Il ministro Nordio vuole mettere i detenuti nei container, ma l’appalto è da rifare di Ilaria Dioguardi vita.it, 2 settembre 2025 Al sovraffollamento degli istituti di pena che supera il 134% il Guardasigilli ha risposto con un piano di edilizia penitenziaria, a partire dai container in otto carceri. Ma il piano appena partito è già in ritardo perché l’appalto è da rifare e i costi, dai 32 milioni di euro inizialmente previsti, sono saliti a 45,6 milioni. Rita Bernardini, presidente di Nessuno tocchi Caino: “Da 22 giorni scandisco la chiusura delle attività parlamentari con lo sciopero della fame. Parlamento e Governo sono andati in ferie lasciando le carceri in una situazione di totale illegalità”. “Si chiudono i Palazzi del potere per un mese e quello degli istituti di pena non sembra un problema urgente. Il Parlamento e il Governo sono andati in ferie lasciando una situazione delle carceri totalmente illegale dal punto di vista del rispetto della Costituzione. Ho deciso di scandire ogni giorno di chiusura delle attività parlamentari con questa iniziativa nonviolenta e di dialogo con tutti, trasversale fra le forze politiche”. Bernardini ha iniziato, dalla mezzanotte del 10 agosto, lo sciopero della fame dichiarando di attendere il rientro dalle vacanze dei parlamentari “per richiamare tutti, in primo luogo me stessa, al senso di responsabilità di fronte ad una pena illegale che toglie dignità sia ai detenuti che a coloro che in carcere ci lavorano”. Il 30 giugno scorso erano 62.728 le persone detenute in Italia, in aumento di 1.248 unità rispetto all’anno precedente, con un sovraffollamento che si attesta al 134,3%. La capienza regolamentare resta di 51.276 posti, e con oltre 4.500 posti indisponibili (dati del Rapporto di metà anno dell’associazione Antigone). I suicidi dall’inizio dell’anno sono 58, secondo il dossier “Morire di carcere” di Ristretti Orizzonti, aggiornato al 28 agosto. Bernardini, con un sovraffollamento che supera il 134% il primo passo sul fronte dell’edilizia penitenziaria è stato quello di aprire un bando per la costruzione di 16 moduli prefabbricati che sarebbero dovuti essere pronti entro la fine dell’anno, per un importo iniziale di 32 milioni di euro. Ulteriori approfondimenti nelle otto carceri coinvolte hanno fatto revocare il bando per un aumento nella stima dei costi, che raggiungono 45,6 milioni di euro: più di 118mila euro per ogni posto nei container. La nuova scadenza per le offerte è il 25 settembre, nel frattempo il sovraffollamento continua ad aggravarsi…. La parola container già mi mette paura. Il sovraffollamento è evidente, visto che si è deciso di costruire dei moduli per i detenuti. Che ci avevano descritto come velocissimi da realizzare, entro la fine dell’anno avremmo dovuto avere altri 384 posti, che già ci costavano un occhio della testa, si parlava di 32 milioni. Poi andando avanti, la cifra è lievitata e siamo arrivati a 45,6 milioni di euro e si parla della fine dei lavori entro la primavera 2026, sempre se ora tutto filerà liscio. Teniamo conto del fatto che, se vogliamo solo parlare di posti e non di condizioni di detenzione, mancano all’appello circa 16mila posti nelle carceri e qui se ne recuperano 384 con dei container. È una soluzione che mi fa ridere. È per la noncuranza nei confronti del tema delle carceri il motivo per cui sto facendo uno sciopero della fame. Sciopero della fame che lei ha iniziato allo scoccare delle vacanze dei parlamentari... Non si può andare in ferie lasciando una situazione delle carceri totalmente illegale. Ho deciso di scandire ogni giorno di chiusura delle attività di Camera e Senato per le ferie estive, con lo sciopero della fame, io ho questo strumento, che ci ha insegnato Marco Pannella, della nonviolenza, non ne ho altri a disposizione. Anche perché la nonviolenza presuppone il dialogo, si parla anche “con il nemico”. Quando l’11 agosto ho cominciato questo sciopero della fame ho detto che l’avrei proseguito fino al rientro dalle ferie dei parlamentari: la Camera riprende le attività il 9 e il Senato il 10 settembre. Poi deciderò se proseguirlo o no, vediamo se starò all’ospedale. Volevo proprio scandire questa che è una irresponsabilità che coinvolge tutto il Parlamento, tutte le forze politiche, l’intero governo. Se accetteranno il dialogo, vorrei che si partisse da un dato di verità, che è quello che si accetta, in un Paese in cui c’è l’obbligatorietà dell’azione penale, che ci sono sistematiche violazioni e trattamenti inumani e degradanti? Possibile che solo noi che visitiamo le carceri ce ne accorgiamo? Il problema è che le carceri sono talmente piene che fra l’altro, fra gli istituti, fanno “da scaricabarile”. Ci spieghi meglio... A causa del sovraffollamento, per sfollare le carceri più piene, si trasferiscono i detenuti in altri istituti senza preoccuparsi se decine di persone andranno a scontare la pena lontani da casa, dagli affetti, interrompono scuole e lavori che magari facevano dentro il carcere. Anche nell’istituto a custodia attenuata per madri con bambini al seguito, a Lauro avevano mandato via le donne presenti con i loro figli, per alcuni mesi, trasferendole tutte al Nord (VITA ne aveva scritto QUI, ndr). Quando abbiamo visitato la sezione femminile del carcere di Venezia, ho incontrato una di quelle donne, di origini nigeriane, con una bambina bellissima, che era molto arrabbiata perché a Lauro, avendo più attenzione per queste donne e i loro figli, lei faceva tante attività, la andavano a prendere per andare in piscina, a danza. A Venezia non faceva nulla, aveva interrotto tutto. Quali potrebbero essere alcune soluzioni? Non si è in grado con l’edilizia penitenziaria di stare dietro al sovraffollamento che genera trattamenti inumani e degradanti. Quindi, bisogna intervenire subito con una misura efficace. Naturalmente, la più idonea fra tutte le misure sarebbe l’amnistia e l’indulto, il Parlamento si è privato di questo strumento nel momento in cui ha deciso che, per avere un tale provvedimento, ci vuole la maggioranza dei due terzi dei parlamentari. Però ci sono altre strade. Noi come Nessuno tocchi Caino abbiamo indicato, con l’onorevole Roberto Giachetti, quella della liberazione anticipata speciale, uno sconto di pena aumentato e retroattivo per i detenuti che si sono comportati bene. Se i detenuti sono di meno negli istituti, è più semplice assicurare a loro i diritti umani fondamentali, perché oggi non sono curati, non sono seguiti. Un agente di Polizia penitenziaria segue tre sezioni, quindi 150-200 persone distribuite su tre piani. Se qualcuno si sente male, che fa? Le celle sono sempre più chiuse fra l’altro. Soprattutto d’estate, le carceri sono ancora di più chiuse al mondo esterno. Ma il Governo ci entra, in carcere? Noi con la nostra associazione abbiamo continuato a fare i laboratori “Spes contra Spem” presso la sezione G8 del carcere di Opera, a Milano. E prima che il Parlamento chiudesse ci sono stati degli incontri molto importanti, in cui abbiamo invitato tutti i rappresentanti delle forze politiche a discutere direttamente con i detenuti. Al laboratorio, nel carcere romano, partecipano sempre Gianni Alemanno e Fabio Falbo, lo “scrivano di Rebibbia”, e altri detenuti che si confrontano con i parlamentari. Negli istituti sono venuti il presidente del Senato Ignazio La Russa e il vice presidente del Consiglio superiore della Magistratura Fabio Pinelli. Ad una delle visite nelle carceri romane, che ho fatto il giorno di Ferragosto, ho invitato (e lui ha accettato di venire), Matteo Salvini. Dal punto di vista delle idee, almeno fino a questo momento, noi e il ministro siamo molto lontani, però gli ho voluto far vedere che cos’è una sezione sovraffollata. Il 12 agosto abbiamo visitato con il ministro Roberto Giachetti il carcere Regina Coeli di Roma, ne sono uscita distrutta dalla situazione che ho visto. Cosa ha visto a Regina Coeli? Abbiamo visto quello che ho definito “l’indicibile”. Subito dopo la visita ho presentato una diffida e l’ho mandata al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria-Dap, Stefano Carmine De Michele, al presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma, Marina Finiti, al procuratore della Repubblica di Roma Francesco Lo Voi. Parliamo di veri e propri maltrattamenti, di violazione costante (possiamo dire perpetua nella settima sezione) di trattamenti inumani e degradanti, di violazione dei diritti umani fondamentali. Mi ha fatto molto piacere che la presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma sia subito intervenuta, è rientrata dalle ferie e ha fatto un’ispezione di otto ore, dando delle precise prescrizioni al Dap. Cosa ci può dire delle condizioni dei detenuti, in particolare a Regina Coeli? Abbiamo segnalato alcuni casi molto preoccupanti, in particolare quello di un ragazzo. Io ho la registrazione del padre che mi ringrazia per essere intervenuti, per avergli salvato la vita (lì veramente è in pericolo la vita di molte persone), era stato già aggredito da altri detenuti e correva il pericolo di essere ammazzato. A Regina Coeli spesso ci sono disordini perché i detenuti vengono tenuti in condizioni disumane. Nella settima sezione ci sono celle piccolissime che potrebbero contenere una persona, invece ci vivono anche in tre. In una cella c’erano tre ragazzi africani, con il letto a castello a tre piani. Uno dei tre aveva buttato per terra il materasso di gommapiuma, per respirare un po’ a causa del caldo l’aveva messo sotto la finestra. Quando siamo entrati abbiamo sentito una puzza incredibile e abbiamo visto che il bagno, naturalmente senza porta, era un buco per terra, non c’era più il water e lo scarico era otturato. Non si può far vivere le persone in quelle condizioni, ce ne sono con problemi seri di tossicodipendenza, comportamentali, e anche psichiatrici. Lavorare o tornare a spacciare. Il bivio di Mirko oltre le sbarre di Diana Ligorio Il Domani, 2 settembre 2025 Romano, 21 anni, è detenuto nel carcere minorile di Casal del Marmo. “In carcere non ti tutela nessuno - dice - Si litiga per qualsiasi motivo, ma non ti puoi ammazzare ogni giorno”. Intanto non riesce a immaginare la sua vita quando uscirà: si metterà a lavorare o tornerà a spacciare? “Fra tre giorni sono quattro mesi che sto carcerato”. Li conta i giorni, Mirko. Ma il tempo in carcere gli scivola via veloce: il corso di ex-art, il laboratorio di rap, gli incontri con l’educatrice. “Mai fatte tutte ‘ste cose”. Mirko striscia l’indice sotto il naso e mette subito in chiaro una cosa: tra un’ora e mezza ha il colloquio con la famiglia e non se lo può perdere per nessuna ragione. Vengono a trovarlo la mamma e la sorella. Gli porteranno il pacco. Mirko ha 21 anni. Dentro deve farsi 12 mesi. È la sua prima volta in carcere. Per questo, nonostante fosse maggiorenne, le autorità hanno preferito per lui una detenzione nel minorile. Nel carcere per adulti sarebbe stato un numero e si sarebbe confrontato con altre esperienze di vita e di reato. Prima dell’arresto, Mirko è stato in casa famiglia e in comunità, ma a questa preferisce il carcere: “Dalla comunità riesci a scappare e poi ti danno le sigarette contate”. Mirko confessa una cosa inaspettata: non voleva avere la possibilità di evadere: “Mi serviva uno stop”. Le circostanze del reato - “Del fuori mi manca tutto. Il bagno mio, il letto mio. E il cibo. Qua ci danno da mangiare la monnezza”. A Natale Mirko ha avuto il permesso per pranzare a casa di sua madre. Ha mangiato tutto quello di cui è stato capace. Era una fame strana, quella, impossibile da saziare. Ha sperato che il cibo di mamma entrasse in una scatola di ricordi da attivare quando sarebbe poi tornato alla mensa dell’istituto. Per dare con la mente un sapore alla pasta al sugo e alle cotolette, coprirle di ricordi, metterci una casa intorno. “Il vitto del carcere è sempre freddo, gelato”. Chissà come sarebbe se, una volta ogni tanto, uno chef venisse in carcere a cucinare per questi ragazzi. Dal gusto, da come un cibo si presenta, dai colori nel piatto passa un nutrimento che racconta la cura, evoca una memoria, sancisce una condizione. Un cibo freddo parla di distanza, disinteresse, assenza. Le parole tra i ragazzi in cella invece sono calde e difficili da digerire per chi le ascolta: “Tra noi parliamo del reato che c’hai, tra quanto esci, scalamenti, permessi. Ci chiediamo perché l’hai fatto”. Mirko ha un’idea precisa sulle motivazioni che portano a compiere un reato: “C’è chi ha bisogno, chi lo fa perché deve sistemarsi la famiglia, chi sta per strada e lo deve fare per forza”. Mi racconta di ragazzi vissuti senza madre o senza padre, abbandonati dalla famiglia, cresciuti in quartieri dove devi imparare a cavartela da solo. “Le circostanze sono tante”, dice. Le circostanze. Una parola che spunta inattesa nella lingua usata da Mirko. La parola “circostanze” disegna un cerchio di possibilità in cui si può essere inclusi o da cui si può essere estromessi. Allude a uno spazio sociale e politico che si allarga intorno al ragazzo detenuto e dentro quel cerchio ci finisce tutto. Ci finiamo tutti. Educazione carceraria - “A che mi serve stare qua dentro? A capire l’importanza della famiglia”, risponde Mirko guardandosi i pollici che girano su se stessi. È sulle spalle della famiglia, infatti, quando lo stato non fa il suo, che pesa la riuscita o il fallimento di un figlio e il suo destino. Le parole di Mirko disegnano quelle foto famiglia con le espressioni fisse di genitori e figli e in quegli sguardi immobili nel tempo ci passa tutta la vita, anche quella che deve ancora venire. “E soprattutto - continua Mirko - ho capito che se devo tornare carcerato, d’ora in poi ne deve valere la pena”. Poggia i gomiti sul tavolo per spiegare il suo ragionamento: “Sono disposto a farmi anche dieci anni di galera, ma quando esco c’ho qualcosa da parte. Ora fuori da qui non c’ho niente”. Mirko sa che ad aspettarlo ci sarà una situazione identica a quella che ha lasciato, se non peggiore. Ma lui nel frattempo sarà cambiato? E quel cambiamento sarà più forte delle circostanze? “Quando esco, non vado a fa’ il fanciullo. Può darsi che me rimetto a spaccià o che vado a lavorà”. In passato Mirko ha fatto il magazziniere, dalle 6 di mattina alle 5 del pomeriggio, ma non ha retto più di 15 giorni: “Mi rode andare a lavorare per 1.100 al mese”. Quei soldi, con lo spaccio, Mirko li guadagnava in un giorno e mezzo. Vita da spacciatore - Mirko viene da una periferia romana, nota per il traffico di sostanze stupefacenti. “Prima stavo notte e giorno in piazza, ora non potrò più. Stiamo tutti divisi: chi si è sparato, chi ha litigato”. Quando inizia a spacciare, Mirko si fa il motorino, va in giro vestito bene: “Mi piaceva farmi vedere dalle pischelle tutto firmato, fare il coatto”. Ma ora, se ritornerà a fare quella vita, si muoverà sotto traccia: “Piuttosto esco con le scarpe bucate”. Più volte sua madre lo ha buttato fuori casa: “Lei da me non si prende un euro, anche se è in difficoltà”. La madre di Mirko fa le pulizie in tre uffici tutte le mattine e poi i pomeriggi continua in ospedale. “È da una vita che lei si alza alle 3:30 di mattina. Le piace dormire tranquilla che i suoi soldi sono onesti”. Quando spacciava, Mirko si svegliava con le paranoie: “Di notte stavo con l’ansia. Qui in carcere dormo tranquillo. Ma da un mese. Prima non dormivo bene. Stavo chiuso in cella. Il tempo non passava mai”. Convivere tra risse e invidie - Appena entrato in carcere, Mirko ha cominciato a subire vessazioni da chi era dentro da più tempo. Risse, provocazioni, scontri in cui lui avrebbe spaccato la testa a tutti, ma da cui è uscito sconfitto. Allora ha cercato di isolarsi e di passare quanto più tempo in cella finché non è stato trasferito in un’altra palazzina. “Fuori si litiga per la piazza, il cliente, la zona. Dentro si litiga per qualsiasi motivo”. Soprattutto per invidia. “Magari quello c’ha più di te. Magari la madre gli ha portato il pacco, e a te no. Quindi lui c’ha il pacco e tu no. Io c’ho la tuta e tu non ce l’hai, quello c’ha le scarpe nuove e tu con ce l’hai”. Per Mirko in carcere non esistono amici, non esistono fratelli. Devi solo farti furbo e convivere: “Non ti puoi ammazzare tutti i giorni. Qui dentro non ti tutela nessuno”. Uscito dal cancello dell’istituto, si dimenticherà di tutti. Tranne della sua educatrice. Mirko divide la cella con altri quattro ragazzi: “In cella ho un omicidio. Un tentato omicidio. Una rapina. Un furto. Cose così”. Secondo Mirko, i detenuti dovrebbero essere raggruppati per reato. Chi spaccia con chi spaccia, chi ha ammazzato con chi ha ammazzato. “Solo così ci si può capire”. Secondo Mirko, sono i carcerati a fare il carcere. “E se non funziona è perché siamo troppi. Troppe teste”. Secondo Mirko, il carcere è come la piazza di quartiere. Ha trovato o ricreato la stessa logica di sopravvivenza, di stare al mondo. Eppure, qualcosa si è mosso. Per la prima volta ha capito di saper fare qualcosa con le mani che non fosse chiudere le bustine di droga. Costruire lettere in acciaio. “Come mi immagino la vita a 30 anni? Non so nemmeno che faccio tra mezz’ora”. Quale futuro? - Mirko parla dell’importanza della famiglia. Mirko chiama mamma sua nonna. La madre biologica è una tossicodipendente a cui hanno tolto i figli. La nonna lavora e cresce i suoi figli e i suoi nipoti. Nel 2019 Mirko ha avuto un incidente ed è finito in ospedale. Quando si è svegliato, si è trovato davanti un uomo che non conosceva e che gli ha detto di essere suo padre. Fin da piccolo Mirko ha avuto problemi di attenzione. Lo hanno capito in carcere psicologi ed educatori. Difficile avere attenzione in un’attività o a scuola, se tu stesso non l’hai mai ricevuta. Mirko si è sentito importante per la prima volta quando ha spacciato perché è riuscito in qualcosa. E si è sentito importante quando mi ha vista interessata a lui, quando ho ascoltato la sua storia. Secondo la sua educatrice, Mirko avrebbe tutte le capacità per lavorare se una volta uscito trovasse intorno le giuste circostanze. Lei non ha dubbi: “Se fosse stato seguito, lui qua dentro non ci sarebbe arrivato”. Separazione delle carriere: “sconsigliato” personalizzare il referendum di Valentina Stella Il Dubbio, 2 settembre 2025 La riforma costituzionale della separazione delle carriere potrebbe essere l’unica vera riforma che questo governo riuscirà a varare. Alla premier Giorgia Meloni non resta che puntare su quella della giustizia o meglio dell’ordinamento giudiziario, avendo accantonate al momento quelle del premierato (troppo divisiva e complessa) e quella dell’autonomia differenziata (ridimensionata dalla Corte costituzionale), benché il ministro Roberto Calderoli sia tornato a farsi sentire e a fare pressioni agli alleati con cui avrà un incontro in settimana sul tema. In più occasioni, da ultima il palco di Comunione e liberazione di Rimini, la presidente del Consiglio ha assicurato che la modifica costituzionale si farà e non si lascerà frenare da “giudici politicizzati”. A vedere i sondaggi, sembra che la maggioranza sia destinata a vincere il referendum confermativo, benché la magistratura, almeno apparentemente, nelle dichiarazioni pubbliche dell’Anm, è convinta di rimontare. E i partiti di opposizione non sono ancora veramente scesi in campo. La stagione calda degli scontri e della resa dei conti finale deve ancora cominciare. Eppure c’è già una incognita che secondo gli attori in gioco - politica, magistratura, avvocatura, accademia - potrebbe avere un peso sul risultato finale. In realtà si tratta di una circostanza che viene ricordata spesso nei discorsi dietro le quinte, ma mai pronunciata esplicitamente. Viene quasi sussurrata perché la scaramanzia, da qualsiasi punto di vista la si voglia invocare, ha ancora i suoi effetti e i suoi seguaci in ogni dove. Stiamo parlando di quello che accadde il 4 dicembre 2016 con la riforma costituzionale targata Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, volta a superare il bicameralismo, a ridurre il numero dei parlamentari, a sopprimere il Cnel e a modificare il titolo V della Parte II della Costituzione. L’allora inquilino di Palazzo Chigi venne sconfitto 40 a 60 e si dimise immediatamente. La ragione della disfatta è stata da sempre rintracciata nel fatto che Renzi volle trasformare quel referendum in un voto plebiscitario su se stesso. La campagna elettorale dell’attuale leader di Italia Viva era iniziata in primavera, e nelle rilevazioni demoscopiche, come ricordava una analisi di Youtrend, il vantaggio del Sì era apparso subito netto: “Il 50% degli intervistati si dichiarava intenzionato a votare a favore della riforma, contro un 24% che si dichiarava contrario e un 26% di indecisi. Per molti, un dato scontato: è una riforma fatta per essere comunicata, come si fa a votare contro i tagli ai costi della politica, contro una maggiore efficienza delle istituzioni?”, si disse allora. Poi, qualche mese dopo, Renzi dichiarò per la prima volta che il destino del proprio governo sarebbe coinciso con quello della riforma: fu l’inizio di un crollo verticale nei sondaggi. L’ex premier non se ne curò e continuò con quel messaggio, senza preoccuparsi del fatto che il suo indice di fiducia nei sondaggi si attestava tra il 30 e il 40 per cento. Potrebbe accadere la stessa cosa a Giorgia Meloni? Difficile fare pronostici in questo momento. I numeri dicono che se è vero che la magistratura registra un calo di consensi, resta comunque l’istituzione più apprezzata dopo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ma prima ancora del Parlamento e del governo. E proprio quest’ultimo sta registrando un calo dell’indice di gradimento negli ultimi mesi, come rilevato da diversi sondaggi, a partire da quello di Nando Pagnoncelli. In questa scia è finita anche Giorgia Meloni segnata da un meno 3 per cento. Inoltre sappiamo che più si avvicina il rinnovo di Camera e Senato, che avverrà nel 2027, e più il consenso dei cittadini verso maggioranza ed Esecutivo cala fisiologicamente. E questo potrebbe riverberarsi anche sul referendum costituzionale che dovrebbe tenersi dalla primavera del 2026. Ma a parte le statistiche, che al momento sono lo specchio di una condizione politica volubile, conterà molto anche quello che deciderà di fare, appunto, la premier. Vorrà personalizzare la riforma costituzionale della separazione delle carriere che porta la sua firma e quella del ministro della Giustizia Carlo Nordio? In più occasioni Meloni l’ha rivendicata; tuttavia non ha scelto ancora di personalizzarla. Ciononostante, date le tempistiche su citate e il contesto descritto, sarà difficile che la presidente del Consiglio possa evitare che l’appuntamento alle urne sulla giustizia non si trasformi anche in un referendum su di lei, decisivo per le politiche 2027. Così come sarà complicato che quello stesso voto non si trasformi in un indice di gradimento sulla magistratura. Una eventualità che tutti vorrebbero scongiurare, su tutti i fronti di battaglia perché per tutti sarebbe auspicabile discutere degli aspetti tecnici della riforma - giusto processo, anticorrentismo, giustizia disciplinare - ma molto probabilmente non sarà affatto così. Nordio: “Il magistrato che sbaglia deve cambiare mestiere” di Nino Luca Corriere della Sera, 2 settembre 2025 “In passato anch’io ho fatto qualche errore ma in buona fede”. Il guardasigilli ha assistito alla proiezione del film Portobello di Marco Bellocchio sulla vita di Enzo Tortora: “Dal 2026 in carcere soltanto con una ordinanza di tre giudici”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, si commuove in sala Grande a Lido di Venezia per la proiezione del film Portobello di Marco Bellocchio sulla triste vicenda giudiziaria di Enzo Tortora. “Mi è piaciuto e ho applaudito molto”. Che cosa ha pensato dopo la visione delle prime due puntate di Portobello? “È una fedele ricostruzione di una vicenda estremamente dolorosa che dovrebbe farci riflettere sulla carcerazione preventiva, sul fatto che molte persone entrano in carcere salvo poi essere riconosciute innocenti, che una parte della nostra popolazione carceraria cospicua è in attesa di giudizio, che molte indagini vengono fatte frettolosamente e quando vengono riparati i danni nessuno riparerà il dolore e i costi che sono stati fatti subire”. Poi confida… “Io stesso come magistrato, operando qui a Venezia, sicuramente avrò qualche volta errato mandando in prigione delle persone che poi sono state dichiarate innocenti, perché l’errore giudiziario è fisiologico nella professione del pubblico ministero, però non con l’accanimento, non con il pregiudizio e non con la, vorrei dire, cattiva fede che è stata dimostrata in questo film da parte di alcuni magistrati. Se non è cattiva fede è stata ottusità”. Hanno agito con faciloneria? “Faciloneria è un termine formalmente riduttivo. Ottusità, secondo me, è il termine esatto. Vorrei concludere dicendo che tra un anno entrerà in vigore la riforma che abbiamo voluto noi, che è già legge, ma che entrerà in vigore nell’agosto del 2026, quando la magistratura sarà in pieno organico, per cui si può essere incarcerati soltanto con una ordinanza collegiale, cioè con una ordinanza emessa da tre giudici e non da un solo giudice come adesso. E se questa legge fosse già entrata in vigore, per esempio, anche altri provvedimenti cautelari, anche recenti, non sarebbero venuti”. La giustizia nel film è quella dell’83, quella di oggi è migliorata? “A seguito anche di questo doloroso episodio, il codice di procedura penale è stato cambiato ed è entrato in vigore il codice accusatorio, che però è stato demolito, travisato, integrato e in parte anche imbastardito da tutta una serie di riforme che lo hanno snaturato. Il nostro progetto adesso, dopo la riforma costituzionale e il presumibile referendum, sarà quello di riportare il codice di procedura penale alle sue origini, che sono quelle garantiste, volute da Giuliano Vassalli, tra l’altro eroe della Resistenza, quindi non sospettabile di autoritarismo”. Ma gli errori vanno pagati in prima persona dai magistrati, come nelle altre professioni? “No, è difficile dire che un magistrato possa pagare pecuniariamente per i propri errori, anche perché sono tutti assicurati. Il magistrato che sbaglia perché non conosce le leggi o perché non conosce le carte, che sono i due momenti fondamentali del processo, o perché, ripeto, per ottusità preconcetta, manda in prigione degli innocenti. È inutile pensare che possa pagare con il portafoglio, deve pagare con la carriera, deve cambiare mestiere”. E la politica cambia la Carta: “La Repubblica tutela le vittime di reato” di Valentina Stella Il Dubbio, 2 settembre 2025 Nelle aule di tribunale non vige la legge del taglione e la giustizia si amministra “in nome del popolo italiano” e non delle vittime. “Questa non è giustizia” ha detto comprensibilmente, dal suo punto di vista, la madre del piccolo Tommaso Onofri commentando la scarcerazione di Salvatore Raimondi, l’uomo che, insieme a Mario Alessi, rapì il piccolo la sera del 2 marzo 2006 a Parma. “Usciranno anche gli altri, io resterò all’ergastolo” ha proseguito la donna che quella tragica notte perse suo figlio per sempre. Com’è noto, e come ribadito anche nell’intervista di ieri a La Stampa dalla procuratrice del Piemonte Lucia Musti, il desiderio di “giustizia” delle vittime di reati non combacia con le regole dello Stato di diritto. Nelle aule di tribunale non vige la legge del taglione e la giustizia si amministra “in nome del popolo italiano” e non delle vittime. Le quali però, grazie anche a direttive europee, come la 29/ 2012, e alla normativa interna, come il “codice rosso”, hanno visto ampliare diritti e garanzie. Ma sembra non bastare: oggi sempre più si costruiscono nuove vittime dietro nuovi reati, così rafforzando il paradigma vittimario. Quest’ultimo divide i giuristi ma compatta la politica. Infatti, nonostante una già consolidata “curvatura victim-oriented” - come la definisce il professor avvocato Vittorio Manes - del processo penale, ciò non ha fermato nei mesi precedenti maggioranza ed opposizione unite (con astensione di Ivan Scalfarotto di Italia Viva) dall’approvare il disegno di legge costituzionale di modifica dell’articolo 24 della Costituzione in materia di tutela delle vittime di reato. Il testo, passato lo scorso gennaio al Senato con 149 sì e un solo astenuto, è sbarcato nella commissione Affari costituzionali della Camera il 24 luglio. La proposta si compone di un unico articolo, ai sensi del quale, all’art. 24 Cost., dopo il secondo comma è inserito il seguente: “La Repubblica tutela le vittime di reato”. Occorreranno ora altri tre voti per il placet definitivo. Inizialmente, il primo testo approvato nella commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama prevedeva modifiche all’articolo 111 della Carta Costituzionale. Poi nella commissione Giustizia si sono resi conti che l’inserimento della modifica all’interno dell’articolo 111 ossia quello del giusto processo “avrebbe alterato il rapporto tra il pubblico ministero e la difesa e a nostro avviso sarebbe stato molto pericoloso per gli effetti che avrebbe potuto provocare all’interno del processo”, disse l’azzurro Pierantonio Zanettin. Dopo un ciclo di audizioni si è deciso di inserire la norma non più nell’art. 111 ma nell’art. 24 della Costituzione che, oltre a sancire il diritto di difesa, indica coloro che possono agire in giudizio, ritenendo che fosse la sede più adatta a recepire questa modifica. Come si legge nel dossier elaborato dal centro studi della Camera, “nel corso dell’esame presso il Senato si è optato per una formulazione della disposizione che menzioni esclusivamente la tutela delle vittime del reato, senza riferimento a distinzione tra persona “vittima”, persona “offesa”, persona “danneggiata”. Si è inteso, dunque, anche sulla scorta dell’evoluzione normativa europea, che la prima dicitura, più ampia, sia comprensiva di ulteriori specificazioni”. Si è così profilata “una dimensione della tutela non esclusivamente racchiusa entro il perimetro del processo penale o civile, onde coprire un maggior ventaglio di fattispecie e contenuti”. Vedremo quello che accadrà nei prossimi mesi. Certo, questa non rappresenta una priorità per il legislatore ma considerato che è stata raggiunta l’intesa non si esclude che la modifica costituzionale possa andare definitivamente in porto. “Condanna non può voler dire vendetta, ma i social premiano chi urla il contrario” di Errico Novi Il Dubbio, 2 settembre 2025 Tullio Padovani è innanzitutto un avvocato. Militante, seppur non “associativo”. È un professore - ed è anche tra i pochissimi avvocati e professori di Diritto penale a essere stati accolti nell’Accademia dei Lincei - ma non ha alcunché di quella sindrome accademica di cui a volte soffrono gli studiosi. Al punto da essere impietoso nei giudizi: “Le turpitudini, la cultura sanguinaria sul carcere e sul processo sono inestirpabili. Anzi sono destinate ad aggravarsi”. Lo spunto viene dal recente ritorno in libertà di Salvatore Raimondi, uno dei tre responsabili della morte di Tommaso Onofri, per tutti, e per sempre, il piccolo Tommy: Raimondi ha finito di scontare la condanna a 20 anni, grazie ai benefici di cui ha goduto ma, soprattutto, a una pena originaria mitigata dall’adesione al rito abbreviato. Un salto all’indietro in una storia orribile e dolorosissima che ha suscitato, nello scorso fine settimana, l’assolutamente dignitosa reazione della madre di Tommy, Paola Pellinghelli: la donna ha ricordato come il proprio “ergastolo” di sofferenza sia “a vita” e, senza inveire contro la scarcerazione definitiva di Raimondi, ha negato ogni possibile “perdono”. Ma c’è chi, come il vicepremier Matteo Salvini, non ha perso l’occasione per esclamare “questa non è giustizia”. E anche se il brusio della politica non è andato oltre il commento del leader leghista, resta la conferma che la cultura della pena in Italia è molto claudicante, vero professor Padovani? Non esiste alcuna cultura della pena in ampi settori dell’opinione pubblica. Non mi riferisco al dignitosissimo contegno dei familiari della vittima, della madre di Tommy che ha tutto il diritto di esprimere il proprio strazio e anche il disappunto per il ritorno in libertà di chi è corresponsabile della morte di suo figlio. Mi riferisco a quanto avviene in generale ogni volta in cui si assiste a un ritorno in libertà, a un permesso premio per chi sconta condanne relative a un terribile delitto. Si scatenano puntuali l’odio, l’incultura, senza alcuna continenza, moderazione, discernimento. Si scatenano sui social. Una turpitudine che è impossibile fermare. Ma la politica forse sottovaluta che assecondare tanta ferocia poi le si ritorce contro, nel momento in cui le persone inveiscono su un politico indagato e presunto innocente... Sì, ma non vedo come un paradigma del genere possa cambiare. Si approfitta della sventura giudiziaria altrui e si solidarizza, magari con annesso attacco ai giudici, quando la sventura giudiziaria riguarda chi milita nello stesso partito. Il fenomeno della giustizia travisata in vendetta c’è, è sempre esistito. Ora è esploso, certo, in una forma incontrollabile. È peggiorata addirittura, la cultura costituzionale degli italiani, la consapevolezza di quella funzione della pena magistralmente descritta in un’intervista alla Stampa dalla pg di Torino Lucia Musti? Allora, premessa: ho letto l’intervista alla procuratrice Musti e l’ho trovata esemplare. È correttissimo il richiamo a norme sull’esecuzione penale coerenti a loro volta con principi fissati dalla Costituzione. Ho trovato non burocratico ma valoriale il discorso della dottoressa Musti. Ciò detto, il fenomeno opposto, quell’idea opposta di pena da legge del taglione è esplosa, come dicevo, per via dei social. Noi abbiamo sempre avuto, nelle nostre società, una quota tutt’altro che trascurabile di squilibrati, di persone orientate a sfogare nell’odio e nella sete di vendetta pulsioni patologiche. Solo che prima stavano nei bar e nelle osterie. Ora quell’onda di violenza e livore dilaga attraverso il computer. Arriva ovunque. Si moltiplica. E non mi convincerete mai dell’impossibilità oggettiva di controllare i social. A chi la si vuole dare a bere? I mezzi per rendere gli odiatori in rete responsabili esattamente al pari di chi scrive su un giornale esistono eccome. Bisognerebbe individuare o rendere individuabile chiunque sfoghi in quel modo la propria patologica sete di vendetta. Ma dubito che la valanga possa essere arginata, ormai. Di certo la classe dirigente della prima Repubblica assecondava assai meno queste pulsioni... Erano altri i tempi, non esisteva internet, anche se il livore, l’odio, la violenza verbale trovavano eccome il modo di esprimersi. Lei è troppo giovane per ricordarsi del Borghese e di Gianna Preda, che accompagnava le foto del democristiano di turno sorpreso a infilarsi le dita nel naso con articoli ferocissimi. La durezza dell’espressione, l’attacco indiscriminato non sono un frutto della modernità. Solo che in passato si poteva essere chiamati a risponderne. Giovannino Guareschi fu citato per diffamazione da De Gasperi. Prese un anno di carcere senza condizionale, non impugnò la sentenza e tra il ‘ 54 e il ‘ 55 se ne stette un anno dietro le sbarre, e diede tra l’altro un esempio di coerenza oggi impensabile. A proposito delle vittime: lei giustamente ricordava come il loro dolore e le loro parole non possano essere confuse col resto: la giustizia riparativa può offrire un contributo per ricomporre le ferite aperte da delitti così atroci? In casa mia la giustizia riparativa non si nomina neppure. È una presa in giro. Possono darla a bere ad altri, non al sottoscritto. È un inganno con cui si cerca di nascondere la vergogna della nostra esecuzione penale e delle nostre carceri, soprattutto. Che sono un altro riflesso dell’inciviltà di cui sopra. Andrebbero chiuse. Se si scopre che in una casa di riposo gli anziani vengono tenuti in modo non conforme alle norme sulla salute, alla dignità, cosa fanno le forze dell’ordine? Chiudono la casa di riposo. Stessa cosa dovrebbe avvenire per le carceri: chiuse perché inadeguate ad assicurare un’esecuzione della pena rispettosa della legalità, semplicemente della legalità. Impossibile non sottoscrivere... Visto che non m’illudo sul miglioramento delle strutture, bisognerebbe rassegnarsi all’idea che il nostro sistema penitenziario è compatibile con la permanenza di ventimila reclusi, venticinquemila al massimo. Individuati per l’enorme gravità dei reati o per la assoluta pericolosità sociale. Gli altri non dovrebbero stare in carcere. La pg Musti è un esempio del ruolo culturale che giustifica, assai più degli accordi sulle nomine al Csm, l’esistenza dell’Associazione magistrati? Aspetti un attimo. Ribadisco che trovo esemplari le parole della procuratrice. Ma non credo si possa farne derivare una legittimazione ontologica dell’Anm. Certo, per carità: l’Associazione magistrati e le stesse correnti nacquero per dare espressione e sintesi a diversi approcci culturali alla giurisdizione, ma si trasformarono molto presto nello snodo per l’esercizio di un potere incontrollato. Ancora oggi insisto nel dire che la nostra è una Repubblica giudiziaria fondata sull’esecuzione penale e che la sovranità appartiene ai pubblici ministeri. Andrebbe riscritto l’articolo 1 della Costituzione. La separazione delle carriere non porrà rimedio a questa gigantesca distorsione della democrazia. E lo dico pur a fronte di esempi preziosi come quello offerto dalla procuratrice generale di Torino. Le misure d’urgenza del Csm per dare una scossa alla giustizia civile. Anticipazione di Ermes Antonucci Il Foglio, 2 settembre 2025 Gli obiettivi del Pnrr sui processi civili appaiono lontani. Mercoledì il Consiglio superiore della magistratura approverà una delibera per aiutare gli uffici giudiziari più in difficoltà, in attuazione del decreto del governo. Ma restano le incertezze. Cagliari, Campobasso, Catanzaro, Firenze, Palermo, Potenza, Reggio Calabria e Taranto: sono queste le sedi di Corte d’appello più in difficoltà nel raggiungimento degli obiettivi del Pnrr sulla giustizia civile. A individuarle è il Consiglio superiore della magistratura nella delibera (visionata in anteprima dal Foglio) che il plenum approverà mercoledì, in attuazione del recente decreto giustizia del governo, che stabilisce interventi d’urgenza per cercare di raggiungere i target in scadenza il 30 giugno 2026. Due gli interventi principali: trasferimenti temporanei di magistrati da altre sedi (fino a 20 per ciascuna Corte d’appello) e applicazione a distanza, da remoto, di 500 toghe ai tribunali più in sofferenza (48 quelli individuati dal Csm). O almeno questa è la speranza. Bisognerà infatti vedere se le toghe risponderanno all’appello. Il target principale concordato con l’Unione europea, cioè la riduzione del 40 per cento entro giugno 2026 della durata media dei procedimenti civili (il cosiddetto “disposition time”) appare al momento fuori portata, se si considera che al 30 giugno scorso si attestava al 20,1 per cento rispetto al 2019. Il secondo obiettivo previsto dal Pnrr è la diminuzione del 90 per cento delle cause civili pendenti al 31 dicembre 2022. Il raggiungimento di questo ultimo obiettivo risulta essere più fattibile, se si considera che a fine giugno la variazione risultava essere del -73,3 per cento per i tribunali e -70,5 per cento per le corti d’appello. Nel complesso però la situazione attuale, così come risulta dalle ultime statistiche fornite dal ministero della Giustizia al Csm, risulta molto negativa. Per quanto riguarda le corti d’appello, il problema non è rappresentato soltanto dalle otto sedi già citate, per le quali - sottolinea il Csm - “appare necessario destinare magistrati che abbiano conseguito almeno la prima valutazione di professionalità”. Complessivamente, infatti, sono soltanto nove (su ventinove) le corti che risultano già aver raggiunto gli obiettivi del Pnrr: Ancona, Bari, Genova, L’Aquila, Milano, Sassari, Trento, Trieste e Venezia. Venti corti d’appello sono invece ancora lontane dagli obiettivi. Otto di queste sono lontanissime. Catanzaro ha visto addirittura aumentare la durata media dei procedimenti civili rispetto al 2019 (+43 per cento), mentre per altre corti la riduzione del 90 per cento delle pendenze appare un miraggio (come Reggio Calabria, ferma a -68 per cento, e Potenza, a -54 per cento). Fatta eccezione per Firenze, che paga la lenta riduzione del disposition time, -26 per cento), le corti d’appello individuate dal Csm come più bisognose d’aiuto sono tutte del sud. Più variegato, almeno sul piano geografico, il panorama dei tribunali. Come detto, sono 48 i tribunali individuati dal Csm a cui applicare fino a 500 magistrati da remoto. Gli uffici per i quali sarà bandito il maggior numero di posti sono Napoli (67 posti), Venezia (66), Lecce (32), Bari (27), Bologna (24), Velletri (23), Genova (21), Cagliari (21), Brescia (20), Firenze (19). Insomma, non sono solo i tribunali del sud Italia a soffrire. Per essere applicati in via straordinaria a distanza, da remoto, ai tribunali, i magistrati potranno presentare domanda entro il 18 settembre. Ancora da definire, invece, le procedure per il trasferimento dei magistrati alle corti d’appello. La speranza del governo è che i magistrati rispondano in maniera numerosa agli interpelli, allettati dagli incentivi previsti dal decreto approvato l’8 agosto: ai magistrati che saranno trasferiti presso le corti d’appello, anche se di prima nomina, sarà attribuita un’indennità mensile “pari all’importo mensile dello stipendio tabellare previsto per il magistrato ordinario con tre anni di anzianità”; ai magistrati (anche fuori ruolo) che saranno applicati da remoto ai tribunali è prevista l’attribuzione di un’indennità, pari a circa 15 mila euro lordi, se al termine dell’applicazione saranno riusciti a definire cinquanta procedimenti civili (una sorta di premio di produzione). Non è affatto detto, però, che questi incentivi funzioneranno, e che quindi una volta individuate le sedi bisognose il Csm riuscirà a portare a compimento il piano previsto dal governo e dal ministro della Giustizia Carlo Nordio. Che ha la grande responsabilità di essersi mosso con ritardo su questo fronte. Non solo. Leggendo la delibera che il Csm si appresta ad approvare, si comprende anche come l’approccio del ministero della Giustizia continui a essere poco lucido. Insieme ai dati riferiti alla situazione degli uffici giudiziari, Via Arenula ha trasmesso al Csm anche un file in cui simula l’applicazione dei 500 magistrati ai tribunali che hanno oltre diecimila fascicoli pendenti. Una simulazione che, nota lo stesso Csm, lascia il tempo che trova: “Tale valutazione, non considera in alcun modo la situazione specifica dei singoli tribunali (come ad esempio quello di Torino nel quale i procedimenti civili durano già solo 396 giorni), ma, soprattutto, non si confronta con il dato normativo che impone di valutare ‘la gravità dello scostamento rispetto al raggiungimento degli obiettivi’ e non il diverso dato delle pendenze civili”. Insomma, al ministero della Giustizia hanno le idee molto confuse. Sicilia. L’avvocato Antonino De Lisi è il nuovo Garante regionale dei detenuti cataniatoday.it, 2 settembre 2025 Il presidente della Regione Siciliana, Renato Schifani, ha nominato Antonino De Lisi, avvocato e attuale presidente della Commissione carceri e diritti civili della Camera penale di Palermo, quale nuovo Garante regionale dei diritti dei detenuti. De Lisi, professionista con una lunga esperienza nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali, ha tra l’altro assunto il ruolo di avvocato di parte civile in alcuni dei procedimenti legati alle vittime della strage aerea di Ustica. La nomina segue le dimissioni di Santi Consolo, che ha lasciato l’incarico per motivi personali. “Desidero ringraziare sentitamente Santi Consolo - dice Schifani - per l’impegno e la dedizione dimostrati nello svolgimento di una funzione tanto delicata. A nome della Regione esprimo a lui gratitudine per il lavoro svolto e i migliori auguri per il futuro. Allo stesso tempo rivolgo i miei auguri di buon lavoro ad Antonino De Lisi, certo che la sua esperienza e sensibilità verso il mondo carcerario saranno preziose per garantire il rispetto dei diritti e la dignità delle persone detenute”. Umbria. Amministrazione penitenziaria, attivato il Provveditorato regionale con sede a Perugia perugiatoday.it, 2 settembre 2025 “Con la pubblicazione di oggi sul Bollettino Ufficiale del Ministero della Giustizia è stato definitivamente attivato il nuovo Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria di Umbria e Marche con sede a Perugia. La costituzione del nuovo Provveditorato è un ulteriore, eloquente cambio di passo rispetto ai sinistri governi che risparmiavano sulla sicurezza, facendo arretrare lo Stato. A breve anche la costituzione del Prap Abruzzo e Molise già previsto per legge e per il quale è in corso l’iter amministrativo che ne decreterà l’operatività. Con il Governo Meloni è definitivamente archiviata l’infausta stagione dei maxi-provveditorati voluti da una sinistra - mani di forbice sulla sicurezza. La sicurezza per noi è investimento per la Nazione, non spesa da sforbiciare”. È quanto dichiara Andrea Delmastro delle Vedove, deputato di Fratelli d’Italia e sottosegretario alla Giustizia. “La stagione dei tagli indiscriminati operati dai governi di sinistra è finita - dichiara il Sottosegretario alla Giustizia con delega ai provveditorati regionali, Andrea Ostellari - La pubblicazione sul Bollettino del Ministero della Giustizia del documento istitutivo del nuovo Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria di Umbria e Marche con sede a Perugia certifica la vittoria del buonsenso e il ritorno della centralità dei territori. Dedico questo risultato agli agenti di Polizia Penitenziaria che in questi anni hanno subito decisioni calate dall’alto e lavorato in condizioni di grave difficoltà e carenza d’organico e di dotazioni. Lo avevamo promesso, lo abbiamo fatto. Il percorso di miglioramento del sistema dell’esecuzione penale continua”. “Abbiamo dato seguito alla nostra iniziativa e oggi il nuovo Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria di Umbria e Marche con sede a Perugia, è realtà. Si tratta di una vittoria storica della Lega e di tutti coloro che in questi anni hanno combattuto per restituire al nostro territorio un presidio fondamentale per una gestione equilibrata e autonoma del sistema carcerario. Dal 2023, con la mozione a prima firma Puletti (Lega) approvata in Consiglio regionale, abbiamo acceso i riflettori su una necessità vitale: riportare a Perugia un punto di riferimento che consentisse di affrontare in maniera più efficace l’emergenza del sovraffollamento penitenziario, problema che tocca tutte le strutture umbre e che rischiava di aggravarsi ulteriormente con l’arrivo di detenuti da altre regioni, in particolare dalla Toscana - afferma il Segretario della Lega Umbria, On. Riccardo Augusto Marchetti - L’attivazione del nuovo Provveditorato è la dimostrazione concreta che la Lega mantiene gli impegni presi. Abbiamo lavorato su tutti i fronti: nelle istituzioni regionali, in Parlamento e sui territori, al fianco degli operatori penitenziari che quotidianamente affrontano condizioni difficili di lavoro e una pressione crescente dovuta al sovraffollamento. Un ringraziamento particolare va al sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, che ha condiviso fin dall’inizio questa battaglia e ha sostenuto con forza la nascita del nuovo Provveditorato. Si chiude finalmente una stagione di accentramento e si apre una fase nuova, che restituisce dignità e strumenti adeguati a un territorio che per anni ha dovuto fare i conti con carenze strutturali e organizzative a causa di scelte assurde della sinistra. La Lega continuerà a battersi sempre per difendere gli agenti della polizia penitenziaria, che ogni giorno lavorano in prima linea dentro le carceri umbre e marchigiane, spesso in condizioni di grave difficoltà, rischiando anche la vita. A loro va il nostro sostegno concreto e il nostro impegno politico, consapevoli di quanto il loro lavoro sia indispensabile per garantire sicurezza e ordine all’interno delle carceri”. “L’uscita odierna del Bollettino ufficiale del ministero della Giustizia segna una data storica: è ufficialmente operativo il nuovo Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria di Umbria e Marche con sede a Perugia. È un traguardo che la Lega ha inseguito con coerenza e determinazione, nella consapevolezza che soltanto riportando a Perugia un centro decisionale autonomo fosse possibile affrontare diverse criticità, tra le quali l’emergenza del sovraffollamento carcerario”. Lo dichiarano i consiglieri regionali Enrico Melasecche (capogruppo Lega Umbria) e Donatella Tesei (Lega Umbria). “Si tratta - spiegano gli esponenti di opposizione - di un presidio che consentirà di gestire con maggiore efficacia i flussi dei detenuti, evitando che nelle nostre carceri vengano trasferiti soggetti da altre regioni, aggravando una situazione già critica per tutte le strutture umbre. Il nuovo Provveditorato non nasce per caso, ma è il frutto di un percorso politico e istituzionale che la Lega ha seguito passo dopo passo, sia in Regione sia a livello parlamentare grazie all’impegno dell’On. Riccardo Augusto Marchetti. Un plauso va rivolto al sottosegretario alla Giustizia Andrea Ostellari, che ha creduto fin dall’inizio in questa battaglia e l’ha accompagnata fino al risultato finale. Con questo atto si chiude la stagione dei maxi-provveditorati voluti dalla sinistra, che hanno penalizzato territori come il nostro. La Lega, in Regione come a livello nazionale, continuerà a impegnarsi per sostenere chi ogni giorno garantisce il funzionamento delle carceri: gli agenti della polizia penitenziaria. Uomini e donne - concludono Melasecche e Tesei - che, in condizioni spesso proibitive, portano avanti un lavoro difficilissimo, mettendo talvolta a rischio anche la loro incolumità. A loro rivolgiamo la nostra riconoscenza e garantiamo che non saranno mai lasciati soli”. Genova. Protesta in carcere, con stoviglie sbattute sulle sbarre genovatoday.it, 2 settembre 2025 La protesta dei detenuti nel carcere di Marassi si è allargata. Partita dal reparto di alta sicurezza da una cinquantina di detenuti, si è ora diffusa in tutto il penitenziario Da sette giorni le gavette vengono sbattute sulle inferriate delle celle. A fornire alcuni aggiornamenti è Fabio Pagani, segretario della Uilpa Polizia Penitenziaria. “Il colloquio di venerdì scorso tra una delegazione di detenuti, comandante e vice direttore non sembra servito a nulla. Pare che le risposte siano state rinviate all’arrivo del direttore, previsto per martedì” spiega il sindacalista, che poi lancia un grido di allarme: “Bisogna evitare un altro 4 giugno, giorno della rivolta, perché la già martoriata polizia penitenziaria non si trovi ad affrontare ulteriori disagi”. La protesta, come detto, è cominciata il 26 agosto da parte dei detenuti ad alta sicurezza e va ormai avanti da una settimana: “Si poteva evitare - sostiene Pagani - a Marassi la gestione della sicurezza è fallimentare e i vertici non sono all’altezza della situazione. Non possono sempre affidarsi al coraggio della polizia penitenziaria. Quanto descritto, oltre a condizioni penitenziarie d’invivibilità che nei soli primi otto mesi del 2025 hanno fra l’altro prodotto 57 suicidi fra i detenuti e 3 fra gli operatori, fa sì che le carceri siano teatro di violenze (2.000 le aggressioni agli agenti nell’anno in corso), risse, stupri, evasioni, traffici illeciti e molto altro ancora. In altre parole, una situazione d’illegalità diffusa tanto da porre in serio dubbio persino la sussistenza dei presupposti giuridici per il loro mantenimento”. Infine le richieste: “Servono immediate misure deflative della densità detentiva, per potenziare gli organici della polizia penitenziaria, ristrutturare gli edifici, garantire gli equipaggiamenti, assicurare l’assistenza sanitaria e psichiatrica e avviare riforme complessive. Il ministro della giustizia, Carlo Nordio, e il governo Meloni ne prendano coscienza, prima che sia davvero troppo tardi”. Rovigo. Sos di avvocati e volontari: “Il carcere è sovraffollato” di Antonio Andreotti e Tommaso Moretto Corriere del Veneto, 2 settembre 2025 Ospita 280 detenuti, capienza di 203. Nuovo padiglione al posto della serra. Anche il carcere nel capoluogo polesano, inaugurato nel 2016 per una capienza da 209 detenuti, è sovraffollato. Ospita 280 detenuti, un’occupazione del 137%. E ora verrà realizzato un padiglione da 80 posti invece di una prevista serra per far produrre ortaggi ai detenuti. Lo hanno reso noto le tre associazioni che ieri mattina hanno visitato il carcere. “Attualmente c’è posto per solo 203 persone perché due celle sono inagibili - ha precisato Elisabetta Zamparutti, tesoriere di Nessuno tocchi Caino - Inoltre, i 120 agenti di polizia penitenziaria impiegati, unico Corpo che ha l’obbligo degli straordinari, sono impiegati ciascuno, in media, per 40 ore in più al mese”. Sugli agenti di custodia Sergio D’elia, presidente di “Nessuno tocchi Caino”, ha precisato che “in pianta organica i posti sarebbero 189 mentre operativi sono appunto 120”. E sul sovraffollamento ha aggiunto: “Siamo preoccupati, è la prima volta”. La sua ultima visita a Rovigo risaliva ad un anno fa. “Rispetto ad altre carceri Rovigo è a cinque stelle ma sta soffrendo perché vengono trasferiti detenuti da altre città” spiega l’avvocato Marco Petternella, presidente della Camera Penale. “Sta succedendo da un paio di mesi” s’inserisce Susanna Carlesso della “Casa di Abraham”. Dalla visita è emerso anche un caso peculiare che coinvolge Poste Italiane. Lo ha spiegato bene Cecilia Tessarin, vice presidente della Camera Penale. Spesso ai detenuti non arriverebbero le notifiche degli atti giudiziari civili perché non c’è un accordo tra le Poste e il carcere su una giornata dedicata alla consegna, come succede in altre carceri. A Rovigo i detenuti verrebbero dichiarati assenti, non potendo presentarsi al cancello a firmare, dove si ferma il postino. Per un’esecuzione immobiliare, un detenuto una volta fuori uscito dal carcere potrebbe per esempio trovarsi senza casa. Sono inoltre stati diffusi i dati sulla nazionalità dei carcerati, 160 su 280 sono stranieri, Romania (32), Marocco (22), Albania (12), Tunisia (9), Nigeria (7), le nazionalità più presenti. Dei 280 detenuti solo 180 hanno una sentenza definitiva, gli altri sono in attesa di giudizio. Rovigo è un carcere concepito per pene al massimo 5 anni. Mentre per far fronte alla criminalità minorile, entro fine anno il carcere ad hoc di Treviso verrà chiuso e sostituito dalla nuova struttura che si sta ultimando a Rovigo. Lo ha spiegato, nei giorni scorsi, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio. Da fonti ministeriali, i numeri del futuro carcere minorile del Triveneto che s’insedierà nel vecchio penitenziario in via Verdi dicono che costerà circa 12 milioni di euro e - a regime - accoglierà 27 utenti, minori (14-18 anni) e giovani adulti (19-25) a seconda delle scelte della magistratura di sorveglianza. Già individuati quattro funzionari pedagogici e un funzionario contabile ed è stata indetta la procedura per la selezione di un comandante delle guardie e di un direttore. Quanto agli agenti di custodia, è già stata chiesta la mobilità per 55 lavoratori. Stando al progetto, quello di Rovigo sarà il primo carcere minorile di nuova concezione, con ampi spazi per attività formative e professionalizzanti. Bisceglie (Bat). “Senza Sbarre”, presentazione del libro dell’ex magistrato Giannicola Sinisi pugliasera.it, 2 settembre 2025 C’erano anche Don Riccardo Agresti e Giannicola Sinisi, con il libro “Una vita senza sbarre” della Cacucci Editore Bari, tra i 150 autori che hanno dato vita alla kermesse letteraria biscegliese di “Libri nel Borgo Antico”. Sabato 30 agosto, il centro storico della città del Dolmen ha ospitato in via Frisari la presentazione libraria curata dall’avvocato biscegliese Giuseppe Losapio, che l’ex magistrato della procura barese ha voluto dedicare al suo amico Don Riccardo, tra i primi preti dell’antimafia pugliese, sacerdote di frontiera con il progetto della Diocesi di Andria “Senza Sbarre”, che il Vescovo Mons. Luigi Mansi ha voluto consegnarli insieme all’altro sacerdote diocesano don Vincenzo Giannelli. Un lungo racconto, avuto inizio nel 2017, quello che si è dipanato di fronte ad un pubblico giunto per l’occasione nell’atrio della biblioteca comunale di via Frisari, malgrado l’inizio si sia protratto rispetto all’orario iniziale, che attraverso storie ed aneddoti, ha consegnato agli spettatori alcuni spaccati di vita dei circa 150 detenuti ospitati nella masseria di San Vittore, alle pendici di Castel del Monte. Storie di riscatto ma anche aneddoti dal sapore amaro, che sono dipananti con questo progetto rieducativo per volontà e con il sostegno economico della Diocesi di Andria e della Caritas italiana. “Professionalmente ho sempre seguito i percorsi pre-carcere -ha sottolineato Giannicola Sinisi, che da due mesi è divenuto dipendente INPS, avendo lasciato per quiescenza la lunga carriera di magistrato della Procura-, ma non le dinamiche delle carceri. E ho scoperto che ci sono pochissimi educatori a fronte di una massa enorme di detenuti. Quindi, se nelle carceri non si fa la rieducazione, dobbiamo trovare una alternativa al carcere. Una risposta la dà la masseria Senza sbarre, ad Andria. E qui un padre ha conosciuto per la prima volta un figlio divenuto 18enne, mentre donne infuriate hanno fatto i conti con mariti che non le hanno più sostenute”. Il libro di Sinisi richiama la figura di Papa Francesco, come ha voluto evidenziare l’avvocato Giuseppe Losapio, pontefice che ebbe sempre una particolare attenzione verso i carcerati, tant’è che uno dei cui primi atti dopo l’elezione fu la visita ai detenuti di un carcere. E allora, perché dare una seconda possibilità? “Perché lo chiedono il buon senso e la Costituzione -ha inteso chiarire Don Riccardo Agresti-. Al centro c’è sempre l’uomo e non serve costruire nuove carceri. Quello che rende più sicura la società è amare: chi ama non ha paura. La rieducazione è stare vicino all’uomo, per capire perché è andato alla deriva. E con la Parola di Dio portiamo pane ai loro cuori affamati d’amore”. E rivolgendosi al suo amico Giannicola Sinisi “Un magistrato che va in pensione e si spende così è un esempio da seguire. E lui sta trattando i ragazzi con un metodo diverso e credo migliore del mio”. Di rimando Sinisi, ha tenuto a commentare un fatto accaduto qualche tempo fa: “Infatti ho perdonato un ragazzo che in comunità nascondeva e utilizzava un telefono. Ma non siamo stati coercitivi, piuttosto lo abbiamo messo nella condizione di restituirlo e perdonarlo a patto che chiedesse scusa a tutti”. Al termine della presentazione, con i ringraziamenti di rito, il moderatore dell’incontro, avvocato Losapio ha poi lanciato uno spunto di carattere più squisitamente politico, vista l’imminenza delle elezioni regionali in Puglia: la Regione Lazio, il 14 agosto scorso, ha approvato il bando “Costruire Futuro 2025”, rivolto ad organizzazioni no profit per interventi volti al miglioramento della vita detentiva e al reinserimento sociale delle persone private della libertà personale. Sulla scorta di tanto, chissà che i prossimi candidati Governatore e Consiglieri regionali non possano prendere un impegno di questo tipo in favore di realtà come quella di Don Riccardo. E continua nei prossimi giorni la presentazione del libro del magistrato Sinisi. Il circolo “Sporting Club” di Trani, accoglierà nella serata di venerdì 12 settembre la vernice letteraria, organizzata dall’Unione Giuristi Cattolici Italiani. Suor Gervasia nell’inferno di Rebibbia di Davide Maloberti ilnuovogiornale.it, 2 settembre 2025 Chi era davvero suor Gervasia Asioli, la “suora postina” di Rebibbia, la “mamma dei detenuti”, come la chiamavano in tanti? A rispondere è il nuovo volume in uscita per Marietti1820 venerdì 5 settembre, “Una suora all’inferno. Lettere dal carcere a suor Gervasia Asioli”, che raccoglie un’eccezionale selezione di lettere scritte da carcerati - pluriomicidi, ex terroristi, boss mafiosi, detenuti comuni - a una religiosa radicalmente diversa da ogni stereotipo. Curato dai giornalisti Gabriele Moroni, inviato de “Il Giorno”, ed Emanuele Roncalli, per lunghi anni caposervizio de “L’Eco di Bergamo”, con prefazione della magistrata e deputata Simonetta Matone, il libro apre uno squarcio inedito sulla spiritualità e sull’umanità reclusa nelle celle italiane tra gli anni Settanta e i primi Duemila. Nelle lettere, spesso strazianti, a volte poetiche o intrise di sarcasmo, emerge il ritratto di una donna capace di vivere il Vangelo accanto ai più dimenticati: non giudicava, non chiedeva cosa avessero fatto. Si preoccupava solo di alleviarne le sofferenze. Centinaia di lettere, dai terroristi degli anni Settanta ai detenuti comuni - Religiosa delle orsoline, insegnante in scuole d’élite, Gervasia lasciò la cattedra per dedicarsi completamente a emarginati, tossicodipendenti, rom e detenuti. Ogni sabato si recava in carcere, spesso in autostop, per portare sigarette, vangeli, parole, abbracci. E riceveva centinaia di lettere: confessioni intime, racconti di disperazione, desideri di riscatto. A volte anche solo uno sfogo. Tra i mittenti figurano nomi che hanno segnato la cronaca giudiziaria e politica italiana: Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, Vincenzo Andraous, Gilberto Cavallini, Domenico Papalia, e molti altri. Ma accanto alle firme note ci sono le voci anonime dei “sepolti vivi” dei braccetti d’isolamento, dei carcerati di Trani, dell’Asinara, di Ariano Irpino. Dalle loro righe emerge un’umanità frantumata, in cerca di redenzione. “Nelle lettere dei detenuti si leggono preghiere, riflessioni su Dio, sulla giustizia, sulla colpa, ma anche poesie, disegni, pensieri sulla vita fuori - spiegano i curatori Moroni e Roncalli -. Questo carteggio è il ritratto di una relazione potente tra chi ha sbagliato e chi non ha mai smesso di guardarli come persone”. Una relazione fondata sulla fiducia e sulla misericordia, come testimonia una delle lettere-testamento di suor Gervasia: “Ringrazio tutti, chiedo perdono e perdono tutti. Viva simpatia e un po’ di umorismo che ci fa toccare e accettare i limiti. Credo che siamo più deficienti che cattivi: Dio ci vuol bene”. La prefazione di Simonetta Matone, magistrato di sorveglianza - Tra i documenti più toccanti, le missive dal 41-bis, le lettere di chi ha partecipato agli scioperi della fame, i racconti dei suicidi in cella, le parole di chi ha perso tutto e trova nella religiosa l’unico appiglio. Fioravanti scrive: “Sicuramente quel ragazzo non conosceva una suora Gervasia”, dopo l’impiccagione di un giovane compagno di detenzione. E ancora: “Ogni alba che spunta è sempre una bella giornata. Anche nella peggiore delle carceri dell’uomo”. La prefazione firmata da Simonetta Matone - magistrata di sorveglianza negli anni Ottanta - offre uno sguardo diretto sulla relazione tra lei e suor Gervasia: “Fu lei a farmi conoscere storie estreme e drammatiche che mi hanno accompagnata per tutta la vita. Era una suora rivoluzionaria. Politicamente scorretta. Cristiana militante”. A 15 anni dalla sua morte, “Una suora all’inferno” restituisce voce e dignità ai detenuti e illumina la figura di una donna capace di vivere fino in fondo le parole evangeliche: “Ero carcerato e mi avete visitato”. Il libro non è solo un documento storico e sociale, ma una testimonianza spirituale viva e scomoda, un invito a guardare oltre le sbarre. Quel “criminale” di mio padre: la rivoluzione di Eugenio Perucatti nel carcere di Santo Stefano salutementale.net, 2 settembre 2025 Nel libro Quel “criminale” di mio padre Antonio Perucatti torna agli anni Cinquanta per ritrarre da vicino il padre Eugenio, chiamato nel 1952 a dirigere l’ergastolo di Santo Stefano, l’isola del non ritorno, simbolo di una pena senza riscatto, dove si entrava per non uscire più. La famiglia - moglie e dieci figli - seguì il nuovo direttore sull’isola: i più grandi continuarono la scuola a Gaeta, mentre Antonio, ancora neonato, crebbe tra pontili e celle, cresciuto con un detenuto-babysitter di nome Pasquale. È da questo sguardo “di casa” che il racconto fa luce su una stagione irripetibile della storia penitenziaria italiana. Prima dell’arrivo di Perucatti, il penitenziario era un luogo di morte civile, fatiscente e segregante: niente acqua corrente, niente elettricità, un’ora d’aria in silenzio e isolamento pressoché assoluto. La svolta fu concreta e “simbolica” insieme. Il nuovo direttore fece installare impianti idraulici ed elettrici, aprì spazi e relazioni, mise i reclusi a lavorare alla manutenzione dell’isola e al restauro degli ambienti. In pochi anni nacquero orti e giardini, una sala musica, una sala conferenze, persino il campo da bocce. Soprattutto, i detenuti costruirono un campo da calcio completo di gradinate e spogliatoi, accanto alla cosiddetta Piazza della Redenzione: un paesaggio comunitario che trasformò l’ergastolo in laboratorio di rieducazione. Il calcio divenne così un linguaggio comune: la squadra dell’isola iniziò a giocare contro squadre esterne e l’esperimento attirò giornalisti e cronisti sportivi. Tra gli episodi più ricordati, l’invito a Nicolò Carosio (uno dei più celebri giornalisti e radiocronisti sportivi italiani) per una radiocronaca dal campo: un segno della curiosità pubblica verso quella direzione “aperta” che avvicinava detenuti e cittadini. Nel frattempo Perucatti promuoveva anche un cinema e una piccola foresteria per le famiglie in visita, consolidando quei legami affettivi che la detenzione tende a spezzare La visione di Perucatti richiama, per certi versi, quella di Philippe Pinel, il medico francese che intorno alla fine del Settecento liberò i malati psichiatrici dalle carceri. Pinel fu interprete di un’idea per cui la follia non era una colpa da reprimere, ma una condizione da comprendere e curare, aprendo la strada a un approccio terapeutico e rieducativo: questo anche se, di fatto, il suo approccio alla cura esitò nella realizzazione di strutture manicomiali. Più significativamente, Eugenio Perucatti comprese che il carcere non poteva rimanere una macchina di esclusione, progettata per annientare chi vi entrava. Con il suo lavoro a Santo Stefano volle restituire ai detenuti la dignità di individui capaci di scelta, di responsabilità e di cambiamento. Se Pinel aveva tolto (per alcuni: sostituito) le catene materiali ai folli, Perucatti tolse le catene sociali e morali ai carcerati, aprendo spazi di lavoro, di sport, di studio, di relazioni familiari. L’azione di Perucatti richiama fortemente l’azione di Basaglia, orientata all’interpretazione quotidiana di principi di liberazione ed emancipazione al fondo della quale si trova il principio per cui la vera civiltà si misura non nel modo in cui si trattano i forti e i liberi, ma in come si accolgono i fragili, gli esclusi e, nel caso delle carceri, i colpevoli. Il libro di Antonio Perucatti tiene quindi insieme memoria familiare e documento civile: pagina dopo pagina, mostra come la visione del padre anticipasse di vent’anni le linee della riforma penitenziaria - e di molti di più le idee della società - mettendo l’art. 27 della Costituzione, entrata in vigore nel 1948, secondo cui le pene non possono mai consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, al centro della vita quotidiana del carcere. Non c’è indulgenza: Perucatti non “assolveva” i reati, ma responsabilizzava le persone, convinto che lavoro, istruzione, pratiche religiose e sport potessero ricucire un’identità smarrita, spezzata. È un approccio oggi riconosciuto come precursore, al punto da essere spesso richiamato nel dibattito sull’ergastolo e sulle misure trattamentali. Quel modello carcerario, apprezzato e visitato da istituzioni e stampa, durò otto anni. Poi qualcosa cambiò, e le idee tanto applaudite del Direttore furono motivo di allontanamento (per tenerla su toni “leggeri”): all’inizio degli anni Sessanta, dopo due evasioni che furono usate come pretesto, Perucatti fu trasferito e Santo Stefano tornò a un regime duro, fino alla chiusura pochi anni dopo. Questo libro è infatti prezioso anche in un altro senso: ricorda quanto sia fragile l’innovazione quando non è sorretta dalla politica. In definitiva, Quel “criminale” di mio padre è una testimonianza sul potere della fiducia: non definire una persona solo per ciò che ha fatto, ma per ciò che fa per riparare. La scrittura non santifica e non assolve: lascia da parte i numeri e i principi astratti e rimette al centro volti, storie, mani che lavorano. È questo forse, più dei risultati infrastrutturali, il lascito più forte di Eugenio Perucatti: l’idea che il carcere possa essere luogo di responsabilità e di riscatto, se lo Stato ha il coraggio di sostenerlo. Un’eredità che oggi il figlio Antonio continua a portare avanti in prima persona, attraverso il volontariato in carcere, per restituire anche lui dignità e ascolto a chi vive la detenzione. Le tante storie di Enzo Tortora: “Portobello” è metatelevisione di Teresa Marchesi Il Domani, 2 settembre 2025 Niente santini o ricatti emotivi: la serie di Bellocchio (con protagonista Fabrizio Gifuni) surclassa tutti. Un viaggio kafkiano in quegli anni tra Settanta e Ottanta che hanno cambiato per sempre faccia all’Italia. “È un mercato pazzerello/ dove trovi questo e quello/ e c’è pure un pappagallo/ col becco giallo”. La sigla era sapientemente targettata sulle intelligenze protozoiche, ma il format di Portobello, già dal suo esordio in bianco e nero in quel 27 maggio 1977 sulla seconda rete Rai, anticipava i palinsesti di tanta televisione a venire. Ma era anche la rivincita dei vinti, la promozione del Terzo Stato. Nel “mercatino del venerdì”, come nel suo omologo londinese, c’era posto per tutto e per tutti. Era il riscatto dall’anonimato per gli inventori bislacchi, i venditori di usato (il “Centralone” era l’archetipo di eBay, Vinted e Etsy), i cercatori di affetti perduti (rubrica “Dove sei?”), i bisognosi di anima gemella (rubrica “Fiori d’arancio”). Era il megafono delle piccole ingiustizie ordinarie. In sei anni, con picchi di 28 milioni di spettatori, il programma diventerà un pantagruelico divoratore di ascolti e il tempio di Enzo Tortora, supporter dei senza potere e ministro di un culto di massa. Con la stessa potenza di fuoco i primi due episodi (su sei) di Portobello, la serie firmata da Marco Bellocchio per HBO Max in arrivo nel 2026, l’assaggio cioè in anteprima a Venezia, hanno surclassato la concorrenza sugli schermi del Lido, oscurando il concorso. Sarà la prima serie originale prodotta in Italia chiamata a inaugurare la piattaforma streaming di Warner Bros. Discovery, in rampa di lancio. Né santino né ricatti emotivi - Dall’eruzione mediatica datata 17 giugno 1983, con le manette a un’icona, il “caso Tortora”, sintesi tragica e spettacolarizzata di malagiustizia e regicidio, non ha mai smesso di scuotere le coscienze. C’era però un solo regista in grado di evitare il santino e il ricatto dei sentimenti, narrando l’iperbolica ascesa e la ghigliottina simbolica, le ossessioni e il rancore che mito e successo alimentano nelle menti puerili, la rivalsa melmosa che contagia anche il sistema giudiziario. Quel regista si chiama Marco Bellocchio, ed è in gara con sé stesso. Il viaggio kafkiano nelle trame oscure dell’affaire Tortora è perfino più appassionante e feroce di Esterno Notte. E riguarda gli stessi anni, tra la fine dei Settanta e i primi Ottanta, che cambiarono faccia all’Italia. Fu Paola Borboni, con le sue novanta primavere festeggiate in tv, la prima ospite che riuscì a “fare l’impresa”, a far parlare cioè il pappagallo-mascotte di Portobello dopo un quinquennio di ostinato mutismo: il rito da batticuore del venerdì sera. Prossimo agli 85 ma molto più in forma, il regista de I pugni in tasca regala al suo pappagallo metaforico (firmano con lui la sceneggiatura lo Stefano Bises di M, Giordana Mari e Peppe Fiore) un’eloquenza da Fidel buonanima dei tempi d’oro. Perché - se sei bravo- non c’ è solo una storia da raccontare. Sono due storie che marciano in parallelo, dietro e davanti al piccolo schermo. Linee rette che si incontrano, contro ogni logica: la televisione dei grandi numeri - come l’universo social di oggi- può ispirare anche tempeste di fango. Due storie parallele e due protagonisti - Portobello è metatelevisione. Il carisma di Fabrizio Gifuni fa da cerniera tra la televisione che ipnotizza (nella sequenza superlativa che fa interagire un mago dilettante con la platea in trance consenziente dei bar, dei sofà da salotto buono e della cucina di casa) e la televisione che fa ragionare (la serialità di Bellocchio, tv d’autore che migliora il cinema). È un blade runner, Gifuni, alla lettera (in inglese significa un’altra cosa). Passando da Alcide De Gasperi a Aldo Moro, da L’amica geniale al borghese che fece sognare sogni propri all’Italia degli umili, si mette a rischio e lo sa. Occorre un gigantesco lavoro di recitazione per ricreare figure che appartengono a tutti. E l’umiltà di rendere quelle figure più memorabili dell’attore. Gifuni però divide equamente la scena con un altro gigante, il Lino Musella che incarna Giovanni Pandico ‘o pazzo, l’accusatore-chiave, il camorrista “dissociato, non pentito” che nel 1982 vuoterà il sacco sulla Nuova Camorra Organizzata. Bellocchio pedina, di carcere in carcere, di cella in cella, lo “scribacchino” frustrato che venera Cutolo e dialoga da mitomane col “nemico” che lo ossessiona. “Figlio di puttana e cornuto”, lo apostrofa, “senza le nostre sofferenze non saresti nessuno”. L’escalation dello show procede in parallelo con l’escalation dell’odio. “Paranoico, schizoide, dotato di personalità aggressiva” secondo la cartella clinica, il Pandico che incastra il conduttore su un semplice sgorbio vergato da altri per la Procura di Napoli è un testimone attendibile. Fresco dell’ultimo omicidio, Pasquale Barra conferma a ruota. “Sì, ci sta pure lui”. Perché il Commendatore - per nomina di Sandro Pertini - è un succulento trofeo da riflettori. Votava liberale, precisa Marco Bellocchio, “non era protetto né da Dc né da Pci, le due grandi chiese di allora, era laico, perciò anche la chiesa diffidava di lui”. Non era simpatico agli intellettuali. Sono due generi cinematografici distinti - film carcerario e fiaba epica di una scalata semi-hollywoodiana al successo - che scandiscono la narrazione e si valorizzano simmetricamente. Due facce dello stesso paese. Chi sta davanti al piccolo schermo non è un’entità amorfa, è altrettanto protagonista: reagisce, ama o odia, invidia o venera. Per quanto magistralmente riprodotti, i frammenti di show con Tortora-Pulcinella e Tortora-Cristoforo Colombo, con le trombe dei bersaglieri e i tenori orfani di teatro, sarebbero meno eloquenti senza il puntuale interfaccia del tifo da casa. Sono persone, attori recitanti, non numeri. Altri - ma non Bellocchio - si sarebbero accontentati delle scritte in sovrimpressione con cui la Rai esaltava le impennate di ascolti. Media e manette - È per questo che acquista peso il voltafaccia di tanti fans sfegatati, materia del secondo episodio. Davanti ai Tiggì con l’Eroe di ieri in disgrazia si scapicollano giù dal carro del vinto. Innocentisti e colpevolisti per atto di fede, come nelle immancabili ‘inchieste volanti’ sulla pubblica via: “Dovrebbe prendere l’Oscar perché ha preso in giro 28 milioni di italiani”. “È facile scampanando retorica fare apparire una vittima come un privilegiato”, scriveva Leonardo Sciascia. Una divinità che precipita è pur sempre uno shock saporito. Trapela anche dagli occhi duri degli agenti che si “prendono cura” del neo-carcerato, spedito in cella con i detenuti comuni, non nel boudoir a cinque stelle che Poggioreale riserva a Raffaele Cutolo (“Il Professore” è Massimiliano Gallo, un cameo di gran classe). Le “zampate” bellocchiane impepano il giusto. Il pullmino di mamma Rai in agguato per intercettare Tortora in manette resta a lungo nell’inquadratura. Le genuflessioni dei sicari devoti davanti alla statua della Madonna a Poggioreale sono dettagli DOC. I camorristi brindano al terremoto dell’Irpinia: un regalo di stato da 50mila miliardi. E Tortora non è un santo martire da pala d’altare: il regista lo fa sniffare con discrezione. Barbora Bobulova, Massimiliano Rossi, Fausto Russo Alesi, Piergiorgio Bellocchio, tra gli altri, arpeggiano da solisti affiatati. Il grande cinema, in fondo, è musica che si guarda. Anna Negri: “Mio padre e gli Anni di piombo. In Italia la censura resta forte” di Hakim Zejjari Il Domani, 2 settembre 2025 Nel suo documentario “Toni, mio padre”, presentato a Venezia, la regista racconta Toni Negri, ideologo di Autonomia operaia. “È nel vedere le ragioni di tutti che si può uscire dal tunnel dove sono stati buttati gli anni Settanta”. Con “Toni, mio padre”, in anteprima alla Mostra del cinema di Venezia nella sezione Giornate degli autori, la regista Anna Negri fa un viaggio nella sua infanzia dolorosa e nella memoria collettiva e ci rende testimoni di un’appassionante faccia a faccia tra un’eterna figlia e un padre più che ingombrante: Toni Negri, il controverso filosofo, politico e leader di Autonomia operaia, incarcerato e poi assolto con l’accusa di terrorismo. Vincitore del premio Solinas 2021 per lo sviluppo di documentari, il film è un diario intimo impregnato di rabbia e di amore di un’autrice che mette a confronto, senza vittimismi, né glorificazioni, due generazioni prese in ostaggio dalla complessità della storia. Prossimamente in sala con Wanted cinema. Ha esitato molto prima di affrontare suo padre attraverso un film? È scattato tutto in seguito alla morte di mio zio che aveva una decina d’anni più di mio padre. Era un partigiano e ho veramente rimpianto di non aver raccolto i suoi racconti favolosi sulla resistenza. Poi mio padre mi ha annunciato che qualcuno voleva fare un film su di lui e mi sono detta: “No! Lo devo fare assolutamente io”. Era il 2020 in pieno lockdown ed è stato bello potergli parlare un’ora a settimana. Ero come sempre tormentata: da una parte volevo fare il film, dall’altra avevo paura di espormi. Per dieci anni ho cercato di adattare al cinema il mio libro autobiografico Con un piede impigliato nella Storia, ma mi sono resa conto che c’è ancora una vera censura in Italia riguardo ai cosiddetti anni di piombo, così mi sono detta che forse il modo migliore e libero per raccontare mio padre in tutte le sue sfaccettature era quello di girare un documentario artigianale e completamente indipendente. In che senso c’è una censura riguardo a quegli anni? È vero che nei film o nelle serie italiane recenti gli anni Settanta sono spesso rappresentati in modo patinato, quasi “carnevalesco”… Sì, tra l’altro alcuni di questi film sono stati realizzati da persone che non hanno mai vissuto quegli anni. Credo che non ci si mai stata una vera e propria rivisitazione storica neutrale. È rimasto tutto un po’ sulle spalle di chi in un modo o nell’altro li ha vissuti sulla propria pelle. Che effetto le fa vedere le rivisitazioni “pop” di quegli anni al cinema e in tv? Un po’ mi fa ridere, è una riscrittura che banalizza. Per me era importante, anche come figlia, riuscire a capire che cosa aveva spinto i miei genitori, e in particolare mio padre, a fare le cose che avevano fatto. E la domanda che mi sono fatta per anni è: “Com’è che non vi siete accorti che il mondo stava per crollarvi addosso? Avevate tutti gli strumenti per capirlo: capacità di analisi politica, sociale, storica…”. Una cecità dovuta alla passione ideologica? Sì, ma non poteva essere solo questo. Una risposta me l’ha data Nanni Balestrini (poeta, scrittore e saggista della neo avanguardia): “Eravamo talmente occupati dal ‘qui e ora’ degli eventi che non avevamo il tempo di fare un passo indietro per fare la grande analisi”. Un film così intimo acquista una dimensione collettiva? Sì, tantissimo. Durante il montaggio che è durato un anno lo abbiamo fatto vedere a varie persone, anche molto distanti dalla mia storia, che si sono connesse con questo film. In fondo il tema del confronto genitore-figlia è universale, e credo che molti si identificano con l’urgenza di un chiarimento tra padre e figlia prima che sia troppo tardi. È stato difficile mettersi in scena nel film? Presumo che non sia facile esporre le proprie fragilità… All’inizio provavo molta vergogna nel mettermi in mostra, soprattutto in alcuni momenti molto personali, poi la montatrice Ilaria Fraioli mi ha fatto capire che quelle riprese erano importanti per costruire un racconto in cui io e mio padre diventiamo due protagonisti di un romanzo storico familiare. Da lì ho capito il distacco di autori come Woody Allen: quella sullo schermo non ero io, era un personaggio e ho iniziato a guardarmi al montaggio come se fossi un’attrice. In un momento nel film mio padre dice: “Ci sono certi filosofi che si credono Dio e guardano il mondo dal di fuori”. Ecco, io non mi vedo come uno di quei registi distanti che giudicano dall’alto e manipolano i loro soggetti, se volevo raccontare l’intimità con mio padre, dovevo mettermi in gioco. Di che cosa è colpevole suo padre? A un certo punto del film dice: “Sapevamo che stavamo per essere sconfitti, ma non abbiamo voluto vedere la sconfitta”. Forse la sua colpa è, citando Gramsci, il pessimismo della ragione contrapposto all’ottimismo della volontà. E da figlia, di che cosa è stato colpevole suo padre? È complicato… non posso dire che non mi abbia amato, perché non è vero. È colpevole perché è stato messo in galera. Forse la cosa che gli rimprovero di più era di aver pensato che ero più forte di quanto non lo fossi, cioè di essere più simile a lui in termini di resilienza. Essere forte, era un obbligo familiare. Quanto è stato complicato crescere all’ombra di una figura ingombrante come suo padre? Il mio film non è “io e mio padre” ma racconta il senso di sfalsamento che puoi avere quando sei una ragazzina che ha bisogno di essere accudita e che invece deve confrontarsi con la grande Storia. Non ti puoi lamentare con i tuoi genitori se uno è in carcere e l’altro va a trovarlo, non è cattiveria da parte loro, è così, è la grande Storia che entra prepotentemente nella tua vita. L’ideologia ha bisogno di semplificazioni, io invece ho tentato di portare avanti più livelli narrativi nel film. C’è una scena in cui mio padre inizia a pensare alla struttura del film e si rende conto della complessità di questo affresco familiare... Non si può raccontare solo lui o me, perché in fondo siamo come personaggi simbolici all’interno di un arazzo intricato. È nella stratificazione delle cose, nel fare ragionamenti complessi, nel vedere le ragioni di tutti che si può uscire dal tunnel dove sono stati buttati gli anni Settanta, semplificati con il termine “anni di piombo”. La sua storia personale l’ha resa apolitica? Sono ovviamente molto sensibile alle ingiustizie, al sociale, alle questioni di genere, ma non ho mai fatto politica. Mi sono protetta scappando dall’Italia alla fine degli anni Ottanta per trovare me stessa. In Italia non siamo riusciti, come in altri paesi, per esempio la Germania, a integrare la parte buona, creativa degli anni Settanta. E questo ha portato poi anche a un distacco dalla politica di tantissime persone. Negli anni è andato perso un patrimonio politico ma anche culturale, umano e credo che sia stato voluto. Ricordo che da ragazza, cresciuta da sola coi miei fratelli a Milano, c’era in contemporanea alla repressione dello stato, l’introduzione massiccia di eroina, venduta quasi gratis per sedare le classi più povere. È stata una vera e propria epidemia che ha colpito tutti i ceti sociali. Con l’eroina sono arrivate anche le tv private che trasmettevano porno. Questa volontà di lobotomizzare le masse ha creato un danno sociale enorme. La sua passione per il cinema invece come e quando nasce? Era una via di fuga? È dall’età di dodici anni che voglio fare la regista, poi quando mi sono trovata da sola a 14, con la famiglia dissolta, andavo al cinema spessissimo. Per me era una passione che mi teneva viva quando tutto il resto sembrava impossibile. È chiaro, era molto difficile per una ragazzina dire voglio fare la regista, non c’erano modelli femminili, gli unici erano mosche bianche: Liliana Cavani e Lina Wertmüller. Esiste un cinema “femminile”? Il mio film è femminile perché sfugge dal rapporto gerarchico, da regista mi metto allo stesso livello del soggetto del mio documentario e il film viene fatto insieme. In Italia siamo ancora legati al mito del maestro rinascimentale, che poi diventa il maestro del cinema, una specie di despota che non deve rendere conto a nessuno. Invece secondo me ci sono altri modi di lavorare, un film dev’essere un lavoro collettivo anche con la troupe. La cosa più importante è la storia che racconti, non il tuo ego, il film non è un veicolo per portare avanti il tuo nome come se fossi un brand. Democrazia decadente: se le elezioni sono solo un plebiscito per i potenti di Nadia Urbinati* Il Domani, 2 settembre 2025 Le elezioni sono intese e usate in senso plebiscitario, proprio come non avrebbero dovuto esserlo secondo i costruttori delle democrazie del secondo Dopoguerra. La stortura è evidente quando si assiste, come in queste settimane, alla lotta tra autocandidati alla presidenza delle giunte regionali nelle prossime elezioni. Vi è qualcosa di distorto nella gestione del potere politico - e non per ragioni morali, bensì strutturali. Chi viene eletto, non importa se nelle cariche amministrative locali (comunali e regionali) o in quelle politiche nazionali, sente di possedere un privilegio, del quale non ama ovviamente disfarsi, pensando di far dimenticare ai cittadini che le elezioni sono state istituite proprio per cacciare chi governa senza spargimento di sangue. Forse perché le cariche elettive sono state regolate in modo da assegnare ai ruoli apicali una visibilità e dei poteri amplificati (in nome della celerità delle decisioni e della governabilità) o forse per la rivoluzione dei sistemi di informazione e di opinione (che danno alla personalità degli attori una rilevanza preminente, solitaria e separata). Fatto sta che chi gestisce un’amministrazione pubblica tende a dimenticarsi che sta svolgendo una funzione che non è sua e che ha ricevuto legittimazione da un processo elettivo. Che è a tempo. Una banalità ignorata. Sovrano dormiente - Il potere legittimante dei cittadini sembra dimenticato un minuto dopo la chiusura delle urne. Come ha scritto uno storico del pensiero politico moderno, Richard Tuck, la tentazione del potere costituito è di mettere il sovrano a dormire. Diremmo anzi che chi gestisce la giostra elettorale, dalla ricerca e designazione dei candidati alla costruzione delle liste e dei messaggi elettorali, vuole somministrare al sovrano dosi massicce di sonnifero, affinché resti dormiente tra un’elezione e l’altra e si risvegli quando è assolutamente necessario, alle successive elezioni. Le elezioni sono intese e usate in senso plebiscitario, proprio come non avrebbero dovuto esserlo secondo i costruttori delle democrazie del secondo Dopoguerra. Questa è la “democrazia delegativa”. La categoria è stata coniata da Guillermo O’Donnell negli anni Ottanta dello scorso secolo per indicare lo scivolamento della democrazia elettorale verso forme autoritarie. Questa categoria non riguarda più i paesi dell’America Latina, per classificare i quali fu coniata, ma molti paesi dell’area atlantica, dove si dice che vigano democrazie consolidate, presidenziali e non. Il potere del numero - Riguarda anche paesi con un sistema parlamentare, come l’Italia, dove per la loro insipienza i populisti e i castigatori della partitocrazia hanno avuto la malsana idea di disboscare il parlamento, convinti di dare in questo modo più potere ai cittadini. Un’inferenza di una stupidità immensa che si è prevedibilmente tradotta nella decadenza del parlamento, un emiciclo semipopolato, che conta molto meno di prima. Del resto, una delle norme auree della democrazia è il potere del numero. I populisti nostrani hanno al contrario pensato che i piccoli numeri fossero più democratici. Non solo, hanno agevolato e infine perfezionato leggi elettorali fatte essenzialmente per rafforzare le maggioranze elette (nei fatti minoranze): come diceva O’Donnell, le democrazie che si curano prima di tutto del potere esecutivo e dello sfoltimento di quello deliberativo finiscono per magnificare le minoranze e diventare autoritarie. La stortura è evidente quando si assiste, come in queste settimane, alla lotta tra autocandidati alla presidenza delle giunte regionali nelle prossime elezioni; autocandidati che si sostituiscono al partito da cui provengono, o a cui dicono di appartenere. Come in una competizione tra galli, si beccano e si attaccano l’un l’altro nella speranza di disarcionare l’avversario, mentre il partito svolge al massimo una funzione di vigile urbano o di esperto in risoluzione dei conflitti, senza potere di veto. Partiti e leadership - La trasformazione delle elezioni in competizioni di tipo plebiscitario è stata facilitata da riforme delle amministrazioni locali che hanno picconato i poteri delle assemblee elette (a partire dai Consigli comunali) e dato risalto ai ruoli apicali, instillando una prevedibile bulimia nei politici e loro affiliati. Insomma, per sfoltire le assemblee, velocizzare i processi decisionali, aiutare la governabilità, si è finito con il costruire feudi (e spalancare le porte a cordate di affaristi). Come ha scritto Antonio Floridia recentemente, a proposito del Partito democratico, “gli equilibri di potere” tra il livello locale e quello nazionale mostrano da un lato una segreteria plebiscitata e dall’altro una “feudalizzazione del partito in periferia”. Il plebiscitarismo e il rinfeudamento vanno a braccetto con l’esito che, dopo decenni di lotta alla partitocrazia, i partiti si trovano a essere congreghe di “crazie”. Mentre il partito è identificato con la leadership individuale a dominare sono i signorotti di ceto, fazione, o potentati locali. Questa è la distorsione nella gestione del potere politico che fa decadere la democrazia. *Politologa L’importanza di offrire spazi ai giovani senza “consumazione” di Elisa* Corriere della Sera, 2 settembre 2025 Gli spazi di aggregazione permettono ai ragazzi di crearsi un’identità non legata a contesti come scuola, famiglia. Ma le città che smettono di investire su questi luoghi, e i ragazzi sono rassegnanti al fatto che per vedere un amico o per parlare con qualcuno si deve per forza “prendere qualcosa”. Nel pieno del mese di agosto è stato sfrattato a Milano lo storico centro sociale Leoncavallo. Tenendo conto non solo della dimensione simbolica e politica, questo sfratto inevitabilmente ci porta a riflettere sull’importanza degli spazi come luoghi di ritrovo, in cui incontrarsi senza dover per forza ordinare qualcosa, in cui poter condividere momenti con altre persone come te. Gli adulti ci dicono spesso che non dobbiamo solo uscire per andare a bere. Ma altrettanto spesso, nei discorsi tra di noi, ci chiediamo cosa fanno per fornirci delle alternative. Certo le amministrazioni non hanno mai tra le loro priorità quella di garantire luoghi di incontro ai giovani. Gli spazi di aggregazione permettono ai ragazzi di crearsi un’identità non legata a contesti come scuola, famiglia. Consentono di sentirsi parte di un gruppo andando così a sviluppare la cosiddetta “identità sociale” che in mancanza di spazi finirebbe con il formarsi soltanto online, distanziata da una comunità concreta. In sociologia esiste il concetto di “capitale sociale”, ovvero l’insieme di tutti quegli aspetti sociali, come possono essere le tue relazioni, che ti permettono di raggiungere degli obiettivi o dei vantaggi. Questo termine non può che legarsi con il concetto di spazio: quale miglior luogo se non gli spazi di aggregazione per sviluppare il proprio “capitale sociale”, importante per il benessere dell’individuo, per la sua crescita e per il suo rapporto con la società. Un altro concetto importante sempre legato agli spazi è il fatto che dove la socialità non viene necessariamente “pagata” diventa alla portata di tutti, un ambito in cui le condizioni socioeconomiche di partenza smettono di essere importanti lasciando il palcoscenico al vero soggetto: la persona. E al vero obiettivo: la socializzazione tra simili, la condivisione di hobby, il sentirsi parte integrante di qualcosa, della società. Eppure, man mano che passano gli anni questi spazi di incontro si riducono sempre di più, li vediamo come un lontano ricordo e lasciano posto a luoghi in cui la socializzazione è diventata a pagamento. Vediamo le città che smettono di investire su questi luoghi, ragazzi ormai rassegnanti al fatto che per vedere un amico o per parlare con qualcuno si deve per forza “prendere qualcosa”. Penso che i nostri amministratori e in generale gli adulti su questo dovrebbero intervenire. *Studentessa, 21 anni, Milano Droghe. Distribuire le pipe per il crack? Dovere istituzionale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 settembre 2025 Dopo la decisione del comune di Bologna esponenti del centrodestra annunciano denunce, ma anche il ministero della Salute, nell’atto di indirizzo 2025, prevede interventi per la riduzione del danno. “Siamo all’assurdo: il Comune di Bologna regala pipe per fumare crack con i soldi dei cittadini! Altro che contrasto alle droghe: questa è istigazione al consumo e allo spaccio”, ha esordito il deputato Stefano Cavedagna di Fratelli d’Italia. La sua denuncia - accompagnata da un esposto alla Corte dei Conti per ipotetico danno erariale - si riferisce a una misura adottata dal Comune: l’acquisto di 300 pipette in alluminio da distribuire gratuitamente ai consumatori di crack nell’ambito di un progetto sperimentale di riduzione del danno. Il comune bolognese, guidato da Matteo Lepore, spiega che il provvedimento, partita la fase due della sperimentazione avviata circa un anno e mezzo fa, serve a contrastare il crescente uso di crack e ha già dato risultati positivi. L’obiettivo dichiarato è quello di ridurre le patologie secondarie legate all’uso di materiali improvvisati o sporchi (sanguinamenti, tracheiti, infezioni) fornendo dispositivi sterili e monouso ai consumatori vulnerabili. Allo stesso modo, come spiega l’assessora alla Sicurezza Matilde Madrid, l’iniziativa serve a intercettare persone emarginate: grazie al contatto con gli operatori di strada, i soggetti coinvolti hanno potuto essere indirizzati verso i percorsi di cura (crescita del 13% dei pazienti trattati dal Sert bolognese nel 2025 rispetto al 2024). Eppure la reazione politica è stata durissima. I leader del centrodestra hanno etichettato l’iniziativa come “follia” e “istigazione al consumo di droga”. Matteo Salvini della Lega ha tuonato che “la droga è morte e fa schifo. Va fermata, non incentivata”, Maurizio Gasparri di Forza Italia ha accusato il Comune di “aiutare gli spacciatori”, e c’è chi ha addirittura minacciato denunce penali per favoreggiamento dell’uso di sostanze stupefacenti. Indignazioni coerenti con il pensiero diffuso che vede ogni persona drogata sarebbe in parte artefice del proprio destino, e l’eventuale dipendenza sarebbe un peccato morale di cui ancora vergognarsi. In pratica, guardano a chi usa droga come a persone da “salvare” con la forza - e se poi stanno male o muoiono, la colpa è della loro scelta sbagliata. In realtà, la distribuzione di pipe sterili si inserisce in un quadro normativo e sanitario ben preciso. La riduzione del danno (RdD) è un approccio riconosciuto nella sanità pubblica internazionale: mira a minimizzare le conseguenze negative dell’uso di sostanze (salute, sociali ed economiche) senza imporre necessariamente l’astinenza. È un approccio non giudicante e pragmatico, che accetta la realtà dell’uso di droghe e punta a ridurne i rischi piuttosto che inseguire un’abolizione irrealistica. Questa filosofia ha preso avvio negli anni ‘ 80, all’epoca dell’epidemia di Aids, con programmi di scambio di siringhe sterili per prevenire le infezioni da Hiv. In Italia, la RdD non è un’invenzione di Bologna, ma è legge. Per la prima volta è stata formalmente inserita nei Livelli Essenziali di Assistenza dal Dpcm del 12 gennaio 2017, che ha aggiornato gli interventi sanitari obbligatori per il Servizio sanitario nazionale. Come ricorda la Cgil, quel decreto “costituisce una novità attesa da anni: la riduzione del danno viene per la prima volta inserita tra le prestazioni che il Servizio Sanitario Nazionale deve assicurare ai cittadini”. In altre parole, offrire servizi di RdD (come l’erogazione di materiale sterile o gli spazi di consumo assistito) è oggi un dovere istituzionale legato alla tutela della salute delle persone con dipendenze patologiche. Tale riconoscimento è anche coerente con le linee guida internazionali: la RdD figura tra i “quattro pilastri” delle politiche europee sulle droghe, insieme a prevenzione, cura e contrasto al traffico. Sul fronte politico- istituzionale, il Piano Nazionale Dipendenze 2022- 2025 riconosce la riduzione del danno come obiettivo strategico chiave, indicando misure specifiche da recepire a livello regionale e nazionale. Anche il ministero della Salute, nell’Atto di indirizzo di quest’anno, include esplicitamente l’attuazione di interventi di RdD nella strategia per l’eliminazione dell’Hiv e delle patologie correlate. Proprio a Bologna è stata condotta una delle sperimentazioni più documentate in Italia sulla distribuzione di pipe al crack. Uno studio pubblicato nel 2025 su Substance Use & Misuse ha preso in esame i 40 consumatori seguiti dai servizi di RdD cittadini. Dopo 30 e 60 giorni dalla consegna delle pipe, i ricercatori hanno osservato effetti significativi: ad esempio, la quota di utenti che condivideva bottiglie per fumare crack, in 60 giorni si è azzerata. Parallelamente, ogni tipo di problema di salute riferito (paranoia, irritabilità, bruciature alle labbra, disturbi respiratori, ecc.) si è ridotto nel gruppo studiato. Gli autori dello studio sottolineano che la distribuzione di pipe sterili si è rivelata “efficace nel ridurre i comportamenti pericolosi e i problemi di salute” tra i consumatori di crack. Anche i responsabili del progetto bolognese confermano questi risultati preliminari. Secondo l’assessora Madrid, dai feedback raccolti il 100% degli utenti hanno segnalato miglioramenti sanitari nell’usare materiale monouso, e molti dichiarano di aver spontaneamente ridotto il consumo di crack grazie a pipe più sicure. In sintesi, la sperimentazione ha mostrato tre risultati concreti. I consumatori hanno riportato un miglioramento delle condizioni di salute grazie all’uso di strumenti sterili, sull’esempio dei programmi di scambio siringhe. Molti hanno ridotto l’assunzione di crack e un numero crescente di persone ha scelto di entrare spontaneamente nei percorsi di cura offerti dai servizi sanitari. Questi dati dimostrano senza dubbio che fornire strumenti adeguati non solo non incoraggia la dipendenza, ma facilita un approccio di cura e prevenzione. Le conclusioni bolognesi trovano riscontro negli studi condotti all’estero sui programmi di safer smoking. I dati mostrano benefici sanitari, riduzione dei rischi e nessun aumento dei consumi. In generale, gli interventi di RdD - scambio siringhe, distribuzione pipe, stanze di consumo assistito - riducono infezioni da Hiv ed epatiti, abbassano mortalità e ricoveri per overdose, creano contatto diretto tra tossicodipendenti e servizi. L’organizzazione mondiale della sanità e le agenzie europee li considerano strumenti essenziali di sanità pubblica. In Italia, la comunità scientifica denuncia da anni che ignorare la RdD significa condannare persone a morti evitabili e aumentare i costi sociali. Ma i detrattori insistono: dare pipe significa arrendersi alla droga. La presidente di un’associazione anti- violenza, Andreina Moretti, ha affermato che è un messaggio sbagliato, perché non affronta “la radice del problema”. Il messaggio da lanciare sarebbe uno solo: “Non drogarti”. Una formula semplice che però ignora i dati. Parlare di “istigazione” o “aiuto agli spacciatori” serve a mobilitare indignazione, non a risolvere i problemi. Ma i numeri sono chiari: a Bologna i consumi non aumentano, diminuiscono i disturbi e più persone entrano in contatto con i servizi sanitari. Droghe. “Ho denunciato mio figlio per salvarlo, ma il carcere non è servito a nulla” di Claudia Milani Vicenzi Giornale di Vicenza, 2 settembre 2025 Il racconto di una mamma: “Quando era ubriaco diventava violento. Le abbiamo provate tutte, poi mi sono rivolta alle forze dell’ordine. A volte quando andavo a trovarlo era spaventato e mi chiedeva soldi”. “Non si tratta di costruire nuove celle o aumentare le pene, senza personale non c’è rieducazione e il carcere rischia di restare una fabbrica di delinquenti”. Questo il messaggio, estremamente chiaro, lanciato nei giorni scorsi in occasione della visita della Camera penale berica al Del Papa con altre istituzioni. Una situazione che la mamma di un giovane di 25 anni (omettiamo le generalità per tutelarla) conosce bene perché, purtroppo, l’ha provata sulla sua pelle: “Ho denunciato mio figlio per salvarlo, ma non è andata così”. Una decisione sofferta - Mesi fa aveva era arrivata a prendere una decisione così sofferta e difficile credendo, dopo “averle provate tutte”, che fosse l’unica soluzione. “Se avessi saputo come sarebbero andate le cose non lo avrei mai fatto” dice però oggi. La vita di suo figlio è stata quella di un qualsiasi ragazzo fino a 19 anni. Una vita “normale” tra scuola, sport e amicizie. Poi, forse proprio a causa di queste ultime, tutto è cambiato. Il ragazzo ha iniziato a frequentare compagnie sbagliate e a consumare droga e soprattutto alcol. E da lì è iniziato l’incubo. “Beveva, si ubriacava e diventava un’altra persona - ha raccontato -. Io e suo padre abbiamo fatto di tutto per aiutarlo, abbiamo consultato medici, specialisti. Quando beveva diventava violento, non mi riconosceva neppure. È arrivato a mettermi le mani addosso, più di una volta. Dopo l’ultima aggressione non ce l’ho più fatta”. La realtà del carcere - “Ho denunciato mio figlio per salvarlo. E invece non è stato così”. La mamma racconta di visite in carcere che la lasciavano sgomenta. “A volte lo trovavo che faticava a reggersi in piedi e a parlare, come fosse stato sedato pesantemente, a volte mi accoglieva o mi parlava al telefono con un’euforia assolutamente esagerata e tipica di chi è sotto l’effetto di qualche sostanza o dell’alcol. Altre volte, ed è questo l’aspetto più sconvolgente, era molto spaventato”. C’è un ricordo che la mamma del giovane non potrà mai cancellare. “Sono andata a trovarlo, era in lacrime, terrorizzato. Continuava a ripetere “qua mi ammazzano” e diceva che aveva bisogno di soldi subito. Non ha voluto dirmi di più, era troppo scosso”. I soldi, appunto. Dopo solo due, tre mesi in carcere ha cominciato a chiederne. Prima si trattava di piccole cifre, poi somme più consistenti. “E sono certa che non fosse per comprare generi alimentari ma che servissero per pagare debiti contratti con altri detenuti”. Nessuna riabilitazione dietro le sbarre - “Dopo 5 mesi è uscito dal carcere - spiega ancora la mamma - ora sta seguendo un programma di recupero. Forse non è uscito peggiore ma sicuramente nel periodo di detenzione non è migliorato. Quei cinque mesi non sono serviti a nulla. La prigione non riabilita e se tornassi indietro non lo denuncerei. Ha trascorso tutto il tempo dietro le sbarre in completa inattività senza poter lavorare, partecipare a corsi di recupero o a qualsiasi attività. Credo che questo dovrebbe essere invece fondamentale”. La situazione a Vicenza - A Vicenza, la capienza massima prevista è di 276 detenuti, ma ce ne sono attualmente 324 di cui 177 condannati in via definitiva. Gli stranieri, alcuni dei quali molto giovani, sono circa il 40%. Nel 2024 si sono registrati 200 atti di autolesionismo; 16 tentativi di suicidio e un suicidio. A questi devono essere aggiunti diversi episodi di incendi e danneggiamento. Carenza di personale e sovraffollamento sono le criticità maggiori che accomunano tutti gli istituti. Stragi, espulsioni e nuovi genocidi: perché serve la giustizia internazionale di Maurizio Delli Santi Avvenire, 2 settembre 2025 L’indignazione non basta più. Per fermare i crimini contro l’umanità è necessario riaffermare e rafforzare le istituzioni della giustizia internazionale. Di fronte alle atrocità di questi tempi in cui la disumanizzazione delle guerre appare irreversibile, è necessario che ci si riappropri di un senso comune per la giustizia e la verità. Il momento è cruciale per il futuro dell’umanità: le voci della società civile e dei leader responsabili non possono fermarsi alla sola indignazione, ma devono reclamare con forza ancora la necessità di riaffermare il diritto internazionale, e dare un fermo ultimatum per chi non si ravvede per tempo. La memoria storica per l’affermazione dei principi inderogabili che tutelano l’umanità dalla deriva delle guerre deve essere un riferimento costante. In questi giorni è il caso di ricordare cosa significò il Tribunale di Norimberga, che proprio nell’agosto del 1946 vide la fase cruciale del dibattimento. All’apertura del processo il procuratore americano Robert Jackson aveva esordito: “Il principio della responsabilità penale personale è necessario e logico affinché il diritto internazionale contribuisca effettivamente al mantenimento della pace”. Concluse, lungimirante: “La civiltà moderna pone nelle mani di uomini armi di distruzione illimitate e non può tollerare un’area così vasta di irresponsabilità giuridica”. Fino ad allora nessuno era stato imputato per una guerra (era rimasto immune il Kaiser Gugliemo II di Hoenzollern, benché il Trattato di Versailles ne reclamasse il processo per aver causato la I guerra mondiale) o per categorie di reati che non comparivano nei codici. Oltre a giuristi del calibro di Hans Kelsen, erano stati i colleghi ebrei polacchi Herscht Lautepacht e Raphael Lemkin - entrambi con un comune percorso di docenti a Leopoli, oggi città dell’Ucraina, coincidenza su cui riflettere - a contribuire alla formulazione dei capi d’accusa: oltre alla contestazione dei “crimini contro la pace” in violazione del Patto Briand-Kellog del 1928 e dei “crimini di guerra” previsti dal diritto bellico, fornirono la base dottrinale per contestare ai nazisti i “crimini contro l’umanità” e il “genocidio”. Finalmente prendevano corpo definizioni che inquadravano le atrocità dell’Olocausto, che altrimenti sarebbero rimaste “crimini senza nome”. Sulla base degli stessi principi il Tribunale di Tokio condannò i criminali di guerra giapponesi, e configurò per la prima volta nel caso Yamashita la dottrina della “responsabilità di comando”, anche solo omissiva nel controllo dei sottoposti. Per questo è un giudizio superficiale e anti-storico quello di chi tende a liquidare i Tribunali di Norimberga e Tokio come “tribunali dei vincitori”. Le costruzioni giuridiche di Lautepacht e Lemkin avrebbero portato all’adozione - a New York, il 9 dicembre 1948 - della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. Inoltre, pochi anni dopo, su mandato della Risoluzione 95/I dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il Comitato di diritto internazionale stabilì che andavano riconosciuti nel diritto consuetudinario (quindi al di sopra dei trattati) i Principi di Norimberga, fra cui il principio della responsabilità penale internazionale (superiore a quella di diritto interno), la colpevolezza anche nel caso si sia agito per un ordine superiore, e l’irrilevanza per i crimini internazionali della prescrizione e delle immunità, anche per i capi di stato e di governo. Al processo di Norimberga - dove non si compirono torture, le sedute furono pubbliche e si concessero ampi diritti alla difesa - la protervia dei gerarchi di Hitler fece posto alla loro miseria umana. Il Vice Cancelliere Hermann Göring diede sfoggio della sua insana megalomania indossando l’uniforme di Maresciallo del Reich, e con un ghigno sul volto si pose sul banco degli imputati in prima fila: quando apprese di essere condannato alla pena capitale, si suicidò con il cianuro. L’ex capo del Fronte del Lavoro, Robert Ley, alcolista, fedelissimo di Hitler e fervente antisemita, diede segni di pazzia e si impiccò. Rudolf Hess, il vice del Fuhrer, si chiuse in un mutismo assoluto sostenendo di aver perso la memoria. In realtà fingeva: si ravvide pensando che sarebbe stato meglio difendersi dalle accuse e proclamando in udienza: “Signor Presidente, la mia memoria è tornata normale!”. Le sentenze arrivarono a fine settembre: furono assolti Von Papen, Fritzche, e Schact, e, in successione condannati a dieci anni Donitz, a quindici von Neurath, a venti Speer e von Schirac, all’ergastolo Hess, Funk e Reader. La pena capitale mediante impiccagione fu decisa per 11 imputati: Goring, Ribbentrop, Streicher, Borman, Keitel, Kaltenbrunner, Frank, Rosemberg, Frick, Sauckel, Seyss-Inquart e Jodl. Gli epiloghi per i due leader responsabili della II guerra mondiale, Hitler e Mussolini, sono noti: il primo si suicidò in un bunker, mentre per il secondo prevalse il rancore di Piazzale Loreto, prima della giustizia. Altri processi si celebrarono davanti ai tribunali nazionali anche dopo anni, per i principi di imprescrittibilità e universalità: per il diritto internazionale umanitario i crimini di guerra e contro l’umanità non hanno limiti di perseguibilità, ovunque e sempre. Hannah Arendt ha raccontato lo storico processo Eichmann: è sua la definizione - nell’omonimo libro - sulla banalità del male per descrivere l’ignavia dell’ex SS Obersturmbannfuhrer Adolf Eichmann. Catturato dagli israeliani in Argentina, nel 1961 il tribunale distrettuale di Gerusalemme lo condannò all’impiccagione per l’uccisione di milioni di ebrei. Nei decenni successivi purtroppo le guerre non finiranno, e seguiranno altri processi internazionali, pur tra polemiche e ritardi: saranno comunque condannati i carnefici di altri genocidi, davanti ai Tribunali del Ruanda e dell’ex Jugoslavia. I criminali di guerra per lungo tempo possono forse considerarsi intoccabili, ma è il caso di ricordarne il destino: per coloro che si pongono fuori dall’umanità la Storia insegna che non è raro che la giustizia internazionale si compia, ed è il momento di richiamarla. I principi di Norimberga sono stati recepiti nello Statuto di Roma della Corte penale internazionale, la più avanzata opera di codificazione del diritto internazionale umanitario. Piuttosto che delegittimarla in nome di un insano ritorno al sovranismo penale, i governi che rifiutano le guerre e le logiche di potenza - di certo la maggioranza di quelli che siedono alle Nazioni Unite - farebbero bene a rafforzarne il ruolo: è la strada per fermare le stragi di guerra, gli esodi forzati di intere popolazioni, la pulizia etnica e l’ombra sempre più incombente di nuovi genocidi. Germania. L’auto è in crisi? Le industrie si riconvertono nella produzione di carri armati di Vincenzo Savignano Avvenire, 2 settembre 2025 Dietro alla svolta di Volkswagen, che sta stringendo accordi con il colosso delle armi Rheinmetall, c’è la metafora di un Paese costretto a cambiare volto, dalla difesa alla fine dello stato sociale. Tre milioni e 25.000 disoccupati. Da dieci anni in Germania non si registravano così tante persone senza lavoro. Un ulteriore segnale della crisi economica, politica e sociale del Paese, ma non militare: il settore trainante dell’industria è sempre più quello delle armi. La casa automobilistica Volkswagen sta stringendo accordi con il colosso delle armi Rheinmetall. L’obiettivo è assicurarsi la produzione di componenti e munizioni, convertendo stabilimenti, come l’impianto VW di Osbabrück, da cui non usciranno più auto, bensì carri armati, che salveranno centinaia di posti di lavoro. Ma nel settore auto, nell’ultimo anno, sono andati persi circa 51.500 posti di lavoro. A questi vanno aggiunti gli oltre 17.000 posti persi nell’ingegneria meccanica e i 12.000 nella produzione di metalli. Complessivamente, secondo i dati dell’Agenzia federale per il lavoro di Norimberga, il tasso di disoccupazione in tutta la Germania è al 6,4%, il dato cala nel sud ma fa segnare picchi del 10 % a Berlino e nei länder orientali. A preoccupare gli analisti ed economisti è anche la forte riduzione dei corsi di formazione soprattutto per i più giovani. L’Associazione delle Camere di Commercio e Industria Tedesche (Dihk) ieri ha pubblicato un’indagine sullo stato del mercato della formazione: oltre un quarto delle aziende sta riducendo le proprie offerte di tirocinio. “Dopo il mercato del lavoro, la recessione sta colpendo anche i corsi di apprendimento lavorativo. Siamo preoccupati: la mancanza di formazione oggi aggrava la carenza di manodopera qualificata domani”, ha spiegato il vicedirettore Generale del Dihk, Achim Dercks. Il noto economista Clemens Fuest ha spiegato in modo semplice cosa sta accadendo all’economia ed industria della Repubblica federale tedesca: “Molte aziende stanno attualmente riducendo la propria forza lavoro perché i loro prodotti non si vendono bene. Inoltre non riescono a trovare i lavoratori qualificati nonostante l’aumento della disoccupazione, e sempre più aziende hanno deciso di delocalizzare la produzione all’estero”. Il presidente dell’Istituto Ifo ha anche puntato il dito contro “gli elevati oneri burocratici e normativi, nonché le elevate tasse e imposte”. Fuest ha consigliato al governo di Berlino di adottare delle contromisure: “I politici devono dimostrare di essere in grado non solo di indebitarsi, ma anche di attuare riforme strutturali. Solo in questo modo torneranno ad aumentare gli investimenti privati e saranno creati nuovi posti di lavoro”. Il cancelliere Friedrich Merz nel weekend ha ribadito l’intenzione di avviare un piano riforme per la modifica radicale dello stato sociale tedesco. “Non siamo più in grado di sostenere il nostro welfare. Da anni stiamo vivendo al di sopra delle nostre possibilità”, sostiene Merz. Il suo governo punta a riformare le pensioni, innalzando l’età pensionabile sopra i 67 anni: “Dobbiamo aumentare gli incentivi a rimanere nel mondo del lavoro”. Il cancelliere, inoltre, continua a puntare il dito contro il Bürgergeld (reddito di cittadinanza): “Così come è concepito non è più sostenibile”. Il piano di tagli allo stato sociale del governo dovrebbe riguardare buona parte delle oltre 5,5 milioni di persone, per lo più disoccupate, che in Germania percepiscono il sussidio di disoccupazione, oggi Bürgergeld, ex Hartz IV, di almeno 563 euro mensili. Almeno 2,5 milioni dei percettori del sussidio sono stranieri. I costi complessivi sono di oltre 43 miliardi di euro all’anno. Merz ed il suo partito vorrebbero limitare il sussidio solo a chi non è realmente in grado di lavorare. Ma gli alleati di governo della Spd hanno sempre concepito il sussidio non solo come un incentivo a tornare nel mondo del lavoro, bensì anche come un sostegno elargito dallo Stato a chi ha difficoltà ad integrarsi e ad inserirsi nel mondo del lavoro. Siamo alla vigilia di un autunno complesso per il governo di Berlino, un autunno di riforme e di aspri confronti politici, e probabilmente un autunno ancora in recessione. Libia. Oltre 900 persone ammassate in un lager. L’ong: “Vittime di tratta, stupri e violenze” di Alessia Candito La Repubblica, 2 settembre 2025 Refugees in Libya diffonde un video shock che arriva dal campo di detenzione di Tobruk, amministrato dal governo. Centinaia di corpi accatastati come sacchi in un cortile lurido e in uno stanzone altrettanto fetido. Uomini, donne, bambini, da settimane costretti a vivere fra rifiuti e miasmi, prigionieri in un centro di detenzione a Tobruk. “Sono più di 900 e sono tutti sotto ricatto, le guardie chiedono il riscatto per il rilascio di ogni detenuto”, denuncia l’organizzazione Refugees in Libya (Ril), che da giorni riceve segnalazioni, richieste d’aiuto. “Fateci uscire da qui, è un inferno”. Sono sudanesi, maliani, ghanesi, gambiani, bengalesi, la maggior parte registrati come rifugiati Unhcr. Ma nonostante questo, nessuno li ha protetti. “E nessuno lavora per la loro liberazione adesso”, attaccano da Ril. Come sempre quando Tripoli piomba nel caos, la Cirenaica si gonfia di chi fugge. Nella capitale della Tripolitania, da settimane il clima si sta surriscaldando, con il governo determinato a riprendere l’aeroporto di Mitiga e altre infrastrutture strategiche e centri di detenzione su cui non è riuscito a prendere il controllo, a dispetto della campagna lanciata mesi fa per farla finita con le “milizie infedeli”. Fra loro ci sono anche la Rada e la polizia giudiziaria di Almasri, un tempo parte dell’apparato di sicurezza messo in piedi dal governo e destinatario dei milioni italiani e europei destinati al “contenimento delle partenze”. Un business basato su intercettazioni in mare, detenzione arbitraria, violenze e torture, in un circolo vizioso che si autoalimenta. E su cui tanti vogliono mettere le mani. A Est, nella Cirenaica di Haftar non è molto diversi. Ma con Tripoli sull’orlo dello scontro finale fra governo e le sue ex milizie, in tanti hanno cercato rifugio a Tobruk. E sono diventati carne buona da piazzare sul mercato degli esseri umani. Per chi venga catturato non c’è cibo, né acqua a sufficienza, niente assistenza medica per chi stia male o chi sia stato picchiato o torturato. Ma sono le donne le vittime preferite dei carcerieri. Agli attivisti oggi di Refugees in Libya arrivano da giorni segnalazioni di stupri ripetuti e donne vendute come schiave del sesso. “Quando diciamo che sono i cosiddetti funzionari a macchiarsi di tratta di esseri umani, nessuno vuole crederci. Ma cosa potrebbe esserci di più simile? E quelle condizioni non sono forse paragonabili a quelle di un campo di concentramento in mezzo al deserto?”, tuona l’organizzazione costruita da attivisti sopravvissuti alla Libia e ai lager. “Quel centro di detenzione - denuncia don Mattia Ferrari, capomissione di Mediterranea Saving Humans, da tempo attivo anche a terra nel raccogliere segnalazioni e richieste di aiuto che arrivano dalla Libia e della Tunisia - è gestito dal Dcim, un apparato libico diretto da Mohamed Al-Khoja, che è uno dei boss della mafia libica, come Almasri. Ed è la mafia libica a gestire il traffico di esseri umani e i respingimenti in mare finanziati dall’Italia e dall’Europea”. Il giovane sacerdote chiede che si combatta per davvero, “come tutti noi stiamo provando a fare da anni, denunciando alle istituzioni internazionali e alla società civile quello che succede e tendendo la mano alle persone che sono vittime di questa mafia”. Il video diffuso da Refugees in Libya non dà adito a dubbi. “Deve scuotere le nostre coscienze -sottolinea don Mattia - basta complicità con queste violenze indicibili, è l’ora della solidarietà. Bisogna agire subito per soccorrere questi fratelli e sorelle”. Don Ciotti: “L’Italia si schieri contro il massacro a Gaza. Vergognosi gli attacchi alle navi Ong” di Federico Genta La Stampa, 2 settembre 2025 L’appello del fondatore di Libera ai giovani: “Su guerre e ambiente ribellatevi al fatalismo e datevi da fare”. “Non è più il tempo delle parole. Servono gesti concreti, serve prendere posizione per denunciare le troppe contraddizioni su temi che non possono essere messi in discussione, quali la pace e la giustizia”. Quello di don Luigi Ciotti, fondatore e presidente di Libera, è un appello rivolto prima di tutto al governo italiano. Ma che si parli del dramma di Gaza o delle nuove tensioni intorno alla gestione dei migranti, l’invito ad agire abbraccia anche i giovani, perché “il futuro è qualcosa che dobbiamo costruire insieme”. Questione palestinese, la politica italiana è ancora troppo attendista? “Deve esprimersi in modo chiaro contro il massacro in corso, che diventa ogni giorno più grave con l’escalation militare decisa per espellere di fatto l’intero popolo palestinese dalla propria terra. Bisogna passare ai fatti. È necessaria una risposta concreta a livello europeo, con la sospensione degli accordi politico-commerciali che ci legano al governo di Israele, a partire dalla vendita di armi. Purtroppo, finora l’Italia si è dichiarata contraria. Dopo lo stato di grave carestia certificato dall’Onu, l’uccisione deliberata di giornalisti e persone in cerca di aiuto umanitario, mi chiedo cos’altro debba accadere per farci cambiare idea”. In queste settimane abbiamo assistito alla mobilitazione dei sanitari e alla giornata di digiuno nazionale contro il genocidio... “So che si tratta di gesti minimi, insufficienti e di breve durata. Eppure digiunare non è solo un atto di testimonianza, per stimolare la società a schierarsi. È una scelta che si appella alla fame profonda che ci abita in quanto esseri umani: la fame di infinito, di trascendenza, di un senso ultimo da dare alla nostra vita. Se ci lasciamo mordere interiormente da questo tipo di fame diventiamo più capaci di sentire il dolore altrui come fosse anche nostro. Rinunciamo al cibo per denunciare il dramma di tante persone e famiglie ridotte letteralmente alla fame, ma anche per esprimere la nostra fame ideale di pace e giustizia”. Le tensioni in Medio Oriente, la guerra in Ucraina, quale futuro attende le nuove generazioni? “Non c’è nessun futuro che le attende. Perché il futuro non è un tempo predeterminato, ma qualcosa che dobbiamo costruire insieme. L’avvenire è la forma che diamo al tempo che ci è dato abitare. Questo vorrei dire ai giovani: non aspettate. E non perdete le vostre speranze. Ribellatevi al fatalismo e datevi da fare. Osate immaginare un tempo radicalmente diverso, che non risponde alla violenza con altra violenza, alle ingiustizie con abusi ancora maggiori. Studiate ma senza lasciarvi infarcire di teorie ammuffite, che raccontano le guerre come inevitabili, l’ambiente come inesauribile, le disuguaglianze come funzionali allo sviluppo. Opponetevi al riarmo, alle distruzioni ambientali, alle mafie, ai sistemi di produzione e consumo che umiliano i diritti delle persone”. L’emergenza umanitaria riaccende i riflettori sui migranti. Che effetto le fanno le immagini della Guardia costiera libica che spara contro le navi delle Ong impegnate nel Mediterraneo? “Provo un’immensa rabbia e vergogna. Sappiamo che le navi e le munizioni dei libici sono frutto anche dei finanziamenti italiani alle autorità di quel Paese. Pur di appaltare alla Libia il lavoro sporco di contenimento dell’immigrazione, l’Italia si rende complice della violazione dei diritti umani di decine di migliaia di persone migranti, e degli attacchi contro i suoi stessi cittadini impegnati a salvare i naufraghi. Su queste barche di salvataggio, delle Ong come quelle della Global Sumud Flotilla per Gaza, idealmente ci saliamo tutti a bordo, perché ci sentiamo corresponsabili verso le vite in pericolo, maltrattate e disumanizzate. Sono barche che salpano per salvare noi stessi e l’Europa intera dal naufragio della propria coscienza”. Proprio i porti dove vengono consentiti gli sbarchi, spesso lontani giorni di navigazione, sono diventati strumento di campagna elettorale... “È assurdo e inumano. Ci si accanisce contro chi salva le vite appellandosi a cavilli normativi studiati apposta per ostacolare i soccorsi. La legge della coscienza e la legge del mare, con le sue convenzioni internazionali, impongono di dare sempre la priorità alla messa in sicurezza delle persone. Dal ministero sottolineano che il soccorso è compito dello Stato, non delle Ong: bene. Però questo soccorso non è facoltativo, è un obbligo. E quando lo Stato si sottrae accadono tragedie come quella di Cutro, allora chiediamoci su quali basi di pura cattiveria si colpiscono le Ong e si respingono i migranti verso i lager libici, dove vanno incontro a torture e morte. Basta una briciola di consenso elettorale in più a giustificarlo?”. Nel primo libro firmato da Papa Leone, il pontefice chiede “pace, verità e giustizia”. Quanto è importante, oggi, la sua testimonianza? “Il messaggio del Papa è essenziale, e la sua voce certamente credibile. Anche la scelta di rivolgersi “alla Chiesa e al mondo” è fondamentale, nel solco del pontificato in uscita di Francesco. Speriamo che Leone, rispetto al suo predecessore, possa trovare orecchie più attente fra i potenti della Terra. Perché sappiamo che pace, verità e giustizia in Medio Oriente varrebbero oro, ma sono oggi sepolte nel fango sotto tonnellate di macerie”.