Ormai le carceri sono camere mortuarie di Vito Totire* smips.org, 29 settembre 2025 Un giovane detenuto di 21 anni si è suicidato nel carcere di Pavia. Come ho scritto qualche giorno fa ormai le carceri non sono neanche carceri ma camere mortuarie; le scarne cronache diffuse dai media parlano di un giovane nordafricano che avrebbe manifestato “problemi psicologici” tanto da essere collocato nella sezione dei “fragili”; quanto questa collocazione sia stata effettivamente protettiva lo abbiamo visto; sorprendente che non sia ancora depositata una mozione di sfiducia in parlamento per chiedere le dimissioni del ministro Nordio. Intendiamoci: niente di personale e nessuna illusione che sostituendo il governo il ministro Nordio con un altro esponente della maggioranza parlamentare possa cambiare qualcosa; è tuttavia inaccettabile che il ministro Nordio non si presenti dimissionario in parlamento per consentire finalmente un dibattito alla camera o al senato sulla tragica situazione delle carceri italiane; quello del carcere di Pavia è il 63° “suicidio” avvenuto in questo anno; le cronache riferiscono che sia il 14° a Pavia dal 2021; Pavia dove si era appena spenta l’eco della questione della distribuzione di profilattici; un episodio che non intendiamo affrontare adesso ma che evidenzia la confusione di ruoli e di pratiche tra direzione carceraria e DAP. Ovviamente sul tema abbiamo una nostra opinione che coincide con quella espressa da Antigone, ma torniamo al tema del “suicidio”; fatto sta che il ministro Nordio continua a stare al suo posto e a ripetere a platee evidentemente compiacenti le sue “teorie” sulla questione; ne ha parlato ancora a Catania qualche giorno fa per ribadire che non esiste un nesso tra sovraffollamento e suicidio e che anzi il sovraffollamento è un antidoto perché consente al compagno di cella di intervenire tempestivamente tagliando il lenzuolo di chi sta per impiccarsi. Addirittura a Catania il ministro ha rilanciato i suoi tentativi di “assolvere” il carcere strumentalizzando i casi in cui il detenuto si sarebbe suicidato poco prima di essere liberato; come se non accompagnare l’ex detenuto nel percorso di reinserimento sociale e lavorativo fosse un effetto del destino e non del fallimento delle politiche carcerarie; la consapevolezza formale della esistenza di un grave problema è molto antica; agli inizi degli anni novanta del secolo scorso il direttore di turno del DAP (Amato) commissionò uno studio sulla prevenzione al noto psichiatra Paolo Crepet che, indubbiamente, avanzò proposte di lavoro utili. Ma, da allora, alle buone intenzioni non sono seguiti i fatti, visto che non possiamo considerare “fatti” quel certo numero di circolari generiche sulla prevenzione che pure qualche ministro e qualche governo hanno emanato; Il ministro Nordio continua a praticare un approccio riduzionista alla questione dei suicidi; propone cioè un approccio di tipo custodialistico (guardare a vista il soggetto a rischio per quanto possibile) che non ha nulla a che fare con un piano organico di prevenzione il quale necessita di ben altri mezzi e di ben altre risorse; la presa in carico di una persona a rischio va ben oltre un approccio di tipo custodialistico (poi peraltro lo “stato” ha mostrato tragicamente di non riuscire a gestire neppure quello; impossibile dimenticare il “sucidio” di Cheikhou Oumar Ly avvenuto il 22.11.2017 in una cella di sicurezza della questura di Bologna: suicidio per il quale “ovviamente” le istituzioni non hanno ravvisato nessuna responsabilità); la presa incarico necessita di un approccio sistemico che non si può dunque ridurre alla frettolosa somministrazione di una overdose di psicofarmaci (spesso inutili e controproducenti) ma che prenda in esame anzitutto le motivazioni del sentimento di disperazione, di dolore mentale e di helpnessness vissuto dalla persona (sentimento dj non poter contare su nessun aiuto). Per gli immigrati poi occorre mettere in campo professionalità particolari che siano in grado di cogliere le differenze culturali e antropologiche; non si tratta di proposte astratte: possiamo fare riferimento alla esperienza del centro Devereux in Francia anche se ha lavorato nel territorio in senso lato e non specificamente nelle carceri; la presa in carico della persona peraltro parte da un primo interrogativo: il carcere è, per quella singola persona, la collocazione adeguata o occorre pensare ad una altra e diversa struttura di accoglienza per chi è in condizioni di sofferenza fisica o psicologica? Non è per fare digressioni: ma siamo arrivati al punto che una assessora (giunta leghista di Ferrara) ha criticato il medico che ha certificato la inidoneità alla reclusione in un CPR di un cittadino immigrato che lo stato voleva carcerare; evidente che per una parte del ceto politico italiano il medico ideale è quello dell’esercito austroungarico che si occupava dei “renitenti alla leva”; chi ha preso posizione su questa “critica” al medico che ha refertato? ne riparleremo in altra occasione Certamente Nordio ha una difficoltà: se il suo governo impegna tante risorse per le spese militari dove reperire le risorse per un trattamento umano della persona privata della libertà? Anche per questo egli propone “soluzioni economiche” dai prefabbricati a, un domani, magari non fornire più lenzuola mentre ancora non si convince a metter al bando le bombolette di gas per non parlare poi della prevenzione del fumo passivo nelle carceri tema sul quale Nordio ha deciso di abolire (ovvio solo nei penitenziari) la legge 3/2003…senza bisogno di raccogliere firme per un referendum abrogativo. È anche per questo (spese militari e investimenti analoghi) che la questa attuale prevenzione del suicidio non si fa con i mezzi e le risorse necessarie ma chiedendo agli agenti penitenziari una particolare capacità di vigilanza che poi sconfina nello sfruttamento schiavistico se è vero quanto denunciato circa la imposizione anche di turni di lavoro di 26 ore continuative; oppure, come abbiamo già detto, chiedendo al “concellino”, in caso di necessità, di sciogliere il rudimentale cappio utilizzato dal compagno di cella; per supportare la misera politica custodialistica di finta prevenzione, eventualmente, gli si chiede di rinunciare all’ora d’aria o (se in cella si è più d’uno) di dormire a turno? Ecco il geniale supporto alla idea del ministro Nordio del sovraffollamento non come causa ma come antidoto dei suicidi; ovviamente chi ha invece, giustamente, indicato nel sovraffollamento un fattore favorente, una concausa e non la causa principale, lo ha fatto tenendo conto sia del distress che comporta il vivere senza un minimo di spazio vitale sia la difficoltà del personale che potrebbe contrastare e prevenire le pulsioni autolesioniste, di dover “seguire” tante e troppe persone per le proprie energie; grande è il rischio di dissonanza cognitiva per i detenuti e per tutta la opinione pubblica nel constatare che il ministero di grazia e giustizia che dovrebbe contribuire al rispetto della legge, in prima persona, viola il diritto, la legge e persino il senso di umanità. Senza l’aspettativa che un ministro incaricato da questo governo possa fare “meglio” di Nordio e, ovviamente, come abbiamo già detto, senza nessun sentimento di ostilità personale nei confronti dell’attale ministro, tuttavia Nordio sbaglia gravemente su tutta la linea ed è necessario che rassegni le sue dimissioni e vogliamo dare speranza al tentativo di fermare la strage in atto nelle carceri italiane. Non che le responsabilità del ministro sono evidenti solo oggi: non possiamo dimenticare quello che ha riferito in parlamento a proposito della morte di Matteo Concetti nel carcere di Ancona; la condotta di questo ministro sul tema della prevenzione del suicidio non dà adito a nessuna speranza. *Portavoce Centro F. Lorusso Referendum sulla giustizia, Italia spaccata. L’analisi e i numeri di Alessandro Amadori affaritaliani.it, 29 settembre 2025 Il 90% degli elettori di Centrodestra sostiene la riforma, mentre il 61% di quelli di Centrosinistra è contrario. La riforma della giustizia, con la sua proposta di separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, si avvicina al suo momento decisivo: il referendum costituzionale confermativo, previsto per la primavera del 2026. E mentre il Parlamento si avvia verso l’approvazione definitiva, l’opinione pubblica italiana si mostra profondamente divisa. Più in dettaglio, secondo un sondaggio YouTrend per Sky TG24, tra gli italiani che esprimono un’intenzione di voto, il 51% voterebbe “Sì” per confermare la riforma, mentre il 49% sceglierebbe il “No”. Un equilibrio precario, che potrebbe facilmente ribaltarsi in campagna elettorale. L’affluenza stimata è del 55%, sufficiente per rendere più che valido il voto, dato che per i referendum costituzionali non è previsto il quorum. Un altro sondaggio, condotto da SWG per La7, mostra un quadro leggermente diverso: il 44% voterebbe “Sì”, il 21% “No”, ma ben il 35% si dichiara indeciso. Questo dato evidenzia quanto il tema sia tecnico e poco “digerito” dal grande pubblico, ma anche quanto sia aperta la partita. La faglia politica è netta: il 90% degli elettori di Centrodestra sostiene la riforma, mentre il 61% di quelli di Centrosinistra è contrario. Tuttavia, anche all’interno delle opposizioni si registrano posizioni sfumate: Azione ha votato a favore in Parlamento, mentre Italia Viva ha criticato il metodo ma non il merito della riforma. I sostenitori della riforma puntano su una maggiore imparzialità del sistema giudiziario. Separare le carriere, sostengono, significa evitare che un magistrato possa passare da ruolo accusatorio a ruolo giudicante, compromettendo la neutralità del processo. Inoltre, la creazione di due Consigli Superiori della Magistratura e di un’Alta Corte disciplinare dovrebbe rafforzare la trasparenza e ridurre il rischio di corporativismo. Dal canto loro, i contrari temono che la riforma possa indebolire l’autonomia della magistratura e aprire la porta a un controllo politico più diretto sulle procure. Alcuni giuristi e magistrati, come ad esempio Nicola Gratteri, hanno espresso dubbi sulla separazione, pur sostenendo altri aspetti della riforma come il sorteggio dei membri del CSM. Inoltre, il caso Almasri ha sollevato polemiche sulla politicizzazione della giustizia, alimentando la diffidenza verso l’intervento governativo. In conclusione, il referendum sulla giustizia si profila come uno spartiacque non solo istituzionale, ma anche politico. Per Giorgia Meloni e il suo governo, rappresenta l’occasione di consolidare il consenso su una riforma simbolo della “rivoluzione istituzionale” promessa in campagna elettorale. Per le opposizioni, invece, è il terreno su cui misurare la propria capacità di mobilitare l’elettorato su un tema complesso ma cruciale per la democrazia. In gioco non c’è solo la struttura della magistratura, ma anche il rapporto tra poteri dello Stato, la fiducia dei cittadini nella giustizia e, in ultima analisi, l’equilibrio tra garanzie e governabilità. Il voto referendario sarà dunque anche un vero e proprio termometro politico: misurerà sia il gradimento della riforma sia, almeno in parte, la maturità del sistema democratico italiano di fronte a una delle sue sfide più delicate. *Politologo e sondaggista I precari dei palazzi di giustizia, 400 posti a rischio di Andrea Vivaldi La Repubblica, 29 settembre 2025 Assunti con i fondi Pnrr, lavorano al fianco dei magistrati. I contratti scadono a giugno. Sono le figure che negli ultimi anni hanno permesso in tanti tribunali di rendere più veloce la macchina della giustizia. Da quando, oltre tre anni fa, sono stati assunti a tempo determinato, si sono ridotti i tempi dei processi. E soprattutto sono stati abbattuti enormi carichi di fascicoli arretrati: migliaia di cause andate finalmente a sentenza. Eppure adesso quei lavoratori della giustizia che erano stati ingaggiati attraverso il Pnrr rischiano di non essere confermati. Il loro futuro è incerto. Ufficialmente i contratti scadranno a giugno 2026, ma il loro destino si deciderà molto probabilmente a breve, con la prossima Legge di Bilancio. Entro fine anno il governo deciderà se destinare i fondi necessari a mantenere gli attuali organici. In Toscana si contano oltre 400 “precari del Pnrr” e quindi a rischio. La fetta più grande è al palazzo di giustizia di Firenze: 270 tra tribunale e Corte d’Appello. Sono operatori data entry, cioè dedicati all’inserimento dati oppure alla trascrizione da cartaceo a digitale, poi funzionari tecnici dell’amministrazione, contabilità, informatica, ma soprattutto ci sono addetti all’ufficio per il processo (Upp). Una categoria, quest’ultima, finita a lavorare a fianco dei magistrati, dando una mano nella preparazione delle udienze, nella gestione di migliaia e migliaia di pagine di processi. Permettendo ai giudici ad esempio di concentrarsi maggiormente nella definizione delle sentenze. Per i 12 mila professionisti ingaggiati in tutta Italia è stato per il momento formulato un decreto che ne prevede la stabilizzazione per circa 3 mila (2 mila 600 nell’area dei funzionari e 400 nell’area degli assistenti). Ma non è chiaro ancora con quale criterio saranno scelti. Una serie di incertezze, lamentano addetti e sindacati, che solleva numerosi dubbi. “Questi professionisti sono oggi un asse portante del sistema giustizia. Se vanno via, siamo al collasso - spiega Mirella Dato, responsabile del comparto Fp Cgil Firenze -. Stanno venendo impiegati sulla base di un modello organizzativo già presente in Europa che funziona e aiuta ad accelerare i tempi del processo. In diversi ormai svolgono attività che spetterebbe a personale a tempo indeterminato, fronteggiano la carenza profonda di personale in questo settore pubblico. Molti inoltre hanno abbandonato la professione forense perché credevano nella riforma”. Lo spettro di non essere rinnovati aleggia già da tempo. Tanto che mese dopo mese diversi Upp hanno già lasciato il posto: hanno rinunciato a lavorare nel ramo giustizia e sono andati a fare concorsi per accedere all’Agenzia delle Entrare, Inps, Agenzia Dogane e Monopoli, Comuni. “Molti hanno accettato posizioni in altre amministrazioni che erano a tempo indeterminato e quindi più sicure - prosegue Dato - chi è rimasto vive purtroppo una condizione instabile”. La Cgil già due settimane fa aveva indetto a livello nazionale uno sciopero per “i precari Pnrr della giustizia”. Al palazzo di giustizia fiorentino l’adesione era stata del 95%. “Noi chiediamo la stabilizzazione di tutti questi lavoratori - dice Maurizio Banci, rappresentante sindacale della Fp Cgil di Firenze - occorrono garanzie occupazionali per chi negli ultimi anni ha supportato direttamente i magistrati, l’organizzazione dell’ufficio ed ha reso più efficiente il sistema. È importante non disperdere competenze e avere investimenti stabili sul personale”. La Fp Cgil di Firenze, nei giorni scorsi, aveva sottolineato che “la giustizia italiana non può poggiarsi sul lavoro precario. Servono risposte immediate da parte del Governo e del ministero della Giustizia per garantire il futuro lavorativo di centinaia di persone qualificate che hanno contribuito a ridurre i carichi arretrati e a rendere più efficiente il sistema”. Francesco Petrelli: “Quel giudice alla gogna è il sintomo di un diritto emotivo” di Valentina Stella Il Dubbio, 29 settembre 2025 Il presidente dei penalisti italiani: “Il caso Torino deve farci riflettere: ormai da tempo le motivazioni hanno assunto il compito improprio di aderire ai sentimenti e alle aspettative del mondo della comunicazione”. Il tribunale di Torino ha assolto un imputato dal reato di maltrattamenti in famiglia “perché il fatto non sussiste” e lo ha condannato a un anno e sei mesi per le lesioni ai danni dell’ex moglie, avvenute il 28 luglio 2022. Una sentenza come tante altre che però ha scatenato feroci polemiche. Ne parliamo con Francesco Petrelli, presidente dell’Unione Camere Penali. Cosa pensa delle reazioni seguite alla diffusione della decisione del tribunale del capoluogo piemontese? Direi che è corretto porre al centro delle nostre valutazioni non l’assoluzione, ma proprio le reazioni che hanno fatto seguito alla diffusione mediatica di quella sentenza. Non è certo la prima volta che una motivazione provoca reazioni emotive nel pubblico, accade spesso quando si tratta di reati di genere, ma certamente in questo caso si sono verificati eventi che devono farci riflettere. Non credo sia mai capitato che si raccogliessero in pochi giorni 39.000 firme a favore di una petizione con la quale si chiede la rimozione di un giudice reo di non essersi adeguato a presunti dogmi comunicativi. Non solo si deve punire ma si deve punire secondo un formulario prestabilito. Il fatto che la sospensione condizionale venga subordinata all’esecuzione da parte dell’imputato di un “corso di recupero” ed al pagamento di una provvisionale di 20.000 euro viene eclissata del tutto. Si tratta di sintomi preoccupanti di una giustizia penale del tutto irrazionale promossa “a furor di popolo”. Come giudica l’iniziativa della presidente della commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio di chiedere gli atti del procedimento di Torino e audire il magistrato estensore della sentenza? Non era mai accaduto che una Commissione parlamentare decidesse di convocare un giudice per rendere conto alla politica della sua decisione: si tratta di un precedente pericolosissimo di fronte al quale mi sembra che solo l’Ucpi abbia lanciato un grido di allarme a tutela dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura. In un Paese che ogni giorno invoca la separazione dei poteri che significato assume il fatto che un giudice sia chiamato a giustificare davanti al Parlamento il come e il perché dell’esercizio della giurisdizione? È un’idea medievale che finisce con l’azzerare ogni ragionevole e necessario limite all’esercizio delle rispettive legittime funzioni. Quello che sorprende è la posizione possibilista della magistratura associata e il fatto che l’Anm non sia invece insorta. In merito alla vicenda anche il Pd ha parlato di vittimizzazione secondaria. Si commenta troppo in fretta senza leggere tutta la sentenza, occorre inseguire il paradigma vittimario o è tutto giusto? La verità è che da tempo le motivazioni delle sentenze hanno smesso di adempiere alla semplice funzione di giustificazione tecnica delle decisioni assumendosi il compito improprio di persuadere il pubblico, di aderire emotivamente ai sentimenti ed alle aspettative del mondo della comunicazione. Questo avviene in entrambi i sensi, sia per indulgere a valutazioni moraleggianti sugli autori dei reati ed a giudizi etici sulla persona del reo, come anche laddove capiti che il giudice si ponga dalla parte dell’imputato: l’errore è il medesimo. Solo che quando si indulge nel “furore bestiale del branco” o nella “indole depravata e insensibile del reo” la cosa passa inosservata in quanto si tratta di uno stile che asseconda lo spirito giustizialista del pubblico, mentre se il giudice dimostra ad un qualsiasi fine adesione psicologica ai sentimenti dell’imputato (“come dargli torto”!) si passa alla gogna. Il giudice deve porsi il problema di come una sentenza può essere percepita dall’opinione pubblica oppure no? Deve fare attenzione a come la scrive, in pratica? Certo che il giudice deve fare attenzione. Ma non deve mai equivocare la giustificazione con la ricerca del consenso, la motivazione non deve piacere, non deve mai persuadere il pubblico, non ha quello scopo. La motivazione deve conseguire un obiettivo tecnico. Credo che il problema stia sempre nel fatto che il giudice non deve mai scendere a quel livello di confidenza con la materia che tratta. Ma questo deve valere sempre a prescindere da presunti paradigmi vittimologici o giustificazionisti. Io credo che poi debba necessariamente esistere una linea netta che separa il giudizio dal pubblico. Dove quella linea scompare si mette in crisi lo stesso statuto della civiltà giuridica dell’occidente e dello stato di diritto. Immaginare una giustizia amministrata a mezzo di petizioni, di voto espresso sui social, nella quale non vi è distinzione fra esiti delle decisioni e consenso popolare, sarebbe non solo la fine del processo come lo intendiamo convenzionalmente, ma anche la fine della convivenza civile, si trasformerebbe ogni giudizio in un linciaggio. Secondo lei gli attacchi ai giudici possono indurli ad assumere in futuro un atteggiamento conformista, meno rischioso rispetto a questioni sensibili? Senza citare autori come Daniel Kahneman e testi come Rumore, basta dire che i giudici sono esseri umani e come tali soggetti ai più diversi condizionamenti ambientali. La tentazione di operare un adeguamento convenzionale alle esigenze ed alle aspettative del pubblico certamente esiste. Può verificarsi quel fenomeno disfunzionale che in campo sanitario è definito “medicina difensiva”, il giudice potrebbe essere indotto ad assumere le decisioni più confacenti alle aspettative del pubblico anche laddove le evidenze del processo dovessero disattendere l’assunto accusatorio. Si pensi all’uso delle misure cautelari in materia di codice rosso, qui la pressione è evidentemente fortissima, mentre il giudice nei limiti del possibile dovrebbe rimanere indenne da condizionamenti emotivi. Molto più spesso sono gli avvocati ad essere messi alla gogna per aver difeso il cosiddetto “mostro”. In questo, avvocatura e magistratura dovrebbero combattere la medesima battaglia culturale? Il difensore vive la propria esperienza professionale nella tutela dei diritti dell’assistito spesso in solitudine, non solo avendo contro l’opinione pubblica, ma anche contrastato dalla pubblica accusa e senza poter confidare in un giudice terzo. Non solo messo alla gogna ma spesso anche minacciato per aver osato assistere il presunto “mostro” autore di reati esecrabili. Pensiamo alle colleghe che vengono insultate e minacciate solo perché hanno osato assumere la difesa di un imputato di reati sessuali. Per poter combattere la medesima battaglia culturale la magistratura requirente dovrebbe disinnescare certi cortocircuiti mass-mediatici che alimentano queste tensioni intorno ai reati di genere, abbassando i toni ed evitando quel clima da scontro del bene contro il male che troppo spesso viene pericolosamente recepita nei circuiti della comunicazione di massa. Lazio. Vita migliore in carcere, 250mila euro a associazioni, cooperative e enti no profit tusciaweb.eu, 29 settembre 2025 La Regione finanzia progetti di miglioramento della vita detentiva, con un budget di 250mila euro, per sostenere attività trattamentali, culturali e di benessere nelle carceri del Lazio. Scadenza domande, il 30 settembre 2025. Pubblicato l’avviso pubblico “Costruire futuro” (deliberazione n. 644 del 24/07/2025) con l’obiettivo di sostenere interventi finalizzati al miglioramento della vita dei detenuti e al loro reinserimento sociale negli istituti penitenziari del Lazio. Finalità e obiettivi. L’iniziativa si inserisce nelle attività promosse dalla legge regionale 8 giugno 2007, n. 7, e mira a garantire strumenti per migliorare le condizioni di vita in carcere e rispettare i diritti fondamentali delle persone private della libertà. Possono partecipare associazioni, cooperative e enti no profit con sede nel Lazio, aventi finalità attinenti alle tematiche trattamentali, e che abbiano ricevuto una nota di gradimento da parte degli istituti penitenziari, delle Rems, o degli uffici di servizio sociale coinvolti. Ogni progetto può avere una durata massima di dieci mesi e ricevere un contributo fino a 15 mila euro, suddiviso tra spese correnti e in conto capitale. Tipologia di interventi finanziati. Il finanziamento copre progetti di attività trattamentali e di supporto ai detenuti, tra cui: sostegno alla genitorialità e mantenimento dei legami affettivi, con particolare attenzione alle relazioni tra detenuti e familiari, anche attraverso percorsi di genitorialità responsabile; azioni di sensibilizzazione e prevenzione della violenza di genere, con iniziative di informazione e formazione; attività per il benessere psicofisico, inclusi sport, corsi di primo soccorso e pratiche educative; supporto ai detenuti stranieri, con servizi di interpretariato, traduzione, insegnamento della lingua italiana e assistenza al reinserimento; laboratori artistici, teatrali, musicali e creativi, oltre a attività di arteterapia e promozione culturale. Risorse disponibili e modalità di presentazione. Il finanziamento totale è di 250mila euro. Le domande devono essere inviate tramite Pec all’indirizzo politicheentilocali@pec.regione.lazio.it, entro le ore 14 del 30 settembre 2025, allegando tutta la documentazione richiesta, tra cui la domanda di partecipazione, il progetto, curricula e nota di gradimento. Le istanze saranno esaminate da una commissione regionale, che valuterà la conformità formale e la qualità dei progetti, secondo criteri di merito. È prevista la possibilità di richiedere integrazioni o chiarimenti ai richiedenti. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Morto in carcere dopo l’arresto: una marcia per Sylla L’Eco di Caserta, 29 settembre 2025 Una marcia per Sylla Mamadou Khadialy, il 35enne senegalese trovato morto venerdì scorso in una cella del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), è stata organizzata per martedì 30 settembre a Caserta dal Centro sociale ex Canapificio. Il corteo partirà da Piazza Dante (ore 17.30), per muoversi fino a Piazza della Prefettura. Il 35enne era stato arrestato giovedì dalla Polizia di Stato presso la stazione ferroviaria di Caserta per rapina, lesioni e resistenza a pubblico ufficiale; era accusato di aver rapinato del cellulare un uomo e colpito gli agenti della Polizia ferroviaria che cercavano di fermarlo. Prima di essere portato in carcere, Sylla era finito anche in ospedale per essere curato e calmato, essendo in forte stato di agitazione. Poi venerdì mattina la morte in cella; la Procura di Santa Maria Capua Vetere ha disposto l’autopsia sul corpo di Sylla, per accertare le cause del decesso. Del suo caso si occupa l’avvocato Clara Niola, del foro di Napoli Nord, secondo cui familiari e gli amici del 35enne erano a conoscenza che “a Sylla erano stati somministrati dei farmaci a breve distanza di tempo, per cui appare necessario capire se quelle somministrazioni, così ravvicinate le une alle altre, fossero necessarie e soprattutto somministrabili”. Il 35enne senegalese era ben integrato, sarto presso l’azienda di Casalnuovo di Napoli Isaia & Isaia, era fidanzato con una ragazza italiana con cui risiedeva a Casagiove. Il Centro sociale ex Canapificio lo ricorda come “sarto eccellente, accompagnatore del Piedibus di Caserta. Sylla aveva bisogno di cure, non di essere sedato fino alla morte”. Brescia. Canton Mombello, la nuova Garante: “Condizioni al limite della tortura” bresciatoday.it, 29 settembre 2025 A Brescia il tema del carcere è una ferita che non si rimargina mai. Da anni detiene il triste primato del carcere più sovraffollato d’Italia. Al 31 agosto 2024 i detenuti erano 374, a fronte di una capienza regolamentare di appena 182 posti, con un tasso di riempimento che sfiorava il 205%. Alla fine dell’anno la percentuale è salita ancora, toccando il 213%. Numeri che da soli descrivono una condizione insostenibile, cui neppure la seconda struttura cittadina, quella di Verziano, sfugge: 122 presenze per 71 posti, pari a circa il 170% della capienza. Dietro le statistiche ci sono storie quotidiane di promiscuità forzata, spazi insufficienti, diritti compressi. È questa la realtà con cui si è trovata a fare i conti la nuova garante dei detenuti, Arianna Carminati, al suo ingresso nell’istituto. La denuncia della garante: ‘Una condizione disumana” - L’occasione per riaprire il capitolo è arrivata venerdì, durante la prima audizione di Carminati in Commissione Servizi alla Persona a Brescia. “Ho potuto toccare con mano - ha raccontato - come questa condizione rischi di trasformare la pena in un’esperienza di pura sofferenza, disumana e degradante, ai limiti della tortura”. Parole dure, ma che la Garante rivendica di aver scelto con cura e cognizione a fronte della realtà del carcere: celle nate per due persone che ne accolgono quattro, costrette a restare al loro interno per 22 ore al giorno. I materassi sono logori, i mobili scrostati, i servizi igienici inadeguati. Dal 2022 è stato ripristinato il regime chiuso, che ha cancellato la cosiddetta “sorveglianza dinamica” e ridotto ulteriormente gli spazi di socialità. L’idea stessa di pena come percorso rieducativo sembra sparire, sostituita da un modello meramente afflittivo. Le richieste dei detenuti - Le criticità non si fermano agli aspetti materiali. Ottenere una dieta speciale - ad esempio per i celiaci - diventa un percorso a ostacoli se manca la certificazione. Recuperare un permesso di soggiorno è un’odissea, poiché richiederebbe di recarsi di persona in Questura. I tempi per una visita medica sono lunghissimi e, a differenza dei cittadini liberi, i detenuti non hanno possibilità di ricorrere a prestazioni private a pagamento. La mancanza di personale è cronica: il SERT, che dovrebbe occuparsi delle tossicodipendenze, è gravemente sottodimensionato. Inoltre la struttura non è in grado di rilasciare certificazioni psichiatriche, necessarie a garantire la tutela dei detenuti con questo tipo di problematiche e di quelli che con loro vivono. “La prima esigenza dei detenuti che ho incontrato è di avere certezze in merito ai propri doveri, ma anche ai diritti”, ha spiegato Carminati. La realtà del carcere è, da questo punto di vista, molto sfumata: oggi non c’è neppure un regolamento interno d’istituto. “Le richieste che mi portano sono semplici: ascolto, l’accesso a una dieta specifica per problemi di salute, a una visita medica”. Non ascoltarle equivale ad avallare l’idea che non valga la pena di vivere nella legalità. Giovani e stranieri, le popolazioni più vulnerabili - A pagare il prezzo più alto di questo sistema sono i detenuti più fragili. I giovani, che rischiano di uscire dal carcere più fragili e segnati di quando sono entrati, spesso a contatto con figure criminali più esperte. E gli stranieri, che a Brescia rappresentano quasi la metà della popolazione detenuta. A Brescia la componente straniera rappresenta una quota rilevante del totale dei detenuti: molti non hanno un permesso di soggiorno valido. “Paradossalmente, possono lavorare durante la detenzione - ha ricordato Carminati - ma al termine ritornano in clandestinità”, privi di strumenti per regolarizzare la propria posizione. La garante ha auspicato l’apertura di un tavolo di confronto con Prefettura e Questura, sottolineando che “il parere della Questura sulla pericolosità sociale pesa in maniera decisiva sul rilascio o sul rinnovo dei permessi di soggiorno”. Sulla questione è intervenuto anche l’assessore Fenaroli, ricordando che “in Italia ci sono circa 500.000 persone senza un titolo di soggiorno valido” e che “molte di queste lavorano, contribuiscono, ma restano invisibili”. Il grido d’aiuto dell’UEPE - Tra i nodi più urgenti segnalati da Carminati c’è quello dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (Uepe), chiamato a seguire i detenuti che accedono a misure alternative o percorsi di reinserimento. A Brescia l’ufficio dispone di appena 30 operatori, a fronte di circa 4.000 persone in carico e oltre 6.000 incontrate durante l’anno. Numeri che rendono evidente la sproporzione tra bisogni e risorse. “L’UEPE ha bisogno di sostegno”, ha avvertito la garante. “Il Comune può giocare un ruolo mettendo a disposizione operatori che affianchino il lavoro psicologico e di risocializzazione, che oggi resta scoperto. E sarebbe fondamentale attivare anche mediatori linguistico-culturali, anche solo con una presenza limitata, una volta a settimana o ogni due”. Un invito chiaro all’amministrazione, affinché si faccia parte attiva nel colmare almeno in parte il divario che rischia di svuotare di senso la stessa funzione dell’UEPE: quella di evitare che il carcere sia l’unico orizzonte possibile. Fenaroli: “Procediamo per piccoli passi” - Nella discussione è intervenuto anche l’assessore ai Servizi sociali Marco Fenaroli, che ha provato a tracciare una visione di lungo periodo. “Siamo di fronte a una questione complessa, che non si risolve con un singolo intervento”, ha detto. “Come amministrazione possiamo dare un contributo, ma dobbiamo muoverci per gradi, con piccoli passi concreti e sostenibili”. Per esempio occuparsi dei materassi, come già accaduto con le lavatrici, arrivate in carcere a seguito di due anni di lavoro. Oppure, aumentare la rete degli alloggi a disposizione per il fine pena, oggi appena una decina. Il tema della casa, assieme al lavoro, rappresenta per i detenuti in uscita un tassello cruciale per il reinserimento: “Il numero crescente di persone che escono richiede soluzioni abitative, e sappiamo che il mercato non aiuta. Possiamo iniziare a fare qualche passo, raddoppiando gli alloggi disponibili tramite le associazioni, senza aspettare soluzioni straordinarie”. Su tutto, resta la consapevolezza delle dimensioni della questione, che va ben oltre la competenza comunale. “Non possiamo affrontare queste sfide da soli”, ha ricordato l’assessore. “È importante coinvolgere l’Associazione dei Comuni Bresciani e la Provincia, perché le persone in carico ai servizi sociali non sono tutte di Brescia città. Solo confrontandoci su scala più ampia possiamo dare risposte concrete”. Taranto. Suicidio in carcere, il medico e la psicologa rischiano un processo Gazzetta del Mezzogiorno, 29 settembre 2025 L’uomo era giunto al “Carmelo Magli” il giorno precedente: era considerato a “rischio lieve”. Rischiano di finire a processo la psicologa e il medico del carcere di Taranto coinvolti nell’indagine partita dopo il suicidio di un detenuto arrivato al “Carmelo Magli” solo il giorno prima del tragico gesto. La Procura di Taranto, al termine delle attività d’indagine coordinate dal pubblico ministero Rosalba Lopalco, ha infatti chiesto il rinvio a giudizio dei due professionisti. La psicologa, nella qualità di membro della equipe psichiatrica, aveva il compito di condurre un colloquio di primo ingresso con i detenuti appena arrivati nell’istituto. Dopo aver constatato che l’uomo aveva manifestato un “rischio di suicidio lieve” e ritenuto necessaria la sorveglia per evitare gesti autolesionistici, ha inviato una mail alla sezione di medicina penitenziaria, ma non ha comunicato al direttore del carcere e alla Polizia penitenziaria la sua conclusione professionale. Questa mancata segnalazione ha impedito, per la procura, che si attivassero le procedure stabilite in questi casi: il 22 aprile 2023, solo 24 ore dal suo arrivo nel penitenziario, l’uomo si era infine tolto la vita impiccandosi nella cella. Nell’inchiesta, come detto, è coinvolto anche il medico di guardia del reparto: quest’ultimo, stando alla ricostruzione degli inquirenti, una volta ricevuto quel certificato dalla psicologa, ha confermato la diagnosi e poi inserito nella cartella clinica l’esito e la diagnosi, senza però, avvisare il personale di polizia penitenziaria e far scattare i controlli di sicurezza intorno al detenuto. Insomma, i due professionisti difesi dagli avvocati Alessandro Scapati, Gaetano Vitale e Francesco Fico, secondo il pm Lopalco, avevano l’obbligo di informare con urgenza, anche verbalmente, le condizioni di fragilità psicologica del detenuto e non facendolo, avrebbero contribuito alla formazione delle condizioni che hanno permesso all’uomo di pianificare, organizzare ed eseguire la sua morte all’interno della cella. Trieste. Inaccettabile dormire per terra in carcere di Giovanna A. de Manzano* Il Piccolo, 29 settembre 2025 “È inaccettabile”: sono le parole epigrafiche di recente pronunciate da chi in carcere ci lavora da una vita, che cristallizzano la condizione attuale dei detenuti della Casa circondariale di Trieste, costretti a dormire nel “braccio”, cioè in corridoio, perché non vi è più spazio neppure in quelle celle già sature di corpi, di degrado e di sofferenza. La capienza massima che le nostre carceri sopportano, a Trieste come in Italia, è ampiamente superata si parla de1140% in più della capienza effettiva, con ben 62 suicidi da inizio anno. È inaccettabile dormire (e vivere) in corridoio, è inaccettabile dormire in otto in celle da quattro, è inaccettabile non avere privacy neppure in bagno, così come è inaccettabile scontare una pena che diventa tortura, diventa condizione inumana, tanto che quella pena impone spesso pure un risarcimento del danno a spese dei contribuenti, senza dare la possibilità al reo di rivisitare la propria condotta antisociale e senza offrirgli poi l’occasione di un inserimento o reinserimento nel mondo, che è in primis inserimento lavorativo e abitativo, visto che viviamo su un piano materiale. Tutto ciò non è solo un problema di chi in carcere ci entra e poi ci resta, ma è un problema di tutti, perché la nostra sicurezza sociale dipende ovviamente anche dalla sorte degli ex detenuti. Non è tanto difficile da capire. Se chi è stato un tempo in carcere continua a delinquere, allora vi è una falla nel sistema. In questo contesto si inserisce l’iniziativa “Per un carcere umano”, promossa da un gruppo di avvocati e magistrati di Milano, che sta ora replicando l’iniziativa già lanciata a luglio 2025 di un digiuno a staffetta per sensibilizzare la classe politica a intraprendere serie riforme nel sistema penitenziario. Spiega l’avvocato Elisabetta Burla, Garante Comunale dei Diritti dei Detenuti: “E una protesta non violenta che proseguirà sino a che il numero dei detenuti non sarà adeguato agli standard di minima civiltà. L’iniziativa è rivolta a tutti e consiste in una giornata di digiuno, in un giorno liberamente scelto, in cui ci si impegna a non assumere cibi solidi. Una sfida per arrivare a 5.000 adesioni in Italia”. Il digiuno, come forma di protesta, è lo strumento principe per la difesa non violenta dei diritti civili. Per aderire all’iniziativa scrivere una email a peruncarcereumano@gmail.com, indicando nomee cognome, professione e giorno di digiuno. Non è massacrando la dignità umana che si ottiene giustizia. *Avvocato Bergamo. L’uomo che vive tra i rottami nel parcheggio dell’aeroporto di Fabio Paravisi Corriere della Sera, 29 settembre 2025 “Sono stato 25 anni in carcere, questa ormai è casa mia”. Ai margini della più grande area di sosta dello scalo di Orio al Serio, auto abbandonate diventano rifugio di disperati. Il racconto: “Sono stato in prigione per omicidio, da 7 anni abito qui”. “Non andare dietro la Ford”, avverte. C’è una buona ragione: “Ci sono i topi morti e poi ti gratti tutto”. Si strofina un braccio per dare l’idea. Sessanta chili d’uomo e sessant’anni portati in modo impietoso, tatuaggi sbiaditi, pochi denti, l’alluce sinistro perso per il diabete, vive nell’angolo più lontano del parcheggio P3 dell’aeroporto di Bergamo tra la Ford coi topi morti, a fianco delle altre auto ridotte a rottami, discariche e alloggi di fortuna. Ci abita da sette anni, racconta, dopo averne fatti venticinque in carcere. Dice per omicidio, chissà se è vero. Ha poca roba al mondo, ma quello che ha è qui. Il parcheggio - Il P3 ha 1.500 posti auto sparsi in 150 mila metri quadrati tra la superstrada per Orio e l’autostrada, ma ancora nel territorio di Bergamo. In agosto nella zona delle casse è stato trovato morto un italo-argentino. È il parcheggio più lontano dallo scalo e uno dei più convenienti, chi ci entra in una mattina di settembre fatica a trovare un posto libero. La distesa di auto è punteggiata da vetture coperte da lenzuola o con l’erba alta attorno. Ogni tanto succede che qualcuno lasci l’auto in un parcheggio di Orio per poi sparire: sono mezzi rubati, usati per rapine o sul punto di essere sequestrati. Dopo un po’ le vetture coperte di polvere vengono notate e trasferite qua in fondo, lontano da quasi tutto ma non abbastanza dai turisti che guardano con sconcerto l’angolo di discarica. Ora una convenzione prevede che quindici mezzi l’anno vengano portati via dal Comune, ma a spese della Sacbo, in una ditta specializzata. Dopo gli accertamenti per stabilire la loro provenienza verranno smaltiti come rifiuti. Le carcasse - La fila è aperta da un’Alfa Romeo, il marchio è sbiadito ma c’è ancora la targa, di Genova. La portiera è socchiusa, ci sono i sedili stesi da chi ha usato l’auto per dormire, resti di cibo, un tubetto di crema per le mani, pantaloni arrotolati e un sacchetto del Milan store. La vicina è una Bmw, la portiera è chiusa ma il finestrino non c’è più, volendo si entra da lì. I sedili in pelle beige coperti di schegge di vetro rimpiangono antichi padroni. Poi una Peugeot con la portiera presidiata da un piccolo sciame di api. Le auto vicine, una Scenic, una Seicento turbo targata Milano e un’altra Bmw, hanno un destino simile: finestrini o parabrezza a pezzi, sedili coperti di vestiti, ombrelli e rifiuti. Sulla recinzione ci sono dei jeans, stesi come ad asciugare. L’ex carcerato - Di colpo dal fondo della fila spunta lui, con aria bellicosa. È il suo territorio, non vuole nessuno. Non dà il nome ma racconta tutto: l’infanzia in Calabria, il famoso omicidio ma senza dettagli, gli anni in diverse carceri fino al trasferimento a Bergamo per avvicinarsi ai parenti per i colloqui. Vive qui da quando è uscito dalla prigione, sette anni fa: “Per forza: dove andavo, al dormitorio con gli africani? Meglio qua”. Nelle ultime auto c’è accatastata la sua vita. C’è di tutto: sedie di plastica, vestiti, un carrello della spesa e tante ruote di bicicletta. “Loro buttano, io prendo”. Le auto hanno il parabrezza sfondato: “Qua una volta c’erano albanesi che rompevano le scatole, li ho mandati via, sono tornati e si sono vendicati”. Indica una Ford con due buchi sul parabrezza, uno piccolo e uno con incrinature che descrivono un cerchio: “Le hanno sparato, il buco piccolo è di pistola, l’altro del pallettone di un fucile a canne mozze”. Non è facile capirsi, ogni tanto decolla un aereo e il frastuono copre tutto. Lui risponde con impazienza, agitando le mani con le dita a carciofo: non si capacita che qualcuno non capisca come trovare da mangiare e da dormire, e non si riconoscano al volo i segni dei pallettoni. Come si fa a vivere per sette anni tra i rottami di un parcheggio? “Io questo posto lo conosco da cima a fondo, di macchine distrutte ce ne sono trentadue. Faccio il custode, i turisti mi danno la mancia per tenergli d’occhio le macchine”. Indica la recinzione affacciata sulla superstrada, schiacciata da molti passaggi: “Ci sono quelli che rubano nelle macchine dei turisti, passano da lì per non farsi vedere dalle telecamere all’entrata. Ma io ho un bastone di ferro e li caccio via e chiamo la polizia col cellulare”. Cerca di dare dignità a una scelta che dev’essere stata obbligata e prova a cacciare giù la disperazione: “Io sono pulito - assicura. Ho l’acqua, mi lavo e lavo i panni. Mangio con le mance dei turisti, dormo nella Volkswagen d’estate e in inverno vado in aeroporto, sto lì fino alle 6 del mattino, quando arrivano i viaggiatori. Lì non chiedo mai soldi, ogni tanto mi offrono un caffè. Io rispetto e mi rispettano. Non sono l’unico: la sera alle otto e mezza parte dalla stazione un autobus pieno di gente per dormire lì”. Tossisce spesso: “Prendo le medicine dal medico in stazione”. Indica il piede che spunta dalle ciabatte: “Ho perso un dito per il diabete e mi hanno dato il 70 per cento di invalidità, sono quattro soldi”. Gli hanno già detto che le auto verranno portate via, così si è costruito una tenda che sarà la sua nuova casa. Quella, è sicuro, non la sposteranno: “Perché dovrebbero? Io non do fastidio a nessuno”. La polizia locale - Arriva una pattuglia della polizia locale, si conoscono e si salutano. Gli agenti controllano le auto, prima di portarle via dovranno fare una sanzione. Alcune non hanno la targa ma non c’è problema: le ha lui, le ripesca dal fagotto e le fa fotografare. Parte un altro aereo, fuori c’è il traffico, un’auto con targa tedesca cerca posto. Lui guarda il suo quartierino di rottami che tra poco sparirà. Quanto andrà avanti così? “Non so cos’altro posso fare. Ma credimi, è dura”. E i parenti? Si volta dall’altra parte: “Lascia perdere”. Bari. Iscrizioni aperte per “Piccola scuola di teatro (in) carcere” ciranopost.com, 29 settembre 2025 Progetto laboratorio di Teatro Altrove della Compagnia Sala Prove del Teatro Kismet a cura di Lello Tedeschi presso l’Istituto Penale per i minorenni ‘Fornelli’ di Bari. Nel carcere minorile di Bari, in una sala attrezzata chiamata Sala Prove, il Kismet cura un Laboratorio Permanente di Teatro (in) Carcere in cui convergono formazione, produzione e ricerca, per un’attività che coinvolge giovani detenuti e giovani attori esterni in formazione in un percorso di ricerca teatrale integrata che produce spettacoli professionali aperti al pubblico esterno. E per farlo al meglio aggiunge centinaia di ore di formazione professionale ai mestieri della scena, tra pratica d’attore, drammaturgia, scenotecnica, costumi, trucchi, audiovisivi, in rete con altre quindici realtà di teatro carcere italiane nell’ambito del progetto Per Aspera ad Astra, riconfigurare il carcere con cultura e bellezza, promosso da ACRI, capofila la Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo. Teatro Altrove è la piccola scuola di teatro (in) carcere in cui si sviluppa la pratica drammaturgica e scenica dell’attività, un percorso di alta formazione alla pratica di scena rivolto a giovani detenuti attori e giovani attori esterni in formazione, insieme, per un approfondimento tecnico della pratica d’attore affinandone creatività e autorialità a partire dall’uso attento e efficace della propria corporeità scenica, fisica e emotiva. Per questa stagione abbiamo la possibilità di inserire gratuitamente in tale attività max quattro giovani tra i 18 e i 25 anni con esperienze teatrali pregresse, fino alla realizzazione di uno o più eventi performativi aperti al pubblico. L’attività laboratoriale gratuita si svolgerà presso Sala Prove dell’Istituto Penale per i Minorenni “Fornelli” di Bari da gennaio a giugno 2026, il lunedì e mercoledì dalle 13.30 alle 17.00 per oltre 100 ore complessive di attività. Con il contributo di Per Aspera ed Astra - Riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza, Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra, Fondazione con il Sud. Per candidarsi è necessario inviare via mail una nota motivazionale e Curriculum Vitae a lellotedeschi@virgilio.it entro il 20 ottobre 2025, seguirà un incontro conoscitivo. Le richieste saranno valutate a sportello e il numero necessario di partecipanti potrà essere raggiunto prima di questa data. Per ulteriori informazioni: 3384739337. Ferrara. La città incontra il carcere, un dialogo aperto estense.com, 29 settembre 2025 Venerdì 3 ottobre, nell’ambito del programma “Intanto a Ferrara” del Festival di Internazionale, presso la Casa Circondariale di via Arginone si terrà la terza edizione dell’iniziativa dal titolo “La città incontra il carcere”. Lo scopo di questo incontro, aperto al pubblico, è quello di creare occasioni di comunicazione e di crescita fra le persone, di far conoscere alcune fra le diverse attività rieducative in atto all’interno dell’istituto penitenziario ed il giornale del carcere Astrolabio che, come tanti altri progetti di valenza sociale, è finanziato dal Comune di Ferrara attraverso le risorse del fondo sociale regionale. Il comitato di redazione del giornale Astrolabio, formato da persone ristrette e un curatore, terranno una riunione di redazione, aperta al pubblico, durante la quale chiunque potrà intervenire, interagire e partecipare attivamente alla discussione. Per partecipare all’incontro in carcere è obbligatorio prenotarsi entro il 20 settembre, inviando una e-mail a giornaleastrolabio@gmail.com indicando: nome e cognome, luogo e data di nascita ed allegando la scansione della carta di identità. Si ricorda che l’ingresso alla Casa Circondariale è consentito ai maggiori di 18 anni incensurati e non è permesso ai parenti dei detenuti reclusi nel carcere di Ferrara. Vista la capienza della sala, potranno entrare al massimo 30 persone. In caso di sovrannumero, la precedenza sarà data alle prime 30 persone che invieranno la richiesta di partecipazione. Dopo il 20 settembre, insieme alla conferma di accesso all’iniziativa, verrà inviata comunicazione della condotta da tenere, degli oggetti vietati, degli orari di ritrovo e di quelli di ingresso. Verona. “Un filo di speranza… per Gaza”, attività nella biblioteca delle Sezioni Femminili Ristretti Orizzonti, 29 settembre 2025 La gravità della situazione nella striscia di Gaza ci ha motivato ad aderire al progetto del movimento nazionale “Artisti tessili per la Palestina”: la biblioteca femminile della Casa Circondariale di Montorio si è così trasformata in un laboratorio di “ricamo poetico”, dove le donne detenute ricamano, con filo nero su piccoli rettangoli di tessuto bianco, i nomi di cinquanta bambini palestinesi (che ci sono stati assegnati dalle coordinatrici del progetto) uccisi durante il conflitto in atto con Israele, come forma di commemorazione e di resistenza. La scelta di questa modalità per esprimere solidarietà a Gaza si basa sul fatto che l’arte del ricamo (il “tatreez”) è stata inclusa nel patrimonio immateriale dell’Unesco come parte della cultura tradizionale palestinese. Tutti i rettangoli ricamati, realizzati da privati e associazioni di ogni parte d’Italia, saranno poi cuciti insieme a formare un lunghissimo nastro, che sarà donato a un museo, fondazione o eventuale mausoleo, che ricordi le vittime del genocidio di Gaza. Oltre alla necessità di prendere posizione anche in questa forma simbolica sulla tragedia di Gaza, questa iniziativa contribuisce a realizzare quei fini che ci proponiamo come volontari in carcere: creare ponti tra le persone detenute e il mondo esterno e favorire dentro il carcere un clima di condivisione e di collaborazione. Giulio Grosso: “Fotografo vecchi disegni sulla pelle dei detenuti prima che scompaiano” di Filippo Femia La Stampa, 29 settembre 2025 Il progetto “Inchiostro su strada” del tatuatore: “Tratti primitivi ma autentici, quella poesia va tramandata”. Giulio Grosso, 33 anni, è un tatuatore torinese. Quando esce dallo studio dove lavora, imbraccia la macchina fotografica e si trasforma in qualcosa a metà strada tra un archeologo e un antropologo dei tatuaggi. Va a caccia di quelli realizzati nelle carceri tra gli Anni ‘60 e gli ‘90. “Si tratta di disegni grezzi e artigianali, ma poetici. Il mio obiettivo è documentarli per mantenerli in vita: a breve scompariranno e non saranno più replicabili”, spiega. Una passione, la sua, nata quasi per caso. La scintilla? “Facevo il corriere Amazon e frequentavo le zone periferiche delle città - ricorda -. Durante le pause sono rimasto stregato dal tatuaggio di un anziano, ho iniziato a parlare con lui e ho chiesto se potevo fotografarlo”. In tutta Italia - Quello scatto, insieme ad altre decine, resta annegato nella galleria fotografica del suo smartphone. “Poi, un giorno, ho deciso di condividere la mia passione sui social. Volevo capire se il progetto potesse avere un seguito”, racconta. Nasce così “Inchiostro su strada”, pagina in cui Giulio pubblica i suoi scatti realizzati nelle periferie di Torino. Poi il suo sguardo si allarga e cominciano le trasferte: Genova, poi Livorno, Roma e Napoli. I disegni in cella - I disegni realizzati in carcere possono essere considerati la prima tessera della storia del tatuaggio. In cella venivano utilizzati aghi di recupero legati tra loro, l’inchiostro era ricavato da nerofumo allungato con urina. Nella carrellata dei soggetti immortalati da Giulio ci sono alcuni temi ricorrenti: “I pugnali e le pistole, in molti casi simbolo di vendetta. Farfalle e rondini, che riecheggiavano il desiderio di libertà. Poi il nome della donna amata, spesso incastonato in un cuore. Oppure le scritte per la mamma”. Erano fatti spesso di notte, lontano dagli sguardi dalle guardie carcerarie, e in condizioni igieniche pessime. Una cornice che, secondo Giulio, aggiunge fascino: per molti sono scarabocchi, lui invece vede un pezzo d’arte. Storie incise per sempre sulla pelle - Nel suo girovagare per le città, Giulio ha ascoltato una miriade di storie sul significato di quei disegni sulla pelle. Qualcuno ostentava il tatuaggio realizzato negli anni da galeotto, altri lo coprivano per paura dello stigma che il carcere ti cuce addosso. In alcuni casi la volontà di rimuoverlo aveva altri motivi. Come l’uomo che ha provato, con violenza, a cancellare il ricordo dell’ex moglie: “La delusione d’amore - racconta Giulio - lo aveva spinto a raschiarsi il braccio con un mattone, fino a sfregiarsi”. Il progetto “Inchiostro di strada” -Il progetto “Inchiostro di strada” diventerà presto anche un documentario video. Insieme a un collega film-maker, infatti, Giulio Grosso è riuscito a entrare in alcune carceri - da Regina Coeli al penitenziario di Matera - dove ha intervistato decine di detenuti. “Molti stanno scontando pene di 20 o 30 anni e hanno sulla pelle disegni unici”. Destinati a sparire in pochi anni. “Vorrei farli sopravvivere ai loro “proprietari” - conclude il tatuatore-fotografo -. Anche volendo, oggi non riusciremmo a realizzare quei disegni, così primitivi e autentici”. Stravolgere la religione (per fini politici) di Carlo Verdelli Corriere della Sera, 29 settembre 2025 Assistiamo al fenomeno di ideologie che, proprio nel nome di Dio, si cimentano a benedire posizioni e scelte che niente hanno a che fare con lo spirito evangelico. Mentre il mondo scivola verso il rischio catastrofico di un’altra grande guerra, con una irresponsabilità di atti e minacce che ci avvicinano al superamento del confine di non ritorno, prende sempre più corpo una impetuosa corrente d’odio che attraversa sia la scena internazionale sia quella dei singoli Stati, Italia compresa. E uno dei collanti di questa crescente e rabbiosa intolleranza sembra diventato la croce. Non una qualsiasi: la croce di Cristo. Non c’è un reato per l’uso improprio della parola Dio. Non esiste tribunale che sanzioni chi travisa a propri fini la pietra d’angolo del suo messaggio evangelico: ama il prossimo tuo come te stesso. Non c’è legge che eviti di trasformare il Padre in padrone. E così assistiamo al fenomeno di ideologie che, proprio nel nome di Dio, si cimentano a benedire posizioni e scelte che niente hanno a che fare con lo spirito evangelico e molto con una concezione autoritaria, gerarchica, dei rapporti sociali e anche delle relazioni politiche, belliche o commerciali che siano. Cuore di questa nuova chiesa, cristiana d’ispirazione ma tribale e pagana di fatto, sono gli Stati Uniti del secondo Trump, con un imperatore che si sente anche papa (si è fatto ritrarre in quella veste un po’ per celia e un po’ no), con la folla di fedeli Maga, con i suoi predicatori, come lo era Charlie Kirk, asceso a una specie di santità laica dopo essere stato oscenamente assassinato. Diceva, l’influencer Kirk, di voler salvare l’America. In realtà voleva salvarne una soltanto: la sua, bianca, armata, impaurita. Una volta arringò la platea sostenendo che “Dio non ci ha fatti tutti uguali, ci ha dato ruoli diversi”. Un’altra che “le minoranze devono ricordarsi di essere ospiti in questa casa”. Spesso smussava queste uscite il giorno dopo, ma intanto il messaggio era arrivato. Kirk parlava alla pancia di un Paese che vede nella diversità una minaccia, che trasforma la fede in un’arma e la Bibbia in una bandiera. Un Paese che ha trovato in Trump non un leader ma uno specchio. Quel Trump che continua a invocare Dio non per chiedere perdono ma consenso, con un messaggio primitivo e potente: Lui è dalla nostra parte. Difficile dire come faccia a stabilirlo, facilissimo capire il tornaconto di questa indebita appropriazione. Una legittimazione del proprio potere che trascende, letteralmente, il consenso elettorale. Un’investitura divina che cancella ogni traccia di responsabilità democratica e che vanta non illustri ma innumerevoli precedenti, dalle Crociate al “Gott Mit Uns”, Dio è con noi, impresso sulle fibbie del Terzo Reich. È il catechismo delle nuove destre, con la rispolverata trinità “Dio, patria e famiglia”, che fa proseliti anche in Europa, dalla Francia di Marine Le Pen all’Ungheria di Orbán, con la premier italiana che rivendica con furore la propria cristianità, il vicepremier Salvini che ha attraversato una fase, ma sembrerebbe superata, di baci esibiti alla medaglietta della Madonna, e una maggioranza che impone al Parlamento una seduta in memoria e onore di Charlie Kirk, che nessuno conosceva prima che venisse assassinato ma che è rapidamente assurto nell’eletta schiera dei martiri della Fede. Ancora, dal vangelo apocrifo dello stesso Kirk: “Dio ha creato l’America per essere una nazione cristiana e chi vuole cambiarla si mette contro il piano divino”. Un’altra volta, rivolto ai manifestanti per i diritti civili: “Non abbiamo bisogno di più uguaglianza, abbiamo bisogno di più ordine”. E ci risparmiamo i sermoni sulla prevalenza genetica dei bianchi sui neri o variamente colorati. Non c’è davvero più religione in questa appropriazione indebita della religione più praticata al mondo e nella sua diabolica distorsione in qualcosa che sta agli antipodi di quanto predicato dal Cristo e incarnato nella sua Passione. Come se le Tavole dei Dieci Comandamenti, con il loro profondo e inderogabile insegnamento a fare il bene, non fossero incise sulla pietra ma vergate con inchiostro simpatico. Gli ultimi saranno i primi, altro che “American First”. Ma quasi tutto è lecito in politica, anche condurci come pecorelle smarrite verso orizzonti angoscianti ma sotto sgargianti bandiere benedette da non si sa quale divinità, piegata alla propaganda, convocata nei comizi come un testimone compiacente. Dall’8 maggio scorso, siede sul soglio di Pietro il pontefice Leone XIV, al secolo Robert Francis Prevost da Chicago, Illinois. Il primo papa statunitense a ricoprire quella carica. Viene da domandarsi che cosa prova a vedere il Dio che rappresenta su questa Terra tirato per la tunica per cause che esulano dalla sua onnipotente divinità e che, comunque, sembrerebbero molto lontane dalle indicazioni di fratellanza, uguaglianza, amore per l’altro e per la natura, predicate dal Verbo. Dovrebbe valere una specie di tutela contro ogni tentativo di contraffazione e forse proprio lui, il Papa americano, potrebbe mandare una colomba viaggiatrice al suo conterraneo Donald, con un messaggio legato alla zampetta: “Non nominare il nome di Dio invano. Secondo comandamento. Grazie”. E soprattutto non usarlo come stemma sull’ariete che minaccia di travolgere l’ultima trincea della democrazia, della pace. Gaza ha risvegliato i figli della generazione G8 di Maurizio Maggiani La Stampa, 29 settembre 2025 Sono nati da una generazione picchiata, brutalizzata, torturata e sconfitta. Non hanno maestri, solo ispirazione. Sarà mai che il lupo abiterà con l’agnello e il leopardo giacerà col capretto? Per il leopardo non metterei la mano sul fuoco, tanto per cominciare di leopardi non ne ho mai visti e ne ho sentito parlare molto poco, riguardo al lupo invece ho una qualche attesa che il profeta Isaia possa non aver fatto solo che uno strano sogno. A questa ardita considerazione sono pervenuto di buon mattino, proprio mentre sui media fiammeggiava il memorabile discorso del presidente Trump all’assemblea generale delle Nazioni Unite. Nessuna metafora, solo pura e insignificante coincidenza temporale. Già, quando Alfio, il vicino insonne che a buio è già al lavoro nel suo campo, mi porta dal lupo io non sto infliggendomi la lettura dei giornali, ma in giardino a godermi il dono di un mattino splendente. Qui da noi a Borgo Tulipano queste di fine settembre sono mattine benedette dalla grazia d’Iddio; limpide, ariose, fresche, promettenti mattine, il sole si disfa delle nubi aurorali e con grazia si leva sulle colline grato alle leggi della gravitazione universale, nelle vigne ancora da vendemmiare prende a spandersi l’afrore del grado zuccherino ormai saturo e nella luce radente turbina il nembo dei moscerini già mezzo ubriachi, le giuggiole sono belle mature e basta una carezza a un ramo per farne una manciata che darà un profumo in più alla colazione. Nel mezzo di tutta questa beatitudine Alfio si palesa oltre il cancello, l’indice eretto sulla punta del naso per farmi tacere, muto mi ordina di gettare le giuggiole e di seguirlo. E me lo fa vedere, lo vedo il lupo anche se sono mezzo cieco, tra due filari della vigna a valle, languidamente disteso che pare anche lui beato come questo mattino, tra le zampe stringe qualcosa che sta lappando, potrebbe essere un grappolo di sangiovese o il sangue gocciante da un coniglio selvatico, non è dato sapere, è sottovento e rivolto alla valle, noi facciamo le scolte sioux in agguato, non ci sente, non ci odora e non ci vede, oppure ci sente, ci vede e ci odora e non gliene importa niente. Alfio sussurra che è un novello, io di lupi non ne so un granché, lui la sa lunga; tre anni fa i lupi sono arrivati alle nostre case e in una notte tenebrosa ad Alfio gli hanno pappato il vecchio Ciro, il suo capro lasciato alla catena, da allora se ne fa una passione. Ecco cosa accade, che ci siamo noi e un lupo, così vicini che se quello si degnasse di fare il suo lavoro in tre secondi ce l’avremmo alla gola, e invece non succede niente, tutto è compreso nella beata immobilità dell’alba di uno splendido mattino di fine estate. E noi non scappiamo, non fiatiamo, non chiamiamo la guardia venatoria, la guardia nazionale, la guardia forestale, niente, le capre di Alfio sono al sicuro nell’ovile, loro l’odore del lupo dovrebbero sentirlo, la sua cupa presenza avvertirla, ma se ne stano zitte anche loro. Vuoi dire che magari stiamo tutti facendo lo stesso strano sogno? E il lupo novello si lecca una zampa e prende a trotterellare verso il boschetto della Cornacchia. Ma sogni di gruppo interspecifici non se ne fanno, e dunque è accaduto qualcosa di strano e se non sappiamo dirci cosa, non io e Alfio, che ce ne stiamo ancora lì un po’, ancora in posa sioux, in silenzio, nel silenzio di questo beato mattino che una sfacciata fagianella rompe con la sua pigra e grassa cabrata dal nido nella macchia di sambuco. Ma cosa potremmo mai dirci? Ci beviamo un caffè in cucina e ancora non sappiamo per cos’altro aprire bocca; e ci sorridiamo, questo sì, e nel suo sorrido vedo quello che spero veda nel mio, una cosa molto infantile, un segreto tra Tom e Huckleberry, ci è capitato di vivere un istante nella meraviglia. Lo ripeto perché voglio essere chiaro, nessuna metafora, le cose sono andate così come le ho raccontate, e non è poi che sia successo quel granché. Ma ancora oggi qualcosa mi rimane di interdetto, qualcosa di meno di un pensiero compiuto, un interdetto con dentro un filo di sollievo. E se l’ordine delle cose potesse mutare, persino capovolgersi? Se infine qualcosa di inaspettato potesse ancora accadere? Mettiamo che la meraviglia non sia stata del tutto cancellata dalla faccia della Terra? E ancora più arditamente, se quello che ci appare la fine di tutto ciò che ci ha dato gioia e speranzosità e conforto e tenerezza e coraggio, in effetti la fine del mondo, almeno del mondo che volevamo abitare, non fosse il fine di tutto. Se nella natura del lupo fosse compreso anche il piacere di lapparsi un grappolo di sangiovese e in quella dell’uomo il piacere di starselo a guardare? C’è davvero qualcuno al mondo che possa vantare il potere di aver già scritto Il Gran Finale? Certo che c’è chi ci prova e lo proclama ai quattro venti, ma davvero è già tutto scritto da qui all’eternità? Non sono tra quelli che vedono in ciò che accade nelle coscienze della nuova generazione che ovunque ormai, e capillarmente, si sta rifiutando di assistere inane a ciò che accade in Palestina, l’albeggiare della rivoluzione; probabilmente sono troppo orbo per vederla la rivoluzione, anche se ho pur sempre riconosciuto un lupo a una qualche distanza. Eppure qualcosa di inaspettato sta pur accadendo e chi lo fa accadere sono i più giovani, i ragazzi di cui ci siamo sbarazzati ficcandoli nell’angolo del poliforme disagio e dell’opportuna fragilità, o in quello di una peculiare propensione alla stolidità asociale. Curiamoli, mettiamoli in riga e poi vediamo se ci possono tornare di una qualche utilità; bonus psicologo, rinforzo delle strutture correzionali, riordino dottrinale del sistema scolastico, e poi via a lavorare senza la puzza al naso. Questi ragazzi stanno facendo proprio quello che dà più fastidio, agiscono, e lo fanno per una ragione più che fastidiosa, si sono dotati a nostra insaputa di una coscienza morale, proprio ciò che per almeno una generazione si è alacremente operato per sopprimere, pervertendola con disprezzo in un neologismo, il buonismo. Una rivolta morale la loro? un afflato prepolitico? E per questo votati alla resa quando al manganello si aggiungerà la bocciatura a scuola, destinati alla delusione al primo sporco accordo stipulato sulla testa di un popolo? Non li conosco, posso solo osservarli e ascoltarli, ma quando vedo sfilare assieme gli scout delle parrocchie e i comunisti rivoluzionari, ho scoperto che esistono anche loro, giovanissimi agit-prop di un’idea talmente antica da non poter che apparire loro avvolta nel mistero, quando li vedo sfilare a migliaia a Genova, nella vecchia, stanca Genova, non posso che ricordarmi della mia giovinezza, e di come la mia rivolta fosse sorgiva come la loro, e morale, Dio è morto nei campi di sterminio, nelle auto prese a rate, nei miti falsi della patria e dell’eroe, nell’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai con il torto. Ricordate anche voi? La politica è venuta dopo e è venuta perché c’è stato chi, nella generazione che mi ha preceduto, ha avuto la saggezza di parlare e scrivere perché io capissi, la pazienza di ragionarci sopra con me, di contestarmi e di farsi contestare. Vogliamo chiamarli maestri? Per tornare a Genova, io quei ragazzi non li conosco, ma so chi sono. Sono i figli della generazione del G8, i figli di un’altra rivolta morale, una rivolta globale nonviolenta che si è data appuntamento a Genova per essere picchiata, brutalizzata, torturata e sconfitta. Confesso che ho avuto fino a ieri la certezza che è stata una sconfitta definitiva. Poi, inaspettati come non mai, eccoli i figli della sconfitta, cresciuti da madri e padri traumatizzati, educati nella paura, nella prudenza, nell’astensione, nell’inanità, eccoli essere e agire. Loro di maestri non ne hanno, la generazione che avrebbe questo compito, questo dovere, se lo è negato e ha provveduto ad autoassolversi; dovranno imparare da soli che la rivolta morale necessita di farsi politica per non dissolversi, e proprio non so come potranno fare. Mi auguro solo che ciascuno di loro abbia la fortuna di essere visitato, in un qualche splendido mattino, da un lupo novello e, illuminati dalla meraviglia, capire che nella natura del lupo non c’è la crudeltà ma la fame, e nella natura dell’umano non c’è la paura ma la vita, che a un lupo può anche piacere un grappolo d’uva e all’umano di restargli abbastanza vicino per riconoscerlo. E già questo potrebbe essere politica. Gli occidentali vivono nell’età del vuoto. Ma l’uscita non può essere la guerra di Massimo Cacciari La Stampa, 29 settembre 2025 Torna il clima della Belle Époque, quando il conflitto all’orizzonte era considerato inevitabile e non si lottava per evitarlo. Viviamo un’epoca in cui la sproporzione tra le tragedie che colpiscono interi popoli e le nostre parole è ormai tale che solo ad aprir bocca sembra di mentire. Che vale intendere, interpretare, ricercare cause e nessi storici di fronte a donne e bambini trattati come eserciti nemici in fuga? Neppure si prova vergogna a discettare sul nome più adatto per definire la “cosa” - chiamarla genocidio o ricostruzione immobiliare delle spiagge di Gaza non ne sposta di uno iota l’orrore. Io temo che essa, proprio nella sua violenza, dica del vuoto che sta tutti inghiottendo, che questo sia il suo vero nome. Il vuoto può contenere certo, ancora invisibili, i germi di nuovi organismi e nuovi ordini, ma nel momento in cui si manifesta sono la distruzione del passato, il mischiarsi dei relitti che da esso provengono, la babelica confusione delle lingue a dominare la scena. Gaza può oggi accadere perché il mondo sta precipitando in tale vuoto. Dentro di esso, segni destituiti ormai di ogni significato, vagano, come nobili fantasmi, le parole che credevamo potessero orientare le nostre vite. Democrazia significava inderogabile dovere di solidarietà, compito dello Stato rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono la libertà reale della persona, ripudiare la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali. Democrazia significava anche un’idea dei “diritti umani” non fondata sulla presunzione che la nostra civiltà ne costituisse la sola misura, e che a essa dovessero assimilarsi tutte le altre. Tutto sembra dimenticato. Il vuoto che si è aperto è anche questo buco della memoria, che si allarga di ora in ora. Dimentichiamo anzitutto le nostre responsabilità e le nostre colpe. La colpa è sempre dell’altro, il male sta sempre dall’altra parte. Noi, gli occidentali, i democratici, siamo innocenti. Le grandi Guerre sono colpa di padri e nonni. Roba passata, come mai esistita. Nulla ci insegna, nessun pericolo ci indica. La Guerra stessa diviene un “pezzo” della conversazione quotidiana. Dimenticato il suo orrore, se ne chiacchiera come di un evento “naturalmente” possibile. Proprio così avveniva nella Belle Époque alla vigilia dell’apocalisse 1914. Invece di gridare che la Guerra deve essere impossibile e fare tutto il possibile per risolvere le guerre in atto, si discetta sulla forma che essa potrebbe assumere e su come intanto continuare a condurre quelle ancora “locali”. C’è davvero da chiedersi se questa condizione di vuoto e di smemoratezza non sia il prodotto della evoluzione dei sistemi democratici dell’Occidente dopo la seconda Grande Guerra. L’”uomo democratico” si è via via ridotto all’”uomo proprietario”, per il quale l’unico bene che appare reale è il bene per sé. Pericolosissima illusione, che de-responsabilizza e nega ogni forma di partecipazione politica. Il passaggio da una libertà dimentica di ogni dovere, innocente nei confronti di ogni ingiustizia subiscano “gli altri”, a una libertà obbediente ai poteri che si pensa la possano proteggere, è una soglia facilissima da oltrepassare. Non appena una crisi metta in discussione i sacri diritti del solitario individuo, questi sarà sempre pronto a rifugiarsi in seno agli “amici del popolo”, che lo assicureranno della propria naturale bontà e gli spiegheranno come la crisi sia colpa esclusiva della perfidia del Nemico. È il passaggio sempre aperto tra democrazia e autoritarismo, libertà e sottomissione. Noi abbiamo dimenticato quanto sia facile varcarlo. Il vuoto è pieno soltanto del senso della nostra impotenza. Impotenza a dare un nuovo, concreto, pratico significato alle parole di cui ci siamo nutriti. Impotenza nei confronti di un sistema oligarchico-plutocratico di cui avvertiamo bene il dominio, ma che sfugge a ogni presa, in nessun modo determinabile secondo i vecchi criteri del Politico. Un sistema che tiene tutti liberamente al lavoro e “sotto processo”. Solo Kafka nel Novecento è riuscito a presagire una tale condizione umana. Naturalmente, abbiamo dimenticato anche lui. Se lo ricordassimo, proveremmo come lui orrore per tale condizione - e questo sarebbe davvero il primo passo per superarla. All’orrore siamo ormai del tutto assuefatti? Se sì, ricordiamo che questo è il presupposto perché la Guerra dilaghi. Dopo l’assuefazione alla sua idea potrebbe venire anche l’applauso. Magari non quello entusiasta delle masse del ‘14 e del ‘39, ma poco cambia. Basterà non vi sia una massa capace di opporsi. Ma perché questa esista occorre prepararla, organizzarla, schierarla contro i predicatori, mascherati o no, dell’inevitabile. Qualche dissenso e un po’ di sdegno sono il contorno della resa. Una simil-sanzione contro i criminali aumenta, non copre la vergogna. Dallo spirito d’Europa può venire il contraccolpo? Dobbiamo sperarlo, nonostante tutto. Oggi siamo stretti tra due vuoti, la dimenticanza del passato e un futuro che ha assunto il solo significato della indefinita crescita. Il nostro presente si è sradicato dal suo passato nella stessa misura in cui è divenuto cieco sul fine del proprio procedere. Tuttavia, se ritorniamo in noi stessi, possiamo sconfiggere la diabolica tentazione di pensare ancora alla Guerra come all’unico mezzo per ricondurre tutti in un ovile, in una religione e sotto un solo principe; possiamo dar vita a un Diritto realisticamente imperniato su organismi e istituzioni terze, ai quali gli Stati attribuiscano poteri effettivi; possiamo governare il progresso tecnico-scientifico secondo le energie liberatrici che esso pure in sé contiene e dargli così quel senso che oggi non manifesta in alcun modo. Questi sono pure “valori”, principi che hanno contato nella nostra cultura. Il loro peso si è del tutto liquidato? Se così fosse, l’accelerazione senza freno della nostra vita, che lo sviluppo delle forze produttive dimostra, sviluppo che non sa indicare alcun fine oltre sé stesso, è destino precipiti prima o poi in una catastrofe risolutiva. Ottant’anni e li dimostra: l’Onu esce a pezzi dalla “settimana horribilis” di Elena Molinari Avvenire, 29 settembre 2025 Ignorato l’appello di Guterres a “lavorare come un’unica entità”. Liti e minacce dalla platea di New York. Il mese prossimo le Nazioni Unite, nate dalle macerie della Seconda Guerra mondiale, compiranno 80 anni mentre una guerra dilania il cuore dell’Europa da tre anni e mezzo, Gaza è sotto le bombe da due, il Sudan è lacerato dalla guerra civile, la rivalità tra Stati Uniti e Cina cresce e il risentimento del Sud del mondo verso il Nord amplia la frattura fra Paesi ricchi e poveri. L’apertura dell’Assemblea generale a New York la scorsa settimana non ha risposto all’invito urgente del segretario generale António Guterres ai Paesi membri di “lavorare come un’unica entità” per intraprendere “azioni multilaterali per la pace e la prosperità del pianeta”. Al contrario, gli interventi di alto livello della settimana scorsa hanno messo in evidenza una tendenza all’isolazionismo o al desiderio di risolvere i problemi tramite alleanze regionali, se non bilaterali. Ha cominciato Donald Trump, attaccando i principi chiave dell’Onu e esortando i Paesi occidentali ad adottare la sua stessa linea di chiusura e rifiuto su immigrazione e cambiamento climatico. Benjamin Netanyahu ha parlato di fronte a una sala vuota per rivendicare il diritto di Israele di “finire il lavoro” con la guerra a Gaza. Volodymyr Zelensky ha sottolineato il legame fra il fallimento della diplomazia e la pericolosa corsa agli armamenti in atto nel mondo. Il dibattito in Assemblea è stato uno spettacolo scoraggiante, con sale vuote ad accogliere leader globali che mettevano in luce i limiti della governance globale. Intanto in Consiglio di sicurezza le divisioni a cascata tra Occidente e Russia, Stati Uniti e Cina bloccano praticamente tutte le decisioni di rilevanza strategica. I capi di Stato europei, a parole, hanno ribadito la fiducia nel multilateralismo. Ma, nei fatti, l’Europa sta facendo ben poco per fermare il declino dell’Onu e di quello che rappresenta, soprattutto di fronte alla determinazione con la quale Washington ha voltato le spalle alle istituzioni internazionali a favore di un’azione unilaterale. Un esempio è il modo in cui i Paesi del Vecchio continente hanno risposto ai dazi di Trump in ordine sparso e con accordi bilaterali. Sullo sfondo di un’organizzazione internazionale per il commercio inefficace e del capitalismo di stato cinese impervio alle regole globali, il protezionismo di Washington ha conficcato l’ultimo il chiodo nella bara del libero scambio, e l’Ue si è rapidamente adattata: i leader europei hanno ammesso uno a uno che la sicurezza economica ora prevale sul libero flusso delle merci. Gli unici raggruppamenti che hanno ancora presa sono quelli che riflettono le attuali linee di frattura globali, come i Brics-plus. Il multipolarismo ha frantumato il multilateralismo e, a 80 anni, l’Onu non ha la forza di raccoglierne i pezzi, mentre il Vecchio continente si ripiega su se stesso. A farne le spese saranno soprattutto i Paesi troppo piccoli e troppo poco influenti per essere accolti in raggruppamenti regionali. Per loro si leva la voce del Papa che, pur riconoscendo che le Nazioni Unite “hanno perso la loro capacità di unire le persone su questioni multilaterali”, ha affermato che la chiave per “costruire ponti è principalmente il dialogo” e che “bisogna reagire insieme”, perché non c’è giustizia senza compassione”. Dal Vietnam a Gaza, così i popoli in rivolta cambiano la storia di Mario Capanna L’Unità, 29 settembre 2025 Dall’Inghilterra alla Francia la mobilitazione ha portato al riconoscimento della Palestina. In Italia no, ma alla lunga le battaglie giuste ripagano chi le combatte. Il 22 settembre 2025 rimarrà “albo signanda lapillo dies”: nella coscienza del nostro popolo un “giorno da sottolineare con una pietruzza bianca” sul calendario, per la grandiosa mobilitazione pro Palestina in quasi tutte le città. Con altissima partecipazione di giovani, studenti, lavoratori, famiglie. L’onda è cresciuta lentamente, ma oggi la questione palestinese sembra muovere finalmente le coscienze, in modo per certi aspetti analogo alla ribellione del 1968 contro l’infame guerra di aggressione americana al Vietnam. Il governo di destra ha dovuto toccare con mano che il popolo italiano va nella direzione opposta rispetto alla sua politica ultrafiloisraeliana. La furbetta di Colle Oppio, che lo presiede pro tempore, cerca di correre ai ripari con l’infingarda mozione parlamentare volta a riconoscere lo Stato palestinese, a condizione che Hamas liberi gli ostaggi e si metta fuori gioco. Solita mentalità colonialista: se riconosci uno Stato, da erigere secondo le risoluzioni dell’Onu, come puoi non riconoscere anche l’autodeterminazione dei suoi cittadini e le loro autonome decisioni? Secondo: liberazione degli ostaggi. Giusto. Ma, per par condicio, come fai a non dire che Israele deve liberare a sua volta le migliaia di ostaggi palestinesi, incarcerati con provvedimenti amministrativi, rinnovabili sine die, quindi prorogabili a piacimento dell’occupante? Chiarezza su Hamas. Io l’avverso, più che per il 7 ottobre, per il tipo di Stato cui, se diventasse egemone, darebbe vita, basato sulla sharia di tipo simil talebano. Per cui dico: Hamas è un movimento di resistenza? Sì. È un movimento di liberazione? No. Ma, in merito, siano i palestinesi a decidere, non altri dall’esterno. Il 22 settembre racchiude una molteplicità di significati. L’iniziativa di sciopero, promossa dai sindacati di base (e, non a caso, da nessun partito), ha visto l’incredibile partecipazione di massa, nemmeno lontanamente verificatasi tre giorni prima con lo sciopero indetto dalla Cgil. I dirigenti sindacali farebbero bene a riflettere sul grande problema della rappresentanza che è emerso. E poi: il successo ha tratto linfa anche dalla concomitanza con la straordinaria e coraggiosa navigazione della Flotilla e dai gravi attacchi che ha subito. È merito della poderosa mobilitazione di popolo se il governo italiano si è sentito in dovere di inviare una nave militare a vigilare sulle pacifiche imbarcazioni, come pure ha fatto la Spagna. E si è dovuto muovere anche il presidente Mattarella. C’è da esigere che la fregata italiana non si converta in… fregatura… È accompagnata, la nave fregata, dal solito opportunismo governativo: Crosetto si è affrettato a dichiarare che “in acque israeliane non garantiamo sicurezza”. Mentre, invece, è ben li che serve, facendo presente a Netanyahu che quelle delle coste di Gaza sono acque territoriali palestinesi, che lui non ha nessun diritto di bloccare, come sta facendo da mesi. Naturalmente nessuno si auspica una guerra fra Italia e Israele. Al contrario, si tratta di fare capire a Israele che è nel suo interesse allentare l’isolamento internazionale, permettendo l’attracco delle imbarcazioni per consegnare ai palestinesi stremati i beni di prima necessità che trasportano. A tal fine perché Meloni e Tajani non convocano l’ambasciatore israeliano, diffidando il suo governo affinché la smetta di violare il diritto internazionale? E, considerato che le barche della Flotilla provengono da molti Paesi europei, chiedere con forza all’Ue di prendere iniziative analoghe, e non a chiacchiere? È evidente la doppiezza del governo italiano: da una parte la mozione doppiogiochista e la… fregata, dall’altra il gioco di sponda con la Germania, per impedire che l’Ue applichi a Israele le pur pallide sanzioni previste. Così, poco meno di un secolo dopo, Meloni ridà vita all’Asse Roma-Berlino. Allucinante. Sono tutte queste le ragioni per cui, proprio adesso, bisogna intensificare la mobilitazione popolare e l’impegno democratico e non violento. Ricordando sempre che, quando è giusta, la lotta paga. Sono ormai 153 i Paesi che riconoscono lo Stato palestinese - e ben 4 su 5 i membri permanenti nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu - a sottolineare l’isolamento mondiale di Israele e Usa. Leader in declino, come Starmer in Inghilterra e Macron in Francia, pensate che avrebbero riconosciuto lo Stato palestinese, se non ci fosse stata la pressione delle loro opinioni pubbliche? E così è stato per l’Australia, il Canada, il Portogallo ecc. È ovvio che il semplice riconoscimento non basta. È solo l’inizio, bisogna giungere ad azioni conseguenti che aiutino realmente la costruzione effettiva del nuovo Stato, unica soluzione per rendere non solo operanti i diritti dei palestinesi, ma anche per garantire la sicurezza di Israele, che altrimenti non avrà mai. Per quanto riguarda l’Italia, il dovere della maggioranza cosciente del nostro popolo - di ogni cittadino amante del diritto e della pace - è quello di moltiplicare le energie di cambiamento. Gli studenti nelle scuole e nelle università, i lavoratori, le realtà di base costruttive, gli intellettuali degni questa qualifica possono e devono fare la differenza. Tra l’ignavia della passività e l’orgoglio della trasformazione verso il futuro. Israele contro la Flotilla: “Al servizio di Hamas”. L’allarme di Crosetto di Giovanni Legorano Il Domani, 29 settembre 2025 Gli attivisti puntano su Gaza, Tel Aviv avverte: “Solo dei provocatori”. Il ministro della Difesa ha incontra Delia e le altre esponenti del movimento ribadendo loro le sue preoccupazioni riguardo all’incolumità dell’equipaggio: “Gravi pericoli non gestibili”. Il giorno prima dell’atteso incontro con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente degli Stati Uniti ha ostentato ottimismo. “Abbiamo una vera opportunità di grandezza in Medio Oriente” ha detto Donald Trump, senza però dare molti dettagli o tempistiche, rispetto al suo piano di pace per Gaza. “Siamo tutti a bordo per qualcosa di speciale, per la prima volta in assoluto. Ce la faremo”. Trump aveva già fatto sapere nei giorni scorsi che le trattative su Gaza con una serie di paesi arabi erano intense e che sia Israele sia Hamas ne erano al corrente. Tuttavia, non è chiaro se Hamas abbia ricevuto il piano in 21 punti, che prevede il rilascio di tutti gli ostaggi e un ritiro graduale delle truppe israeliane da Gaza. Intanto, l’offensiva di terra dell’esercito del paese ebraico (Idf) è proseguita domenica con la stessa intensità dei giorni precedenti e Netanyahu si preparava ad incontrare lunedì pomeriggio il presidente Usa, proprio per discutere del piano e raggiungere un accordo di massima sull’impianto generale del piano. Più cauti, invece, Netanyahu - “Spero che ce la faremo, stiamo lavorando” - e JD Vance. Il vicepresidente Usa ha detto all’emittente Fox News che il suo governo era immerso in trattative molto complicate con i leader israeliani e di alcuni paesi arabi, ma di essere cautamente speranzoso sul raggiungimento di un accordo. “Sono più ottimista sulla situazione attuale rispetto a quella degli ultimi mesi, ma bisogna essere realisti: queste cose possono deragliare all’ultimo minuto”, ha affermato il vicepresidente. Secondo Vance, il piano si baserebbe su tre pilastri principali: la restituzione di tutti gli ostaggi, la fine della minaccia di Hamas a Israele e l’intensificazione degli aiuti umanitari a Gaza. “Penso che siamo vicini a raggiungere tutti e tre questi obiettivi”, ha affermato Vance. Il lavoro continua. Ottimismo sulla possibilità di un accordo trapelava anche dall’andamento della borsa di Tel Aviv, con il suo indice principale TA-35 in rialzo del 2,7 per cento in chiusura di seduta. A continuare è anche il dialogo. Domenica il ministro della Difesa Guido Crosetto ha incontrato a Roma la portavoce della Global Sumud Flotilla, Maria Elena Delia, e le altre esponenti del movimento Simona Moscarelli e Giorgina Levi, ribadendo loro le sue preoccupazioni riguardo all’incolumità dell’equipaggio, che nel pomeriggio stava navigando in acque internazionali verso Gaza, dopo aver lasciato l’isola di Creta. “Qualora la Sumud Flotilla decidesse di intraprendere azioni per forzare un blocco navale si esporrebbe a pericoli elevatissimi e non gestibili, visto che parliamo di barche civili che si pongono l’obiettivo di “forzare” un dispositivo militare. Sono certo che si possano ottenere risultati migliori e maggiori per il popolo palestinese in altri modi, mezzi e sistemi, come ho ribadito loro, ringraziando per il confronto sincero e corretto”, ha detto Crosetto. La Flotilla ha fatto sapere di aver avuto una traversata difficile durante la notte di sabato a causa del mare grosso, ma soprattutto di essere seguita da droni che li monitorano dall’alto. Non ci sarebbero stati attacchi di nessun tipo e le imbarcazioni della delegazione italiana continuano a essere seguite da una fregata della Marina. Secondo gli organizzatori, le navi greche si sono unite alla Flotilla, che ora conta circa 47 imbarcazioni civili. “Fratelli e sorelle di Gaza, navighiamo con la speranza nel cuore. La vostra resilienza è la nostra bussola, la vostra lotta è la nostra lotta. Insieme, romperemo il silenzio dell’assedio”, ha scritto la Global Sumud Flotilla sui social. Per Israele, però, il fatto che la flottiglia abbia respinto la proposta italiana e del Vaticano di consegnare in altro modo gli aiuti è emblematico. “Si tratta solo di provocazione e di servire Hamas”, secondo il ministero degli Esteri israeliano. Nel frattempo, l’ala militare di Hamas ha affermato di aver perso i contatti con due ostaggi a Gaza City, di cui i familiari hanno chiesto ai media di non diffondere i nominativi, a causa delle operazioni militari israeliane nei quartieri di Sabra e Tal al-Hawa a Gaza City. “La vita dei due prigionieri è in serio pericolo”, ha dichiarato la fazione palestinese su Telegram, chiedendo a Israele di ritirarsi immediatamente a sud dell’autostrada 8 e di interrompere gli attacchi aerei per 24 ore a partire dalle 18, in modo da poter soccorrere i due rapiti. L’Idf non ha commentato la richiesta, ma ha chiarito di non avere alcuna intenzione di fermare l’offensiva sulla città, emanando vari ordini di evacuazione a tutti gli abitanti di parti di Gaza City, inclusa l’area di Sabra. Data la grande risonanza che il destino degli ostaggi ha in Israele, ciò che succederà ai due rapiti potrebbe avere ripercussioni sulle trattative in corso sul piano Trump. Israele comunque non si ferma. Il ministero della Sanità di Gaza ha fatto sapere domenica pomeriggio che 77 persone sono morte sotto gli attacchi israeliani nelle precedenti 24 ore. Le autorità sanitarie hanno inoltre detto di non aver potuto rispondere a decine di chiamate disperate di soccorso e che Israele avrebbe rifiutato loro il permesso, richiesto attraverso organizzazioni internazionali, di soccorrere i feriti di Gaza City. Stati Uniti. “Ha ucciso mia madre, non giustiziatelo: non voglio vendetta in mio nome” di Will Berry* L’Unità, 29 settembre 2025 Avevo 11 anni nel 1997 quando Geoffrey West sparò e uccise mia madre, Margaret Parrish Berry, mentre rapinava la stazione di servizio di Attalla dove lavorava. Il signor West è stato condannato a morte per l’omicidio di mia madre. La data della sua esecuzione è fissata per il 25 settembre. Ma non voglio che lo Stato dell’Alabama lo uccida. Questo non riporterà in vita mia madre; non farà che aumentare il dolore con cui convivo dalla notte in cui è stata colpita. Credo ci sia un modo migliore. Mia madre era la persona che amavo di più al mondo. La sua assenza e il modo insensato in cui è morta hanno gettato una lunga ombra sulla mia vita. Ciononostante, le settimane trascorse da quando ho appreso che il governatore Ivey aveva fissato una data per l’esecuzione del signor West sono state tra le più sconvolgenti che ricordi. Il mio desiderio più grande è incontrare il signor West. Eppure, a poche settimane dalla data dell’esecuzione, non è chiaro chi abbia il potere di farlo o come chiederglielo direttamente. Ero un bambino quando il signor West ha tolto la vita a mia madre: abbastanza grande da capire cosa fosse successo, ma troppo piccolo per elaborarlo. Non ho avuto voce in capitolo al processo, e non ho avuto voce in capitolo da allora. Nessuno dell’ufficio del procuratore generale dell’Alabama mi ha chiamato ad aprile per dirmi che avevano richiesto una data per l’esecuzione. Nessuno dell’ufficio del governatore mi ha chiamato a luglio, quando il governatore Ivey l’ha fissata. Se mia moglie non si fosse imbattuta in un articolo su Facebook, non so quando l’avrei saputo. Credo negli insegnamenti di Gesù e nelle Sue parole sul Monte: “Perché se voi perdonate agli altri le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonate agli altri le loro colpe, il Padre vostro non perdonerà le vostre” (Matteo 6:14-15). La mia fede insegna che ogni prova che affrontiamo ci avvicini alla salvezza. Insegna la sottomissione alla volontà di Dio. Credo che, giustiziando il signor West, lo Stato dell’Alabama stia giocando a fare Dio. Non voglio che nessuno si vendichi in mio nome, né in nome di mia madre. Credo che l’ergastolo senza possibilità di uscita sia una punizione. Spero che questa storia abbia un finale in cui io e il signor West troviamo conforto l’uno nell’altro e nel potere curativo del perdono. Voglio dire al signor West che lo perdono. E voglio fargli delle domande su cosa è successo quella notte, su chi è come uomo. In un certo senso, penso di voler solo stare nella stessa stanza con lui. Tramite i suoi legali, il signor West ha accolto la mia richiesta. Anche in quelle che potrebbero essere le sue ultime settimane di vita, è disposto a trascorrere del tempo con me e fare i conti con il male che ha causato. Credo che questo gli possa fare bene, nonostante l’errore mortale che ha commesso la notte in cui ha ucciso mia madre. So che lei lo perdona e che vorrebbe mi sedessi accanto a lui. Il sistema giudiziario penale non è concepito pensando ai bisogni, ai desideri e al benessere delle vittime. Lo so meglio di chiunque altro, perché ciò che viene fatto in mio nome non è ciò di cui ho bisogno o che desidero. So che la clemenza è chiedere troppo. Ma dopo aver parlato con un esperto di giustizia riparativa che è anche in contatto con il signor West, spero ci possa essere un futuro in cui io e lui potremmo stare insieme, pregare insieme. Ma il tempo gioca a nostro sfavore. Che riesca o meno a trovare la strada per concedere la clemenza, spero almeno che il governatore Ivey conceda una sospensione, ha l’autorità di farlo. Quel tempo permetterebbe al signor West, alla sua famiglia e alla mia di impegnarsi in un confronto vitale e di guarigione. Ho bisogno di tempo per guarire. Ho osservato il processo di altre esecuzioni in Alabama. So che il procuratore generale mi accoglierebbe nella prigione di Holman per assistere all’uccisione del signor West. So che dopo sarei invitato a parlare in una conferenza stampa. Ma non è quello che voglio. Quando andrò a Holman, voglio parlare con il signor West a cuore aperto. Voglio dirgli che lo perdono, che mia madre lo perdona e che Dio lo ama. La mia vita è stata molto dura. Spero che la governatrice Ivey trovi il modo di concedermi questo piccolo conforto e prego che trovi in sé la forza di risparmiare la vita del signor West. *Alabama Reflector Albania. Professore italiano in carcere dopo incidente stradale, chiesta una nuova perizia di Luca Tomassoni Il Messaggero, 29 settembre 2025 Il punto su cui si chiede chiarezza è il tratto di segnaletica stradale a terra che divide le carreggiate. È una perizia “distorta e non accurata” a tenere ancora in carcere Michele D’Angelo, il professore di Biologia dell’Università dell’Aquila detenuto da un mese e mezzo a Fier, in Albania, dopo essere rimasto coinvolto in un incidente mortale la sera dell’8 agosto scorso. La Procura non lo accusa di omissione di soccorso come circolato nelle prime ore, bensì soprattutto di violazione delle norme della strada. Ma nelle sue memorie difensive, l’avvocato del docente, Toto Avdiaj, smonta punto per punto quanto dichiarato dagli esperti incaricati dalla procuratrice di Fier. E punta sulla verità che arriva dalle immagini collegate a un video dell’incidente. Il nodo cruciale sembra essere quello delle strisce che dividono la carreggiata in quel tratto di strada. Scrive il legale albanese del docente italiano: “Il perito riflette nella perizia che il tratto di strada in cui è avvenuto l’incidente presenta delle linee continue, in palese contraddizione con la realtà, perché nel punto in cui il professor Michele D’Angelo si è fermato ed ha incontrato il segnale di svolta a sinistra, in direzione del bar Katalea Palace, lì il tratto di strada presenta delle linee interrotte, che sono state fatte proprio per girare nel bar”. Il locale è quello in cui D’Angelo e la sua compagna Vanessa Castelli dovevano fare da testimoni di nozze e si stavano recando a bordo della Lancia Ypsilon di lei. Quindi c’è la questione della velocità dell’altro mezzo coinvolto, la Mercedes Benz guidata da un’albanese: “L’esperto non ha spiegato nella perizia qual era la velocità del veicolo Benz” e “non ha preso in considerazione la registrazione video del momento dell’incidente, disponibile presso la Polizia, in cui è chiaramente visibile la velocità estremamente elevata, circa 150 km/h, del veicolo”. Continua l’avvocato albanese: “Non ha preso in considerazione, e non ha nemmeno menzionato, il fatto che il professor Michele D’Angelo, ha visto l’altro veicolo Benz nel momento in cui usciva dalla curva ed era visibile a lui, cioè a circa 200-300 metri di distanza, e quindi immediatamente questo veicolo è stato coinvolto nell’incidente. (Quindi, la sua velocità era di circa 150 km/h)”. Ci sono altre contestazioni, per esempio sulla scatola nera della Mercedes, che per l’esperto della Procura non avrebbe registrato i dati. L’avvocato di D’Angelo conclude quindi che “la relazione di perizia automobilistica redatta dall’esperto non è accurata, ma chiaramente distorta a sfavore di Michele D’Angelo, quindi la causa determinante dell’incidente non è stata determinata oggettivamente. Pertanto chiedo che venga rielaborata una nuova relazione di perizia automobilistica, chiamando a tale scopo tre esperti”. Intanto il deputato Pd, Luciano D’Alfonso è impegnato in prima persona “per fare emergere la verità e consentire un giusto livello di trattamento”. Da giorni si sta muovendo la diplomazia con la Farnesina. Giovedì dovrebbe essere in programma un colloquio con le autorità ministeriali albanesi competenti sul caso del prof.