L’alternativa dei domiciliari al carcere troppo affollato: il caso Torino può fare scuola di Ilaria Beretta Avvenire, 3 settembre 2025 L’anno scorso 5.837 ristretti - numero record - hanno ottenuto dallo Stato uno sconto di pena o un indennizzo per le condizioni inumane della reclusione: un costo ipotetico di 8 milioni e mezzo. Un detenuto con obesità e una patologia cardiaca ha chiesto di poter scontare ai domiciliari la sua pena, inferiore ai quattro anni, per motivi di salute. E il Tribunale di sorveglianza di Torino, al quale era ricorso dopo un primo diniego da parte del magistrato di sorveglianza, ha detto sì: però non per la natura delle cure richieste dalla malattia che i giudici definiscono anzi “compatibili con la detenzione” bensì perché il penitenziario Le Vallette di Torino a cui l’uomo è stato assegnato versa in condizioni di sovraffollamento tali da determinare sofferenze aggiuntive ed eccessive per una persona malata. In teoria - è in sintesi la risposta dei giudici - la tua patologia non ti darebbe diritto a scontare la pena fuori dalla cella, ma la realtà, ovvero un istituto in cui sono stipati 1.466 detenuti a fronte di una capienza di 1.117, la rende incompatibile nella pratica. Le motivazioni della decisione - presa lo scorso 5 agosto ma divulgata nei media questa settimana - rischia di fare scuola visto che i penitenziari non interessati da numeri eccessivi sono solo un quarto e che invece, in media, a livello nazionale il sistema sfoggia un tasso di sovraffollamento del 134%. “È la prima ordinanza - conferma Ettore Grenci, referente della Commissione diritti umani del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bologna - che usa il tema del sovraffollamento carcerario declinandolo sotto forma di rispetto del principio di umanità della pena contenuto nella Costituzione. Ovviamente è una decisione legata a un caso specifico che tiene conto di vari aspetti tra cui le patologie e la pericolosità del ricorrente ma, considerando che il 75% dei penitenziari italiani è in condizioni di cronico sovraffollamento e che quindi il principio può essere esteso a una serie indeterminata di soggetti che si trovano nelle stesse condizioni di questa persona, mi aspetto che l’ordinanza di Torino possa essere emulata anche da altri Tribunali di sorveglianza. Il provvedimento è significativo anche perché ha ottenuto parere favorevole anche da parte della dottoressa Lucia Musti, procuratrice generale di Torino, che rappresenta l’ufficio di procura più importante del Piemonte: è il segno lampante di una sensibilità ormai diffusa tra magistrati e giuristi che lavorano per il rispetto del principio di umanità della pena”. L’innovazione dell’ordinanza si deve anche al fatto che per la prima volta l’elemento del sovraffollamento viene considerato dall’ordinamento a priori e non a posteriori. Dal 2014, dopo che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per reclusioni degradanti e ricorrenti, l’ordinamento ha introdotto una norma apposita che riconosce un indennizzo o una riduzione di pena per le persone che stanno o hanno scontato la propria pena in condizioni di sovraffollamento. “Chi possa dimostrare di essere detenuto in condizioni inumane o degradanti per almeno 15 giorni - spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio sulle carceri dell’associazione Antigone - ha il diritto di ottenere una riduzione della pena detentiva ancora da scontare, pari a un giorno per ogni dieci giorni di violazione. Coloro che hanno scontato una pena inferiore a 15 giorni o non si trovano più in stato di detenzione devono ottenere un risarcimento di 8 euro per ogni giorno trascorso in quelle condizioni”. I casi non sono affatto pochi: nel 2024 gli uffici di sorveglianza italiani hanno contato 11.440 istanze per la riduzione della pena; ne sono state decise 10.097 e di queste 5.837 - pari al 57,8% - sono state accolte. Un numero record, che solo nell’ultimo anno è cresciuto del 23,4%. Considerando un intervallo di tempo plausibile di sei mesi, per un detenuto significano 18 giorni di sconto di pena oppure 1.440 euro di rimborso (al lordo delle spese legali): poca cosa per il singolo e invece un significativo esborso per lo Stato che, moltiplicando per il numero totale degli indennizzi ammessi, si troverebbe a pagare 8 milioni e mezzo di euro. “Il sovraffollamento - aggiunge Grenci - ha anche costi nascosti, come il servizio sanitario che interviene negli episodi di violenza e autolesionistici che si moltiplicano o che supporta la polizia penitenziaria sottoposta a grande stress. E poi c’è il costo umano: in questo contesto la rieducazione, prevista dalla Costituzione, è una pia illusione”. Purtroppo, però, l’orizzonte non è roseo: se da un lato tribunali e magistratura sembrano interessati al tema, sul fronte politico le bocce sembrano ferme. Secondo Scandurra “serve anzitutto uno strumento straordinario per far calare la pressione e mettere in regola le capienze e i carichi di lavoro sul personale di polizia, sanitario e degli educatori: solo così si riescono ad abbassare i tassi di recidiva. Oggi il 60% delle persone in carcere ci è già stata e tossicodipendenza e disagio psichico sono molto diffusi: ma come si può pensare a cure dedicate o percorsi di reinserimento senza spazi e senza risorse adeguate ai numeri?”. “Dopodiché - gli fa eco Grenci - servirebbe una riforma di lungo respiro: la revisione del Codice penale, una depenalizzazione ampia, investimenti in attività alternative e luoghi in cui far eseguire la pena fuori dal carcere. Tutto invece sembra andare nella direzione opposta: le norme penali contenute nel recente decreto sicurezza prevedono nuovi reati e incrementi di pena per quelli già esistenti e l’attuale composizione parlamentare non finalizzerà provvedimenti come amnistia o indulto per i quali servono maggioranza qualificate”. Pure la meno ambiziosa proposta di legge Giachetti, che prevede di ampliare i giorni di liberazione anticipata per buona condotta dagli attuali 45 a 75 giorni per semestre, comportando la fuoriuscita dal carcere di diverse migliaia di persone che stanno scontando pene residue di pochi mesi, è parcheggiata in Commissione giustizia della Camera da dove per ora - nonostante le aperture bipartisan - non sembra essersi mossa. Gratteri vede i clan padroni delle carceri. Ma i numeri (veri) dicono altro di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 settembre 2025 Cellulari e droga in cella, rispetto alla ricostruzione del procuratore di Napoli esiste una realtà diversa: traffici frammentati, spesso gestiti da detenuti comuni, familiari e agenti infedeli. “I mafiosi controllano le carceri, arricchendosi anche dietro le sbarre e usando come manovalanza i detenuti comuni”. Così Nicola Gratteri, procuratore di Napoli, in diverse interviste ha riassunto la sua visione sulla gestione dei cellulari e della droga negli istituti penitenziari. Affermazioni che fotografano un pericolo reale ma che, prese così, travalicano ciò che i fatti documentati e le indagini giudiziarie permettono di dimostrare in modo uniforme sul territorio. La realtà degli ultimi cinque anni mostra uno scenario a macchie, dove esistono roccaforti di potere e filiere organizzate, ma nella stragrande maggioranza dei casi il traffico di cellulari e droga riguarda esclusivamente detenuti comuni, con la complicità dei familiari e di alcuni agenti infedeli. Dal 2020 a oggi i sequestri di cellulari in carcere crescono. Fonti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria indicano 1.084 telefoni rinvenuti nel 2022, 1.595 nel 2023, 2.252 nel 2024. Una curva in salita, segno di un mercato vivo, spinto anche dai droni e dall’esigenza di comunicare con i propri cari, visto che persino il ministro della Giustizia ha finalmente messo mano alla necessità di aumentare le possibilità per i reclusi di telefonare ai familiari. Il mercato nero è sempre gestito dai mafiosi? Nel novembre scorso una vasta operazione della Squadra Mobile di Napoli ha portato all’arresto di 12 persone - 10 in carcere e 2 agli arresti domiciliari - ritenute appartenenti al clan Vanella Grassi, che avevano messo in piedi un sistema per introdurre, attraverso droni altamente tecnologici, droga e cellulari all’interno del carcere di Secondigliano. Nelle operazioni napoletane affiora un dato chiaro: gli ordini arrivavano dall’Alta Sicurezza; all’esterno famiglie e sodali organizzavano spedizioni e pagamenti, all’interno si distribuiva la merce e si gestivano i noleggi dei telefoni. Gli input partivano dalle sezioni AS, la rete esterna confezionava i drop, i detenuti non AS si muovevano come terminali. È esattamente la filiera che Gratteri descrive. I droni sono la punta dell’iceberg. Altri canali restano “classici”: corruzione di singoli agenti, lanci dal perimetro, inserimenti in pacchi e generi alimentari. Gli atti pubblici ne danno conto. Ci sono numerosi casi come a Rebibbia dove forze dell’ordine e un medico avrebbero trafficato cellulari e altri beni, oppure episodi come quello di qualche giorno fa a Catania dove dei ragazzini avrebbero usato dei droni per farsi qualche soldo inviando cellulari. La lista è lunga. Qui i detenuti dell’Alta Sicurezza non c’entrano nulla, non sono coinvolti i mafiosi. Dire che i detenuti in AS controllano in generale gli istituti in cui si trovano non trova riscontri uniformi. Da escludere poi i boss mafiosi, visto che sono tutti reclusi al 41 bis: qui il margine d’azione è ridotto quasi a zero per definizione. Eventuali rinvenimenti di micro-dispositivi sono eccezioni oggetto di indagini mirate. La corruzione, nella maggior parte dei casi, resta individuale. Le inchieste su episodi di corruzione interna (agenti che introducono pacchi, medici indagati, complici esterni come i familiari dei reclusi) mostrano che esistono altre filiere - basate su opportunità e denaro - che operano indipendentemente da un ipotetico comando proveniente dai reclusi in Alta Sorveglianza. I casi di Rebibbia e di altri istituti dimostrano reti miste: familiari, visitatori, personale infedele. L’enunciato di Gratteri - espresso in forma apodittica - ha il difetto di travalicare la distinzione tra casi documentati, come l’inchiesta giudiziaria sul carcere di Secondigliano, e tutti gli altri. Lo sguardo giusto non è il manicheismo: non si tratta di negare che in alcuni casi, dietro il mercato nero, possano esistere regie mafiose né di minimizzare i rischi. Si tratta di descrivere la realtà penitenziaria per come è. I fatti stessi di cronaca giudiziaria ridimensionano l’idea di un controllo esclusivo e uniforme da parte dei boss. Più corretto è dire che in alcuni rari contesti i boss riescono a esercitare un potere reale, mentre in altri il fenomeno segue logiche diverse. Non esiste l’emergenza mafiosa nelle carceri Secondo Gratteri, la vera emergenza sarebbe proprio il dominio dei mafiosi sul carcere. Un’analisi che, se calata nella Storia, risulta sproporzionata. Negli anni 80 Raffaele Cutolo riuscì a trasformare la prigione nel quartier generale della Nuova Camorra Organizzata, arruolando migliaia di affiliati e impartendo ordini che avevano ricadute persino sul piano politico e militare. Oggi siamo lontani anni luce da quel modello. Il sistema penitenziario ha fatto passi avanti proprio grazie a un approccio più attento ai diritti e all’umanizzazione della pena. Ogni irrigidimento punitivo, ogni stretta sui benefici, non riduce il potere mafioso, ma rischia di rafforzarlo: meno spazi di socialità, meno percorsi di reinserimento, più terreno fertile per le regole parallele. Le cronache penitenziarie degli ultimi anni mostrano un dato costante: i mafiosi non partecipano alle rivolte. Anzi, spesso le ostacolano. La ragione è semplice. Il detenuto mafioso sa che la propria condizione detentiva sarà lunga, e che qualsiasi disordine produce conseguenze pesanti: trasferimenti, inasprimenti delle misure, nuove leggi che rendono più difficile ottenere benefici. Per questo i boss preferiscono un’apparente tranquillità, fatta di ordine e disciplina, piuttosto che l’esposizione a un conflitto aperto con l’istituzione. In altre parole, il detenuto mafioso “accetta” il carcere. Non per rispetto verso lo Stato, che lo avversa, ma per sé stesso. Suicidi in cella e boss: un collegamento senza basi - Ancora più controverso è il legame che il procuratore Gratteri ha tracciato tra i suicidi in cella e la presunta subordinazione dei detenuti comuni ai boss. Non esistono dati a sostegno di questa affermazione. Nessuna indagine giudiziaria segnala suicidi ordinati o indotti dalle organizzazioni criminali. Al contrario, le cause più ricorrenti sono altre: isolamento affettivo, condizioni di sovraffollamento, problemi psichiatrici non trattati. In alcuni casi documentati, i suicidi sono stati la tragica conseguenza di violenze e stupri subiti da detenuti comuni, non certo di pressioni da parte dei boss. Attribuire queste morti a una regia mafiosa significa oscurare le vere responsabilità: quelle dello Stato che non garantisce adeguato sostegno psicologico, che lascia crescere il numero di detenuti fragili abbandonati a sé stessi, che non trova vie alternative per chi ha solo un anno di carcere da scontare, che nega a lungo il diritto all’affettività. Se c’è un elemento che favorisce la diffusione della cultura mafiosa in carcere, quello è il sovraffollamento. Celle stipate, mancanza di attività trattamentali, assenza di percorsi di reinserimento creano terreno fertile. Per ridurre davvero il rischio di nuove affiliazioni servirebbe dimezzare la popolazione carceraria, investire in misure alternative, restituire diritti e dignità ai detenuti. È proprio il rispetto dei diritti umani il vero antidoto alla mafia, non l’inasprimento cieco delle condizioni detentive. Parlare di un “controllo mafioso” sulle carceri equivale a semplificare un fenomeno complesso e a distogliere l’attenzione dai nodi reali: traffici alimentati da falle strutturali, suicidi legati all’abbandono istituzionale, sovraffollamento che crea terreno fertile per nuove subculture criminali. Negli anni 80 i boss governavano davvero dal carcere. Oggi no. E se si vuole evitare che il passato torni, la strada non è restringere i diritti ma garantirli, perché solo uno Stato che non rinuncia alla sua Costituzione è in grado di spegnere il potere mafioso dietro le sbarre. Un appello al Garante Nazionale: rompere il silenzio e ascoltare il grido di dolore dei detenuti di don Vincenzo Russo* Il Dubbio, 3 settembre 2025 Oggi c’è un grido, che si leva dalle nostre carceri. Seppure spesso soffocato, esso è più volte in grado di oltrepassare quella alte mura di separazione, confine arbitrario tra buoni e cattivi, e raggiungere i pensieri e le coscienze che si muovono nella libera società. In quel grido vive lo stesso spirito che ritroviamo nelle parole bibliche che descrivono il dolore e l’angoscia del povero; queste non ricadono sulla terra inascoltate, ma salgono fino a Dio dove trovano accoglimento ed intervento: “Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo libera da tutte le sue angosce” (Sal 34,7)”. Come è noto, il povero delle pagine bibliche non è solamente chi non ha di che vivere, ma è, in generale, colui che vive una condizione di sofferenza, di oppressione, di ingiustizia, di solitudine estrema rispetto a tutto ciò che ne può sostenere la libera e dignitosa esistenza. Ebbene, non c’è motivo per cui questo grido non sia anche quello del detenuto che, per la situazione in cui si trova a vivere, esprime dolore per una dignità oltraggiata, una sofferenza inflitta oltre ogni previsione di giustizia e umanità. Il mio pensiero corre spesso, quasi incredulo, al silenzio che, pure, questo grido incontra nel suo viaggio fino a noi. Un silenzio che è sempre assordante, ancor più quando, come rilevo, appartiene a coloro che sono chiamati, invece, ad accogliere quel grido e contribuire a trasformarlo in fiducioso cambiamento. Penso alla figura del Presidente del Garante Nazionale delle persone private della libertà, al quale mi rivolgo, con umile azzardo, per comprendere meglio come possa accadere che, mentre si consuma il dramma di vite sottoposte a condizioni disumane e angoscianti oltre ogni limite, si possa rimanere fermi, in silenzio, senza offrire risposte vere. Il dottor Turrini Vita, Presidente del Garante, ha accolto, con la sua nomina, una responsabilità enorme e un alto compito: quello, in un certo senso, di essere “profezia” per quanto riguarda la vita delle persone detenute. Il Profeta, nella Sacra Scrittura, è definito non solo come colui che parla a nome di Dio ma, nella sua relazione con il popolo, come colui che vigila, che custodisce. È la sentinella (shomèr), il custode del fratello, colui che vede e conosce la verità e la giustizia di Dio e la indica al popolo, perché la segua. Come può, mi chiedo e chiedo a Lei, Presidente del Garante Nazionale, conciliarsi questa alta missione, con il silenzio devastante a cui oggi assistiamo di fronte alla tragedia che si consuma dentro le nostre carceri, fatta di disumanità, di diritti violati, di dettami costituzionali ignorati e di numerosi suicidi? Dov’é, in questa inazione e in questo perpetuarsi dello stato di fatto attuale, l’esercizio della profezia? Dove l’esercizio della garanzia? Tutti conosciamo la difficile condizione in cui versa il sistema penitenziario nel suo complesso e abbiamo consapevolezza della enormità dei problemi da affrontare. Nessuno, credo, si attende la bacchetta magica che risolve ogni cosa in un attimo, ma tutti, me compreso, ci attendiamo da subito e sempre, giustizia, equità, verità, umanità: in una parola, profezia. Queste parole, caro Presidente, giungono a Lei sapendo di essere comprese, perché ricevute da una persona che conosce e vive personalmente la dimensione della fede cristiana. A maggior ragione, si traducono in sconcerto quanto più si scontrano con l’immobilismo ed il silenzio a cui ora assistiamo. Ogni giorno che passa e racconta situazioni, dentro le nostre carceri, indegne per un Paese civile quale si ritiene il nostro, è un giorno in cui la profezia è morta e il Vangelo rinnegato. Di fronte a questo, di fronte a ogni singolo “povero” stritolato dalle maglie del sistema freddo ed indifferente, c’è tutto il contrario di quell’orizzonte che le secolari battaglie per la libertà, la democrazia, i diritti umani ed il primato della libera coscienza hanno cercato di consegnare ai nostri tempi. Ecco perché il silenzio dinanzi al presente, è qualcosa per me incomprensibile. Lo è quello della maggioranza dei cappellani delle carceri e particolarmente del loro Ispettore Generale: ogni giorno assistono a questo dramma eppure non sembrano manifestare l’atteso sdegno né farsi voce accorata di denuncia. Lo è quello di chi, come Lei, Presidente Turrini, è chiamato a essere Garante di diritti e profezia, in nome di quella vera giustizia alla quale diciamo di voler tendere. Ecco, questi silenzi non li comprendo e non li giustifico. Ci sono forse ragioni che non conosco? Non penso sia così. Penso e spero solo che questo muro infrangibile, che schiaccia vittime ogni giorno e gronda sangue umano, crolli sotto l’esigenza dell’umanità e di quell’imperativo divino di amore e giustizia che, Presidente, Lei afferma di ritenere fondamento del suo vivere e credere. Di fronte a un problema, si agisce e lo si fa insieme: tanti altri “profeti” oggi vengono meno al loro compito, nella società civile e nella Chiesa. Se davvero il sistema penitenziario vuole percorrere, come dice, una via di riforme e cambiamenti sostanziali, quale orizzonte di intervento intende scegliere, quali obiettivi raggiungere, valori attuare, priorità seguire? Rompendo l’assurdo e drammatico silenzio, qualcuno, per favore, risponda… non a me, ma alle persone detenute, che attendono, finalmente, che il loro “grido” sia concretamente accolto. *Già Cappellano del carcere di Sollicciano Il carcere come casa e corpo: “Qui dentro qualcuno si occupa di me” di Diana Ligorio Il Domani, 3 settembre 2025 “Non ho paura della terza guerra mondiale. Noi stiamo in galera e le galere non le bombardano”, Margherita tira su i grandi occhiali che le sono scivolati sul naso. Diciannove anni, è arrivata al minorile di Casal del Marmo due anni fa. Il carcere, lo chiama galera. Nelle occasioni importanti diventa istituto: “Ipm, quando c’è il direttore”. In caso di conflitto armato tra potenze invece lo chiama zona di confort. Quando è da sola con i suoi pensieri, la galera diventa caleidoscopio del tempo: piccoli frammenti del dentro e del fuori, del prima e del dopo compongono forme che si proiettano nello spazio fisico della detenzione. Il tempo in carcere è qualcosa che si vede, si tocca. Per Marg il tempo dentro scorre veloce, troppo veloce: “Ne sto sprecando un sacco. È frustrante. In un niente sono passati due anni e mi sembra di aver fatto poco”. In realtà, in carcere si è diplomata e ha iniziato l’università: “Sento di stare ferma, di non crescere, di non evolvermi. Spesso sono stanca. È una stanchezza mentale ed emotiva e fisica, imbarazzante”. Attaccarsi al carcere per sentirsi a casa - Marg passerebbe tutto il giorno sui libri: “Lo studio è la mia vita. Ci sono stati momenti in cui è stato più importante studiare che mangiare”. È il suo modo per non sentirsi impreparata e per avere cose da raccontare che possano sorprendere le altre. Le piace anche scrivere: “Scrivo quello che provo, soprattutto le frustrazioni. I giorni sono tutti uguali, perdi la percezione di quello che ti succede. Ho bisogno di scrivere le mie sensazioni perché scrivendole le rendo reali”. Prende una lunga ciocca di capelli, liscia, sfilacciata. Fa un nodo, lo scioglie, lo pettina con le dita. Poi procede con un nuovo nodo e così via: “I legami che si formano in questo posto sono viscerali, fuori non esistono. C’è sempre un attaccamento anche con chi non sopporti. Riuscirei a difendere persone che non tollero se la situazione lo rendesse necessario”. Le mani di Marg passano a lisciare il bordo del tavolo, a toccarne la consistenza, misurarne la forza. Con le cose che compongono il carcere si crea un rapporto fisico: “Quando i ragazzi hanno abbattuto il gazebo, io ho sofferto fisicamente”. Forse per questo lei la chiama galera, con un nome femminile: è una parte del suo corpo, la sua continuazione. “Devi attaccarti per forza a questo posto. Altrimenti ti senti estraniato. Devi attaccarti a qualsiasi cosa, anche a un comodino. Io ho pianto quando è stato rotto il mio comodino. Bisogna attaccarsi a qualcosa per sentirsi un po’ più a casa. Perché questa diventa casa”. La galera come corpo - La galera come corpo e come casa diventa una matrioska: poi si scompone, mettendo fuori presenze separate che moltiplicano tra loro una distanza. “Gli agenti sono frustrati e i detenuti sono frustrati e siamo tutti quanti talmente tanto frustrati da non capire che potremmo condividere questa cosa: in forme diverse stiamo soffrendo tutti la stessa cosa. E invece siamo distanti e freddi. E ti crei un secondo carcere intorno a quello in cui già stai. E non ti serve. Già ne hai uno di carcere. Quante galere ti devi fare?”. Nei primi quattro mesi di detenzione a Marg non è venuto il ciclo. Bloccato. Poi ha cominciato a perdere peso. E le sue allergie si sono moltiplicate. Lei è allergica alle mimose e vicino al carcere ce n’è un campo enorme che a marzo fiorisce con il suo giallo stellato. Da dentro lei non lo può vedere, ma lo sente nel suo naso, nei polmoni, nel fluido che dal dentro del corpo esce fuori. Anche il suo corpo vive una primavera, fastidiosa. Un corpo-galera che tiene il tempo delle stagioni, dell’attesa o di una sospensione. Prendiamo il sesso, ad esempio: “Pensare che la persona accanto a me possa masturbarsi mentre io sono presente nella stessa stanza è una cosa fisicamente dolorosa. Mi sento violata”. Strofina le mani sulle guance coperte di acne. “È così bello il sesso, non capisco perché non ci sia permesso. Perché non fare Woodstock Casal del Marmo?”, ride, tira su col naso, uno sguardo lanciato al di là degli occhiali cascanti. Le aspettative del fuori - La stanza, Marg la chiama cella e la condivide con un’altra ragazza. Dopo che alcune ragazze hanno devastato le camere, lei ha richiesto che le venisse assegnata la stanza più piccola dell’istituto: “A casa la mia camera era minuscola. Era uno sgabuzzino delle scope prima che diventasse la mia stanza. Il letto occupava tutto il pavimento calpestabile. Io adoro gli spazi piccoli. Voglio che sia tutto a portata di mano, che le pareti siano vicine a me, che non ci sia spazio per perdersi e distrarsi”. Ecco allora che la parola cella suona tanto vicino alla parola cellula, un organismo vivente che si espande lungo pareti e sbarre rendendole tessuti in continuità epidermica con il corpo di lei. “Fosse per me rimpicciolirei tutta la palazzina. Fra molto, molto tempo, quando dovrò cercare casa, vorrò un piccolo monolocale”. Marg viene da Palermo. Roma, la odia. “Questa è la città dove gli autobus prendono fuoco da soli. Quando sono uscita per un permesso, il giorno del mio compleanno, i miei occhi cominciarono a lacrimare per l’inquinamento”. Ma Roma sarà il posto dove rimarrà quando terminerà la sua pena perché non ha una casa e una famiglia dove fare ritorno. Quando uscirà, Marg sarà una donna di quasi 40 anni. Quando uscirà, vorrebbe non sentirsi schiacciata dall’ansia di prestazione: “Vorrei tornare a vivere senza le aspettative: dover dimostrare di essere brava e buona”. Fingere una normalità - Non pensa alla scarcerazione: “Penso a quando sarò una donna in carriera, ma non al momento in cui finisco di stare qui e inizio a stare fuori. Penso al dopo, ai miei cinque gatti e a come chiamarli. Non penso che ci sarà una transizione tra questo posto e il mondo esterno”. Quando scarcerano qualcuno, si chiede se la persona che ha fatto parte della sua vita dentro, ne farà parte anche fuori: “Quella persona a cui ho voluto tanto bene in questo posto, farà parte ancora della mia vita?”. Con la sua amica a Palermo ha una corrispondenza, ma Marg preferisce ricevere le lettere più che scriverle: “Quando le scrivo, faccio finta di essere normale, le racconto di un film che ho visto in tv o di un libro che ho letto. Lei invece è una vera persona normale e non ha bisogno di far finta di esserlo. Mi racconta della sua love story o del film visto al cinema e io le rispondo due anni dopo: lo hanno passato in chiaro, ora l’ho visto anche io”. Dare un senso al carcere - Le dita di Marg non hanno mai smesso di muoversi, di battere sul tavolo ogni parola che ha scelto per raccontarsi: “È una condanna che mi porterò a vita. Lo stigma e il dolore restano. Però, io in questo momento mi sento una privilegiata: sono circondata da persone che si impegnano affinché io stia nel migliore dei modi possibili. Qui dentro c’è qualcuno che si occupa di me e io fuori non ce l’ho mai avuto”. In carcere non deve pensare di andare a fare la spesa, di cucinare il pranzo e la cena. Non deve trovare i soldi per iscriversi all’università. “Non ho bisogno di capire da sola come affrontare i miei problemi perché c’è qualcuno che mi aiuta. Ho l’opportunità di riflettere su di me, sulla mia vita, su ciò che voglio e voglio essere. Penso che questo sia il senso di questo posto. Mi piace questo posto. Lo odio, mi fa schifo. Più o meno ogni giorno dico: non ce la faccio più, voglio uscire. Ma in fondo mi piace stare qui”. Si toglie i grandi occhiali, pulisce le lenti con la manica della maglia. Li rimette sul naso e mi guarda con la testa di lato: “Fuori da qui, io dovevo pensare totalmente a me stessa. E questo sarà anche il mio futuro. Da sola contro il mondo”. Le dita di Marg tornano a graffiare l’aria, a squarciare l’ultimo velo che è rimasto: “La tua vita sta a te. Qui dentro sta a te e a qualcun altro. È molto simpatico farsi cullare. Lo consiglio a tutti di farsi arrestare”. Il dramma del carcere ha anche una faccia nascosta: un “buco” di 20mila agenti di Fulvio Fulvi Avvenire, 3 settembre 2025 Tante sono, secondo i sindacati, le persone che mancano nel garantire sicurezza dietro le sbarre. Uilpa: pochi e con carichi di lavoro disumani. Detenuti oltre quota 63mila, sovraffollamento record. Oggi gli agenti in servizio nei 192 istituti di pena italiani sono 31.000, un numero largamente insufficiente alle necessità. La pianta organica stabilita dal ministero della Giustizia segna 34.162 unità, ma il fabbisogno, visto il sovraffollamento delle prigioni e le violente tensioni che si manifestano dietro le sbarre, in realtà va assai oltre le 4mila unità che mancano (cioè il 16% del totale). È questa l’altra faccia, nascosta, del dramma carceri. Nel 2025 è stato indetto un concorso per l’assunzione di 3.246 allievi agenti, il che porterebbe a una copertura dell’organico previsto sulla carta, ma va tenuto conto di chi nel frattempo è andato in pensione o si è dimesso. Inoltre, prima che i nuovi assunti possano essere destinati a un incarico dovranno espletare corsi di formazione che durano, a seconda della qualifica, dai 9 ai 24 mesi. A detta dei sindacati di categoria, negli organici del Corpo di polizia penitenziaria “si sono aperte voragini che superano le 20mila unità, anche a causa delle assegnazioni di personale a uffici ministeriali ed extra penitenziari”, trasferimenti che, secondo le stesse organizzazioni del settore, sarebbero “eccessivi e spesso illegittimi”. Ma chi sono e che funzioni hanno le persone che mancano, nel garantire sicurezza dentro le prigioni? Una volta si chiamavano agenti di custodia o, le donne, vigilatrici penitenziarie, ma anche, semplicemente, “secondini”, un’accezione ottocentesca. Con la riforma del 1990, la loro denominazione è diventata “agenti di polizia penitenziaria”. Le competenze, tuttavia, sono rimaste quasi le stesse: vigilare e custodire i detenuti garantendo la sicurezza interna alle strutture carcerarie, partecipare all’esecuzione dei provvedimenti restrittivi, accompagnare i reclusi ai processi o nei trasferimenti in altri istituti e collaborare al loro trattamento rieducativo. In più, introdotte da un decreto del dicembre 2007, sono state attribuite al Corpo le funzioni di polizia giudiziaria. Un lavoro duro e stressante, che presuppone preparazione, professionalità, maturità personale. La verità è che la mancanza di personale di sicurezza nelle celle è l’ennesimo segnale che il problema non è nell’agenda della politica, mentre le carceri sono al collasso. I detenuti presenti nelle strutture risultano più di 63mila, a fronte di 46mila posti effettivamente disponibili, con un sovraffollamento totale pari al 134,93%. Nelle celle delle patrie galere sarebbero stipati, dunque, 16.300 reclusi in più: il rapporto è, dal punto di vista solo numerico e generale, di 1 agente ogni 2 detenuti ma sul territorio la situazione è disomogenea e cambia da istituto a istituto. Il tasso di sovraffollamento, infatti, raggiunge in Puglia punte del 173% (4.471 detenuti in 2.591 posti) in Molise del 160% (395 detenuti in 247 posti), in Lombardia del 154% (9.001 detenuti in 5.850 posti) nel Lazio del 150% (6.812 detenuti in 4.529 posti). Numeri che, secondo i calcoli dei sindacati, porterebbero a una carenza di personale, nelle quattro circoscrizioni menzionate, che va dal -30% della Puglia al -46% del Lazio. In base all’ultimo Report dell’associazione Antigone, le regioni che hanno un rapporto più elevato di reclusi per agente, e quindi sopra la media, sono, appunto, la Lombardia, il Lazio e l’Umbria, con rispettivamente il 2,44, il 2,42 e il 2,45. Inoltre, la distribuzione del personale è disomogenea anche risetto ai singoli istituti: nella Casa circondariale di Napoli Poggioreale, per esempio, sono presenti 3,6 detenuti per agente e nell’organico mancano 273 unità. Gli agenti, afferma Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa-Polizia Penitenziaria, “sono sottoposti a carichi di lavoro disumani e a turnazioni di servizio che si protraggono anche per 26 ore ininterrotte e, per di più, con la retribuzione solo parziale del lavoro straordinario che comunque viene pagato meno di quello ordinario”. Gli addetti alla sorveglianza e alla sicurezza degli istituti di pena devono fronteggiare, oltre alle normali incombenze, emergenze ormai quotidiane come risse tra detenuti, tentativi di rivolta, violenze di ogni genere, traffici illeciti, evasioni, stupri. E, prima di tutto, vigilare sugli atti di autolesionismo e i tentativi di suicidio che ormai, purtroppo, dietro le sbarre sono all’ordine del giorno. Per lo stress e le forti tensioni emotive determinate dal lavoro, dal 1° gennaio 2025 ad oggi, fanno sapere le organizzazioni sindacali, tre poliziotti si sono tolti la vita. L’anno scorso nella categoria sono morti per mano propria sette agenti e oltre duemila sono state, in totale, le aggressioni subite. Il carcere è un inferno per tutti. Clausura e reclusione: la vita in cella e il senso della speranza di Giorgio Paolucci Avvenire, 3 settembre 2025 L’abate generale dei Cistercensi, padre Lepori, e l’incontro con i detenuti. “Da loro ho imparato ad accogliere gli aspetti negativi della vita, frutto dei nostri errori, o dei limiti degli altri”. L’abate generale dei Cistercensi in dialogo con i detenuti. Un incontro che non ti aspetti, ospitato nel salone di un carcere, al quale ne sono seguiti altri che hanno generato rapporti fecondi e scoperte inattese. Cosa hanno in comune questi due mondi? La cella che - per scelta o per necessità - è la loro dimora. Ma c’è molto di più, come racconta padre Mauro Giuseppe Lepori, ticinese, dal 2010 alla guida di uno degli Ordini religiosi più antichi nella storia della Chiesa, che ebbe origine nell’abbazia di Citeaux - in latino Cistercium - in Borgogna, fondata da Roberto di Molesme nel 1098 e che oggi conta 130 monasteri nel mondo. Quando ha cominciato a incontrare le persone detenute in carcere? Un amico che cura la formazione accademica per alcuni detenuti in due penitenziari dell’Abruzzo aveva dato un mio testo di esercizi spirituali a un suo studente. Con lui è nata una corrispondenza nella quale mi impressionava come la fede che aveva riscoperto in carcere lo aiutasse a vivere con un’accettazione della sua condizione che mi ha molto provocato, perché spesso non trovo in me o in tanti monaci e monache questo modo di affrontare la vita in cui Cristo è più determinante che i nostri sentimenti. Quando c’è stata la possibilità di visitarlo nel carcere di Sulmona, l’incontro con lui si è incredibilmente dilatato in un dialogo con 150 detenuti. In quell’occasione sono nate amicizie e corrispondenze epistolari, oltre che il desiderio dei carcerati e mio di incontrarci nuovamente per approfondire temi come l’amore incondizionato di Dio e il perdono, temi in cui la fede in Cristo illumina la condizione umana in ogni suo frangente. Sono seguiti incontri in altre carceri, tutti molto provocanti per la mia vita e vocazione. Cosa ha imparato padre Lepori da queste frequentazioni? Soprattutto ad avere un rapporto più accogliente riguardo agli aspetti negativi della vita, che spesso sono il frutto dei nostri errori, o che subiamo per i limiti o la malvagità degli altri. In questo senso sono molto edificato dalla testimonianza di accettazione e di fedeltà dei famigliari dei carcerati con cui sono pure venuto in contatto. La fede di chi vive in situazioni estreme come il carcere mette in evidenza che Cristo è veramente il Redentore dell’uomo senza il quale nessuna vita, dentro o fuori dal carcere, troverebbe senso e pace. Il perdono è uno dei temi centrali dei vostri incontri... Questa esperienza mi ha reso più cosciente del fatto che il perdono, prima di essere un atto nostro, è incarnato nella presenza di Gesù in ogni circostanza della vita. Lui non ci abbandona, anzi, accorre proprio là dove siamo più colpevoli e ribelli alla legge di Dio e al Vangelo. Il perdono, cioè, è Cristo presente che ci guarda come ha guardato Pietro nel cortile del sommo sacerdote dopo che aveva rinnegato Gesù in modo vile e meschino. Ci guarda con una compassione che riapre sempre in noi la possibilità di un’amicizia con Lui, anzi, l’approfondisce, la rende più intensa e profonda, più grata perché la nostra indegnità ce la fa riconoscere come assolutamente gratuita. Quando si fa questa esperienza con Cristo, è inevitabile che si inizi a guardare gli altri, anche chi è colpevole nei nostri confronti, con uno sguardo aperto alla riconciliazione. Molti detenuti sono convinti che la gravità dei reati commessi rende impossibile essere perdonati... Potrebbe sembrare ovvio che chi è colpevole di gravi reati non si senta degno di perdono neppure da parte di Dio. Di fronte però alla loro profonda sofferenza di non sentirsi perdonati ho dovuto riconoscere che forse il mio modo di concepire e annunciare la misericordia di Dio pecca di una certa superficialità. Cristo non vuole irrompere nella coscienza delle persone colpevoli come un ricco che sfonda la porta della casa del povero per beneficarlo, ma si fa povero mendicante che bussa alla porta dei cuori per entrare con la dolcezza di un amico che chiede di sedersi a tavola con noi e ci perdona guardandoci negli occhi. Questi detenuti intuiscono che per accogliere veramente il perdono la loro libertà deve fare un cammino che, ne sono certo, sfocerà in un abbraccio senza fine con il Padre. Qual è il personaggio del Vangelo che più di altri “narra” il perdono? Il “buon ladrone”, il malfattore pentito crocifisso accanto a Gesù, a cui viene accordato senza indugio il Paradiso. È la figura che può illuminare non solo coloro che hanno commesso dei crimini, ma tutti, perché in lui i criteri di santità cristiana sono ridotti all’essenziale: ci rivela che la santità, prima che in ciò che si fa, consiste nel lasciarsi salvare con fede e umiltà da Cristo che muore per noi in croce. La santità è quindi sempre possibile a tutti. Il buon ladrone ci fa capire che in Cristo tutto può essere recuperato, anche l’irreparabile, ma solo aprendosi all’orizzonte più grande della nostra vita che Lui apre davanti a noi: l’orizzonte della vita eterna con Lui. Né la colpa né la morte sono barriere insuperabili. Cosa può trasmettere l’esperienza cistercense a una persona che vive in prigione? Molti anni fa nacque una corrispondenza con un ex “brigatista rosso” condannato all’ergastolo in Svizzera dopo aver saputo che aveva detto a un giornalista che la cella carceraria è stata ideata sul modello penitenziale della cella monastica. Gli mandai un testo di uno dei primi autori cistercensi del 12° secolo, Guglielmo di Saint-Thierry, che scriveva che la cella del monaco che cerca Dio è cielo, ma quella del monaco che non cerca Dio diventa carcere. Gli scrissi che si poteva quindi capovolgere questo pensiero: che la cella carceraria di un detenuto che cerca Dio può diventare una cella monastica. È vero che la vita in monastero comporta una clausura, una separazione dal mondo, una riduzione dei rapporti e delle opportunità di cui godono normalmente le persone, e anche un aspetto penitenziale, paragonabili a quelli di un carcere, ma per il monaco tutto ciò è conseguenza di una scelta libera tesa all’incontro con Dio che il monaco è chiamato a coltivare anche per il bene dell’umanità. Il monaco dovrebbe testimoniare ai carcerati, come a tutte le persone costrette in condizioni che mortificano la libertà di muoversi e di fare quello che si vorrebbe (pensiamo agli ammalati e alle persone anziane), che la vera libertà dell’uomo è quella del cuore che sceglie l’eterno e l’infinito. L’uomo è veramente libero solo nel rapporto con Dio. Quale contributo viene dal mondo carcerario in questo Giubileo dedicato al tema della speranza? La speranza cristiana non è in qualcosa ma in Qualcuno, in Cristo Redentore, fattosi uomo, morto e risorto per noi. C’è una frase di Gesù che da quando ho iniziato a frequentare le carceri e a coltivare amicizie con i detenuti si impone come una delle più sconvolgenti del Vangelo: “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Quando, nella stessa parabola, Gesù dice: “Ero affamato, ero assetato, ero straniero, ero nudo, ero malato”, in fondo si mette al posto di chi subisce il male. Ma quando dice: “Ero in carcere” esprime un livello di abbassamento in cui Dio scende nella condizione umana colpevole. Gesù si identifica con i criminali, i ladri, gli assassini, insomma tutti i detenuti che, salvo eccezioni, sono in carcere per propria colpa. Il Buon Pastore va a cercare la pecora perduta fino al punto di identificarsi con essa, e così non la riporta solo all’ovile: la porta al Padre assimilandola a Sé, perché il Padre non veda più in lei la pecora ribelle e perduta, ma il Figlio che la stringe a sé con amore. Ma questo non avviene solo per i carcerati: è la natura della redenzione di ognuno di noi. Visitando Cristo fatto carcerato vediamo così il volto più vero della nostra salvezza, e quindi il motivo più luminoso della nostra speranza. E Nordio disse: “I magistrati che sbagliano cambino mestiere” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 settembre 2025 L’attacco del ministro della Giustizia a Venezia dopo la proiezione della serie tv su Enzo Tortora. “Il magistrato che sbaglia perché non conosce le leggi o le carte, o perché, per ottusità preconcetta, manda in prigione un innocente, non deve pagare con il portafoglio: deve pagare con la carriera, deve cambiare mestiere”: è duro l’attacco che il Ministro Nordio ha riservato ieri alla magistratura. L’occasione gli è stata fornita dalla proiezione dei primi due episodi di Portobello, la nuova serie diretta da Marco Bellocchio sulla vicenda di Enzo Tortora e presentata Fuori Concorso alla 82esima Mostra del Cinema di Venezia. Nel mirino del Guardasigilli ci sarebbero quei pm responsabili di “indagini frettolose” e di gip troppo appiattiti sull’accusa. Tanto è vero che Nordio ha rivendicato che dall’agosto 2026 sulla eventuale privazione della libertà personale deciderà un gip collegiale. “Se questa legge fosse già entrata in vigore, per esempio, anche altri provvedimenti cautelari, pure recenti, non sarebbero venuti” ha detto l’inquilino di via Arenula, riferendosi molto probabilmente all’inchiesta sull’urbanistica milanese. Nordio ha poi ammesso con realismo: “Io stesso come magistrato sicuramente avrò qualche volta errato mandando in prigione delle persone che poi sono state dichiarate innocenti, perché l’errore giudiziario è fisiologico nella professione del pubblico ministero. Però non l’accanimento, non il pregiudizio e non la cattiva fede che è stata dimostrata in questo film da parte di alcuni magistrati. E se non è cattiva fede, è stata ottusità”. Insomma, a pochi giorni dalla ripresa dei lavori alla Camera sulla separazione delle carriere, Nordio alza il tiro dopo che anche la premier Meloni dal palco di Rimini aveva assicurato che il Governo sulla riforma della giustizia non si sarebbe fatto fermare da “giudici politicizzati”. Un autunno caldissimo è alle porte. Certo è difficile che le parole del Ministro si possano trasformare in una previsione normativa: al momento qualsiasi tipo di riforma è congelata in vista del referendum della primavera 2026. E anche pensare di “colpire” dopo il plebiscito i pm con le manette facili attraverso una modifica del codice di rito sarebbe una ipotesi da scongiurare. Tale eventualità potrebbe essere presa a pretesto dai detrattori della riforma dell’ordinamento giudiziario per confermare che la maggioranza ha davvero come scopo quello punitivo della magistratura e non uno onestamente riformatore. Comunque sul tema è tornato il deputato di Forza Italia Enrico Costa: “Come si può far rispondere il magistrato a livello di carriera se le valutazioni di professionalità vertono su atti selezionati “a campione”? Se nel “campione” non compaiono gli arresti ingiusti, chi ha sbagliato prosegue indisturbato la sua carriera. Avevo proposto che il fascicolo contenesse tutti gli atti del magistrato ed i loro esiti, ma le toghe di via Arenula, unite a quelle del Csm, hanno rigettato questa proposta. Auspico che alle parole odierne di Nordio seguano norme conseguenti”. Infine, Nordio ha concluso da Venezia sostenendo che “il nostro progetto adesso, dopo la riforma costituzionale e il presumibile referendum, sarà quello di riportare il codice di procedura penale alle sue origini, che sono quelle garantiste, volute da Giuliano Vassalli, tra l’altro eroe della Resistenza, quindi non sospettabile di autoritarismo”. Queste parole sembrano confermare quanto da noi scritto qualche giorno fa sugli interna corporis della commissione Mura per la riforma del processo penale: se è molto probabile che Nordio prima di Natale sottoporrà all’attenzione del Parlamento la relazione sui lavori della commissione è altrettanto plausibile che riforme di spessore riguardanti il processo penale, come quella sulla custodia cautelare, sono rimandate a dopo il referendum, tempistiche elettorali permettendo. Cesare Parodi: “Noi killer? Il Governo intervenga. Sulla riforma la partita non è chiusa” di Giuseppe Legato La Stampa, 3 settembre 2025 Il presidente dell’Anm: “Le parole di Musumeci avvilenti. Col centrodestra dialogo difficile”. “Magistrati killer? Le frasi del ministro Musumeci mi hanno avvilito, ma se posso ho una domanda anche io”. Prego. “Non ho percepito nessuno che abbia preso le distanze dalle sue affermazioni: né dal governo né dalle associazioni dell’avvocatura. Sbaglio?”. In attesa che qualcuno dell’esecutivo lo smentisca, il presidente dell’Anm Cesare Parodi accelera sul referendum (“il comitato sarà pronto tra 10 giorni”) e non abdica alle cassandre che vedono l’esito dei quesiti in salita per chi auspica il blocco delle nuove leggi in materia di giustizia: “Non credo che la partita sia chiusa”. Presidente Parodi. Il 10 febbraio scorso disse a La Stampa di aver fiducia nel dialogo e di voler pacificare i rapporti tra esecutivo e toghe. Leggendo le dichiarazioni della premier e di alcuni ministri potremmo dire che non è andata benissimo. Perché? “Credo che in questi anni si sia formato un pregiudizio negativo nei confronti della magistratura. Sia chiaro: la volontà di riformare e ridimensionare il nostro ruolo c’è stato per molto tempo, ma i governi passati non ci sono mai riusciti”. Quello attuale ci sta riuscendo perché è più efficace di altri o per cosa? “Non entro in questo merito. Certo è che c’è stato un lavoro cumulativo che ha mirato a un’opera di erosione che fa sì che oggi ci siano le condizioni per proporre con una certa serenità queste modifiche: ad esempio coltivando l’ossessione dell’errore giudiziario generalizzato, una fake news”. Pentito di aver cercato un dialogo? “Macché, lo rifarei. Certo che ciò che ha detto Musumeci mi pare sia quanto di più lontano ci possa essere da una volontà dialogante”. Sorteggio del Csm, Alta Corte per il disciplinare, separazione delle carriere. Perché non siete riusciti a convincere il governo su niente? “Purtroppo l’esecutivo di centrodestra ha stretto coi suoi elettori un patto che deve essere mantenuto a tutti i costi e questo ha impedito l’efficacia di un dialogo sulle modifiche in gioco e al contempo una valutazione specifica sulle conseguenze”. Le stesse di cui ha parlato Meloni? “A quali fa riferimento?”. La premier ha detto: “Non mi sfugge che la riforma della giustizia procede a passo spedito e ho messo in conto le conseguenze”... “Provo a interpretare: siccome il governo e il presidente Meloni credono che in alcuni casi ci siano delle scelte condizionate dalla politicizzazione di alcuni di noi (tesi a mio giudizio infondata), il presidente teme, che ci possa essere un inasprimento di questi casi. Sfugge un concetto: un governo fa le leggi con una finalità che si immagina immediata per chi le ha proposte, ma il magistrato non può applicarla senza inserirla in un contesto più ampio; dei valori costituzionali o delle direttive europee. Il magistrato non può isolare una norma da un contesto interpretativo anche se non è quello che la politica auspicava”. Vale per il centro di trattenimento migranti in Albania? “È uno degli esempi che meglio calzano. E infatti si è espressa la corte di giustizia europea”. Cosa non le va giù di quanto avvenuto al netto della fermezza del governo a non accogliere le vostre proposte? “Sarò franco: qualcuno vuole trasformare il referendum in un giudizio popolare sulla magistratura, per vincere il quale è necessario che i cittadini ne abbiamo un’immagine assolutamente negativa; al contrario, si dovrebbero votare solo sui valori messi in discussione da questa riforma”. Su cosa andranno a decidere se non su questo? “La mia perplessità è più profonda: pur di arrivare a un risultato favorevole non vedo il minimo timore a gettare totale discredito sulla magistratura. Pensi ai commenti sui processi che nemmeno sono arrivati a un giudizio di primo grado: si parla già di errori dei pm e si invocano come lo specchio dell’asserita incapacità di questa magistratura. Ecco: se il prezzo per vincere è quello di demolire l’immagine dell’istituzione allora è troppo alto. Perché poi ci vorrà chi dovrà ricostruire la credibilità di un potere anche se riformato”. Si dice che il magistrato che sbaglia in Italia non paga. Vero o falso? “In Francia ci sono un terzo delle sanzioni disciplinari ai magistrati rispetto al nostro Paese. Cos’è? I francesi si sono ammorbiditi di colpo?”. Meloni sostiene che con la riforma - immagino il sorteggio del Csm - eliminerà il potere dei gruppi associativi... “Difficile pensarlo. Il 94% circa dei magistrati è iscritto all’Anm e la maggior parte simpatizza per un gruppo associativo. E poi non si è nemmeno chiarito se potrà partecipare al sorteggio un collega divenuto magistrato, ad esempio, a 28 anni. Sono in magistratura da 27. Fosse capitato a me avrei avuto paura perché senza esperienza”. Dicono: l’obiettivo principale della riforma è individuato nella separazione delle carriere. È cosi? “Quel punto è stato inserito per avere il pieno consenso dell’avvocatura italiana. Il tema vero è il sorteggio del Csm che così verrà da un lato svuotato e dall’altro diviso. Ripeto: il problema della giustizia è farla funzionare bene”. E infatti è stato riaperto il tribunale di Bassano... “Perché un tribunale funzioni ci vogliono almeno 25-30 giudici e 10-12 pm. Spesso la risposta a una richiesta di maggiore efficienza si scontra con la mancanza di fondi, ma per ridurre il delta tra potenzialità del sistema giudiziario e domanda di giustizia ci sono altri strumenti. Penso alla riduzione delle ipotesi di penale rilevanza, a soluzioni in sede civile e penale che consentano di semplificare il contenzioso”. Trova traccia di queste proposte nella riforma? “Assolutamente nulla. Dica la verità: quanto crede a un esito positivo per voi dalla consultazione popolare? “Intanto va spiegato che non è un referendum come gli altri. Il quorum non è necessario, sarà sufficiente la conta di chi decide di votare. Anche se la politica e più giornali dicono che sarà un’umiliazione per la magistratura, percepisco segnali anche molto positivi che mi portano a pensare che la partita non sia chiusa”. La disastrosa campagna social dell’Anm contro la riforma Nordio di Ermes Antonucci Il Foglio, 3 settembre 2025 La campagna di comunicazione che l’Associazione nazionale magistrati sta realizzando per contrastare la separazione delle carriere è il trionfo di slogan apocalittici e fake news. Ma il pubblico non sembra abboccare. “La riforma vuole ridimensionare la magistratura”, “lo stato di diritto sarà intaccato”, “si crea uno sbilanciamento di pesi e contrappesi”, “si arriverà inevitabilmente alla dipendenza del pm dall’esecutivo”, “il vero scopo è sottrarre i poteri forti al controllo della magistratura”. La campagna di comunicazione che l’Associazione nazionale magistrati sta realizzando sui social network per contrastare la riforma Nordio è un climax di slogan apocalittici e anche di fake news, con l’aggravante che questi vengono pronunciati direttamente dai rappresentanti della giunta del sindacato delle toghe. Una narrazione alla quale però il pubblico non sembra abboccare: basta scorrere i commenti sotto i video pubblicati ormai ogni giorno dall’Anm per accorgersene. C’è chi denuncia l’assenza di argomentazioni, chi i paragoni sbagliati, chi la mancanza di autocritica. Il risultato per l’Anm è disastroso. La campagna dell’Anm è cominciata a fine luglio con quello che, nelle intenzioni del sindacato delle toghe (guidato da Cesare Parodi), avrebbe dovuto essere il colpo grosso dell’estate: la pubblicazione di un appello risalente al 1994 in cui Carlo Nordio, allora pubblico ministero a Venezia, si diceva contrario alla separazione delle carriere. Uno scoop che si è rivelato un flop. Il Guardasigilli ha subito spiegato che in quegli anni era contro la riforma perché auspicava che “la magistratura restasse compatta, in tempo di stragi e Tangentopoli”. Poi, semplicemente, ha cambiato idea e infatti nei successivi trent’anni, con o senza toga, Nordio si è sempre espresso a favore della separazione. Se ci si aggrappa ad appelli firmati oltre trent’anni fa vuol dire che si è arrivati al livello della disperazione. A confermarlo sono i video pubblicati quotidianamente sui canali social dell’Anm nelle ultime settimane contro la riforma costituzionale. Ogni giorno un rappresentante della giunta dell’Anm si sveglia e sa che dovrà apparire in video per dire qualcosa contro la riforma, peraltro non ancora approvata in via definitiva dal Parlamento. C’è chi, come Marcello De Chiara (vicepresidente dell’Anm) e Dora Bonifacio, si scaglia contro lo stanziamento di risorse per il sistema giustizia, come se una riforma costituzionale potesse prevedere investimenti di bilancio. C’è chi, come Chiara Salvatori, critica l’istituzione dell’Alta corte disciplinare, che genererà “una deriva difensiva dei magistrati”, senza spiegarne il motivo. C’è chi, come Cesare Parodi (presidente dell’Anm), Paola Cervo, Monica Mastrandrea e Giuseppe Tango, si affida alla tesi apocalittica secondo la quale “la riforma ridimensiona la magistratura” e di conseguenza “intacca lo stato di diritto”, senza accennare ad alcuna argomentazione a sostegno (semplicemente perché non ne esistono: la riforma conferma ogni garanzia di autonomia e indipendenza alla magistratura, pur separandola in due carriere). C’è chi, come Sergio Rossetti, rispolvera persino il lessico grillino, denunciando il tentativo di “sottrarre i poteri forti al controllo della magistratura”, anche se ormai l’unico vero “potere forte”, svincolato da qualsiasi effettivo controllo dell’operato dei propri componenti, sembra essere proprio la magistratura. I video vengono ogni volta inondati da decine, centinaia di commenti di utenti che, con indignazione, fanno notare tutte le falle delle tesi avanzate dai magistrati associati, criticando un’opposizione ideologica fatta di slogan senza argomenti. La comunicazione dell’Anm, già piena di menzogne, si trasforma in un inganno definitivo quando l’account ufficiale del sindacato pubblica un video in cui il giornalista Peter Gomez afferma che la riforma Nordio “porterà inevitabilmente alla dipendenza del pm dall’esecutivo, come in Francia, dove il pm rimane indipendente ma se fa un’indagine che non piace al ministro della Giustizia viene preso e messo da un’altra parte”. Peccato che la riforma Nordio non preveda la sottoposizione del pm all’esecutivo, e che neanche in Francia funzioni così. Basti pensare che nel 2021 il ministro della Giustizia Dupond-Moretti venne indagato dai pm francesi, per poi essere rinviato a giudizio. Se questo è ciò che ci aspetta, non si vede dove sia il pericolo. Ma per l’Anm evidentemente i paesi con la separazione delle carriere, come Francia, Spagna, Portogallo, Regno Unito, Germania, Svezia e Olanda, non sono abbastanza democratici. Finché questa sarà la comunicazione dell’Anm, Nordio potrà dormire sogni tranquilli. Giusta la protesta dei direttori del Ministero della Giustizia: un anno dopo ci risiamo di Andrea Viola* Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2025 Il Coordinamento nazionale ha proclamato per il 3 settembre uno sciopero nazionale che coinvolgerà tutti gli uffici giudiziari. La macchina amministrativa per funzionare ha bisogno di queste professionalità. Il Coordinamento nazionale direttori giustizia ha infatti proclamato per mercoledì 3 settembre 2025 uno sciopero nazionale che coinvolgerà tutti gli uffici giudiziari del Paese, accompagnato da presidi e manifestazioni sul territorio. Al centro della protesta c’è sempre la bozza del nuovo Ordinamento professionale del personale non dirigenziale dell’Amministrazione giudiziaria, predisposta dal Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria e diffusa ai sindacati il 26 giugno scorso. Il testo prevede la soppressione del profilo del direttore, con il suo assorbimento nella generica famiglia professionale dei servizi amministrativi dell’Area Funzionari. Una misura che, secondo l’Associazione, “non ha basi giuridiche, svilisce la dignità professionale e contraddice i principi di buona amministrazione”. Il Coordinamento ricorda che il D.M. Giustizia del 9 novembre 2017 ha riconosciuto ai direttori compiti di natura tecnica, gestionale e specialistica, che comprendono funzioni vicarie del dirigente, attività ispettive, formazione del personale e partecipazione a commissioni ministeriali. Competenze che - sottolineano i direttori - corrispondono ai requisiti dell’Area delle Elevate Professionalità introdotta con il Ccnl Funzioni Centrali 2022-2024. La mobilitazione sindacale è già affiancata dal ricorso alla magistratura. Il 12 luglio scorso, presso il Tribunale del Lavoro di Napoli, è stato depositato il primo ricorso individuale da parte di un direttore attualmente in servizio, per accertare il demansionamento di fatto subito. È il primo caso giudiziario nell’ambito di una vertenza nazionale che ha già portato alla dichiarazione dello stato di agitazione permanente. In Italia in generale spesso non capiamo che una macchina amministrativa per funzionare ha bisogno di professionalità e competenza specifica. Nel caso in questione, nel fondamentale Settore della Giustizia non esistono solo i Magistrati e gli Avvocati. Esiste, infatti, un apparato fondamentale per il corretto funzionamento del sistema giudiziario, ossia i cosiddetti “Direttori della Giustizia”. I Direttori hanno un ruolo fondamentale di coordinamento e direzione dell’attività di cancelleria e quindi di tutti coloro che operano negli uffici amministrativi all’interno dei Tribunali e nella amministrazione centrale. Spesso svolgono anche le funzioni vicarie dei vari Dirigenti assenti o mancanti nei Tribunali. In Italia i Direttori sono circa 1670. Un numero di professionalità molto importante e fortemente preparato. Insomma, sono in pratica la vera macchina operativa dei Tribunali. Essi, dal punto di vista dell’inquadramento professionale, sono i quadri della amministrazione giudiziaria e svolgono, altresì, un importante e concreto ruolo di cerniera tra i magistrati e il personale di cancelleria. Andare ad eliminare questa importante figura professionale di fatto paralizzerebbe il sistema Giustizia. Per tale motivo Nunzia Paudice, Presidente del Coordinamento Nazionale Direttori Giustizia, chiede un confronto serio e costruttivo per modificare la bozza dell’ordinamento e tutelare le funzioni e l’identità professionale dei direttori. In assenza di risposte concrete, Il Coordinamento è pronto a proseguire con ulteriori iniziative sindacali e giudiziarie. Insomma, ad un anno esatto di distanza ci risiamo. Si taglia indiscriminatamente senza senso e logica. O meglio con criteri del tutto contrari al buon funzionamento del sistema giustizia. E questo dovrebbe far riflettere. Si vuole colpire al cuore l’ultimo baluardo di efficienza all’interno dei Tribunali. Bloccare il lavoro dell’operato della giustizia a danno dei cittadini. I Direttori conoscono a pieno i problemi concreti e reali dei singoli Uffici di Giustizia in Italia. Sarebbe utile, invece, invertire la rotta e riconoscere loro il giusto inquadramento professionale. Bisogna investire sulla competenza e la professionalità soprattutto nel settore emblematico della giustizia. Una giustizia che funziona è indispensabile per uno Stato di Diritto anche in vista dei parametri europei. Per questo trovo doveroso sostenere la giusta protesta dei Direttori di Giustizia. Una protesta nell’interesse collettivo e di un sistema forse poco conosciuto ma che riguarda tutti noi. Confidiamo che il Ministero, già Magistrato, voglia ascoltare la voce dei Direttori e dare loro la giusta attenzione e merito. Diversamente sarebbe l’ennesima riforma che invece di aiutare i cittadini e gli utenti del sistema giustizia li danneggerebbe. *Italia Viva Sardegna, avvocato e consigliere comunale Roma. “Da 27 anni ascolto i detenuti a Rebibbia, cerco la persona dietro il carcerato” di Elisabetta Ambrosi Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2025 Nel carcere è entrata nel 1998, tramite i malati di Aids residenti in una Casa della Caritas. “Avevo cominciato a occuparmene perché erano esclusi da tutto, a causa di un pesante giudizio etico. Ma facilmente finivano in carcere”. Laura Fersini, oggi 86 anni, è volontaria in carcere da oltre venticinque anni. Il primo “impiego” come volontaria Caritas a Rebibbia Nuovo Complesso, appunto nel reparto malati di Aids. “Dopo l’esperienza in infermeria ho voluto conoscere il carcere come problema sociale e ho cominciato il giro. Prima Casal del Marmo, minorile - dove mi hanno affidato una ragazza che poi ho seguita anche nella Casa Famiglia in cui l’hanno trasferita; poi sono passata a Rebibbia Penale, dove ci sono detenuti con condanne definitive e lunghe, infine Rebibbia Femminile; e qui mi sono fermata, con l’intenzione di conoscere bene proprio quelle detenute. Oggi vado ogni venerdì dalle 9 alle 14, soprattutto per parlare con le detenute e ascoltare le loro esigenze. Quando arrivo chiamo la detenuta che sto seguendo, e ci parlo: c’è chi mi chiede di chiamare un avvocato o i genitori o qualcun altro, in genere invece non è necessario contattare il garante dei diritti dei detenuti perché ci parlano loro direttamente; oppure c’è chi ha bisogno solo di parlare, di sfogarsi, allora discutiamo dei libri che leggiamo, ci confrontiamo sul libro. Non chiedo che reato hanno fatto né che pena hanno. Né do per scontato che mi dicano la verità quando me ne parlano. Una volta è venuta una detenuta e mi ha detto: so che tu puoi dare solo il tuo tempo, ma sapessi quanto tempo mi è necessario, si è seduta e ha parlato della sua infanzia”. Alcuni incontri l’hanno segnata particolarmente: un detenuto di Rebibbia Nuovo Complesso, Filippo, viene a sapere che la madre è gravemente ammalata, non gli permettono di andare a trovarla. Un giorno tenta il suicidio, gli permettono di uscire. “Mi chiama e, dopo aver scoperto, che la madre è morta, lo accompagno alla camera mortuaria del Gemelli, dove abbraccia la madre e le mette intorno una corona di rosario: era una prostituta; è morta di sifilide”. Ancora un altro episodio: “Sempre a Rebibbia, Giampaolo, detenuto, mi racconta che sta male, dimagrisce sempre di più, viene portato al Pertini prima poi in altri ospedali, lo seguo dappertutto, fino a che purtroppo muore. Non vado al funerale solo per stare vicino a quelli del suo gruppo che non possono andarci”. Un altro incontro nell’infermeria di Rebibbia è quello con Vincenzina: “Non l’avevo mai vista prima - chiede di parlarmi; mi racconta alcune cose (padre e fratello l’avevano violentata e sua madre, pur sapendo tutto, non aveva mosso un dito) e conclude: a me nessuno m’ha voluto mai bene. Resto senza fiato; e senza parole. Dirle: il Signore ti vuole bene o qualcosa del genere mi sembrava ridicolo. La settimana successiva le dico: per tutta la settimana, a casa, anche mentre mangiavo o lavavo i piatti, avevo pensato a lei. Qualcosa vorrà pur dire! aggiungo; e da quel giorno, per tutto il tempo che io sto nella saletta colloqui lei sta attaccata alla porta del corridoio per vedermi, attraverso la grata. Oggi non c’è più”. In generale, in carcere si creano rapporti di amicizia che durano nel tempo: “La ragazza che ho conosciuta al Minorile e seguita nella Casa di Accoglienza quando è uscita mi ha voluta come testimone al suo matrimonio. Un’altra mi ha dato i suoi numeri di cellulare, mi ha chiesto di chiamarla quando è uscita, ha tre lauree e due figlie adottive, ci sentiamo: era dentro per un reato pesante. Insomma in questo mondo ci sono persone diversissime da come uno se le immagina”. Laura si definisce credente, ma “cristiana” e con un forte interesse per il buddismo. “Ma se devo capire una persona o un problema, cerco di usare i più diversi strumenti culturali”, spiega. “La cosa importante, aggiunge, “è che nessuno di quelli che frequentano il carcere pensi che loro sono i buoni che curano i cattivi”. Se gli chiedi come l’ha cambiata questa esperienza risponde: “Tutte le esperienze ci cambiano. Ho fatto quarant’anni l’insegnante e anche quello mi ha cambiato. L’esperienza della scuola mi è servita molto per capire le persone. E anche, ad esempio, per capire gli agenti, non è sempre facile, spesso i volontari li avversano. Pensi che ci fu un agente con cui salvammo insieme uno che faceva lo sciopero della fame. Ho incontrato agenti premurosi, certo non sono tutti così, ma l’essenziale, ripeto è non considerare il carcere un mondo totalmente altro; invece è pieno di emozioni e passioni esattamente come quello fuori”. Roma. Gianni Alemanno: “Rebibbia è al collasso finale, non sanno dove mettere i detenuti” di Ettore Saladini La Repubblica, 3 settembre 2025 L’ex sindaco di Roma ed ex ministro torna a parlare dal carcere: “Rebibbia Nuovo Complesso è ormai al collasso finale. L’amministrazione non sa più dove mettere i nuovi giunti e le persone detenute che debbono stare in isolamento. Considerato che Regina Coeli, l’altro carcere romano, è in una condizione di sovraffollamento e di degrado ancora peggiore, possiamo dire che tutto il sistema penitenziario della Capitale rischia d’esplodere”, ha scritto in un post firmato insieme a Fabio Falbo, altro detenuto. Alemanno, detenuto a Rebibbia dal 31 dicembre 2024 per non aver rispettato gli obblighi imposti dal giudice di sorveglianza in seguito alla condanna definitiva per influenze illecite, ora punta a un intervento del ministero della Giustizia: “Attendiamo la riapertura delle Camere e la ripresa dell’attività parlamentare e attendiamo che, a settembre, il ministero della Giustizia, come promesso, faccia il punto della situazione con le sue task force. Ma quanto tempo pensiamo ancora di avere, prima che scoppi tutto?”, continua il post. Emblema dell’insostenibilità della vita detentiva - ha raccontato Alemanno - è Gomes S. F., una persona detenuta transex brasiliana che, dopo essere stata ricoverata in ospedale con la tubercolosi, è stata riportata in una cella di isolamento nel reparto dell’ex sindaco senza mascherina, senza le analisi necessarie per le dimissioni ospedaliere e, per di più, in una zona non riservata alle persone transessuali. La situazione è degenerata in protesta, e ad ascoltare le motivazioni è arrivata una donna ufficiale della Polizia Penitenziaria, sola in mezzo a circa cinquanta detenuti. L’atteggiamento, racconta l’ex sindaco, è cambiato progressivamente. Prima ha cercato di minimizzare i motivi del disagio, poi ha ammesso che ciò che stava accadendo non era sostenibile da nessun punto di vista, sospirando sconfortata: “Il problema è che non sappiamo più dove metterli”. L’ufficiale, però, si è dimostrato serio e operativo, dice Alemanno. E infatti dopo un colloquio con il Comando del carcere è tornato con una dottoressa infettivologa, e Gomes è stato trasferito al reparto G6, dedicato all’isolamento per motivi sanitari. Per ogni detenuto accontentato, però, eccone altri che non riescono a uscire dalle difficoltà. Poco dopo, continua sempre l’ex sindaco, è arrivato al suo posto un altro detenuto, Ramovic Z., ancora nella cella che, come si legge nel post, è “inagibile, senza corrente elettrica, senza scarico per il wc e senza che sia stato rispettato il protocollo sanitario che prevede, prima di un nuovo utilizzo, di sanificare la cella e di sostituire il materasso e il cuscino, dopo averli sigillati”. Alemanno poi elenca altri casi, tutti relativi al G8, il braccio dove è detenuto, conosciuto come “il fiore all’occhiello del carcere di Rebibbia, quello in cui vengono portati i visitatori illustri per mostrare il volto migliore del nostro istituto”. Come Miranda C. L., altra persona detenuta transex che, dopo essere stata messa in una cella inagibile a cui ha dato fuoco per protesta, è stata messa a dormire in una lettiga dell’infermeria senza bagno. Ancora, David R., persona detenuta che dopo aver tentato il suicidio ingerendo dei farmaci ed essere stata ricoverata in ospedale è stata messa sempre in una lettiga dell’infermeria in corridoio e senza bagno. Nel frattempo, la Fns Cisl - Federazione Nazionale della Sicurezza ha comunicato che, ad agosto, il sovraffollamento delle carceri del Lazio è aumentato dello 0,95% rispetto al mese di luglio, passando dal 27,4% al 28,6%. Tradotto, ci sarebbero 1.519 detenuti in più dei posti disponibili: 6.827 a fronte della capienza regolamentare di 5.308. Mentre la carenza di personale di polizia penitenziaria ammonterebbe a 899 unità. A soffrire di più, gli istituti di Nuovo Complesso Rebibbia Roma, Regina Coeli, Viterbo, Civitavecchia e Rieti. “Questo è il modo di garantire la ‘sicurezza dei cittadini’ e ‘la certezza della pena’?, prosegue Alemanno. Per poi concludere: “Di salvare la faccia dello Stato italiano che, secondo il ministro della Giustizia, perderebbe la sua credibilità se non venissero presi provvedimenti d’urgenza per ridurre il sovraffollamento? In una situazione dove non c’è posto neppure per gestire i casi più gravi e problematici, rischiando l’esplosione di qualche epidemia?”. Cuneo. Detenuto di 260 chili “parcheggiato” in ospedale: “In carcere nessun posto adatto” cuneodice.it, 3 settembre 2025 In Piemonte solo due posti per persone in queste condizioni. L’Osapp: “Dieci agenti della Penitenziaria impiegati a turno nel piantonamento, sottraendo risorse al personale già in sofferenza”. Dal 23 agosto occupa, piantonato, una stanza del reparto di Medicina d’Urgenza dell’ospedale “Santa Croce” di Cuneo. L’uomo, condannato per diverse truffe, è attualmente ospitato nella struttura sanitaria in quanto in carcere mancano posti adeguati per una persona nelle sue condizioni fisiche. “Per detenuti di questo tipo in tutto il Piemonte ci sono solo due posti letto, entrambi a Torino ed entrambi occupati”, ha spiegato al TgR Rai il garante dei detenuti di Cuneo Alberto Valmaggia. Il detenuto ha raggiunto questo peso in carcere a Lecce, con gravi complicanze per il diabete: per questo un Giudice di Sorveglianza aveva disposto i domiciliari a Cuneo, dal fratello. “Non è gestibile, ha bisogno di cure e di dimagrire”, ha spiegato lo stesso, anch’egli intervistato al TgR. Dopo un tentativo vano in una Rsa, un nuovo Giudice ha così deciso di rimandare in carcere l’uomo, ma in mancanza di reparti adeguati si è deciso di chiedere ospitalità al “Santa Croce”. “Da giorni dieci agenti della Penitenziaria sono impiegati a turno nel piantonamento, sottraendo risorse al personale del carcere già in sofferenza”, attacca il sindacato Osapp. “Si occupa un posto in ospedale che avrebbe altre destinazioni e che impropriamente viene usato per ‘parcheggiare’ temporaneamente una situazione di questo tipo”, ha chiuso Valmaggia. Cuneo. Carceri sovraffollate, un ordine del giorno di Lauria denuncia l’emergenza di Andrea Cascioli cuneodice.it, 3 settembre 2025 I detenuti sono 63mila, a fronte di meno di 47mila posti disponibili. Nei primi otto mesi del 2025 ci sono stati 60 suicidi tra carcerati e operatori e 2mila aggressioni. L’emergenza carceraria torna in discussione nel Consiglio comunale di Cuneo. Se ne parlerà nella prossima seduta, fra tre settimane, grazie a un ordine del giorno presentato da Beppe Lauria del movimento Indipendenza. In provincia gli istituti penitenziari sono quattro, un record a livello nazionale, con una popolazione carceraria che ammontava a 912 persone nel marzo scorso. A Cuneo, in soli due anni, è cresciuta da 240 unità fino alle attuali 400, con la compresenza di due circuiti tra loro molto diversi, la media sicurezza e il 41 bis. Un altro fronte caldo è quello di Alba, dove i “lavori in corso” si protraggono dal 2016: l’ex casa circondariale, trasformata in casa di lavoro, accoglie una cinquantina di detenuti, molti dei quali hanno problemi psichiatrici. Solo nel mese di agosto i sindacati hanno denunciato quattro episodi di devastazione o aggressione ai danni del personale e la videosorveglianza è ora fuori uso. Nel documento presentato da Lauria si riportano i numeri di un’emergenza che, a livello nazionale, è anche più grave. Al 28 agosto 2025 la popolazione detenuta in Italia aveva superato le 63.000 unità, a fronte di circa 46.700 posti disponibili, con un tasso medio di sovraffollamento del 135%. Nei primi otto mesi dell’anno si sono registrati 57 suicidi tra i detenuti e 3 tra gli operatori, insieme a oltre 2.000 aggressioni agli agenti. Ad aggravare il tutto è la cronica carenza di organico della Polizia penitenziaria, dove le unità scoperte superano la soglia delle 20mila. In campo c’è un ddl ribattezzato “salva detenuti”, con cui la parlamentare Anna Rossomando (Pd) propone la liberazione anticipata per i condannati con pena residua inferiore a 18 mesi e per reati non gravi. Una versione rivista della norma adottata durante il Covid, con il decreto “Cura Italia” che stabilì la possibilità, per i detenuti con pene non superiori a un anno e mezzo, di scontare la pena ai domiciliari o in strutture di cura. Si tratterebbe di una versione attenuata del piano proposto da Roberto Giachetti di Italia Viva, volta ad aumentare gli sconti di pena dagli attuali 45 giorni per ogni sei mesi di detenzione per buona condotta fino a 75 giorni, con efficacia retroattiva per chi è stato detenuto negli ultimi dieci anni. Proposte che “pur non risolutive, rappresentano una soluzione emergenziale”, secondo Indipendenza. Il sovraffollamento carcerario, si legge nell’ordine del giorno, “impedisce di costruire percorsi trattamentali di sorveglianza, rieducazione e reinserimento, lasciando le persone detenute in uno stato di abbandono e di esposizione al reclutamento criminale comunque presente nelle carceri. In questo modo l’esperienza carceraria aumenta il rischio di recidiva invece che contrastarlo, a tutto danno della sicurezza dei cittadini e dell’efficacia della pena”. Un tema che il leader del partito Gianni Alemanno, detenuto a Rebibbia dal 28 gennaio per violazione delle prescrizioni imposte dopo una condanna per traffico di influenze, ha sollevato nel suo “diario di cella” pubblicato a puntate sulla propria pagina Facebook. Ai consiglieri cuneesi si chiede ora di esprimere il consenso all’adozione di misure deflattive della popolazione carceraria, ma anche a un piano straordinario di potenziamento degli organici della Polizia penitenziaria, ad interventi immediati di ristrutturazione e messa a norma degli istituti penitenziari e a una riforma organica “che assicuri effettivamente la funzione rieducativa della pena”. Bologna. La denuncia della Cgil: “In carcere le lenzuola non vengono cambiate da due mesi” di Chiara Gabrielli Il Resto del Carlino, 3 settembre 2025 Lenzuola che non vengono cambiate da due mesi, infiltrazioni d’acqua in alcuni locali e varie altre carenze igienico-sanitarie: lo denuncia il sindacato Fp Cgil, con una nota firmata da Antonino Soletta e Salvatore Bianco. Parlano di una situazione “indecorosa” nella Casa Circondariale “dove sono attualmente presenti 800 detenuti. Oltre alla situazione di sovraffollamento” che il sindacato “denuncia da tempo immemore, senza che l’Amministrazione vi abbia mai messo rimedio, si aggiunge la drammatica situazione igienico-sanitaria che si sta venendo a creare. Da circa due mesi, non si provvede al cambio lenzuola” dei detenuti “e le lenzuola disponibili” per i nuovi arrivati “sono praticamente esaurite, tanto che si sta provvedendo alla distribuzione di quelle poche lenzuola di carta disponibili”. I sindacalisti sottolineano che “nulla si sta programmando per contenere il sicuro aumento di detenuti a cui si va incontro e, considerata la situazione in cui mancano lenzuola, cuscini e materassi, non si capisce come tale situazione dovrà essere affrontata. Si chiederà forse al personale di dare un contributo volontario per l’acquisto di quanto necessario?”. E mettono in luce uno “stato di degrado e di malessere che si vive all’interno dell’Istituto”, tra cui “uffici con fili elettrici volanti, alcune camere del primo piano infermeria con infiltrazioni di acqua da anni, la mensa delle sezioni femminili non è ancora funzionante dopo più di un anno, alcuni ascensori delle sezioni sono ancora fuori uso con i rischi annessi in caso di malesseri da parte dei detenuti, insomma una situazione di degrado assoluto dove lo Stato è chiaramente assente”. In condizioni simili, incalzano, “basta una scintilla per far saltare il sistema con conseguenze non prevedibili per la sicurezza”. Gorizia. Premio “inVISIBILI nell’INvisibile”: prima edizione dedicata a detenuti ed ex detenuti teleantenna.it, 3 settembre 2025 Sala Dora Bassi gremita venerdì sera per l’evento “Le dipendenze nei penitenziari”, promosso dall’associazione Dipende da me e occasione per la consegna dei riconoscimenti della prima edizione del premio letterario nazionale “inVISIBILI nell’INvisibile”. “La presenza attenta del pubblico dimostra quanto sia urgente dare risposte concrete ai problemi del sistema carcerario” ha sottolineato Michela Porta, giornalista e presidente dell’associazione. Al centro del dibattito la necessità di un lavoro integrato tra Ser.D, CSM, medicina penitenziaria e istituti di detenzione, con un’attenzione reale alla persona e ai percorsi individuali. Il concorso, organizzato in collaborazione con Co.N.O.S.C.I. aps, ha raccolto quasi cinquanta elaborati da parte di detenuti ed ex detenuti, rivelando un universo di dolore e sofferenza ma anche di profondità e speranza. “Un quadro difficile ma autentico, che solo chi ha vissuto certe condizioni può restituire” ha osservato la giornalista Rai Daniela de Robert, membro della giuria. Tutti i testi confluiranno in un volume dal titolo inVISIBILI nell’INvisibile - Le parole che non vi ho detto, di prossima pubblicazione. La giuria, composta da giornalisti, scrittori, educatori, psicologi, medici ed ex garanti, ha individuato i tre vincitori. Il terzo premio è andato a Ramon da Voghera con Il fabbricante di maschere, apprezzato per l’accezione romantica in un contesto opposto. Secondo posto a Martin?ek di Gorizia con Vivere nell’ombra, giudicato completo e originale nello stile. Primo classificato Raffaele da Matera con X Sofia, un testo nato da un lavoro di gruppo con operatori e altri detenuti, premiato per il messaggio sul valore dei legami affettivi che sostengono lo spirito durante la detenzione. Ai vincitori, oltre agli attestati, sono stati assegnati set di scrittura e volumi in pubblicazione; al primo anche un diploma grafico firmato da Paolo Marabotto. Tortora a Venezia: quarant’anni di attesa per un applauso di Francesca Spasiano Il Dubbio, 3 settembre 2025 Standing ovation per i primi due episodi di Portobello, la serie tv firmata da Marco Bellocchio che attraversa l’incubo giudiziario del conduttore tv. Ci sono voluti 42 anni per rovesciare lo schiamazzo dei giornalisti all’arresto di Enzo Tortora nella standing ovation della platea che ieri si è commossa di fronte alla parabola di un uomo innocente fustigato dalla giustizia. Nove lunghi minuti di applausi hanno già sancito il successo della nuova serie tv firmata da Marco Bellocchio, Portobello, sbarcata fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia con i primi due episodi. Un assaggio dell’incubo giudiziario che il Paese non ha mai voluto guardare negli occhi, dice il regista. Che racconta il dramma privato dell’uomo dentro la “cecità collettiva” di un’Italia “dapprima sgomenta e poi colpevolista”. Tortora ce l’aveva tutta davanti a sé, quell’Italia, incollata alle prime magie a colori dello schermo televisivo. Incantata dai lustrini e dai girotondi tra i quali sarebbe stato impossibile intuire il destino a venire del conduttore. Anche la serie - che sarà disponibile su Hbo Max dal 2026 - parte da lì. Dall’enorme successo che precede la caduta, dal Tortora istrione che di lì a poco avremmo ritrovato in manette, quel maledetto 17 giugno 1983. Quando il blitz all’Hotel Plaza di Roma e la passerella coi ceppi ai polsi davanti alla questura consegnano alla folla il corpo del “colpevole perfetto” in un arresto-show studiato a favore di telecamere. Il primo atto dell’orrore giudiziario è compiuto. E il gorgo si rivela negli occhi di Fabrizio Gifuni, perfettamente calato nei panni del presentatore tv: lo sguardo gentile d’improvviso si fa torvo, pronto a sfidare i colleghi venuti a scrivere la sua rovina. Chi priva lodava il presentatore da 28milioni di spettatori si converte rapidamente, pronto a puntare il dito contro il “traditore” colpito dall’accusa infamante di traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Marco Bellocchio di quel passaggio è testimone, e con il vantaggio della storia lascia trapelare il presagio della disgrazia tra le pieghe della ribalta. “Tortora non mi era antipatico ma mi era estraneo” e quando fu arrestato, “mi stupì il suo stupore”, spiega il regista. “Sebbene un caso come quello di Tortora sia unico e irripetibile - aggiunge -, credo che la possibilità di sbagliare esista ancora”. La giustizia la fanno gli uomini, che sono fallibili. Anche se “resta il mistero della cecità di certi giudici oltre ogni umana immaginazione. E la perseveranza del loro errore”. Un clamoroso errore, il manifesto del processo mediatico all’italiana, una vicenda in cui “l’opinione pubblica forcaiola ha avuto un ruolo importante - dice uno degli sceneggiatori, Stefano Bises. Anche più importante rispetto al rapporto con la magistratura”. Sullo sfondo la società dei primi anni ‘80, un’Italia che cambia faccia, dice Gifuni, “scavalcati i corpi insepolti di Pasolini e Moro”. Il terremoto dell’Irpinia dà l’ultima scossa agli equilibri già fragili della Nuova Camorra Organizzata. Giovanni Pandico, uomo di fiducia del boss Raffaele Cutolo e spettatore di Portobello dalla sua cella, decide di pentirsi. La procura di Napoli intasca il nome di Tortora in copertina di inchiesta. E bisogna aspettare 3 anni, il 1986, per la sentenza di assoluzione in appello che ribalta la condanna a 10 anni in primo grado. Il dramma privato di Tortora diventa pubblico, una battaglia per una giustizia giusta al fianco di Pannella. Fino a quando l’imputato eccellente, l’imputato “antipatico” a cui nessuno era disposto credere, si ammala di malagiustizia e ne se va tra le braccia della sua Francesca Scopelliti. La compagna di lotta e di vita a cui aveva scritto nei giorni bui del carcere, con quelle lettere che oggi sono fondamento e scintilla per nuovo racconto in formato episodi. Il lavoro sociale sceglie la resistenza di Pino Di Pino* Il Manifesto, 3 settembre 2025 Faccio l’operatore della riduzione del danno da tanto tempo, e storie in cui ho sofferto l’oppressione, mia o di un’altra persona, sono davvero tante. È difficile sceglierne una. Annibale (un nome di fantasia, ovviamente) ha quasi trent’anni. È cresciuto sui monti del bellunese con un padre rude che beveva forse troppo e una madre che combatteva chissà quale demone. La sua biografia meriterebbe un libro, ma salto direttamente a quando finisce in strada, cacciato di casa perché nella sua vita è entrata la droga. Dopo due anni di comunità, stanco di regole che sente assurde e sigarette contate, abbandona: spera nel compagno, che invece lo rifiuta. Così si ritrova di nuovo in strada, senza residenza in una città che non è la sua. Non vuole tornare sui monti: quel paesaggio lo angoscia. È in strada, è tornato a usare e si sente di aver fallito ancora una volta, perché è questo che il compagno e i suoi gli dicono. Annibale sente che è questo che gli dice anche l’assistente sociale del SerD che gli propone di tornare in comunità. Ma lui non vuole, piuttosto resta in strada e dorme in una casa abbandonata. Si fa la doccia al drop in, e là trova qualcuno che lo ascolta e non lo giudica. Prima o poi deve fare qualcosa per migliorare la sua condizione. Vorrebbe cose “normali”: un lavoro, un affitto, una stanza. La vita in strada è troppa fatica. Dopo mesi di colloqui a distanza e viaggi andata e ritorno a Belluno, accetta l’unica offerta del sistema: tornare in una Comunità terapeutica, proprio sui monti perché stanco di provarci senza successo. Ho cercato in tutti i modi di portare il suo punto di vista a chi decide cosa si può fare, ma alla fine prendiamo una macchina e saliamo in montagna per andare in comunità. Lungo la strada vedo il Cadore e lo ammiro, ma Annibale rompe il suo silenzio: “No ghe la faccio! Che posto de merda!”. Ormai è tardi per tornare indietro. Se, arrivato fin qui Annibale dovesse tornare indietro, sarebbe l’ennesimo paziente che non aderisce al programma terapeutico e potrebbe infastidire il sistema che misura il proprio investimento anche sulla probabilità di successo (si dice compliance). Nei suoi occhi vedo rassegnazione. Arriviamo e Annibale sta male. Lì lo accolgono male: ha perso il metadone, l’operatore lo tratta come un colpevole. Cerco di difenderlo, ma devo lasciarlo lì. “Tieni botta”, gli dico senza crederci. Tornando a casa penso: “Cosa cazzo abbiamo fatto?”. La mattina dopo Annibale scappa dalla comunità. Torna al Drop In. Ho scelto di raccontare questa storia per introdurre la Summer School di Forum Droghe e CNCA, perché mostra bene la violenza che attraversa Annibale, me e persino l’operatore della comunità. Il tema è la lotta tra liberazione e oppressione, la stessa di Franco Basaglia che ispira il titolo “E mi no firmo”: assumersi fino in fondo il proprio ruolo professionale e scegliere da che parte stare. Chi usa droghe, come il “matto”, la prostituta, il minore straniero o il raver, vive immerso nelle aspettative sociali: da sempre il sistema di cura classifica e pretende che guariscano o smettano. C’è una morale che stabilisce cosa è giusto e normale, e vuole riportare dentro un recinto. La loro vita diventa una lotta per esistere come possono, pagando ogni deviazione con privazioni o punizioni. Chi lavora nel sociale si trova davanti a un bivio: riconoscere e sostenere queste forme di vita con empatia, o adeguarsi e spingerle nel recinto. La lotta interiore è costante, oggi più che mai: la politica si fa impresa morale, e comunità o carcere diventano le risposte a chi rompe lo schema. Per questo la Summer School di quest’anno è cruciale: di fronte al conflitto tra liberare e opprimere, e a un potere che costringe, etichetta e punisce, c’è bisogno di organizzare resistenza. *Presidente di ITARDD, direttivo di Forum Droghe Migranti. Stangata a Mediterranea: fermata per due mesi di Giansandro Merli Il Manifesto, 3 settembre 2025 I legali dell’ong, che aveva disobbedito al Viminale, annunciano un ricorso di urgenza. Per la nave ora c’è il rischio confisca. Due mesi di fermo amministrativo e diecimila euro di multa. È il prezzo che il governo Meloni vuole far pagare a Mediterranea per aver disobbedito - alla prima missione con la nuova nave - all’ordine di andare nel lontanissimo porto di Genova per sbarcare i dieci naufraghi soccorsi in condizioni drammatiche, quando erano già in acqua, nella notte tra il 20 e il 21 agosto. Due giorni dopo l’ong si era infatti diretta a Trapani. Dove ieri la prefettura ha deciso di applicare direttamente il secondo livello di sanzioni previsto dal decreto anti-ong di Piantedosi (il primo è un blocco di 20 giorni e una multa più bassa). “Si ha reiterazione nel caso di nuova violazione commessa con l’utilizzo della medesima nave, contestata anche soltanto a uno degli autori o degli obbligati in solido nei cui confronti, nel quinquennio precedente, sia stata accertata, con provvedimento esecutivo, una precedente violazione”, si legge nell’ordinanza di fermo. Il gancio è il comandante della missione, il serbo Paval Botica, del quale viene menzionata una precedente sanzione a dicembre 2023, a Chieti, sulla medesima nave. Che allora, prima del passaggio da una ong all’altra, si chiamava Sea-Eye 4. In ogni caso Mediterranea contesta l’esecutività di quel provvedimento. I legali dell’organizzazione hanno annunciato un ricorso d’urgenza. Chiederanno come misura cautelare la sospensione del fermo, che impone di rimanere nel porto siciliano fino al prossimo 23 ottobre. Se non dovessero ottenerla, anche dopo quella data l’ong avrebbe un ulteriore e più grave problema. Il terzo livello di sanzioni introdotto da una modifica al decreto del Viminale prevede la confisca della nave. Nel caso di nuove contestazioni, si scoperchierebbe un ginepraio legale sul calcolo delle recidive che non è per nulla lineare. Ma c’è da scommettere che se il ministero dell’Interno avrà la possibilità di provare a cancellare la nave Mediterranea, anche solo in attesa dei ricorsi davanti ai giudici, lo farà. È il “nemico” perfetto, perché si tratta dell’organizzazione più politica tra quelle che salvano i migranti e la più propensa a non rispettare le imposizioni ritenute vessatorie. “Quale sarebbe il grave reato che abbiamo commesso? Abbiamo forse fatto del male a qualcuno, distrutto qualcosa, sparato addosso alle persone come fanno i “guardacoste” libici? Niente di tutto questo - attacca l’ong - La nostra colpa è aver detto “SignorNO!” a un ordine assurdo e disumano, quello di raggiungere un porto inutilmente lontanissimo, e di aver messo al primo posto la salute e la salvaguardia di persone traumatizzate e provate non solo dalla detenzione libica, ma anche dal tentato omicidio di cui sono state vittime in mare”. Contro Mediterranea si schierano l’eurodeputata leghista Silva Sardone e il parlamentare di Fratelli d’Italia Riccardo De Corato. Per entrambi “la legge va rispettata”. Risponde il segretario di +Europa Riccardo Magi: “La decisione, illegittima, segnala la disumanità e crudeltà di un governo che blocca le navi umanitarie, mentre rispedisce in Libia con aereo di Stato torturatori come Almasri, ricercato dalla Corte penale internazionale”. Anche i leader di Alleanza verdi e sinistra Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli hanno espresso solidarietà a Mediterannea, parlando di “attacco vigliacco” e “atto gravissimo” contro chi salva vite. Cacciati e malvoluti: la storia dei palestinesi ricorda quella degli ebrei di Amos Oz* Il Dubbio, 3 settembre 2025 “Per prima cosa vorrei presentare il mio amico e collega Izzat Ghazzawi, autore palestinese profondo e toccante, con il quale mi trovo in disaccordo su molte cose, ma cui guardo sostanzialmente come a una voce palestinese autentica, una finestra sincera sull’esperienza dolorosa del popolo palestinese nella seconda metà del secolo, nonché scrittore eccellente, un essere umano meraviglioso e, se posso dire, anche un caro amico. Izzat Ghazzawi e io abbiamo contrasti, e prospettive diverse, idee diverse. È cosa più che naturale - persino all’interno della società palestinese è difficile trovare due persone d’accordo fra loro, e più che mai nella società israeliana. Ma sarete forse sorpresi dal fatto che comunque esistono molte aree di concordia, o parziale consenso, fra il signor Ghazzawi e me. Gli europei benpensanti, gli europei di sinistra, gli intellettuali europei, gli europei liberali, com’è noto, hanno sempre bisogno di sapere per prima cosa chi sono i “buoni” e chi i “cattivi” in un film. Ora, a proposito del Vietnam era molto facile, sapevamo perfettamente che il popolo vietnamita era la vittima e gli americani erano i cattivi. Per l’apartheid era facile, si dichiarava senza esitazione che quello era peccato, mentre la lotta per i diritti civili, per la liberazione e l’uguaglianza e la dignità umana, quella era giusta. La guerra fra colonialismo e imperialismo su un fronte, e le vittime del colonialismo e dell’imperialismo sull’altro, è relativamente semplice - si può individuare con facilità chi sono i buoni e chi i cattivi. Quando invece si arriva alle radici del conflitto arabo- israeliano, e in particolare ai conflitti israelopalestinesi, le cose non sono più così semplici. E temo che non le renderò più facili per voi dicendovi: questi sono gli angeli, questi i demoni, non dovete fare altro che sostenere i primi, e il bene prevarrà sul male. Non è così semplice, amici miei, non è così semplice perché il conflitto israelo-palestinese non è un film western. Non è una lotta fra bene e male, la considero piuttosto come una tragedia antica, nell’accezione più precisa che la parola assume: lo scontro fra un diritto e un altro, fra una rivendicazione profonda, pregnante, convincente, e un’altra assai diversa ma non meno convincente, pregnante, non meno umana. I palestinesi sono in Palestina perché la Palestina è la patria, l’unica patria del popolo palestinese. Allo stesso modo in cui l’Olanda è la patria degli olandesi, o la Svezia degli svedesi. Gli ebrei israeliani sono in Israele perché non esiste altro paese al mondo che gli ebrei, in quanto popolo, in quanto nazione, abbiano mai potuto chiamare “casa”. In quanto individui sì, ma non come popolo, come nazione. I palestinesi hanno loro malgrado cercato di vivere in altri paesi arabi. Sono stati respinti, talvolta persino umiliati e perseguitati dalla cosiddetta “famiglia araba”. Nel modo più doloroso, sono diventati consapevoli della loro “palestinesità”: sono stati malvoluti come libanesi, siriani, egiziani, iracheni. Hanno imparato brutalmente che sono palestinesi e che questo è l’unico paese sul quale possono contare. Stranamente, il popolo ebraico è come se avesse un’esperienza storica parallela a quella del popolo palestinese. Gli ebrei sono stati espulsi dall’Europa, i miei genitori sono stati letteralmente cacciati dall’Europa circa settant’anni fa. Così come i palestinesi sono stati cacciati dapprima dalla Palestina e poi da tutti i paesi arabi, o quasi. Quando mio padre era ragazzino in Polonia, le vie d’Europa erano coperte di scritte quali “Ebrei, andatevene in Palestina” quando non di formule ancora meno gentili quali “Maledetti ebrei, tornatevene in Palestina”. Quando mio padre è tornato in Europa, circa cinquant’anni dopo, i muri erano coperti di “Ebrei, fuori dalla Palestina”. Dall’Europa continuo a ricevere sfarzosi inviti a trascorrere rosei week- end in luoghi ameni insieme a colleghi palestinesi, referenti palestinesi, controparti palestinesi, sì da imparare a conoscerci a vicenda, a piacerci a vicenda, a prendere il caffè insieme, a renderci conto che nessuno ha corna e coda, come se così i guai sparissero. Queste iniziative si fondano su un’idea tanto diffusa quanto tipicamente europea, secondo cui i conflitti non sono null’altro che dei malintesi. Una modica terapia di gruppo, un tocco di consulto famigliare, e tutti vivranno felici e contenti. Purtroppo ho delle cattive notizie: alcuni conflitti sono molto reali, sono ben peggio di un malinteso. Ma ho anche delle notizie sensazionali, per voi: temo che non ci sia alcun malinteso di base, fra arabi palestinesi e israeliani ebrei. I palestinesi vogliono la terra che chiamano Palestina. La vogliono per delle ragioni stringenti. Gli ebrei israeliani vogliono esattamente la stessa terra esattamente per le stesse ragioni, il che garantisce una perfetta comprensione fra le parti, e dà la misura di una terribile tragedia. Fiumi di caffè insieme non potranno mai cancellare la tragedia di due popoli che rivendicano, e ritengo con ragione, lo stesso piccolo paese quale unica loro patria, nazione al mondo. Pertanto, un caffè conviviale è cosa meravigliosa, ci sto soprattutto se si tratta di caffè arabo, che è infinitamente migliore di quello israeliano. Ma un caffè insieme non può risolvere il problema. Ciò di cui abbiamo bisogno non è soltanto un caffè che serva a capirsi meglio. Ciò di cui abbiamo bisogno è un doloroso compromesso. Come ho già detto, la parola “compromesso” gode di una terrificante reputazione nella società europea. Ma noi abbiamo necessità di un compromesso. Compromesso, non capitolazione. Compromesso significa che il popolo palestinese non debba mai mettersi in ginocchio, e nemmeno debba farlo il popolo ebraico israeliano. Parlerò ora della natura di questo compromesso, ma preferisco dirvi sin d’ora che questo compromesso farà dannatamente male. Perché entrambi i popoli amano il paese, perché entrambi i popoli, gli ebrei israeliani e gli arabi palestinesi, hanno radici storiche e sentimentali che li legano al paese nel profondo, in modo diverso ma altrettanto profondo. Uno degli elementi di questa tragedia, uno degli aspetti che contiene un pizzico di ironia, è il fatto che molti ebrei israeliani non riconoscono quanto sia profondo il legame emotivo dei palestinesi con questa terra. E molti palestinesi mancano di riconoscere quanto profonda sia la relazione ebraica con questa terra. La consapevolezza della profondità di queste radici giunge man mano, in un modo doloroso, attraverso un processo straziante per entrambe le nazionalità. Ed è lastricata di sogni infranti e illusioni spezzate e speranze disattese e slogan implosi, attinti dal passato di entrambe le parti. Ho lavorato molti anni per il movimento Pace Adesso. In effetti operavo per una pace israelo-palestinese ben prima che Pace Adesso fosse fondato, nel 1978. Già nel 1967, subito dopo la Guerra dei Sei Giorni, fui tra i primi, sparuti ebrei israeliani che propugnavano l’idea di negoziare il futuro della Cisgiordania e di Gaza non con la Giordania e l’Egitto, ma con la popolazione palestinese e la leadership palestinese e sì, con quell’OLP che all’epoca si rifiutava financo di pronunciare la parola “Israele”. Fu una strana esperienza. Ritengo che il movimento israeliano per la pace, oggi come oggi, sia malandato. Ma debbo precisare che il movimento per la pace in Israele non è la copia dei movimenti pacifisti in Europa o in America, quali erano ai tempi della guerra in Vietnam. Non siamo dell’avviso che se Israele si ritirasse dai territori occupati, tutto sarebbe risolto nello spazio di una notte. E nemmeno riteniamo che Israele sia il cattivo, men che meno l’unico cattivo in questa storia. Siamo per la pace, ma non necessariamente propalestinesi. Siamo molto critici verso la leadership palestinese. Personalmente sono critico verso la leadership palestinese così come lo sono verso quella israeliana. Tornerò in seguito su questo. Ma da alcuni movimenti pacifisti europei ci separa qualcosa di ancor più profondo. In vita mia, sono stato due volte sul fronte. La prima come soldato riservista in un’unità corazzata, sul fronte egiziano, nel Sinai, nel 1967; la seconda sul fronte siriano, nella guerra del 1973. È stata l’esperienza più orribile di tutta la mia vita, tuttavia non mi vergogno di avere combattuto in quelle due guerre. Non sono pacifista nell’accezione romantica del termine. Se mi capitasse ancora di sentire che il mio paese corre il serio rischio di essere cancellato dalla faccia della Terra e il mio popolo massacrato, combatterei nuovamente, benché sia ormai vecchio. Ma lo farei soltanto nel caso fosse una questione di vita o di morte, o nel caso in cui m’accorgessi che qualcuno sta tentando di trasformare me o il mio prossimo in uno schiavo. Non combatterei invece mai - piuttosto andrei in prigione - per del territorio. Non combatterei mai per una camera da letto in più per la nazione. Non combatterei mai per dei luoghi santi, o dei siti santi. Non combatterei mai per dei cosiddetti interessi nazionali. Ma combatterei eccome, combatterei forsennatamente per la vita e la libertà. Per nulla d’altro”. *Un estratto del libro “Contro il fanatismo”, Amos Oz, Feltrinelli Editore