato condiviso dagli account social della Casa Bianca e diffuso dai principali organi di informazione. Le immagini sono sfocate, ma si riconosce un motoscafo che procede a grande velocità con delle persone a bordo. Poi c’è un’esplosione, e il video si interrompe con lo scafo avvolto dalle fiamme. Dalle dichiarazioni ufficiali del governo degli Stati Uniti apprendiamo che l’imbarcazione era partita dal Venezuela, e trasportava undici membri del Tren de Aragua e un carico di stupefacenti. A colpirla sono state le unità della marina militare statunitense che da qualche tempo Trump ha inviato a largo del Venezuela. L’account della Casa Bianca ci dice che le undici persone uccise erano dei “narcoterroristi”. A questo punto dovremmo fidarci di quello che dice l’account della Casa Bianca, perché non ci sarà un processo per accertare la responsabilità di ciascuno dei passeggeri a bordo dell’imbarcazione. La parola “terrorista” dovrebbe tacitare i nostri dubbi, ma visto l’uso disinvolto che se ne fa recentemente (basta pensare al caso di “Palestine Action” nel Regno Unito) la perplessità rimane. Nei sistemi giuridici liberali, figli dell’illuminismo, la responsabilità penale è personale, e ciascuno dovrebbe rispondere solo di quello che ha fatto, non di ciò che hanno fatto i suoi compagni di viaggio. Le colpe di cui si viene accusati dovrebbero essere accertate, oltre ogni ragionevole dubbio, nel corso di un dibattimento in cui agli imputati è garantita una difesa e un processo equo. Uso il condizionale perché non sono più sicuro che sia così. Almeno non per tutti. Se sei venezuelano, nigeriano, libanese o palestinese le regole del nostro diritto liberale e illuminista a volte non si applicano. Mi rendo conto che per alcuni il semplice fatto di trovarsi in un certo luogo è ragione sufficiente per essere eliminati (dal missile al drone, passando per il pager esplosivo, la lista degli strumenti a disposizione per queste esecuzioni sommarie è piuttosto lunga, e le informazioni per gli acquirenti sono facilmente disponibili on-line), ma continuo a pensare che aver raggiunto il livello di civiltà giuridica di cui un tempo andavamo orgogliosi (giustamente) e che indicavamo agli altri come un modello, sia stato un genuino progresso morale: il riconoscimento della piena eguaglianza di chiunque davanti alla legge penale, il diritto di ciascun essere umano di essere trattato come una persona, non come un animale da abbattere perché crediamo che possa essere pericoloso. Quando politici e opinionisti gonfiano il petto e affermano la superiorità dei “valori occidentali” è sempre più difficile non pensare che lo stesso tipo di suprematismo è stato utilizzato in ogni parte del mondo per dare una patina morale alle peggiori nefandezze. Proprio negli Stati Uniti, era quel senso di superiorità rispetto ai “selvaggi” che stava dietro a alcune delle peggiori stragi di cui sono stati vittime i nativi. A Sand Creek, per esempio, nel 1864, furono centinaia tra uomini, donne e bambini. In quel caso, l’accusa non era traffico di stupefacenti, ma furto di bestiame. Anche a Camp Grant, nel 1871, l’accusa era quella. Le vittime furono centoquarantaquattro. Secondo il comitato composto dai possidenti del luogo gli indiani erano dietro a qualunque furto, e per questo non meritavano un processo, andavano eliminati tutti, comprese le donne e i bambini. L’elenco potrebbe andare avanti a lungo, e non sarebbe che un tassello del mosaico di violenza su cui è stato edificato lo sviluppo economico degli Usa nel diciannovesimo secolo. Roba vecchia? Temo proprio di no, e bisogna riconoscere che il ricorso alle esecuzioni sommarie non è stato reintrodotto da Trump. Nel corso dei due mandati presidenziali di Obama le esecuzioni sono state più di cinquecento, e hanno colpito “obiettivi” in Yemen, Somalia e Pakistan. Le cifre dei morti sono incerte - secondo alcuni potrebbero essere oltre ottocento - e ovviamente erano tutti terroristi. O almeno così ci dicono. Ieri un’altra immagine ha fatto il giro del mondo, quella dei leader di Russia, Cina e nord Corea insieme a Pechino per assistere a una grande parata militare. Mancava Trump, ma non ci sarebbe stato male in quella compagnia. C’era un tempo, non molti anni fa, in cui gli Stati Uniti e l’Europa, nonostante le proprie magagne passate e attuali, avrebbero colto l’occasione per richiamare Xi Jinping, Putin e Kim Jong Un al rispetto dei diritti umani, del diritto penale internazionale e dei principi della democrazia. Oggi questo atteggiamento da parte dei leader occidentali provocherebbe probabilmente una scrollata di spalle, e l’invito a guardare in casa propria. La libertà di espressione, il carattere personale della responsabilità penale, la libertà di protestare pacificamente non sono messe in pericolo dai nostri nemici, reali o immaginari, ma da noi stessi. Le deportazioni di Trump sono illegali. “Non c’è un’invasione” di Marina Catucci Il Manifesto, 4 settembre 2025 Tribunale federale blocca l’uso dell’Alien Enemies Act per espellere dagli Stati uniti gli immigrati accusati di far parte di gang. Le giudici della corte d’appello federale del Quinto Circuito, Leslie Southwick e Irma Carrillo Ramirez, hanno bloccato l’uso dell’Alien Enemies Act, una legge del 1798 invocata da Donald Trump per espellere i migranti venezuelani accusati di legami con le gang, in quanto non hanno rilevato alcuna invasione o “incursione predatoria”, come previsto dalla legge, che ne giustifichi l’uso per accelerare l’espulsione dei migranti. La decisione era affidata a tre giudici, e solo Andrew Oldham, nominato da Trump, ha espresso il proprio dissenso sostenendo che “il presidente ha ampia autorità nel determinare quando la legge si applica”, e che i tribunali dovrebbero rimettersi a tale giudizio. La giudice Southwick, nominata da George W. Bush, hascritto il parere di maggioranza sottolineando che una banda criminale, anche se fosse legata a un regime straniero, non costituirebbe un’”invasione” tale da giustificare l’applicazione della legge che risale a una guerra del 18esimo secolo, e la giudice Carrillo Ramirez, nominata da Joe Biden, ha concordato. Southwick ha affermato che le affermazioni di Trump secondo cui il governo venezuelano avrebbe incoraggiato i membri della gang Tren de Aragua a immigrare illegalmente negli Stati uniti, con il solo fine di trafficare droga e commettere generici atti di violenza, non equivarrebbe al tipo di conflitto militare che il Congresso aveva previsto quando ha approvato l’Alien Enemies Act, tant’è che stato invocato solo 3 volte: durante la guerra del 1812 e durante entrambe le guerre mondiali. Questa sentenza è l’ultimo sviluppo del contenzioso in corso sull’Alien Enemies Act invocato da Trump a marzo, dopo aver emesso un proclama in cui sosteneva che la banda criminale venezuelana TdA stava perpetrando una “invasione” di dimensioni tali da richiedere l’uso di una misura da tempo di guerra. “Incoraggiare” all’ingresso illegale in un Paese “non è l’equivalente moderno dell’invio di una forza armata e organizzata per occupare o danneggiare in altro modo gli Stati uniti”, ha scritto Southwick. Prima di quest’ultima sentenza altri giudici federali di grado inferiore, provenienti dal Texas al Colorado allo stato di New York, si erano già pronunciati contro l’uso della legge, e anche la Corte Suprema è intervenuta per due volte su questioni accessorie, principalmente riguardanti il giusto processo e l’adeguata notifica per i migranti detenuti. La corte suprema, però, non ha ancora affrontato la questione centrale di tutta la vicenda, riguardo l’uso legittimo dell’Alien Enemies Act in questo contesto, ma a questo punto è molto probabile che il dipartimento di Giustizia presenti ricorso contro la decisione del Quinto Circuito, e questo potrebbe rinviare il caso alla Corte suprema per una sentenza definitiva. Dal canto suo la Casa bianca ha risposto alla sentenza con una dichiarazione della portavoce Abigail Jackson, in cui ribadisce che “L’autorità di condurre operazioni di sicurezza nazionale in difesa degli Stati uniti e di rimuovere i terroristi spetta esclusivamente al presidente. e Trump ha esercitato questa legittima autorità e ha utilizzato l’Alien Enemies Act per espellere dal Paese i nemici degli Usa, inclusi i feroci membri della gang TdA”. L’affermazione dell’amministrazione Trump secondo cui la gang starebbe conducendo un’”invasione” “sotto la direzione” del presidente venezuelano Nicolás Maduro, è stata messa in discussione anche dalle agenzie di intelligence statunitensi, mentre gli avvocati di diversi migranti presi di mira per l’espulsione hanno contestato gli sforzi del governo di qualificarli come membri di una gang. Oltre 250 di queste persone, espulse e deportati nei gulag salvadoregni, sono state rilasciate e rimpatriate in Venezuela. Anche se non rappresenta l’epilogo del caso, la decisione del Quinto Circuito è comunque un duro colpo per Trump e una vittoria per chi si oppone alla sua agenda, come ha sottolineato sul Washington Post Lee Gelernt, avvocato dell’American Civil Liberties Union che ha difeso il caso di un gruppo di cittadini venezuelani trattenuti in un centro di detenzione per immigrati nel nord del Texas. “Il tentativo dell’amministrazione Trump di utilizzare una legge di guerra in tempo di pace per scopi di immigrazione è stato correttamente stroncato dalla corte - ha affermato Gelernt - Questa sentenza chiarisce che i tribunali esistono per mantenere il potere esecutivo entro i limiti legali, e che persino il presidente non può semplicemente dichiarare lo stato di emergenza ogni volta che gli fa comodo”.