Emergenza carceri, La Russa alla fine si arrende di Angela Stella L’Unità, 30 settembre 2025 Resa totale sulle carceri. Nei giorni in cui i suicidi dei detenuti dietro le sbarre arrivano a sessantadue, dalla politica giunge la conferma di uno stallo completo per provare ad affrontare l’emergenza sovraffollamento e autolesionismo. Infatti, venerdì scorso, il presidente del Senato Ignazio La Russa, a margine del suo intervento al Congresso dell’Unione Camere Penali, ha dichiarato che non si è trovato un accordo tra i partiti su un provvedimento deflattivo della popolazione detentiva: “Ho affidato alla vicepresidente Rossomando” il compito “di vagliare le possibilità, ma non è riuscita a trovare un’intesa per un testo comune”. A questo punto, ha aggiunto, “nella prossima Capigruppo dirò che ciascun gruppo rimane libero di assumere, se lo ritiene, iniziative. Il mio rimane un auspicio: è tuttora necessario - quindi non solo per il periodo estivo - che, nell’attesa che il governo possa completare i progetti che ha per rendere il sovraffollamento nelle carceri un qualcosa del passato, si faccia qualcosa nel presente”. Non si è lasciata attendere la replica della dem Rossomando: “Evidentemente le buone intenzioni del presidente La Russa sulle carceri si sono scontrate con l’indifferenza della maggioranza di centrodestra sul tema”. “Su richiesta del Presidente - ha spiegato - prima della pausa estiva ho istruito una proposta sulla detenzione domiciliare, già sperimentata durante il Covid, che potesse migliorare la condizione di sovraffollamento delle carceri italiane. Ho consegnato il testo al Presidente La Russa, ma da allora, inizio agosto, non c’è stato nessun avanzamento. Evidentemente, a differenza che dalle opposizioni, non è arrivata alcuna disponibilità alla discussione dalla maggioranza, nonostante la richiesta provenisse direttamente dal Presidente La Russa”. Accade sempre così: il tema carcere torna alla ribalta durante l’estate ma poi l’attenzione si raffredda. Come si suol dire “Passato il santo, passata la festa”. Ferma anche la task force annunciata dal Ministro Carlo Nordio a metà luglio. Costituita per favorire la definizione delle posizioni di 10.105 detenuti cosiddetti definitivi potenzialmente fruitori di misure alternative alla detenzione in carcere, si sarebbe dovuta riunire con “cadenza settimanale” e trarre “le sue conclusioni entro settembre 2025”, recitava una nota di Via Arenula del 15 luglio. Quindi hanno tempo fino ad oggi. Da quanto appreso da fonti ministeriali, invece, ci sarebbe stata solo una riunione all’inizio della scorsa settimana durante la quale però si sarebbe discusso in via principale di modifiche al piano carceri messo su dal commissario straordinario Marco Doglio. E qualche magistrato di sorveglianza ammette chiaramente: “non esiste alcuna task force”, lasciando intendere che manchi la volontà del Governo di incidere realmente sulla situazione. Tanto è vero che lo stesso Ministro Nordio è stato fortemente contestato quando sabato mattina si è videocollegato sempre al congresso dell’Unione Camere Penali. “I suicidi in carcere sono un fardello di dolore e, purtroppo, anche negli altri Paese non è vada meglio, anzi peggio, ma questa non è una giustificazione o un’attenuante - ha detto il Guardasigilli - Ma secondo noi non c’è una relazione tra il sovraffollamento e il fenomeno dei suicidi, caso mai favorisce l’aggressività, quello che favorisce il suicidio è la solitudine, è la disperazione”. In quel momento dalla platea e dal loggione del teatro si è levato un corale “buuuuuuu”. L’ex magistrato ha poi aggiunto che poi che “il sovraffollamento non è dovuto ai nuovi reati” introdotti in questa legislatura dalla maggioranza e dal governo di destra. “Ma dove vive il guardasigilli? Anzi, dove non si è mai recato il ministro? Certamente non ha visitato gli istituti penitenziari del nostro Paese. Se lo avesse fatto, non avrebbe pronunciato con così tanta leggerezza questo parole che sono frutto di una distanza siderale dalle reali condizioni di vita nelle nostre carceri e avrebbe usato maggiore cautela” ha replicato il capogruppo Pd in commissione Giustizia alla Camera, Federico Gianassi. “Guardatevi intorno, poi ci vediamo fuori e me lo dice” di Ilaria Cucchi facebook.com, 30 settembre 2025 Sono le parole dell’agente che mi ha accolto, questa mattina, al carcere di Prato. Le avevo chiesto di spiegarmi le condizioni della struttura. Senza rispondermi, mi ha risposto. Negli occhi le ho letto tristezza, frustrazione. Senso di impotenza. Sono questi i sentimenti che si respirano in un “contenitore complesso”, come l’hanno definito altri agenti. L’acqua scende dal soffitto in ogni reparto. La struttura cade a pezzi. Le celle sono piene. E di chi, se non degli ultimi della nostra società. Un detenuto su tre ha problemi con la tossicodipendenza. Le patologie psichiatriche, ugualmente, abbondano. E badate bene, non è solo Ilaria Cucchi, a dire che non possono essere curate in carcere. È lo stesso personale, che non sa come fare a garantire un minimo di giustizia. Mi soffermo su un esempio concreto. Una storia particolare, ma come tante: quella di un detenuto, chiamiamolo Giuseppe, che avrebbe diritto a una REMS. Il suo trasferimento fuori dal carcere è già stato disposto dal giudice. O meglio, sarebbe stato disposto. Perché una REMS pronta ad accogliere Giuseppe, oggi, non c’è. Non c’è, da quasi nove mesi a questa parte. Nel frattempo il detenuto è guardato a vista da un agente, per impedire che si faccia del male. È questa la verità del carcere. La reciprocità, nella sofferenza. Per ogni detenuto condannato in un luogo ingiusto, c’è un agente sovraccaricato di responsabilità, non sue. Quando dico che il governo parla tanto di sicurezza senza sapere cosa dice, intendo proprio questo. Il carcere, infatti, non è solo un contenitore complesso. È una vera e propria “discarica sociale”. In cui ogni persona è ridotta a mero ingranaggio di una macchina che non funziona e non può funzionare. Questo danneggia tutti. I detenuti, senza diritti. Gli agenti, sempre sotto organico, che devono fare anche gli psichiatri. I cittadini, perché un carcere così aumenta solo la recidiva. Uscendo dal carcere, pensavo che in Italia c’è chi prova “intima gioia” a non far respirare i detenuti. Fatalità, il carcere di Prato, come tanti altri, per tanti aspetti rispecchia proprio questa idea, se così possiamo chiamarla. Un’idea che a me disgusta. Un’idea che dovrebbe disgustare tutti. E che si combatte con l’umanità. Capendo che non saremo mai più sicuri, finché continueremo a produrre sofferenza Toghe contro il diritto liberale, è così da sempre: ma sul carcere cambi tutto di Oliviero Mazza Il Dubbio, 30 settembre 2025 L’Anm si oppone per sua natura alle svolte che limitano il potere dell’autorità, avvenne col codice Vassalli e il nuovo articolo 111: la storia si ripete anche oggi. Il progetto di San Giorgio, avviato con il convegno del marzo scorso da Ucpi unitamente al Centro Studi Marongiu e a qualificati esponenti dell’accademia, si pone l’ambizioso obiettivo di rifondare un processo penale accusatorio. Il percorso, in parallelo con la riforma costituzionale della separazione delle carriere, non sarà certamente semplice. Sono, infatti, di straordinaria attualità le parole pronunciate da Francesco Carrara nella prolusione pisana del 1873: “Gravissimo scoglio incontrerebbero e incontreranno tutti coloro che daranno opera ad una riforma delle nostre procedure penali, in un ostacolo che è potentissimo e soverchiante. E l’ostacolo è questo; che il codice procedurale e l’ordinamento giudiziario del 1865 sono due colonne sulle quali è edificato il trono del più effrenato arbitrio dei pubblici ufficiali. In un governo veramente libero i pubblici ufficiali dovrebbero essere quelli che meno esercitassero influenza sui provvedimenti legislativi in materia di procedura penale, per la ragione decisiva (e che basta avere occhi in capo per capirla) che il Codice di procedura penale è destinato a proteggere i galantuomini contro gli abusi e gli arbitrii dei pubblici ufficiali. Ma invece nelle vicende legislative italiane accade il rovescio; e non è così facile che Bertoldo trovi l’albero al quale dovrà farsi appiccare. Hinc illae lachrymae!”. Il monito di Carrara ha trovato piena conferma nella storia delle riforme repubblicane, in particolare nelle sue tre tappe fondamentali. La prima, ovviamente, è quella del 1988, alla quale si è giunti partendo proprio dal convegno di San Giorgio del 1961. Pubblicato il progetto preliminare del nuovo codice di procedura penale, la magistratura tentò in tutti i modi di bloccarne l’entrata in vigore con il pretesto, non certo inedito, della scarsità delle risorse. Solo grazie alla ferma determinazione di Ucpi e del suo presidente Gustavo Pansini, il 25 ottobre 1989 vide la luce il codice Vassalli. La seconda tappa è l’inserimento in Costituzione dei principi del giusto processo. Dopo la controriforma del 1992, promossa dalla Corte costituzionale e assecondata dal legislatore nella stagione dell’emergenza mafiosa, i principi del processo accusatorio vennero in parte ripristinati nel 1997, salvo essere subito cancellati dal Giudice delle leggi con la sentenza n. 361 del 1998. All’indomani della pubblicazione di quella decisione demolitoria, ispirata sempre al principio di non dispersione delle indagini preliminari, il presidente di Ucpi, Giuseppe Frigo, proclamò l’astensione dalle udienze. In risposta all’iniziativa dei penalisti, il presidente della Repubblica Scalfaro definì eversivo lo “sciopero”, ma la replica di Frigo fu altrettanto netta: “Prendiamo atto con grande tristezza che con questo attacco all’avvocatura penalistica associata il Capo dello Stato non rappresenta più tutti i cittadini”. In un clima di durissima contrapposizione, Ucpi riuscì a convincere quasi tutti le forze politiche della necessità di una “blindatura” costituzionale delle regole del giusto processo avversate dalla magistratura. Lo straordinario risultato della riforma dell’articolo 111 della Costituzione venne raggiunto in tempi rapidissimi con l’intervento determinante dell’ex presidente dell’Unione Gaetano Pecorella, nel frattempo divenuto parlamentare. La terza tappa è la separazione delle carriere che completa le due precedenti e che vede nuovamente l’opposizione di Anm, sfociata nella recente istituzione del comitato referendario per il No alla riforma costituzionale. Si tratta di un fatto del tutto inedito che solleva dubbi sul rispetto di quella regola ordinamentale che, in attuazione dell’articolo 98 comma 3 Cost., vieta ai magistrati l’iscrizione o la partecipazione sistematica e continuativa ai partiti politici: un comitato elettorale non svolge forse funzioni analoghe a quelle di un partito nel corso della campagna referendaria? Al di là della risposta che si vorrà dare, appare evidente il conflitto di interessi in cui versa la magistratura nel contestare una legge di riforma costituzionale riguardante proprio l’ordinamento della magistratura. Tutte le grandi riforme garantiste repubblicane, il codice accusatorio del 1988, il giusto processo in Costituzione del 1999 e oggi la separazione delle carriere, sono state apertamente appoggiate dagli avvocati penalisti e altrettanto apertamente avversate dalla magistratura, proprio perché rappresentano, come ricordava Carrara, la disciplina dei limiti imposti all’autorità procedente. Su questo incontestabile dato storico bisognerebbe riflettere quando si invocano oscuri presagi illiberali. I penalisti sono sempre stati dalla parte dei diritti, delle garanzie, della democrazia, non altrettanto può dirsi della magistratura che nel 1988 avrebbe voluto conservare il codice Rocco, di matrice fascista e inquisitoria, così come oggi vorrebbe mantenere l’assetto ordinamentale autoritario ideato dal ministro Dino Grandi. Il progetto di San Giorgio si svilupperà nei prossimi mesi di pari passo con il sostegno alle ragioni del Sì nel referendum confermativo. La pietra angolare su cui edificare il nuovo modello accusatorio non può che essere quella condizione di terzietà ordinamentale del giudice indispensabile per un’effettiva parità fra le parti. Il giusto processo accusatorio non costituisce, tuttavia, solo la condizione ideale per l’esercizio del contraddittorio e del diritto di difesa, ma è anche il presupposto ineludibile per giungere, in caso di condanna, alla giusta pena. La battaglia per la separazione finisce così per intrecciarsi con quella sul carcere. Ancora prima del raggiungimento dell’obiettivo, nell’immediato e a legislazione invariata, la magistratura potrebbe operare una formidabile supplenza del legislatore, sia nella fase di cognizione, grazie a una più ragionevole dosimetria sanzionatoria che guardi anche alle ricadute nella fase esecutiva, sia nel procedimento di sorveglianza, con un approccio diverso alle misure alternative alla detenzione che tenga conto del surplus di afflittività rappresentato dall’endemico sovraffollamento carcerario. Anm ha firmato con Ucpi l’appello sul carcere: per una volta stia dalla parte delle garanzie e agisca di conseguenza, perché, al di là delle inerzie del Parlamento, le chiavi del carcere sono pur sempre in mano ai magistrati. “Le carriere separate non sono eversive”, ecco la fronda democrat sulla giustizia di Errico Novi Il Dubbio, 30 settembre 2025 Nazareno indebolito dagli interventi di venerdì scorso al congresso dei penalisti: stavolta sarà difficile evocare la guerra santa che animò le battaglie contro il Cav. Goffredo Bettini non è un capocorrente. Eppure ha un rilievo, nel Pd, perché è una figura del tutto autonoma al pari di poche altre: viene in mente Luciano Violante, per citarne una culturalmente assai diversa. Come Bettini, anche Enrico Morando, al congresso dei penalisti, si è espresso per il sì alla separazione delle carriere. Non si può escludere che a breve altri esponenti di spessore del mondo dem, come Stefano Ceccanti, ribadiscano pubblicamente il loro disincanto rispetto all’anatema anti-Nordio. In termini strettamente politici potrà non sconvolgere il quadro: il Pd farà comunque una campagna referendaria a testa bassa per il No alla riforma. Ma idealmente, qualcosa, con gli interventi di Bettini e Morando all’assise Ucpi di venerdì scorso, è cambiato davvero. È stata sconfessata la teoria della riforma strumentale e addirittura eversiva, e lo si è fatto dall’interno della forza politica più importante fra quelle ostili al ddl Nordio. Forse non basterà a favorire la vittoria del Sì nella consultazione popolare. Peserà sicuramente altro, e non si può escludere che, nella battaglia sulle idee, irrompano vicende giudiziarie. Però c’è almeno un contributo di verità, grazie alla fronda nel partito di Elly Schlein: separare giudici e pm non comporta l’asservimento delle Procure al governo. Serve casomai a evitare che il pm controlli tutto, persino le promozioni di quei giudici davanti ai quali dovrebbe essere solo una parte al pari dell’avvocato. Bettini ha diffuso, prima dell’intervento alla tavola rotonda catanese, un documento splendido, animato da uno spirito garantista di matrice umanistica, col riferimento alla professione di avvocato svolta dal padre, con il richiamo a principi basilari nella filosofia del diritto e nella stessa cultura costituzionale, a cominciare dalla fragilità del cittadino “stritolato” dalla macchina processuale. E un’ispirazione alta. Ma è altrettanto solida la posizione espressa, all’assise dei penalisti, da Enrico Morando, presidente di Libertà eguale, la componente più autenticamente liberal del Pd. L’ex viceministro all’Economia aveva inviato già a luglio, subito dopo il sì in seconda lettura di Palazzo Madama alla riforma Nordio, una lettera agli iscritti di Libertà eguale, in cui si sosteneva la necessità di schierarsi a favore delle carriere separate. C’è sicuramente, da parte della maggioranza “una mancata volontà di dialogo”, scrive Morando, così come va riconosciuto il “grave errore di aver voluto prevedere meccanismi di sorteggio per la composizione dei nuovi Consigli superiori”. Tuttavia, “la nostra Associazione (e ancor prima le aree politico- culturali di origine della stessa) ha sempre visto nel principio della separazione delle carriere un dato positivo di impronta liberale, purché essa non conduca a forme di subordinazione verso l’Esecutivo, tema giustamente sollevato ma che non è presente in alcun modo nel testo”. Ecco: il leader della componente liberaldemocratica non esita a smontare un’altra fatwa scagliata contro la separazione delle carriere: il presunto conseguente scivolamento del pm alle dipendenze del guardasigilli. Prosegue il presidente di Libertà eguale, associazione di cui fanno parte esponenti di spicco del Pd come Lia Quartapelle, Tommaso Nannicini, Dario Parrini, oltre a “costituenti” del partito del calibro di Claudia Mancina, Gianni Cervetti, Michele Salvati e Irene Tinagli: “In questo referendum (sulla separazione delle carriere,ndr), saremo chiamati a scegliere non per appartenenza di partito, non per dinamiche interne nei partiti e tra i partiti, ma sulla base del bene superiore del Paese”. E perciò, sostiene Morando, “nella massima libertà, credo occorra prepararsi da parte di chi si vuole collocare in continuità con questa ispirazione liberale di sinistra, ad animare una posizione favorevole, che sia altrettanto chiara nella collocazione politica alternativa all’attuale maggioranza. Di modo che, anche stavolta, nel referendum si possa valutare sul merito della proposta e non come test per le successive elezioni politiche”. E viene così disconosciuta pure la motivazione che sorregge gli sforzi del Nazareno contro la riforma: cercare nella vittoria del No al referendum sulle carriere un grimaldello per mandare in crisi la leadership di Meloni in vista delle Politiche 2027. Il dato che emerge dall’appassionato documento di Bettini come dalla chiarissima lettera- manifesto di Morando è che stavolta il dogma della guerra santa non regge, diversamente da quanto accadde, per il centrosinistra, nelle battaglie sulla giustizia contro Berlusconi. All’epoca, i disertori non erano ammessi. Stavolta, sono proprio le dissenting opinion interne, a sconfessare l’idea che, sulla giustizia, sia in corso una guerra di religione. Anche se ad animare la fronda nel Pd sono componenti minoritarie, il fatto stesso che l’anatema anti- Nordio venga rinnegato all’interno del partito rende più complicato, per Schlein e i suoi, evocare lo spettro dell’attacco alla democrazia. Perché in effetti a rischiare, stavolta, è solo lo strapotere dei pm sui giudici. Ma se quel processo resta aperto, è perché la cultura delle garanzie è al collasso di Antonio Gagliano Il Dubbio, 30 settembre 2025 L’indagine per corruzione (e forse altro) contro il PM che condusse le indagini sull’omicidio di Chiara Poggi è una notizia talmente sconvolgente, talmente orribile che quasi ci si augura non sia vera seppure, come mi è capitato di scrivere altre volte, mai ho creduto alla colpevolezza di Alberto Stasi. Esprimere un giudizio sulla fondatezza o meno di quella che ad oggi è solo una mera ipotesi di accusa, non sarebbe giusto. Anche nel caso del PM oggi indagato e di Andrea Sempio vale la presunzione di innocenza. Una considerazione generale è però doverosa: gli investigatori ipotizzano una condotta addirittura corruttiva che, se dovesse risultare provata, costituirebbe la più grave condotta di corruzione mai perpetrata nel nostro Paese. È vero che il “prezzo” della corruzione sarebbe stato modesto, 40.000 euro e non certo i milioni di euro di cui si sente dire in occasioni di grandi appalti o altro del genere, ma è anche vero che l’oggetto del mercimonio, cioè gli effetti dell’atto contrario ai doveri del pubblico ufficiale, sarebbe stato di un valore enorme, incommensurabile. Da un lato ci si sarebbe fatto gioco della morte crudele di una giovane ragazza, dall’altro si sarebbe garantita l’impunità ad un feroce assassino, in tal modo lasciato libero anche di commettere altri delitti. Dall’altro ancora, ed è forse la cosa enormemente più grave ed inaccettabile, si sarebbe fatto in modo di condannare un innocente (appunto Alberto Stasi), perseguendolo, non cercando ma anzi nascondendo la verità, non curandosi del fatto che di questo altro giovane con la condanna a decenni di galera (o addirittura all’ergastolo che ha fortemente rischiato) ne sarebbe a sua volta cagionata la morte, seppure dal punto di vista civile e morale. Insomma un comportamento che, al prezzo di 40.000 misere euro, avrebbe determinato la morte violenta di due persone, una uccisa fisicamente l’altro civilmente, oltre che l’impunità di un feroce assassino. Non credo si sia mai visto nel nostro Paese un fatto corruttivo così grave. Si impongono alcune altre riflessioni. La prima: lo scadimento nel nostro sistema processuale della cultura della prova che va di parallelo con l’asservimento del Giudice e del suo Giudizio al Pubblico accusatore ed al suo teorema accusatorio. È un asservimento culturale e spesso anche psicologico. Quello che più mi preoccupa è il primo. Oggi si parla tanto della cultura della giurisdizione che dovrebbe accomunare il PM ed i Giudici e del rischio che la proposta di separazione delle carriere farebbe venire meno tale raccordo. Rilevo subito che questa impostazione dà per scontata una cosa che non lo è affatto e, cioè, che i PM siano effettivamente portatori, in modo adeguato, di una cultura della “giurisdizione” e, aggiungo, se è giusto che lo siano. Ritengo, però, che a monte di tale ragionamento vi sia un errore ancora più grave: quale cultura deve, primariamente, avere il Giudice in ambito penale? Che significa cultura della giurisdizione? Questa costituisce indubbiamente un dato culturale di enorme importanza per ogni giurista e soggetto “tecnico” del processo, sia esso Giudice, PM o avvocato. Ma, a ben guardare, essa ha un contenuto essenzialmente formale, tanto che dovrebbe accomunare figure e funzioni per molti aspetti opposte. Mi astengo dallo sbilanciarmi su quale cultura il PM debba essere espressione e portatore, ma mi sento di affermare che è molto, molto riduttivo che il Giudice debba essere espressione di una aspecifica, formale cultura della “giurisdizione”. Il Giudice, infatti, deve innanzitutto incarnare la cultura delle garanzie, e la prima di queste garanzie è la presunzione di innocenza a cui si connette l’altro principio, comunque di rilievo costituzionale anche se non esplicitamente contenuto nella Carta, dell’affermazione di responsabilità solo in mancanza di un qualsiasi ragionevole dubbio. Non credo sia possibile affermare che in Italia il Giudice sia espressione della cultura delle garanzie, e deve anche essere chiaro che il PM non può, e per certi aspetti non deve, esserlo. Ecco perché è veramente fallace sostenere che Giudice e PM devono essere espressioni della medesima “cultura” rispetto alla loro funzione. L’offuscamento della cultura delle garanzie nell’ambito della funzione del Giudizio va di pari passo con lo scadimento della cultura della prova. Vogliamo gridare con forza che il principio dello “oltre ogni ragionevole dubbio” si traduce in troppe condanne in una mera formula di stile del tutto scollegata ad un metodo valutativo ed argomentativo che abbia la forza di rendere l’ipotesi accusatoria come l’unica possibile oltre che processualmente certa? Invito a soffermarsi sulla eventualità della condanna in appello che riformi la sentenza assolutoria in primo grado o, addirittura e come peraltro accaduto nel caso di Alberto Stasi, di ben due sentenze di assoluzione in primo e secondo grado e quindi dell’intervento di un annullamento da parte della Suprema Corte e poi di una condanna - dopo due assoluzioni - in sede di rinvio. La questione ripropone un tema da decenni molto dibattuto tanto che per pochi anni in Italia venne preclusa (legge c. d. “Pecorella”) la possibilità di proporre appello avverso una sentenza di assoluzione. Ripristinata la possibilità di appello del PM, sono intervenute alcune decisioni della Corte EDU che hanno, tra l’altro, reclamato la necessità che per riformare una decisione assolutoria si debba rinnovare l’istruttoria dibattimentale e disporre di elementi tali da consentire una motivazione dotata di particolare forza argomentativa, di valenza assolutamente tranciante e risolutiva rispetto ad ogni altra diversa ipotesi. In tali ambiti nel 2017 è stata introdotta una norma (il comma 3 bis dell’art. 603 cpp, in parte modificato nel 2022) che prevede l’obbligo di rinnovare le prove orali assunte in dibattimento prima di procedere alla riforma di un’assoluzione. Nei fatti, la portata di queste novità del Giudice di Strasburgo e del legislatore è stata fortemente ridimensionata perché generalmente si ritiene che si possa pervenire ad una condanna in luogo della precedente assoluzione anche se la nuova istruttoria dibattimentale non abbia apportato alcun elemento probatorio ulteriore in danno dell’imputato: nella sostanza si è ridotto l’obbligo imposto dal comma 3 bis dell’art. 603 ad una pura formalità. Inoltre, si è consolidato l’orientamento per cui anche nel caso di riforma assolutoria di una condanna in primo grado il Giudice di appello debba offrire una motivazione particolarmente rafforzata. In pratica si è equiparato l’obbligo di motivazione delle possibili decisioni di riforma in grado di appello, sia che esse comportino una assoluzione dopo una condanna che una condanna dopo un’assoluzione. Così facendo, però, si trascura che la sentenza di assoluzione è strettamente ricollegata al principio costituzionale della presunzione di innocenza e, quindi, è già in se stessa per molti aspetti giustificata proprio perché espressione di tale presunzione, mentre una sentenza di condanna deve vincere “oltre ogni dubbio” quel principio costituzionale e, quindi, deve sempre porsi su un piano argomentativo e probatorio molto più forte, giammai equiparabile alla decisione assolutoria. Non vorrei indugiare negli aspetti tecnici ma, a questo punto, andare alla conclusione: le vicende come quella di Garlasco, e così di una condanna definitiva in danno di un giovane (Alberto Stasi) che oramai nessuno crede più colpevole, non nascono dal caso, non sono frutto del fortuito, ma trovano cause profonde ed allarmanti in aspetti generali del nostro sistema e, purtroppo, in quello che ho poc’anzi indicato come un marcato scadimento della cultura delle garanzie e della prova. Alaa, scambiato per scafista, esce per la prima volta dal carcere dopo 10 anni di Claudia Brunetto La Repubblica, 30 settembre 2025 “Credo ancora nella giustizia”. Alaa Faraj, condannato a 30 anni in Cassazione, in carcere da 10, ieri ha presentato a Palermo il libro in cui racconta la sua storia. La domanda più difficile arriva quasi subito: “Come stai?”. Come deve stare Alaa Faraj che per lo Stato italiano è un trafficante condannato a 30 anni e che ieri, con il primo permesso del tribunale di sorveglianza in dieci anni di carcere già scontati, era sul palco allestito nel sagrato stracolmo della cattedrale di Palermo per parlare del suo libro “Perché ero ragazzo”, pubblicato da Sellerio. Una serie di lettere ad Alessandra Sciurba, docente di filosofia del diritto conosciuta in carcere, che dopo la pubblicazione del libro ha il divieto assoluto di incontrarlo ancora. Almeno tra le sbarre. “Dopo dieci anni in prigione mi trovo qui in mezzo al vostro affetto straordinario”, dice Faraj, che oggi ha trent’anni. “La considero una grande vittoria, un dono. Ma la parola giusta è miracolo. Questo libro per me è stata una terapia”. Accusato di essere uno degli scafisti nella traversata dell’agosto del 2015 in cui morirono 49 persone soffocate dentro la stiva, Faraj, ancora ieri, proclamava la sua innocenza. “Per la giustizia italiana sono un trafficante, uno stragista”, ha detto. “Ma essere con voi stasera ha cancellare anche questo. Non attaccherò mai le istituzioni e la giustizia italiana. C’è chi lo farà per me, dimostrando la mia innocenza in un’aula di tribunale. Non cercherò mai compromessi, né scorciatoie. Ci riusciremo. Sono qui per parlare di umanità e cultura”. E poi una parola ricorrente: grazie. “Un immenso grazie a tutti quelli che mi sostengono”, dice. “Una parte dell’Italia mi ha condannato, ma sarò sempre grato a quell’altra parte dell’Italia che mi ha salvato, agli uomini e alle donne della Guardia costiera. Dieci anni fa sono partito dalla Libia per fare il calciatore e studiare Ingegneria. Il primo sogno non posso più realizzarlo, ma i campi di calcio mi vedranno ancora come allenatore. Il carcere mi ha dato l’opportunità di continuare a studiare”. Un grazie speciale a Gustavo Zagrebelsky collegato ieri alla presentazione del libro. “Alaa si batte per coloro che si trovano nella sua condizione. Una testimonianza civile che vale per tutti”, ha detto Zagrebelsky. Dell’Italia che sognava quando aveva solo 20 anni tanto da decidere di affrontare il viaggio in mezzo al mare alla ricerca di un futuro migliore, Faraj conosce solo tribunali e carceri. “Alaa ha una forza interiore enorme”, dice Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, sul palco al fianco del giovane libico. “Non sta lavorando per se stesso: lui crede che sia ancora possibile seguire la via della libertà e della verità. Lo fa perché quello che è accaduto a lui non accada più a nessun altro”. La fine pena di Faraj è prevista per il 15 agosto del 2045. “Servivano capri espiatori, Alaa e i suoi amici erano perfetti”, spiega Sciurba. “Questo libro è la storia delle condanne ingiuste di chi attraversa il mare”. Prescrizione, sì al ricorso se incide sul risarcimento di Antonio Alizzi Il Dubbio, 30 settembre 2025 La sentenza della Suprema Corte di Cassazione: ammissibile l’impugnazione delle parti civili. La Cassazione torna a pronunciarsi su un tema delicato: la legittimazione della parte civile a impugnare quando il giudice dichiara estinto il reato per prescrizione. Con una sentenza depositata il 12 settembre 2025, la Sesta sezione penale ha stabilito che l’impugnazione è ammissibile se la qualificazione giuridica del fatto incide direttamente sull’esistenza o meno del diritto al risarcimento. Chi concorre nel reato non ha diritto al risarcimento dei danni dal reato che ha contribuito a commettere; chi è vittima del reato è invece titolare di detto diritto, evidenzia la Cassazione, ribadendo che l’interesse ad agire deve essere concreto e attuale, non meramente strumentale. Il principio si colloca in una vicenda complessa che coinvolge una società dichiarata fallita, e gli appalti affidati ad un’altra azienda. Secondo le accuse, nei libretti di misura e negli stati di avanzamento lavori erano state inserite opere mai realizzate, consentendo alla società fallita di incassare pagamenti indebiti. Per i reati di falso e truffa (capi A e B) la prescrizione era già maturata, mentre il capo C riguardava un episodio in cui l’imprenditore avrebbe consegnato due assegni da 7mila euro. Il Tribunale aveva riqualificato il fatto come “induzione indebita” e non come concussione. Una differenza tutt’altro che formale: nel primo caso chi paga viene considerato correo e non può pretendere risarcimento; nel secondo è vittima e quindi titolare del diritto al danno. Le parti civili del procedimento penale all’esame della Suprema Corte, avevano fatto ricorso sostenendo che la riqualificazione avesse inciso direttamente sui loro diritti. La Cassazione ha dato loro ragione: se il fatto fosse ricondotto al reato di concussione, il termine di prescrizione non sarebbe maturato e la domanda risarcitoria potrebbe essere accolta nel processo penale, senza dover ricominciare in sede civile. Per questo la sentenza d’appello viene annullata sul capo C e rinviata a nuovo giudizio. Un altro passaggio decisivo riguarda la responsabilità amministrativa degli enti. La Corte d’appello aveva attribuito alla società fallita la responsabilità ex d. lgs. 231/ 2001 sostenendo che due dipendenti, un project manager e un tecnico di cantiere, avessero funzioni direttive. Ma la Cassazione è stata netta: la contestazione si fondava sull’articolo 5, lettera b), che riguarda i soggetti sottoposti alla direzione altrui. In questi casi non vale il regime probatorio previsto per gli apicali, ma occorre dimostrare una “colpa di organizzazione”, cioè la mancata vigilanza da parte dei vertici. “Sul punto la sentenza è del tutto silente”, hanno osservato i giudici, sottolineando che non si può presupporre l’esistenza di ruoli direttivi senza una verifica puntuale. Anche su questo aspetto il verdetto è stato annullato con rinvio. Diverso l’esito per gli altri capi. Per i reati già prescritti di falso e truffa, i ricorsi delle parti civili sono stati dichiarati inammissibili perché l’interesse a impugnare era solo indiretto e non concreto. Per l’accusa di estorsione (capo D) la Cassazione ha confermato l’inammissibilità, ritenendo che le doglianze si riducessero a una richiesta di nuova valutazione delle prove. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Sylla Mamadou Khadialy, morto in custodia dello Stato di Albertina Sanchioni Il Manifesto, 30 settembre 2025 Il 35enne senegalese è deceduto nel carcere casertano a 24 ore dall’arresto. Il Garante dei detenuti: “Un episodio insolito, chiediamo chiarezza”. Un’altra morte in custodia dello Stato: Sylla Mamadou Khadialy, cittadino senegalese di 35 anni, è deceduto lo scorso venerdì nel Carcere di Santa Maria Capua Vetere, nel casertano, 24 ore dopo il suo arresto in circostanze da chiarire. Il garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, e quello della Provincia di Caserta, Don Salvatore Saggiomo, chiedono chiarezza su quanto accaduto. “Secondo il medico psichiatra dell’istituto, le condizioni di Mamadou erano tali da rendere inefficace una sedazione immediata in carcere, e sarebbe stato necessario un trasferimento in una struttura ospedaliera specializzata in emergenze psichiatriche acute”, ha spiegato Saggiomo. Secondo le prime ricostruzioni, era stato fermato nella mattina di giovedì 25 settembre dopo aver aggredito un altro cittadino maliano e poi una signora. “Un episodio insolito e inatteso, aveva sicuramente bisogno di cure”, hanno dichiarato le numerose associazioni campane che lo conoscevano da anni. Arrivato nella città campana oltre 7 anni fa, accolto nel progetto Sprar gestito dal Centro Sociale Ex Canapificio, che oggi non esiste più, era molto attivo nella sua comunità: autista Piedibus di Caserta, sarto nell’azienda Isaia & Isaia, attivista del Movimento dei Migranti, giocava a calcio in una squadra del territorio. I familiari accusano le forze dell’ordine di aver somministrato a Sylla sedativi a breve distanza, senza un’adeguata documentazione e senza coordinamento tra le varie strutture in cui è stato trasferito nel giro di poche ore. Il cittadino senegalese sarebbe stato infatti arrestato dagli agenti della polizia ferroviaria, poi portato al pronto soccorso dell’ospedale di Caserta, dove gli sarebbero stati dispensati sedativi, poi di nuovo in custodia della Polfer e infine in carcere, dove è morto poco dopo. Tante le associazioni locali che lo conoscevano e si sono subito attivate per chiedere verità e giustizia sulla sua morte. Centro Sociale Ex Canapificio, Movimento Migranti e Rifugiati di Napoli e Caserta, Comitato Città Viva, Ex OPG Occupato - Je so’ pazzo, Cgil Caserta, KASK- Collettivo studentesco e Associazione dei senegalesi di Caserta hanno convocato una mobilitazione per oggi pomeriggio alle 17:30, in Piazza Dante a Caserta. “Gli ospedali, i luoghi delle forze dell’ordine e le carceri non possono essere opachi. Non si può accettare il silenzio. Non ci fermeremo fin quando non sarà emersa la verità e sarà fatta giustizia”, hanno dichiarato le associazioni. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Muore in carcere, il giallo dei farmaci somministrati al 35enne di Attilio Nettuno casertanews.it, 30 settembre 2025 Procura indaga per omicidio colposo. Oggi il conferimento dell’incarico al medico legale. Il garante Saggiomo: “Non andava dimesso dall’ospedale”. La Procura indaga per omicidio colposo in relazione alla morte di Sylla Mamadou Khadialy, il 35enne senegalese morto giovedì scorso dopo l’arresto eseguito dalla Polfer. In mattinata il conferimento dell’incarico al medico legale che dovrà eseguire l’autopsia per accertare le cause del decesso. In sede di conferimento dell’incarico i familiari, rappresentati dall’avvocato Clara Niola, nomineranno un proprio consulente. Secondo quanto ricostruito, dopo il fermo il 35enne sarebbe stato trasferito presso il pronto soccorso dell’ospedale di Caserta dove, secondo alcune dichiarazioni, sarebbe stata somministrata una terapia farmacologica, presumibilmente un sedativo. Una circostanza segnalata alla Procura che ora dovrà fare chiarezza su tali circostanze. Il Garante dei detenuti per la Provincia di Caserta, don Salvatore Saggiomo, ha effettuato una visita presso la struttura penitenziaria per verificare quanto accaduto e raccogliere informazioni. “È emerso che al momento dell’ingresso in carcere Sylla Mamadou presentava uno stato di dissociazione dalla realtà, manifestando una forte agitazione e atteggiamenti aggressivi verso chiunque si avvicinasse - fa sapere Saggiomo - Per motivi di sicurezza è stato posto in isolamento nella cella di matricola, ma ogni tentativo di avvicinamento da parte del personale sanitario o penitenziario veniva respinto con violenza. Si è tentato anche un approccio mediato da un altro detenuto, ma anche questa iniziativa è risultata infruttuosa a causa dell’eccessiva agitazione del giovane. Secondo il medico psichiatra dell’istituto, le condizioni di Mamadou erano tali da rendere inefficace una sedazione immediata in carcere, e sarebbe stato necessario un trasferimento in una struttura ospedaliera specializzata in emergenze psichiatriche acute. È stato quindi richiesto l’intervento del 118, ma la procedura di Trattamento Sanitario Obbligatorio non è stata attuata. Il personale sanitario ha somministrato farmaci, ma il medico penitenziario non è stato informato né sulla tipologia né sul dosaggio, e rimane poco chiaro come il detenuto sia stato dimesso dall’ospedale, nonostante fosse ancora in stato di alterazione e aggressività; durante il periodo di ricovero, durato circa otto ore, non risultano documentate con chiarezza le modalità di monitoraggio e i trattamenti effettuati”, dichiara Saggiomo. Ciambriello chiede chiarimenti alla direttrice del carcere - A seguito dell’intervento e della visita effettuata presso la Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere dal Garante delle persone private della libertà personale della provincia di Caserta, il Garante regionale Samuele Ciambriello è prontamente intervenuto, indirizzando una comunicazione alla direttrice dell’istituto penitenziario e al responsabile della direzione sanitaria. Nella nota, il Garante ha richiesto puntuali chiarimenti in merito alla situazione, formulando la seguente istanza: “Chiedo di conoscere con urgenza gli eventi che si sono susseguiti a partire dal momento del suo ingresso in Istituto, quando è stato visitato dal medico presente in carcere, lo stato psico-fisico in cui è arrivato, e se sono state utilizzate misure di contenimento. Quali sono state le cause accertate al momento della dichiarazione del decesso. Inoltre chiedo di conoscere se sia stato applicato il protocollo per le lesioni di dubbia origine, che attraverso l’utilizzo di fotografie testimonia le eventuali lesioni del detenuto”. Un protocollo che credo sia stato accettato e firmato, in caso contrario vorrei avere notizie in merito” Il decesso di Sylla Mamadou rappresenta un evento gravissimo che impone una riflessione profonda. I garanti richiedono chiarezza e trasparenza sulle procedure adottate, una verifica rigorosa delle responsabilità, la riapertura immediata dell’infermeria penitenziaria e l’applicazione rigorosa dei protocolli per il rilevamento e la documentazione delle lesioni di dubbia origine. “Chiediamo con forza verità, giustizia e rispetto affinché episodi come questo non si ripetano mai più. È urgente che si intervenga con responsabilità per garantire che nessun altro entri in carcere per non uscirne vivo”, concludono Ciambriello e Saggiomo. Nel pomeriggio, a Caserta, gli attivisti del Centro Sociale Ex Canapificio effettueranno un presidio, tra piazza Dante e davanti alla Prefettura, per chiedere “verità e giustizia per Sylla Mamadou Khadialy”. Pavia. Il M5S dopo il suicidio del 21enne in carcere: “Il Governo assuma medici e psicologi” di Maria Fiore La Provincia Pavese, 30 settembre 2025 Barzotti: “Carenze strutturali e organizzative da anni, a pagare sono i detenuti più fragili e il personale”. Yassir aveva solo 21 anni e una condizione di fragilità che richiedeva attenzione. Nella notte tra venerdì e sabato si è tolto la vita in carcere, in una cella di Torre del Gallo. E ora sulla sua morte si chiede chiarezza. La deputata del Movimento 5 Stelle, Valentina Barzotti, ha depositato un’interrogazione urgente ai ministri della Giustizia e della Salute chiedere ancora una volta come i ministeri intendono gestire le enormi criticità della casa circondariale Torre del Gallo di Pavia, dove un giovane detenuto si è tolto la vita nei giorni scorsi. Da anni - aggiunge Barzotti - si segnalano carenze strutturali e organizzative, con l’assenza di psicologi in servizio h 24 e con un numero insufficiente di medici. A pagare questa inerzia sono i detenuti più fragili e lo stesso personale penitenziario”. “Il ministero della Giustizia - continua la deputata - aveva già promesso nel 2021 nuove assunzioni di personale sanitario e psichiatrico, impegni rimasti lettera morta”. La deputata chiede al Governo di intervenire per garantire la presenza stabile di psicologi e personale medico specializzato: “Non possiamo permettere che le carceri diventino luoghi di abbandono e disperazione. Ne va della funzione rieducativa della pena e del senso stesso del carcere”. A Barzotti fa eco Simone Verni, coordinatore 5 stelle Pavia: “Torre del Gallo, purtroppo, più di altre realtà penitenziarie vive da troppo tempo una situazione di enorme criticità. Quella che era stata riscontrata come estrema fragilità, sia per i carcerati che per il personale (i poliziotti e tutte le altre figure, comprese quelle sanitarie), oggi è diventata un’emergenza urgenza cronica che non può più essere procrastinata: occorrono risposte immediate da parte del governo Meloni e di Regione Lombardia”. E Lorenzo Goppa, assessore all’ambiente di Pavia, dichiara: “Questa tragedia è l’ennesima prova del fallimento di un sistema che non riesce a proteggere, ancorché in una condizione di legittimata restrizione della libertà, esseri umani che il comune sentire percepisce lontano, con modalità talvolta disumanizzanti. Yassir aveva solo 21 anni. Il sistema carcerario non ha le risorse né umane né economiche per gestire i detenuti psichiatrici, per mancanza di fondi e di risorse da parte del Governo. Inoltre, la garante provinciale dei detenuti risulta dimissionaria da tempo e non è mai stata sostituita. Come amministrazione stiamo lavorando affinché le condizioni generali possano migliorare e la finalità rieducativa non rimanga lettera morta”. Ancona. “Ricomincio da me”, corso di formazione in carcere per dare una Seconda Chance anconatoday.it, 30 settembre 2025 Ha preso il via lunedì 22 settembre il corso per installatori di impianti di climatizzazione residenziali destinato a 19 detenuti della Casa circondariale di Ancona. L’iniziativa, nata dalla collaborazione tra importanti realtà del territorio e del settore, mira a formare figure professionali specializzate, rispondendo a una precisa richiesta del mercato. Il progetto, intitolato “Ricomincio da me”, vede come capofila Bosch, con il coordinamento per la sostenibilità sociale di Rosa Antonella e lo sviluppo tecnico del corso affidato a Claudio Cairone della divisione Bosch Home Comfort. Fondamentale la sinergia con l’associazione “Seconda Chance”, rappresentata da Caterina Piermarocchi, lo studio legale LabLaw con Pietro Speziale e Gi Group, con la partecipazione di Martina Podetti, che si occuperà di orientamento al lavoro. I partecipanti, individuati dall’area educativa del carcere tra coloro con un fine pena ravvicinato e una buona conoscenza della lingua italiana, affronteranno un percorso formativo di 80 ore. Il programma è stato studiato per fornire competenze immediatamente spendibili: si partirà con un’introduzione al mercato della climatizzazione e nozioni di fisica tecnica, per poi passare alla pratica di installazione. Ma non solo. “Riteniamo che questo corso risponda maggiormente alle richieste attuali del mercato del lavoro, dove spesso si fatica a trovare personale specializzato”, spiegano gli organizzatori. Per questo, rispetto alle edizioni precedenti, sono state introdotte significative migliorie. Oltre a un maggior numero di ore dedicate alla formazione tecnica, con prove pratiche e un test finale di apprendimento, il corso prevede moduli dedicati a tecniche di vendita, negoziazione e gestione del cliente. Un’attenzione particolare sarà rivolta anche allo sviluppo delle cosiddette “soft skill”, come il marketing di se stessi, la gestione del cambiamento e la capacità di ricevere feedback. Un altro elemento qualificante di questa edizione è il coinvolgimento attivo di Gi Group, che supporterà i partecipanti nella stesura del curriculum vitae e in simulazioni di colloqui con le filiali di riferimento, creando un ponte diretto con il mondo delle imprese. Al termine del percorso, a tutti i partecipanti verrà rilasciato un certificato di partecipazione, un primo, importante passo per lasciarsi alle spalle il passato e “ricominciare da sé”. Monza. Reinserimento dei detenuti, oltre le sbarre c’è “Sintesi 5.0” di Alessandro Salemi Il Giorno, 30 settembre 2025 Oggi cala ufficialmente il sipario su Sintesi 4.0, il progetto di inclusione sociale e lavorativa per i detenuti della casa circondariale di via Sanquirico, prorogato da gennaio. Il futuro porta il nome di Sintesi 5.0, ma per il nuovo programma manca ancora la conferma dei finanziamenti da parte di Regione Lombardia. Gli auspici, però, restano positivi: con l’ok atteso a breve, il reinserimento dei detenuti potrebbe contare su percorsi più mirati e sfaccettati. A fare il punto, settimana scorsa, è stato l’assessore al Welfare di Monza, Egidio Riva, rispondendo a una richiesta di aggiornamento avanzata dai consiglieri comunali Ilaria Guffanti (MonzAttiva e Solidale) e Pier Franco Maffè (Forza Italia). Il progetto, nato in collaborazione con Afol Monza e Brianza, mira a fornire strumenti concreti per la vita oltre le sbarre: formazione, sostegno psicologico, supporto familiare e possibilità di lavoro. Il nuovo capitolo mette sul tavolo 350mila euro, in parte cofinanziati dall’Unione Europea. Una cifra leggermente inferiore al passato - “prima erano 360mila complessivi sui tre anni, con 120mila all’anno”, ha ricordato Riva - ma con una novità rilevante: la durata si allunga a tre anni, garantendo maggiore continuità agli interventi. Per la prima volta nella co-progettazione è stata coinvolta la direzione carceraria. Una scelta che “ha permesso di potenziare il lavoro degli agenti di rete, concentrandosi non solo sul detenuto ma anche sulla sua famiglia e sulla comunità”. Le sei linee di intervento vanno dal sostegno alle persone fragili alla mediazione dei conflitti familiari, fino all’inclusione attiva con percorsi propedeutici al lavoro e all’autonomia abitativa. Due filoni sono invece legati alla giustizia riparativa, in coordinamento con il ministero della Giustizia. Il modello vanta partnership preziose, come quelle con l’Uepe e Confartigianato. Il Comune di Monza lavorerà a stretto contatto con il Consorzio Desio Brianza (CoDeBri) per le fasi di riparazione e reinserimento. Resta, tuttavia, l’incognita delle risorse. “Siamo davanti a un tema strutturale, non a un’emergenza - avverte Riva -. Servono interventi stabili, che vadano oltre i finanziamenti a termine”. Pavia. È in carcere l’orto più bello della città di Roberta Barbi vaticannews.va, 30 settembre 2025 Si piazza al terzo posto del concorso “Orto bello”, indetto dal Comune del capoluogo lombardo, la coltivazione che da un anno allieta la casa circondariale Torre del Gallo, che ha vinto anche il premio socia, dedicato alla fotografia che ha ottenuto i like più numerosi. La direttrice: “Per noi è luogo d’incontro con la bellezza”. Che l’orto cui hanno dato vita appena un anno fa fosse bello e degno di essere valorizzato lo sapevano già, ma che fosse anche “instagrammabile”, per dirla con un neologismo oggi molto in voga, questo no: c’è tutta la soddisfazione di chi sa che si sta facendo un buon lavoro, nelle parole della direttrice dell’istituto di pena di Pavia, Stefania Mussio, che ai media vaticani racconta il segreto del successo di questo progetto, racchiuso tutto nella semplicità: “È un luogo che viene molto curato e che abbiamo desiderato tanto, per questo ha vinto”. L’avventura è iniziata poco più di un anno fa con i lavori di spianamento, bonifica e recinzione dei circa seimila metri quadri di cui si compone: “L’idea è venuta un po’ naturalmente, perché era un peccato vedere quell’area così grande completamente inutilizzata, poi perché il nostro cappellano (don Dario Crotti ndr) è anche un agronomo - racconta ancora - e infine perché l’attività manuale in genere fa bene ai detenuti, l’orto inoltre, con il fatto che si deve attendere la crescita delle piante che poi si possono utilizzare in cucina, ha un grande valore a livello educativo”. A lavorarci a tempo pieno sono cinque ristretti che sono cambiati nel tempo - siamo pur sempre in una casa circondariale - seguiti oltre che dal cappellano, anche da due volontari, un’educatrice e naturalmente la polizia penitenziaria: “Sono persone tra l’altro che hanno un disagio personale forte - spiega la direttrice - e pensarli all’aria aperta a impegnarsi anziché in cella a rimuginare è una bella soddisfazione”. Uno di loro, pensando al proprio tempo passato nell’orto, ha scritto: “Ho baciato la terra, ho guardato il cielo azzurro, ho respirato profumi nuovi, io qui mi sento bene”. Ed è così che a partire dalle prime semine autunnali come fave, spinaci, carciofi e piselli, l’orto ha preso vita senza dimenticare piante puramente ornamentali come le viole: “L’inglese che ha una sola parola per indicare orto e giardino, cioè ‘garden’, ci insegna che questo spazio deve essere non solo funzionale, ma piacevole - prosegue la direttrice - un vero luogo dove incontrare la bellezza che possa essere fruito dall’intera popolazione carceraria, non solo quella ristretta”. Grazie ad alcune associazione come Azione Cattolica che hanno recuperato attrezzi quali zappe, vanghe, rastrelli, carriole e annaffiatoi, l’orto ha preso il via, si è fatto notare e non ha alcuna intenzione di fermarsi: “Stiamo pensando a qualche copertura, poi alla sistemazione di panchine, vogliamo che sia un luogo di incontro e aggregazione”, ribadisce la direttrice. La premiazione del concorso “Orto bello” si è svolta il 21 settembre scorso, ricorrenza dei 35 anni dalla morte del Beato Rosario Livatino, una figura alla quale a Pavia sono particolarmente legati: due anni fa, infatti, durante la sua peregrinatio per l’Italia, una sua reliquia si fermò in questo carcere e davanti a lei venne a pregare uno degli esecutori materiali dell’assassinio del giudice, Paolo Amico, detenuto a Milano, che sta facendo un suo importantissimo personale percorso di rinascita. “Il cappellano mi ha fatto notare questa coincidenza, è una memoria che ci accompagna - conclude Mussio - don Dario usa sempre parole positive, parla di speranza soprattutto in questo Anno Santo, ma in carcere come si potrebbe non parlarne? Se la speranza non c’è è tutto finito, non avrebbe senso neppure il nostro lavoro e il mandato istituzionale che ci è stato affidato”. Brescia. Pace e solidarietà, la voce dei detenuti di Verziano di Barbara Bertocchi Giornale di Brescia, 30 settembre 2025 Consente a chi è dietro le sbarre di raccogliere fondi per aiutare Save The Children a sostenere i bambini di Gaza. Pace è “umiltà”, “ascolto”, “aver accettato i miei errori”. Pace è “dire ho sbagliato, scusa”. “L’abbraccio di mia madre è la pace”. Pensieri semplici, affidati a un cartellone affisso nella palestra di Verziano, esprimono con forza il significato che le detenute e i detenuti attribuiscono a questo concetto quanto mai attuale. “Non ho fatto pace con me stessa e guarda dove sono”, scrive una donna su un foglio in cui spicca l’immagine di un carcere. L’occasione per leggere queste riflessioni è la “colazione solidale” organizzata l’altro ieri nella casa di reclusione di via Flero con l’aiuto di realtà come Carcere e Territorio, Volca, cooperativa sociale Bessimo, Casello 11, Nitor sociale e Alborea. Un’iniziativa che riporta in voga una tradizione interrotta dalla pandemia. E consente a chi è dietro le sbarre di raccogliere fondi per aiutare Save The Children a sostenere i bambini di Gaza e sentirsi parte di una comunità non giudicante facendo due chiacchiere davanti a un caffè. In un’atmosfera, per quanto possibile, informale i pensieri colorano i muri, ma trovano anche voce. Una detenuta osserva che “non abbiamo il potere di fermare la guerra, ma possiamo evitare di farcela tra di noi”. Perché, come fa notare la direttrice Francesca Paola Lucrezi, “ogni azione violenta è un’azione contro la pace”. Una detenuta si inserisce nel discorso facendo emergere l’importanza del dialogo, dell’apertura, dell’ascolto. Tentativi di “cogliere la personalità” di chi ci sta davanti, anziché avere “la presunzione di giudicare dalla copertina. Il rispetto dell’altro è indispensabile. La pace richiede l’umiltà che si è persa. La pace è civiltà, la guerra è barbarie”. Mille sfumature di uno stesso concetto affidate anche ai segnalibri che le detenute donano agli ospiti. E ai fiori di cartapesta che rallegrano la palestra in cui la colazione si svolge. Tanti gli esterni che per due ore ascoltano, assaggiano brioche e pizzette, bevono succo di frutta, scambiano riflessioni, parlano di una quotidianità divisa da un muro. Un detenuto racconta che in carcere è riuscito a diplomarsi e ora è a un passo dalla laurea. Trascorre le giornate studiando, pensando alle sue montagne e fantasticando su cosa farà una volta superato il cancello grigio. Per ricordare che Brescia è per la pace prende la parola il presidente del Consiglio comunale Roberto Rossini. Il fatto che questo tema venga affrontato proprio in carcere agli occhi dei presenti non figura come una contraddizione. Perché, come riflette la nuova garante dei detenuti del Comune di Brescia Arianna Carminati, “la pace non è l’assenza di scontro, ma l’idea che tutti abbiano una possibilità”. La “colazione solidale” diventa così un’opportunità di apertura verso chi ha intrapreso un percorso di cambiamento. Con la consapevolezza che la parola pace significhi anche “inclusione, mancanza di discriminazione”, viene detto. Ai presenti i detenuti donano bulbi di tulipano a patto che li facciano sbocciare, se ne prendano cura e li riportino laddove il messaggio di pace è partito. Ossia dietro le sbarre di un carcere. Sintetizzano bene l’importanza che questo pensiero venga diffuso le parole di un’altra detenuta: “La Terra - dice - è povera d’acqua e d’amore. Mettiamo in tasca i semi e lasciamoli cadere”. Parma. Teatro in carcere, presentazione del nuovo progetto dell’associazione Progetti & Teatro parmadaily.it, 30 settembre 2025 È stato presentato in conferenza stampa lunedì 29 settembre, alle ore 11.00, presso la sede della Fondazione Cariparma a Palazzo Bossi Bocchi, il nuovo progetto dell’associazione Progetti & Teatro aps realizzato in collaborazione con Istituti Penitenziari di Parma - con il contributo di Comune di Parma, Fondazione Cariparma, il sostegno di Chiesi Farmaceutici, e con il patrocinio del Coordinamento Nazionale Teatro Carcere e di ANCT Associazione Nazionale Critici Teatrali, in collaborazione con il Sistema Bibliotecario del Comune di Parma - che andrà a sviluppare e ad ampliare la proposta formativa teatrale portata avanti dagli artisti Carlo Ferrari e Franca Tragni in venti anni di attività all’interno degli Istituti Penitenziari di Parma. Già nel titolo “Liberamente Teatro- un’evasione creativa” si scorge il senso di una iniziativa culturale d’indiscutibile valore sociale, volta a confermare l’importanza del teatro in carcere come strumento terapeutico e pedagogico capace di favorire la crescita psicologica e personale dei partecipanti, oltre che contribuire a una loro più efficace riabilitazione. Il progetto si articolerà in una serie di eventi, tra workshop, spettacoli e incontri, che da settembre 2025 ad aprile 2026, affiancheranno e completeranno, sul piano dell’arricchimento contenutistico e formativo, il già consolidato e attivo laboratorio teatrale guidato da Ferrari e Tragni insieme ai detenuti. Particolarmente significativi in un’ottica pedagogica saranno i workshop intensivi con artisti professionisti, esperti del settore, che guideranno 6 incontri nel corso dei quali verranno indagate le specificità della tecnica teatrale: tra settembre e ottobre nel carcere di Media Sicurezza le attrici Sandra Soncini e Franca Tragni lavoreranno con i detenuti sulla lettura e interpretazione del testo; da novembre a dicembre nella sezione di Alta Sicurezza sarà invece Elisa Cuppini, danzatrice e coreografa, ad occuparsi di movimento, corporeità e teatro fisico, mentre a gennaio/febbraio l’attore e regista Carlo Ferrari condurrà nella sezione di Media Sicurezza il workshop su improvvisazione e azione teatrale. Il programma di “Liberamente Teatro” consentirà, inoltre, di ospitare, presso la sala teatrale dell’Istituto Penitenziario, tre spettacoli a cui i detenuti e il personale interno potranno assistere, fruendo anche di interessanti momenti d’incontro e approfondimento proposti da registi e interpreti (gli artisti ospiti saranno Teatro Necessario, Marco Baliani, Alessandro Mori e Corrado Caruana). Il progetto nella sua organicità avrà, dunque, lo scopo di aiutare chi è in carcere nel processo di reintegro sociale, in uno spirito di cooperazione, crescita e inclusione, ma porterà anche l’attenzione della cittadinanza nel luogo di detenzione, avvicinandola fisicamente a quella realtà attraverso la restituzione al pubblico, a febbraio 2026, di “Edipo re”, esito del laboratorio teatrale con il gruppo di detenuti attori. Troveranno spazio all’interno del progetto anche altri appuntamenti rivolti al pubblico esterno, come la presentazione del libro “Dialoghi” di Antonio Dragone (venerdì 7 novembre, alle ore 18, all’Oratorio Novo della Biblioteca Civica) e una speciale occasione di dibattito e confronto conclusivo, ad aprile 2026, sulle tematiche attinenti il teatro/carcere e più largamente sulle possibilità che le esperienze artistiche partecipate possono aprire, risultando come fondamentali opportunità rieducative e relazionali per i detenuti. “Liberamente Teatro” darà modo di sottolineare e promuovere la forza creativa e resiliente dell’arte, agevolando una visione rinnovata dell’istituto di pena, che ne sappia valorizzare e trasformare le energie e le contraddizioni in senso costruttivo, propositivo e culturale. Qui di seguito alcune dichiarazioni di chi è intervenuto in conferenza stampa: “Ringrazio per la Vostra presenza quest’oggi presso la nostra sede in particolare per le tematiche che il progetto della vostra associazione va ad affrontare: il benessere e la crescita della persona sono al centro dell’attività filantropica di Fondazione Cariparma e pertanto siamo volentieri al vostro fianco per un progetto dedicato ai detenuti del penitenziario di Parma. Da sempre la Fondazione presta molta attenzione al mondo dei detenuti e tanti negli anni sono stati i progetti sostenuti in favore dei reclusi e delle loro famiglie, tra cui mi piace ricordare la realizzazione di una lavanderia all’interno del carcere che permette ai detenuti di accedere ad un riscatto personale e professionale. Credo che il progetto presentato quest’oggi vada ad aggiungere un altro importante tassello in tal senso, ponendo obiettivi che vanno ben al di là dell’esperienza artistica, con risultati importanti per il percorso formativo dei detenuti e per l’importante rapporto penitenziario/comunità che tali iniziative vanno a intessere.” (Franco Magnani, Presidente Fondazione Cariparma) “Un progetto di grande intelligenza, nonché esempio autentico di welfare culturale. Un lavoro eccellente, quello condotto in questi anni da Franca Tragni e Carlo Ferrari all’interno degli istituti penitenziari, che mette in luce una forma di cura dell’anima compiuta attraverso la cultura” (Lorenzo Lavagetto, Assessore alla Cultura del Comune di Parma) “Il tema del welfare culturale è fondamentale all’interno del patto sociale che stiamo ampliando e sviluppando, con iniziative dove la cultura viene intesa come vero e proprio strumento di rinascita. Luoghi quali gli istituti penitenziari rappresentano una città nella città, ed è importante creare ponti fra chi abita fuori e chi vive o lavora dentro quegli spazi. Iniziative come questa del teatro in carcere sono utili a tale scopo, permettono di costruire percorsi di riabilitazione per i detenuti, ma permettono anche di valorizzare l’aspetto sociale” (Ettore Brianti, Assessore al Welfare del Comune di Parma) “Crediamo molto al valore di queste attività teatrali che hanno un forte impatto sulla popolazione detenuta, generano un investimento emotivo ma anche di prospettiva sul futuro. L’esperienza teatrale consente loro di immaginare ciò che vorrebbero essere in quel momento, dà loro modo di improvvisarsi e al tempo stesso garantisce un ponte ideale verso il mondo esterno. Ben venga questo tipo di progettualità che aiuta alla risocializzazione” (Annalisa La Greca, Vicedirettrice dell’Istituto Penitenziario di Parma) “Porto i saluti di Vito Minoia, Presidente del Coordinamento Nazionale Teatro Carcere, e di Giulio Baffi, Presidente di ANCT, e sottolineo con grande piacere uno dei punti di congiunzione fra questo progetto di Parma e il programma della prossima edizione di Destini Incrociati, la rassegna nazionale di Teatro in Carcere, ed è la presenza in entrambe le iniziative di Antonio Dragone con la presentazione del suo bel libro “Dialoghi”, scritto durante l’esperienza di reclusione” (Valeria Ottolenghi, critico teatrale, membro del Direttivo di ANCT e del Coordinamento Teatro Carcere). Giustizia riparativa, un podcast racconta le storie di chi ricuce di Costanza Oliva Avvenire, 30 settembre 2025 Il Festival della Missione di Torino e Avvenire lanciano “Incontri. Strade di giustizia riparativa”, che può essere ascoltato da oggi sulle principali piattaforme di streaming. Quando la violenza spezza una vita, nessuna sentenza basta a colmare il vuoto. La giustizia riparativa nasce da qui: nel coraggio di attraversare il dolore e cercare parole che aprono invece di chiudere. È la via che prova a restituire responsabilità a chi ha ferito e voce a chi porta le ferite. Ed è il filo che tiene insieme Incontri. Strade di giustizia riparativa, il podcast in sei puntate realizzato dal Festival della Missione con Avvenire. La serie sarà presentata oggi pomeriggio nello spazio Urban Lab di Torino alle 17,30, con la vicesindaca Michela Favaro, la giudice Melania Cafiero, Antonella Baffoni, protagonista di una delle puntate, e Alessandro Galassi, co-direttore artistico del Festival della Missione. Si parte dal Bataclan. Un padre che ha perso la figlia e il padre di uno degli attentatori si siedono allo stesso tavolo. Si raccontano e cercano un terreno comune che tenga insieme verità e responsabilità. È l’opposto degli slogan: distinguere per non consegnare l’orrore all’odio. Nell’Italia dei piccoli borghi, l’arrivo di un gruppo di detenuti, accolti nel percorso di recupero della Comunità Papa Giovanni XXIII, porta a cartelli di protesta e ricorsi. Poi, poco a poco, la quotidianità scardina i pregiudizi: i saluti dalle finestre sostituiscono la diffidenza, le chiacchiere per strada e i pranzi condivisi prendono il posto dei sospetti. Le voci successive scoprono ferite intime. Gustavo e Manuela raccontano la violenza entrata nel loro matrimonio: la denuncia, la separazione, il carcere. Poi il percorso di mediazione in comunità, dove ad accogliere sono le parole di don Oreste Benzi: “L’uomo non è il suo errore”. Un messaggio che diventa possibilità di una responsabilità nuova. C’è anche Amel, arrivata dalla Tunisia con addosso anni di botte. Grazie a chi le sta accanto - volontari e operatori - trova lo spazio per scoprirsi altro e trasformare la rabbia in capacità di amare. Antonio Tango, quasi trent’anni in carcere, misura la riparazione nel tentativo ostinato di essere padre, un colloquio dopo l’altro. L’ultima voce è quella di Diane Foley, madre di James, il giornalista americano rapito e decapitato dall’Isis. Nel 2021 ha accettato di sedersi davanti ad Alexanda Kotey, uno dei miliziani coinvolti nella prigionia e nell’uccisione di suo figlio. “Jim lo avrebbe voluto”, spiega: è convinta che suo figlio, curioso delle storie degli altri, avrebbe cercato anche la sua. Kotey le parla delle figlie, le mostra le loro foto, le scrive lettere di scuse. Diane lo ascolta, nella convinzione che “quando ci odiamo l’un l’altro, perdiamo tutti”. Prima di salutarlo per l’ultima volta, gli ha teso la mano in segno di perdono. Incontri, alla fine, ricorda che riparare è un verbo plurale: riguarda chi ha ferito, le vittime, le famiglie, le comunità, le istituzioni. Non promette lieti fini, ma apre possibilità. E in un tempo lacerato da contrapposizioni obbligate, è già molto. Degrado linguistico e rispetto per gli altri di Dacia Maraini Corriere della Sera, 30 settembre 2025 Alla lunga cadiamo nel servilismo linguistico. Gli esempi più vigorosi e deleteri vengono purtroppo dalla politica, dai media, soprattutto dalla radio che è la più vicina al parlato quotidiano. A questo punto mi chiedo: perché ci meravigliamo se poi i nostri figli e nipoti pensano che ci si debba confrontare con gli insulti e la denigrazione dell’avversario, anziché affrontarlo con la ragione, le idee, la logica, il pensiero etico? Il linguaggio parlato può essere inteso come l’espressione dello stato d’animo di un particolare periodo storico? Per chi ha un rapporto di corpo a corpo col linguaggio come succede a me, la cosa è evidente. Prima osservazione: la semplificazione linguistica. Si tende a ridurre e contrarre il discorso, non per renderlo più chiaro ma per disfarsene al più presto e passare ad altro. La fretta consumistica è diventata parte delle comunicazioni cittadine. Ma la ragione ha bisogno di tempo, Non si può ragionare coi telegrammi; che vanno benissimo per annunciare un arrivo, una nascita, ma se si vuole approfondire un discorso, la mutilazione linguistica uccide la ragione. E qui viene da pensare che sia proprio la ragione a essere diventata insopportabile per molti nostri contemporanei. A che serve la ragione che è lenta, complessa, pluriforme? Molto meglio affidarsi al pensiero istintivo, ai sentimenti privati, alle informazioni rapide e immediate che, aggiungo io, sono troppo spesso manipolate. Seconda osservazione: la tendenza a insultare e denigrare l’avversario. Oltretutto con una disperata povertà di immaginazione: vengono usate soprattutto le parole escrementizie, le presunte accuse legate alle convenzioni sessuali, da cui si deduce che le offese più feroci sono quelle che attribuiscono ai maschi caratteri fisici e morali considerati femminili. Terza osservazione: l’ingresso di parole inglesi nel parlato quotidiano. Soprattutto dei tecnocrati i quali, siccome le macchine parlano inglese, si sentono alla pari con la modernità inserendo una parola inglese ogni tre italiane. Ma alla lunga cadiamo nel servilismo linguistico. Gli esempi più vigorosi e deleteri vengono purtroppo dalla politica, dai media, soprattutto dalla radio che è la più vicina al parlato quotidiano. A questo punto mi chiedo: perché ci meravigliamo se poi i nostri figli e nipoti pensano che ci si debba confrontare con gli insulti e la denigrazione dell’avversario, anziché affrontarlo con la ragione, le idee, la logica, il pensiero etico? Inoltre, ricordiamolo, si fa presto a passare dal linguaggio della violenza verbale alla violenza fisica. E la cronaca ce lo ricorda ogni giorno. Il degrado linguistico insomma è lì a dirci che stiamo perdendo il rispetto di noi stessi. E se non rispettiamo noi stessi neanche gli altri ci rispetteranno. Il che vuole dire passare dalla democrazia, la sola a difendere i diritti civili e la separazione dei poteri, alla barbarie della prepotenza politica e culturale e della guerra. Diritto alla salute: il paradosso della “tassa” per stranieri disabili di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 settembre 2025 Un’ordinanza del Tribunale di Milano porta davanti alla Corte Costituzionale il sistema discriminatorio che ostacola l’accesso gratuito alle cure ai più fragili. Una recente ordinanza del Tribunale di Milano, firmata dalla dottoressa Paola Ghinoy, ha il sapore di quelle decisioni che segnano uno spartiacque nella storia del diritto. Non tanto per la sua complessità tecnica, quanto per la cruda verità che mette a nudo: nel nostro Paese esistono persone che, pur essendo regolarmente autorizzate a soggiornare, non usufruiscono dell’assistenza sanitaria gratuita. Sono gli stranieri con disabilità, titolari di permesso per “residenza elettiva”, che dal 2024 devono pagare 2mila euro l’anno per accedere al Servizio Sanitario Nazionale. La cifra non è casuale. È il risultato di una modifica legislativa che ha quintuplicato il contributo minimo richiesto, trasformando quello che era già un ostacolo in una vera e propria barriera invalicabile per chi sopravvive con una pensione di invalidità di poche migliaia di euro l’anno. I protagonisti di questa vicenda sono due uomini, un cittadino egiziano e uno pakistano, entrambi divenuti disabili dopo aver lavorato regolarmente in Italia per anni. Il primo, affetto da sindrome schizoaffettiva e problematiche spinali, aveva lavorato dal 2003 al 2012 prima che la malattia lo rendesse totalmente inabile. Il secondo, pakistano, aveva un permesso per motivi umanitari dal 2009 e aveva lavorato fino al 2022, quando una lesione midollare lo ha reso paraplegico. Entrambi avevano accesso gratuito al Servizio Sanitario Nazionale quando erano abili al lavoro. Entrambi lo hanno perso nel momento in cui ne avevano più bisogno: quando la disabilità li ha resi completamente dipendenti dalle cure mediche. Il meccanismo è diabolico nella sua perfezione: proprio la condizione che rende indispensabili le cure sanitarie è quella che ne impedisce l’accesso gratuito. Come spiega chiaramente l’ordinanza, questi stranieri “non sono stati soggetti all’iscrizione obbligatoria nel 2024 proprio in conseguenza della loro sopravvenuta condizione di disabilità, avendo potuto invece godere dell’iscrizione obbligatoria in precedenza, nel periodo in cui, abili al lavoro, erano titolari di un permesso di soggiorno per lavoro”. L’articolo 34 del Testo Unico sull’Immigrazione disegna una mappa dell’accesso alle cure che sembra seguire una logica precisa, ma che alla prova dei fatti rivela contraddizioni profonde. L’iscrizione obbligatoria e gratuita spetta a chi ha permessi per lavoro, famiglia, protezione internazionale, cure mediche. Il permesso per “residenza elettiva”, invece, relega chi lo possiede nell’area dell’iscrizione volontaria a pagamento. La ratio della distinzione dovrebbe essere chiara: l’iscrizione gratuita per chi ha un legame stabile con l’Italia (lavoratori, familiari) o particolari esigenze di tutela (rifugiati, chi ha bisogno di cure). Ma cosa accade quando il permesso per residenza elettiva viene rilasciato proprio a chi aveva un permesso per lavoro o famiglia e lo ha dovuto convertire a causa della sopravvenuta disabilità? Si crea quello che il Tribunale definisce un “paradosso”: persone che hanno dimostrato il proprio radicamento sul territorio italiano, che hanno contribuito al sistema produttivo e fiscale, vengono private dell’accesso gratuito alle cure proprio quando ne hanno più bisogno. E questo non per una scelta del legislatore consapevole delle conseguenze, ma per l’applicazione meccanica di una norma che non considera le specificità della disabilità. I numeri raccontano storie che le parole faticano a descrivere. Il cittadino egiziano ha un reddito annuo di 18.816 euro, principalmente dalla pensione di invalidità. Per lui, i 2mila euro di contributo rappresentano oltre il 10% del reddito totale. Il cittadino pakistano ha un reddito di 15.936 euro: per lui la percentuale sale al 12,5%. Ma c’è un dettaglio che rende il quadro ancora più amaro. Se questi stessi cittadini fossero italiani, con lo stesso reddito da pensione di invalidità, non pagherebbero nulla per l’accesso al servizio sanitario. L’articolo 63 della legge 833/1978 prevede infatti l’esenzione dal contributo per chi non è tenuto alla presentazione della dichiarazione dei redditi, categoria che include i percettori di sole pensioni di invalidità. La discriminazione, dunque, non è solo tra stranieri regolari e irregolari, o tra stranieri con diversi titoli di soggiorno. È una discriminazione che si stratifica, creando gerarchie di accesso alle cure che hanno come unico discrimine la nazionalità. A parità di condizione economica e sanitaria, il cittadino italiano non paga nulla, lo straniero deve versare un terzo del proprio reddito. L’ordinanza del Tribunale di Milano tocca uno dei nodi più profondi del rapporto tra diritti fondamentali e cittadinanza. L’articolo 32 della Costituzione proclama che la Repubblica “tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo” e “garantisce cure gratuite agli indigenti”. Non parla di cittadini, ma di individui. Non distingue per nazionalità, ma solo per condizione economica. Eppure la legislazione ordinaria ha costruito un sistema in cui l’accesso gratuito alle cure dipende dal colore del passaporto e dal tipo di permesso di soggiorno. Un sistema in cui, come nota amaramente il Tribunale, lo straniero regolare può trovarsi in condizioni peggiori dello straniero irregolare, che almeno ha diritto alle “cure urgenti ed essenziali” di cui all’articolo 35 del TUI. È qui che la discriminazione rivela la sua natura più iniqua: lo straniero senza permesso di soggiorno può accedere gratuitamente al pronto soccorso per un infarto, lo straniero regolare con disabilità deve pagare 2mila euro per una visita oncologica di controllo. L’ordinanza pone alla Corte Costituzionale due questioni alternative. La prima, principale, chiede di dichiarare illegittimo l’articolo 34 comma 1 del TUI nella parte in cui non prevede l’iscrizione obbligatoria per i titolari di permesso per residenza elettiva derivante da conversione di precedente titolo e attribuito per percezione di prestazione di invalidità. La seconda, subordinata, mira all’articolo 34 comma 3, chiedendo di eliminare il contributo minimo fisso di 2mila euro e tornare al sistema proporzionale al reddito effettivo. La decisione del Tribunale di Milano non è isolata. Le associazioni ASGI, APN, NAGA ed Emergency stanno promuovendo cause simili in tutta Italia, costruendo un fronte giudiziario che mira a scardinare una delle discriminazioni più evidenti del nostro ordinamento. La Corte Costituzionale si troverà davanti a una questione che tocca equilibri delicati tra tutela dei diritti fondamentali, sostenibilità economica del sistema sanitario e discrezionalità del legislatore in materia di immigrazione. Ma difficilmente potrà ignorare l’evidenza di una discriminazione che colpisce i più vulnerabili nel momento del maggior bisogno. Il diritto internazionale non è morto. Ma va difeso di Niccolo Nisivoccia Corriere della Sera, 30 settembre 2025 Non c’è dubbio: gli eventi di questi ultimi anni, dei nostri giorni, potrebbero indurre a visioni pessimistiche. Il diritto è finito, morto, superato: lo si ripete da ogni parte, lo pensano in tanti. È lo spirito del tempo: pensare che non esista legge che tenga, che la forza e la violenza siano una necessità, accusare chi pensa il contrario di essere solo un’anima candida - come a dire: è la realtà, bellezza, è inutile sognare. E quindi concepirlo, il diritto, solo in senso autoritario: come se il diritto non fosse a sua volta altro che forza e violenza, come se questa fosse la sua stessa natura - intimidatoria, se non addirittura persecutoria. Non c’è dubbio: gli eventi di questi ultimi anni, dei nostri giorni, potrebbero indurre a visioni di questo genere. Dalla guerra in Ucraina a Gaza, e non solo: non è forse vero che il diritto ne sta uscendo sempre più svilito, quasi umiliato? La giustizia internazionale, in particolare: non è forse vero che tutto ciò che sta accadendo contribuisce drammaticamente a delegittimarla, a farla sentire “sotto attacco” (per rimandare al sottotitolo di un libro di Marcello Flores ed Emanuela Fronza, “Caos”, in uscita da Laterza)? Ma il diritto non è morto: se lo è, lo è solo nell’immaginazione e forse nei desideri, per quanto magari inconfessati, di chi sostiene che lo sia. Secondo il tipico meccanismo della profezia che si autoavvera: spacciare per realtà, per dato incontestabile, la realtà che viene affermata come tale, e ridurre le norme ai fatti, confondendo le une con gli altri. Il punto allora è trovare dei dispositivi di resistenza contro questa “fallacia cinica”, come l’ha definita in un’occasione Roberta De Monticelli: e perché non pensare ad esempio anche alla poesia? Potrebbero valere, anche in relazione al diritto, quelli che Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, nel loro recente “Macchine celibi” (il Mulino), propongono come dispositivi di resistenza più generali, raccogliendo un’indicazione proveniente già da papa Francesco, contro ogni deriva nichilistica: e cioè appunto la poesia e l’agire poetico. Come fonti di uno sguardo nuovo, “capace di andare al di là dei concetti che riconducono l’ignoto al noto, o che afferrano la realtà per dominarla”; come strumenti di costruzione di una realtà diversa rispetto a quella che ci viene fatto credere sia l’unica immaginabile. Perché non pensare, dunque, alla parola poetica come possibile paradigma anche della giustizia? Nella prospettiva di un diritto che, fedele a sé stesso, non rinunci alla propria tensione etica, valoriale, contenutistica e - perché no? - perfino sentimentale. Flotilla verso la zona rossa, l’allarme di 007 israeliani e governo italiano: “Si rischia il morto” di Francesco Grignetti e Ilario Lombardo La Stampa, 30 settembre 2025 Gli attivisti continuano verso Gaza, nonostante gli appelli, nonostante l’annuncio dell’accordo tra Donald Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu, e nonostante la minaccia sempre più concreta che un altro attacco per dissuaderli possa avvenire in queste ore, prima che si avvicinino alla zona rossa militarizzata da Israele. Il punto di contatto lungo il blocco navale imposto da Israele di fronte alla Striscia è previsto tra domani notte e giovedì. Una volta lì, può succedere di tutto. Nelle triangolazioni tra l’intelligence israeliana e gli 007 di alcuni Paesi europei, tra cui l’Italia, emerge il timore che negli abbordaggi ci scappi il morto con effetti disastrosi. Questo è l’incubo dei servizi segreti dello Stato ebraico, rimbalzato da Bruxelles. Troppe le navi che compongono la Flotilla, una cinquantina, molte di più di tutte le altre missioni umanitarie sabotate da Israele in questi anni. In quella parola poi, “abbordaggio”, risuona tutto il terrore di rivivere la tragedia della nave Mavi Marmara, avvenuta nel 2010. Un’altra Freedom Flotilla diretta a Gaza, un altro stop israeliano inascoltato, un altro tentativo di forzare il blocco, un epilogo drammatico con dieci attivisti morti. Il ministro della Difesa Guido Crosetto sa che nel timore espresso da Israele è nascosto un avvertimento, e così è ancora lui ad assumersi la responsabilità di rilanciarlo su Raiuno: “Siamo preoccupati, visto anche l’incidente avvenuto anni fa in quella zona, in cui sono morti dieci turchi. Quello che sto dicendo alle persone sulle barche: non conta la volontà o il sentimento ma i rischi che si possono trovare davanti”. Crosetto naturalmente auspica che non ci siano conseguenze fatali, anche alla luce del fatto che il presidente della Repubblica di Israele Isaac Herzog ha assicurato che l’ordine è di “non usare la forza letale”. Ma questo non basta ad avere la certezza che il peggio verrà scongiurato: “La cosa che mi preoccupa di più è che le imbarcazioni saranno intercettate e il gran numero di navi porta anche il rischio di incidenti”. Anche quel giorno di quindici anni fa i soldati dello Stato ebraico avrebbero dovuto solo affiancare le imbarcazioni della missione umanitaria, e portare a terra gli attivisti. Gli israeliani sono addestrati a non fidarsi e, come riportano fonti diplomatiche, nessuno può dare loro la certezza che a bordo non ci siano armi o malintenzionati. Anche questa è una preoccupazione trasmessa al governo italiano, che lo stesso ministro degli Esteri Antonio Tajani ha implicitamente tradotto ai microfoni di fronte a Palazzo Chigi: “Non sappiamo chi c’è a bordo”. Il governo ammette la propria impotenza e confida nella nave Alpino, della Marina Militare, che ha ricevuto il mandato solo di soccorrere e salvare i passeggeri se finiranno in mare. È però fuorviante la voce che il governo italiano avrebbe dato ordine alla fregata di fermarsi a 100-120 miglia marine da Gaza. Ambienti vicini alla Difesa chiariscono meglio le indiscrezioni: è vero che ci si interroga su quando la nave debba fermarsi. Ma non è a 100-120 miglia. Semmai lì si moltiplicheranno le invocazioni dirette alla Flotilla da parte dell’equipaggio militare, perché ci si starà avvicinando al punto di non ritorno. Il blocco navale è indicato nei documenti ufficiali del governo israeliano: la zona interdetta inizia a 50 miglia nautiche dalla linea delle 12 miglia delle acque territoriali. Acque che secondo molti attivisti e anche molti governi dovrebbero essere considerate di sovranità palestinese, ma anche queste Israele le contesta in mancanza di uno Stato di Palestina. La vera “linea rossa”, insomma, che Israele ha tracciato sul mare, che la si consideri legittima oppure no, scatterebbe a 62 miglia dalla costa. Nel 2010, nella tragedia della Mavi Marmara, gli israeliani abbordarono 5 delle 6 navi della Flotilla a 72 miglia dalla costa. Su quell’abbordaggio ci sono state due commissioni d’inchiesta, una in Israele e una in Turchia, totalmente in disaccordo, e due Report delle Nazioni Unite. Quello che fa fede e che in questi giorni è squadernato sulle scrivanie a Palazzo Chigi, alla Farnesina e alla Difesa, è il cosiddetto Rapporto Palmer, dal nome di un ex premier della Nuova Zelanda che fu chiamato a mettere ordine sull’accaduto. In quel Rapporto è scritto che un “blocco navale” come quello di Israele su Gaza per motivi di sicurezza è legittimo, e che lo Stato ebraico ha il diritto di ispezione in mare, dando con ciò copertura giuridica anche agli abbordaggi. C’erano nel Rapporto Palmer, però, anche due premesse fondamentali: un “blocco navale” si può fare contro le armi, non contro i viveri che vadano a una popolazione civile; nell’esercizio del diritto di ispezione, ovvero negli abbordaggi, è indispensabile un uso proporzionato della forza. La Flotilla a poche miglia dalla zona rossa. Crosetto: “Spero vengano solo arrestati” di Cecilia Perino Il Domani, 30 settembre 2025 Crosetto: “Ci metto la firma se gli attivisti saranno solo arrestati”. Tajani: “Ho chiesto a Israele di garantire la sicurezza degli italiani a bordo”. La nave alpino si fermerà a 100 miglia dalla costa di Gaza. I parlamentari dem Scotto e Corrado: “Come abbiamo sempre detto, al primo alt dell’Idf ci fermiamo”. La proposta: creare un corridoio umanitario permanente. La missione umanitaria non si arresta, ma si moltiplicano gli incontri istituzionali nel tentativo di far deviare la rotta. La Global Sumud Flotilla continua a navigare in acque internazionali, ormai a poche centinaia di miglia dalle coste palestinesi. La flotta dovrebbe arrivare domani nella zona di intercettazione, ossia nella “zona critica”, e giovedì a Gaza. Per questo le prossime quarantotto ore saranno cruciali per determinare il destino della flotta. Secondo gli organizzatori, lo scenario più probabile è l’intercettazione in mare e l’arresto dei partecipanti da parte di Israele. Come era già successo a giugno alla nave Madleen, quando gli attivisti vennero sequestrati e trasportati a terra in stato di fermo. Ma in caso di azioni militari israeliane il governo italiano ha già chiarito che le navi della marina militare italiana non interverranno. La nave Alpino, che sta seguendo la Flotilla per eventuali soccorsi, ha annunciato che interromperà la navigazione, e quindi l’assistenza, tra le 100 e le 120 miglia dalle coste di Gaza. A quel punto, invierà una comunicazione agli equipaggi annunciando lo stop e avvertendo della pericolosità nel proseguire da soli. Missione pacifica - L’eurodeputata dem Annalisa Corrado, a bordo della Karma, una delle imbarcazioni della Global Sumud Flotilla, ha fatto sapere che l’alert della marina non fermerà la navigazione, “come abbiamo sempre detto”. Ma le barche cederanno solo “all’alt di Israele” perché, come ribadito da Arturo Scotto, deputato Pd anche lui imbarcato sulla Karma, “si tratta di una missione pacifica e non violenta”. Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, di Alleanza Verdi e Sinistra, hanno commentato la scelta della fregata militare definendola “incomprensibile e sbagliata”. I due deputati hanno insistito nuovamente sulla necessità che “il governo protegga la missione da qualsiasi tentativo di mettere in atto altre azioni di pirateria internazionale che in tutta evidenza si configurano come violazioni esplicite del diritto internazionale”. E della stessa posizione rimane la Flotilla, che tramite Tony Lapiccirella, tra gli italiani a bordo, ha ribadito che “per la legge internazionale non ci sono rischi. Qualsiasi pericolo è legato alla violenza israeliana a cui i governi permettono ancora di andare oltre la legge internazionale”. Uno degli obiettivi della missione è sempre stato, a proposito, “riaffermare pacificamente il primato del diritto internazionale laddove a prevalere invece sono purtroppo ancora le armi e la violenza”. Lo ricorda Benedetta Scuderi, eurodeputata Avs in viaggio su una delle imbarcazioni della Sumud Flotilla. Scuderi si è rivolta direttamente al Capo di Stato, Sergio Mattarella, per chiedere sostegno nella principale richiesta della missione: l’apertura di un corridoio umanitario sotto il controllo dell’Onu che garantisca l’ingresso costante di aiuti. In ogni caso, del timore di un attacco israeliano alle imbarcazioni, e ciò che questo comporterebbe, aveva già parlato il ministro della difesa, Guido Crosetto, nell’incontro di lunedì con la portavoce italiana della Flotilla, Maria Elena Delia. Crosetto aveva ribadito la linea dell’esecutivo: se la flotta tenterà di forzare il blocco navale israeliano si esporrà a “pericoli elevatissimi e non gestibili”. Un avviso a cui Delia aveva risposto annunciando, ancora una volta, che “la missione va avanti e continua verso Gaza”, perché “noi navighiamo in acque internazionali nella totale legalità. Questa è la nostra responsabilità”. Cosa dice Herzog - Ad alimentare la tensione, anche le recenti dichiarazioni del ministero degli Esteri israeliano, che aveva definito la missione umanitaria “un’iniziativa al servizio di Hamas” e “una provocazione”. Ma nonostante il governo di Tel Aviv abbia più volte affermato che non permetterà alla flotta di giungere a destinazione, il presidente Isaac Herzog ha assicurato all’ambasciatore italiano Luca Ferrari che “l’esercito israeliano non userò la forza letale contro gli attivisti”. Sulla questione è tornato anche il vicepremier Antonio Tajani, dichiarando di aver parlato con il ministro degli Esteri israeliano proprio per chiedere che venga garantita la sicurezza degli italiani a bordo e che non ci siano azioni violente nel caso di un intervento. Il ministro ha suggerito alla flotta di ascoltare il messaggio del presidente della repubblica Mattarella e “non forzare il blocco navale” perché “è pericoloso avvicinarsi a un’area controllata dalla marina militare israeliana”. Preme anche il titolare alla Difesa, Crosetto: “Do per scontato che, se non succede nulla di più, gli attivisti vengano arrestati: questo mi sembra il minimo. Metterei la firma perché succedesse l’arresto senza alcun altro tipo di conseguenza”. Intanto, le istituzioni italiane continuano a sollecitare la Flotilla ad accettare la proposta di mediazione del Patriarcato Latino di Gerusalemme, che prevede lo stop della missione a Cipro e il trasferimento degli aiuti alimentari nella Striscia attraverso il porto di Ashdod in Israele. Un invito già declinato dalla Global Flotilla che, invece, secondo Delia lavorava a una trattativa con la Chiesa per far sì che gli aiuti “arrivino effettivamente alla popolazione di Gaza”. La portavoce italiana ha accusato il governo di essersi “appropriato di un canale che si stava esplorando con il cardinale Pizzaballa, portandolo su strade diverse” e, di fatto, impedendo lo sviluppo del dialogo. Accuse che Tajani smentisce, liquidando la questione come “non importante” perché “ciò che mi interessa è che le cose vadano bene”. Moriranno gli italiani? Psicopolitica e manipolazione nel caso della Flotilla di Marco Inghilleri facebook.com, 30 settembre 2025 La politica estera non si misura soltanto nelle cancellerie, ma nei modi in cui viene raccontata, interpretata, metabolizzata dall’opinione pubblica. La vicenda della Flotilla lo dimostra in modo esemplare. Giorgia Meloni, anticipando possibili sviluppi tragici, costruisce una narrazione che serve a deresponsabilizzarla: se Netanyahu dovesse ordinare l’uccisione degli attivisti italiani, lei potrebbe giustificare l’assenza di una crisi diplomatica con Israele accusando le vittime stesse di imprudenza. Questa strategia manipolativa si articola in tre passaggi prevedibili. Primo: la delegittimazione preventiva, affidata ai giornalisti amici del governo israeliano, i quali descrivono gli attivisti come pazzi o burattini di Hamas. Secondo: la tragedia annunciata, ovvero la morte degli italiani, che diventa coerente con la narrazione precedente. Terzo: la ricomposizione propagandistica, in cui Meloni ribadisce l’alleanza con Netanyahu, addossando la colpa ai morti stessi. In questo schema, ciò che conta non è la verità dei fatti, ma la loro interpretazione (Chomsky, 1997). Il punto centrale non riguarda solo la politica estera, ma la forma del potere. Come ha scritto Byung-Chul Han, non viviamo più nell’era della biopolitica foucaultiana, in cui il potere disciplinava i corpi, bensì in quella della psicopolitica: il potere oggi non costringe, ma seduce; non reprime, ma plasma le menti, rendendo ciascun individuo complice del sistema (Han, 2014). È un potere che produce consenso senza apparire autoritario, proprio perché agisce dall’interno della soggettività. Applicando questo paradigma, la strategia di Meloni diventa leggibile come un’operazione psicopolitica: non è soltanto una questione di equilibri geopolitici, ma di ingegneria del consenso. Gli attivisti, rappresentati come “folli” o “collusi”, non sono più cittadini italiani da difendere, ma figure simboliche da sacrificare per consolidare una narrazione nazionale funzionale all’alleanza con Israele. La loro sorte concreta - la vita o la morte - passa in secondo piano rispetto all’utilità della loro immagine per la costruzione del discorso politico (Debord, 1967). Il nodo, allora, non è chiedersi soltanto “moriranno gli italiani?”, ma “che cosa ci stanno facendo pensare e sentire della loro morte?”. Qui si gioca la battaglia decisiva: quella per la coscienza collettiva, che rischia di essere addomesticata dalla seduzione psicopolitica. Bibliografia essenziale Chomsky, N. (1997). Il potere dei media. Milano: Tropea. Debord, G. (1967). La società dello spettacolo. Parigi: Buchet-Chastel. Foucault, M. (1976). La volontà di sapere. Milano: Feltrinelli. Han, B.-C. (2014). Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere. Roma: Nottetempo. Orsini, A. (2023). Gaza Meloni. Politica estera e complicità nel genocidio. Roma: Feltrinelli. Libia. Riforma carceri e giustizia: Al Sour e Dabdub al lavoro. Sullo sfondo il caso Almasri Il Dubbio, 30 settembre 2025 Il Procuratore generale della Libia, Sadiq al Sour, ha incontrato il nuovo capo della Polizia giudiziaria, Abdel Fattah Dabdub, per affrontare le criticità cruciali relative all’esecuzione delle sentenze e all’amministrazione degli istituti penitenziari. Al centro del colloquio si è posta la necessità di una revisione complessiva del sistema di correzione e riabilitazione, da attuare sia dal punto di vista istituzionale che del personale, in linea con gli standard nazionali e internazionali. Questa riforma sarà coordinata con il Centro di ricerca e formazione penale istituito dalla Procura generale, con l’obiettivo ultimo di rafforzare l’intera filiera della giustizia criminale. Durante la riunione sono state esaminate le osservazioni presentate dal Dipartimento di ispezione della Polizia giudiziaria e dall’Unità di monitoraggio dei casi. Al Sour ha dato disposizioni affinché le questioni sollevate vengano affrontate entro tempi ragionevoli, ma “senza entrare in conflitto con le scadenze processuali previste dalla legge”. L’incontro si inserisce in un più ampio percorso di riforma della Polizia giudiziaria promosso dal premier del Governo di unità nazionale, Abdulhamid Dabaiba. Nei giorni scorsi, Dabaiba aveva chiesto al generale Dabdub di completare l’assunzione del controllo delle carceri di Mitiga e Ain Zara a Tripoli. Queste due strutture sono strategiche per la capitale e sono state a lungo al centro di frizioni istituzionali e di tensioni con la Forza speciale di deterrenza (Al Rada), storicamente influente sul complesso di Mitiga. Il premier ha sottolineato che la riforma dell’agenzia non è una misura temporanea, ma un percorso “costante per affermare la giustizia e consolidare lo Stato di diritto”, con l’obiettivo di correggere le violazioni subite dai detenuti e perseguire i responsabili. Sullo sfondo della riforma, permane l’ombra di Osama Najim al Almasri, ex responsabile della Polizia giudiziaria e figura centrale nella gestione del complesso di Mitiga. Almasri è ricercato dalla Corte penale internazionale (CPI) per presunti crimini di guerra e contro l’umanità, tra cui torture, violenze sessuali e omicidi di detenuti. Non vi sono conferme ufficiali sulla sua presenza a Tripoli, ma secondo fonti locali l’ex capo della prigione si nasconderebbe nel quartiere di Suq al Juma, roccaforte storica della forza Al Rada. Il suo nome è riemerso anche in una recente inchiesta della Procura militare di Tripoli, dopo lo smantellamento di una cellula armata nel quartiere di Hay al Andalus. L’operazione ha visto la morte di due agenti del ministero dell’Interno e tre miliziani, con due arresti. Le indagini preliminari indicano che il gruppo comprendeva ex detenuti e soggetti condannati, incluso un ex membro dello Stato islamico. Uno dei fermati avrebbe dichiarato di appartenere a una “unità” reclutata proprio da Almasri, con il compito di pianificare azioni ostili contro forze governative e alti funzionari della capitale.