Nordio: “Suicidi non causati dal sovraffollamento, ma da solitudine e disperazione” rainews.it, 28 settembre 2025 “I suicidi in carcere sono un fardello di dolore e anche negli altri Paesi non è che vada meglio, anzi peggio, ma questa non è una giustificazione né un’attenuante”. Lo ha detto il ministro di Giustizia, Nordio, al congresso Ucpi. “Non c’è relazione tra sovraffollamento e suicidi, casomai favorisce l’aggressività, altrettanto allarmante. Suicidi dovuti a solitudine, disperazione, spesso avvengono vicini alla liberazione: disagio di chi sta per uscire senza speranza. Il sovraffollamento non è dovuto a nuovi reati: 20% in attesa di giudizio” Il ministro della giustizia Carlo Nordio si esprime sulle statistiche relative ai suicidi in carcere, visti come casi non riconducibili alla problematica del sovraffollamento. Il ministro ha poi mosso la propria attenzione nei confronti del referendum sulla Giustizia, ipotizzando una sottomissione da parte dei pm nei confronti della Repubblica. L’esposizione del primo argomento ha avuto sede al congresso Ucpi, con Nordio che ha dichiarato: “I suicidi in carcere sono un fardello di dolore e, purtroppo, anche negli altri Paese non è che vada meglio, anzi peggio, ma questa non è una giustificazione o un’attenuante. Ma secondo noi non c’è una relazione tra il sovraffollamento e il fenomeno dei suicidi, caso mai favorisce l’aggressività, quello che favorisce il suicidio è la solitudine, è la disperazione. Molto spesso, fatto singolare, molti suicidi avvengono nell’imminenza della liberazione, che indica il disagio e la mancanza di speranza di chi sta per uscire”. Il ministro Nordio ha poi citato anche il referendum sulla Giustizia, esprimendo la propria preoccupazione per un eventuale vittoria del “no”: “Se dovesse vincere il ‘no’ se ci fosse l’alleanza con la magistratura non sarebbe una vittoria del centrosinistra, ma delle Procure e noi torneremmo ancora a una Repubblica sottomessa o condizionata dai magistrati e questo sarebbe un vulnus per la stessa parte politica che lo ha sostenuto”. Nordio contestato al congresso dell’Ucpi: il ministro “cade” su carceri e panpenalismo di Valentina Stella Il Dubbio, 28 settembre 2025 Il Guardasigilli rivendica la riforma della separazione delle carriere ma incassa cori di disapprovazione dai penalisti italiani. Secondo giorno di Congresso per l’Unione Camere Penali. Fuori al Teatro Bellini piove, quindi tutti dentro a sentire l’intervento del Ministro Nordio che si collega da casa sua. Il Guardasigilli, se ha avuto gioco facile nel rivendicare il lavoro svolto sulla riforma della separazione delle carriere, ha dovuto però incassare due contestazioni dai penalisti guidati da Francesco Petrelli. La prima volta quando ha sostenuto che “non c’è collegamento tra sovraffollamento e suicidi”. In quel momento dalla platea e dalle logge del teatro si è levato un corale “buuuuuuu”. La seconda volta quando ha detto: “Anche voi ci avete accusato di panpenalismo ma se pensiamo ai rave party grazie alla norma non c’è stato alcun processo e nessuna incarcerazione”. Nuovo collettivo “buuuuuu” per aver espresso una concezione della pena in ottica di prevenzione generale. Nordio poi ha fatto un bilancio di questi tre anni. Il “primo rammarico” ha detto è “non essere riuscito a inserire l’avvocato in Costituzione per ovvie ragioni procedurali e di tempo. Spero che dopo l’approvazione della riforma costituzionale vi sia consenso per renderlo possibile entro la fine della legislatura”. Tuttavia Petrelli gli ha ricordato che “non ci preoccupa il ritardo, per noi c’è già grazie all’ articolo 24 Cost. Potete anche prendervela comoda”. Il responsabile di Via Arenula è poi intervenuto sull’emergenza carceri: “Esse soffrono da decenni di questa situazione, non voglio dare la colpa ai governi precedenti” ma “se si costruisce un ospedale tutti dicono ‘bravo’; diversamente se costruisci un carcere da sempre le risorse sono state centellinate”. Ha aggiunto: “Per noi una liberazione orizzontale sarebbe stata un segno di debolezza dello Stato”. Ha replicato Petrelli: “La vera resa dello Stato è la resa della legalità nel momento in cui la Costituzione non viene applicata”. Nordio ha poi speso alcune parole sulla custodia cautelare: “Siamo intervenuti con l’interrogatorio preventivo ma soprattutto con quella norma che entrerà in vigore il prossimo anno che devolve alla collegialità dell’organo la decisione” sulla misura cautelare. “Il nostro obiettivo fondamentale” dopo il referendum “sarà la riforma del codice di procedura penale riportandolo alla sua originaria concezione voluta da Giuliano Vassalli e dal professor Pisapia”. Da ultimo “vorremmo incidere sull’informazione di garanzia che è diventata condanna anticipata”. Tuttavia la commissione Mura “non ha trovato accordi, lo faremo noi entro la fine della legislatura”, come anticipato dal Dubbio qualche settimana fa. Il Guardasigilli è tornato poi sulla “madre di tutte le riforme”. Il fatto che “i pm diano i voti ai giudici è una anomalia tutta italiana” mentre la riforma “è un adattamento tardivo dei principi del codice accusatorio”. Il suo auspicio “quasi la supplica che faccio a tutte le parti è di non gravare questo referendum di un significato politico”. Poi ha lanciato un allarme: “Se dovesse vincere il ‘no’ non sarebbe una vittoria del centrosinistra, ma delle Procure e noi torneremo ancora a una Repubblica sottomessa o condizionata dai magistrati e questo sarebbe un vulnus per la stessa parte politica che lo ha sostenuto”. Sempre sullo stesso tema ha proseguito: “Chi deve tacere sempre, e parlare solo con le sentenze, è il giudice. Il pubblico ministero, esattamente come gli avvocati, ha tutto il diritto di parlare quando e come vuole. A me fa piacere vedere in televisione il dottor Gratteri a Lezioni di mafia e intervenendo sulla riforma. Ma questo dimostra che la separazione delle carriere è già in atto, deve essere attuata. Gratteri è miglior testimonial della separazione delle carriere”. La Russa “Gruppi parlamentari presentino iniziative contro il sovraffollamento” Italpress, 28 settembre 2025 “Come presidente del Senato mi sono preoccupato della situazione che ho trovato nelle carceri e il tema che ho cercato venisse affrontato è quello del sovraffollamento. Ho trovato nel Governo comprensione sul problema e anche impegno ad affrontarlo con un sistema carcerario più adeguato. Ma La mia preoccupazione rimane sui tempi. Non ho minimamente alcun dubbio che il governo voglia affrontare questo tema, ma nelle more qualcosa bisogna fare”. Così il presidente del Senato, Ignazio La Russa, a margine del XX Congresso delle camere penali italiane, a Catania. “Allora - ha spiegato - ho cercato in sede di capigruppo di stimolare un provvedimento che fosse comune a tutti i gruppi, che potesse aiutare in questa fase a rendere più agevole lo stato di detenzione anche trasformandola dal carcere in abitazione perché sempre detenzione è. Ho affidato alla vicepresidente il compito di vagliare le possibilità, ma non è riuscita a trovare un’intesa per un testo comune. Per cui ho detto e lo dirò nella prossima capigruppo, che ciascun gruppo è a questo punto libero di assumere iniziative. Il mio rimane un auspicio riguardo la necessità che, nell’attesa che il governo possa completare i progetti che ha per rendere il sovraffollamento nelle carceri un qualcosa del passato, si faccia qualcosa nel presente”, ha concluso La Russa. Carcere duro e ore d’aria: il Tribunale di Sorveglianza accoglie il reclamo di Giuseppe Baglivo ilvibonese.it, 28 settembre 2025 Importante decisione del Tribunale di Sorveglianza di Milano in materia di 41 bis, l’articolo dell’ordinamento penitenziario che regolamenta il c.d. carcere duro. Il giudice ha infatti accolto il reclamo del detenuto Francesco La Rosa, 54 anni, di Tropea, per come prospettato dall’avvocato Sandro D’Agostino, ed ha ribadito i confini di applicazione del “carcere duro” (41 bis) per tutti i detenuti sottoposti a tale regime di restrizione speciale. A Francesco La Rosa - sottoposto al 41 bis - sinora non era stato possibile fruire di quattro ore d’aria al giorno nel carcere dove si trova detenuto, nonostante una recente sentenza della Corte Costituzionale statuisca ciò per tutti i detenuti sottoposti al 41 bis. La Consulta ha infatti stabilito nella sentenza n.30 del 2025 che per i detenuti sottoposti al 41 bis “il divieto di stare all’aperto oltre la seconda ora, come sancito dalla norma censurata, comprime in misura ben maggiore del regime ordinario la possibilità per i detenuti di fruire di luce naturale e di aria. Tutto ciò nulla fa guadagnare alla collettività in termini di sicurezza, alla quale viceversa provvede, e deve provvedere, l’accurata selezione del gruppo di socialità, unitamente all’adozione di misure che escludano la possibilità di contatti tra diversi gruppi di socialità”. La Corte Costituzionale ha poi stabilito che il tetto delle due ore d’aria per il detenuto al 41 bis determina un “improprio surplus di punizione” violando gli articoli 3 e 27 della Costituzione “insieme al finalismo rieducativo della pena”. L’ampliamento delle ore della giornata in cui i detenuti in regime speciale possono beneficiare di aria e luce all’aperto, per la Corte Costituzionale, “contribuisce a delineare una condizione di vita penitenziaria che, non solo oggettivamente, ma anche e soprattutto nella percezione dei detenuti, possa essere ritenuta più rispondente al senso di umanità, in conformità alle specifiche raccomandazioni espresse sul punto dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura o trattamenti degradanti”. La Corte costituzionale ha quindi dichiarato l’illegittimità costituzionale del limite massimo di due ore di luce naturale e di aria per i detenuti al 41 bis e, in applicazione di tale sentenza - e in accoglimento del reclamo dell’avvocato D’Agostino per conto del detenuto Francesco La Rosa - il Tribunale di Sorveglianza di Milano ha ritenuto che Francesco La Rosa debba godere di quattro ore d’aria oltre ad un’ora di socialità. Emilia Romagna. Il Garante: “Monitoraggio delle camere di sicurezza completato per il 50%” parmatoday.it, 28 settembre 2025 “Abbiamo terminato in mattinata il lavoro di monitoraggio relativo alle camere di sicurezza presenti nei presidi delle forze di polizia della città di Bologna”. A darne notizia è il garante regionale dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri. Le camere di sicurezza sono luoghi in cui la persona in stato di arresto - ad esempio, per un arresto in strada - viene trattenuta (per massimo 48 ore) prima di comparire davanti a un giudice. Il progetto di ispezione di questi spazi detentivi che si trovano in caserme, comandi e stazioni dell’Arma dei carabinieri, della Guardia di finanza, della Polizia di Stato e della Polizia locale, spiega Cavalieri, “è ormai completato per il 50%”. “Questi spazi - afferma il garante regionale - sono a tutti gli effetti luoghi di detenzione e, pertanto, devono garantire standard minimi sia sotto il profilo ambientale che nella loro gestione. Inoltre, in queste aree deve essere assicurato il rispetto dei diritti di chi ci entra”. Prosegue Cavalieri: “In Emilia-Romagna sono presenti 82 siti - censiti dal garante con la collaborazione delle prefetture - e a oggi ne sono state ispezionati 41: oltre al territorio comunale di Bologna è stato completato quello di Ravenna assieme all’intero territorio provinciale di Piacenza, Parma, Reggio Emilia e Modena”. Cavalieri riferisce, poi, che “l’obiettivo è quello di completare il lavoro entro la fine di ottobre”. Il garante fornisce alcuni dati sulla situazione in regione: “L’Emilia-Romagna è la terza regione in Italia per transito di persone nelle camere di sicurezza. In Italia sono circa 20mila le persone che in un anno transitano in una camera di sicurezza (di polizia e carabinieri) e di queste circa 2.400 vivono questa esperienza in Emilia-Romagna: un passaggio su otto, quindi, avviene nella nostra regione (dati riferiti al 2024). Nella sola città di Bologna, sempre nel 2024, i transiti di persone in camere di sicurezza sono stati più di 600”. I risultati del monitoraggio saranno oggetto di un convegno che si terrà nel marzo del 2026. Il progetto, in collaborazione con il garante nazionale, è stato lanciato da Cavalieri lo scorso 24 giugno a Bologna davanti a cento rappresentanti delle forze di polizia che gestiscono le camere di sicurezza della regione. Pavia. Si toglie la vita in cella a 21 anni: è il 14esimo suicidio dal 2021 a Torre del Gallo di Maria Fiore La Provincia Pavese, 28 settembre 2025 Il giovane detenuto era entrato in carcere pochi giorni fa. Subito soccorso e portato in ospedale ma non ce l’ha fatta. Ancora un suicidio in carcere a Torre del Gallo: è il 14esimo in quattro anni, partendo dal 2021, l’anno nero delle morti in cella nella casa circondariale di Pavia. Il detenuto che si è tolto la vita aveva solo 21 anni ed era entrato in carcere da pochi giorni. Per mettere in pratica il suo gesto ha usato le lenzuola della branda nella sua cella, verso la mezzanotte di ieri: gli agenti della penitenziaria si sono accorti di quello che stava accadendo e hanno dato subito l’allarme. Gli operatori hanno tentato di rianimarlo ma il giovane è morto durante il trasporto in ospedale. Si indaga per accertare i motivi del gesto e se qualcosa, all’interno del carcere, non abbia funzionato: il detenuto, di origini nordafricane, era un soggetto fragile dal punto di vista psicofisico e per questo si trovava in una sezione dedicata, dove vengono ospitati detenuti avanti con l’età o, appunto, in condizioni di fragilità. Si indaga per accertare i motivi del gesto e se qualcosa, all’interno del carcere, non abbia funzionato: il detenuto, di origini nordafricane, era un soggetto fragile dal punto di vista psicofisico e per questo si trovava in una sezione dedicata, dove vengono ospitati detenuti avanti con l’età o, appunto, in condizioni di fragilità. Secondo quanto è stato possibile ricostruire il giovane detenuto era stato arrestato pochi giorni fa (non si sa per quale reato) e la direzione, per le sue condizioni psicofisiche, aveva deciso di collocarlo in una sezione dedicata ai detenuti con fragilità. Il giovane detenuto ha approfittato di un momento di bassa sorveglianza per mettere in atto il suo piano. Ha atteso che tutti dormissero, poi ha utilizzato le lenzuola, come corda, per togliersi la vita. Gli agenti della penitenziaria si sono accorti di quello che stava accadendo e sono entrati subito in cella, per soccorrere il giovane, mettendo in atto le manovre di rianimazione e chiamando l’ambulanza. Il 21enne, portato in ospedale, non ce l’ha fatta. A luglio nello stesso carcere si era impiccato alla porta della sua cella un detenuto originario dell’est Europa che aveva 36 anni, in un settore della parte vecchia del carcere. Quello dell’altra sera è il secondo suicidio di quest’anno, mentre erano state tre le morti dietro le sbarre per gesti volontari nel 2024. Dal 2021 a oggi a Torre del Gallo si sono tolte la vita 14 persone. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Muore in carcere a 35 anni, la famiglia: “Vogliamo la verità” napolitoday.it, 28 settembre 2025 Sylla Mamadou non era solo “un detenuto senegalese”. Era un ragazzo di 35 anni, un lavoratore, un fidanzato. Ad appena 24 ore dal suo arresto è morto in una cella. La sua vita, i suoi sogni, il suo futuro non possono svanire nel silenzio delle mura carcerarie. È morto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 35enne senegalese Sylla Mamadou, arrestato giovedì 25 settembre dalla polizia con le accuse di rapina, lesioni e resistenza a pubblico ufficiale. Secondo la ricostruzione della polizia, quella mattina l’uomo - sarto dell’azienda Isaia & Isaia di Casalnuovo, e residente a Casagiove con la fidanzata italiana - si era recato alla stazione ferroviaria di Caserta per andare a lavoro. In stato di agitazione avrebbe colpito un passante con un pugno, portandogli via il cellulare, e aggredito anche un’anziana. Tre agenti della polizia ferroviaria lo hanno poi bloccato, rimanendo feriti. Sylla è stato portato all’ospedale di Caserta per essere medicato, quindi negli uffici della Polfer e infine trasferito in carcere, dove è deceduto in cella. Oggi era prevista l’udienza di convalida dell’arresto, saltata per la sua morte. La procura di Santa Maria Capua Vetere ha disposto l’autopsia. “I familiari e gli amici sono a conoscenza soltanto che al giovane sono stati somministrati dei farmaci a breve distanza - ha dichiarato l’avvocata Clara Niola, legale della famiglia - È necessario capire se quelle somministrazioni ravvicinate fossero davvero necessarie e somministrabili. Ci affidiamo alla giustizia e confidiamo nell’operato della procura”. Sul caso interviene anche Mimma D’Amico, responsabile del Centro sociale ex Canapificio di Caserta, che nel 2018 aveva assistito Sylla nel percorso di accoglienza. “Sylla aveva fatto un percorso bellissimo - racconta - Dopo l’accoglienza aveva iniziato a lavorare come sarto da Isaia & Isaia. Era fidanzato con una ragazza italiana, ora sotto choc. Siamo distrutti, vogliamo la verità, capire cosa è successo in appena 24 ore”. Cagliari. Il carcere di Uta e i detenuti del 41-bis: una storia che viene da lontano di Guido Garau cagliaritoday.it, 28 settembre 2025 La decisione di destinare il penitenziario sardo al regime duro - stando a quando scrive il ministro della Giustizia Carlo Nordio - risale al 2009, sotto le presidenze Cappellacci e Berlusconi. Ora Roma tira dritto e accelera: entro il 2026 i primi trasferimenti dei mafiosi. Il carcere di Uta si prepara a diventare la nuova fortezza del 41-bis, il “carcere duro” per i boss mafiosi. Lo annuncia il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, con il rigore di un notaio, rispondendo a un’interrogazione della deputata sarda Francesca Ghirra. Il padiglione sarà pronto a fine anno, è già tutto deciso - Entro i primi mesi del 2026 un nuovo padiglione da 92 posti, al momento in fase di ultimazione, ospiterà i detenuti di alta sicurezza. Ma dietro l’annuncio, tra le righe di una risposta burocratica, spunta una storia che affonda le radici in un recente passato, nel 2009: quando la Sardegna era governata da Ugo Cappellacci e l’Italia da Silvio Berlusconi. È allora, rivela Nordio, che fu firmato il contratto per l’ampliamento del carcere di Uta. E oggi, come in un gioco di specchi, il presente si intreccia con le scelte di ieri, sollevando numerosi interrogativi. Uno sguardo al passato - Nel 2009 l’Italia era un paese in cui il Cavaliere dominava la scena, tra promesse di rivoluzioni liberali e polemiche giudiziarie. In Sardegna Ugo Cappellacci, fedelissimo di Berlusconi, guidava la Regione con l’entusiasmo di chi si sentiva investito di una missione. Fu in quel contesto che prese forma il progetto di un nuovo padiglione detentivo a Uta, pensato non solo come struttura ordinaria ma come roccaforte per i detenuti più pericolosi. Un carcere nel carcere, con celle blindate e un reparto monopiano per i servizi, disegnato per isolare i boss mafiosi dal mondo. Nordio lo ricorda con precisione: il contratto fu siglato il 25 novembre 2009. Ma chi decise davvero? E perché proprio Uta, in una Sardegna che con la mafia non ha mai avuto il legame di altre regioni? La risposta, come spesso accade, si perde nei meandri della politica di allora. Il Berlusconi IV, con il suo ministro della Giustizia Angelino Alfano, puntava a mostrare i muscoli contro la criminalità organizzata. L’idea di portare il 41-bis in Sardegna voleva essere un segnale: nessuno, nemmeno nell’Isola, sarebbe stato al riparo dalla longa manus dello Stato. Ma la scelta di Uta non fu priva di ombre. Costruire un carcere per boss mafiosi in un’area già segnata da problemi logistici e gestionali - come la carenza cronica di personale penitenziario - sollevava perplessità. Contaminare con la cultura mafiosa l’ambiente delinquenziale isolano, preoccupa di più. E oggi Nordio ammette: “Non sono previsti interventi straordinari” per rafforzare l’organico. La vigilanza? Affidata al Gruppo operativo mobile della Polizia penitenziaria, come se bastasse un cambio di casacca per risolvere le criticità. Una pesante eredità - Il progetto di Uta sembra essere una pesante eredità berlusconiana. Con l’arrivo previsto di 92 detenuti in regime di 41 bis al carcere di Uta, la Sardegna diventerebbe la regione in Italia con il maggior numero di boss in carcere duro in Italia. Secondo i dati del XXI rapporto di Antigone, aggiornati al 29 aprile 2025, in Italia si contano 742 detenuti in regime 41 bis, pari all’1,19% della popolazione carceraria. Il blocco Lazio-Abruzzo-Molise è attualmente primo con 243 reclusi, seguito da Piemonte-Liguria-Valle d’Aosta (115), Toscana-Umbria (109), Lombardia (100) e terza la Sardegna con circa 93 detenuti, quasi tutti a Bancali, Sassari. Con l’aggiunta dei 92 trasferimenti previsti a Uta, la Sardegna supererebbe ampiamente i 180 detenuti al 41 bis, divenendo la prima regione in Italia per presenza di mafiosi in regime di carcere duro. Ora, con il completamento del padiglione, la Regione si trova a fare i conti con una decisione che arriva da Roma e non ha scelto. Francesca Ghirra, con la sua interrogazione, ha acceso un faro: chi pagherà il prezzo di questa trasformazione? Gli agenti penitenziari, già sotto pressione? La comunità locale, che vede il suo carcere diventare un simbolo di repressione piuttosto che di riscatto? La società civile sarda? Intanto Nordio tira dritto, nonostante l’appello dell’attuale presidente della Regione Todde: “Ho il dovere di tutelare i cittadini sardi. Chiedo al Governo di fermarsi e di aprire immediatamente un confronto serio e responsabile. La Sardegna non può e non deve essere trattata come un laboratorio per esperimenti pericolosi”. Modena. Gli infermieri del carcere Sant’Anna: “Senza miglioramenti riparte la protesta” modenatoday.it, 28 settembre 2025 Un detenuto di 24 anni si è tolto la vita nel carcere Sant’Anna di Modena accendendo nuovamente i riflettori su una situazione carceraria sempre più insostenibile a Modena. “Con questo episodio, salgono a cinque i suicidi in carcere dall’inizio dell’anno - un dato che evidenzia una crisi strutturale ormai cronica. Sovraffollamento, personale penitenziario ridotto all’osso, mancanza di supporto psicologico e condizioni di vita degradanti sono elementi che contribuiscono a rendere il carcere, per molti, un luogo di disperazione”, spiega la Cgil. Anche il personale infermieristico dell’Azienda Usl di Modena che presta servizio al Sant’Anna è ormai stremato, secondo il sindacato. “Abbiamo sospeso solo momentaneamente lo stato di agitazione aperto a fine maggio per il personale infermieristico ed entro qualche giorno aspettiamo risposte concrete dall’Azienda - afferma Giulia Casamassima responsabile della sanità per la Fp Cgil di Modena - abbiamo chiesto oltre al reperimento di nuove figure anche l’attivazione di un progetto incentivante che renda attrattivo il servizio e che fermi l’emorragia delle dimissioni volontarie”. “Aspettiamo inoltre - conclude la sindacalista - che il personale, ormai sfinito dalle condizioni di lavoro che ne ha fatto richiesta, possa trovare una nuova collocazione. Se non avremo risposte - conclude Casamassima - siamo pronti a riaprire la vertenza”. Milano. Ci sono due bimbi di pochi mesi in cella a Bollate con le loro madri. Perché? di Luca Bonzanni Avvenire, 28 settembre 2025 Di reati, loro, non ne hanno commessi. D’altronde sono bambini, a volte di pochi mesi e al massimo entro i sei anni d’età, eppure la loro quotidianità è delimitata dal perimetro di una cella e, tra ore d’aria e attività trattamentali, al massimo dalle mura del penitenziario. Se si guardasse alla fredda contabilità, i dati apparirebbero residuali; ma ci sono storie e vite, dietro quelle cifre. A fine agosto, stando alle ultime rilevazioni del ministero della Giustizia, nelle carceri lombarde erano ospitate anche quattro madri con i propri figli, cinque bimbi in tutto perché in un caso i piccoli al seguito della mamma erano due. Succede in particolare a Milano: tre madri, con cinque pargoli, erano a Bollate; un’altra donna, con un solo bimbo, a San Vittore. Negli ultimi anni le oscillazioni sono lievi, ma testimoniano un fenomeno che resiste: prendendo come riferimento sempre la stessa data del 31 agosto, nel 2024 le madri erano sei (con sette figli), nel 2023 erano 5, nel 2022 quattro; se si torna indietro, appena prima del Covid, nel 2019 erano invece ben tredici, con altrettanti minori. “La prospettiva securitaria del carcere sembra rassicuri la cittadinanza, invece penalizza e basta questi bambini”, riflette Lia Sacerdote, presidente dell’associazione BambiniSenzaSbarre che da oltre vent’anni dedica il proprio impegno alla tutela della genitorialità anche tra le persone private della libertà. È cambiato qualcosa in tempi recenti, almeno sulla carta, perché da giugno è a tutti gli effetti in vigore il Decreto Sicurezza: se prima il rinvio della pena per le donne in gravidanza e per le madri con figli sotto i tre anni era obbligatorio, ora questa “proroga” è diventata facoltativa, cioè a discrezione del giudice, e quindi si potrebbe assistere a un incremento dei numeri. “La carcerazione è un’esperienza che segna profondamente i bambini, sia quando all’interno c’è un genitore e ancor di più quando anche loro vivono la detenzione - prosegue Sacerdote -. È un trauma che il bambino, e poi il ragazzo, può portare con sé a lungo, con rischi legati alla dispersione scolastica e all’emarginazione: i bambini non dovrebbero stare in carcere”. Che il problema sia rilevante lo dimostra anche una sensazione sedimentata tra la polizia penitenziaria, costantemente a contatto con i detenuti. Di “situazioni che intristiscono le nostre coscienze” ha parlato nei giorni scorsi Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria, a proposito del caso di “due bambini di pochi mesi in cella con le loro mamme a Bollate” (rispetto al report ministeriale di fine agosto, infatti, nel frattempo una madre ha lasciato l’istituto). Bollate, spiega De Fazio, “rappresenta ancora un modello da imitare nel panorama nazionale”, seppur il sovraffollamento (1.383 reclusi a fronte di 1.266 posti) e la carenza d’organico (414 agenti quando ne servirebbero 681) “mettono a dura prova la tenuta organizzativa che si regge solo sul sacrificio, la dedizione e la capacità del personale e di chi lo dirige”. La genitorialità è “uno degli elementi più impattanti della reclusione”, ragiona ancora Sacerdote. C’è naturalmente un’altra prospettiva - complementare e altrettanto rilevante - accanto alle vicende delle madri detenute con la prole: quella dei figli che stanno all’esterno mentre un genitore è agli arresti. In Lombardia circa un terzo dei detenuti ha un figlio e addirittura sono circa 400 i reclusi con famiglie numerose, cioè con almeno quattro figli. “Solitamente questo aspetto viene trascurato rispetto ad altri che appaiono più urgenti per il reinserimento, come la casa e il lavoro - prosegue Sacerdote -. Invece, se non c’è attenzione all’elemento della genitorialità tutto il progetto educativo fallisce. È una sensibilità duplice, rivolta sia a chi è dentro sia a chi è fuori. Il mantenimento della relazione è fondamentale per la crescita dei ragazzi e per il percorso dei padri e delle madri”. Lucca. Camera Penale, riflettori sul carcere: “Condizioni difficili” La Nazione, 28 settembre 2025 Visita in “San Giorgio” promossa dalla Camera penale insieme a giudici ed esponenti della società civile. “Il periodo estivo è il più critico”. La visita in carcere è stata organizzata dalla Camera Penale di Lucca, che martedì scorso ha effettuato per il secondo anno consecutivo la visita alla Casa Circondariale di Lucca invitando la società civile e coinvolgendo anche i giudici che hanno aderito con entusiasmo. Sono intervenuti gli ordini professionali dei Farmacisti, degli Architetti, dei Commercialisti e degli Avvocati, oltre ad alcuni giudici del Tribunale di Lucca. La visita è stata condotta dalla direttrice del carcere dott.ssa Santina Savoca unitamente al Comandante di Reparto Dott. Iantosca al Commissario dottoressa Spanò dal Presidente della Camera Penale di Lucca avv. Marco Treggi con il responsabile osservatorio carcere avv. Alessandro Maionchi, ed ha interessato l’infermeria, la cucina, i locali per le attività di rieducazione, e le sezioni dove sono poste le celle delle persone detenute. “L’iniziativa - sottolinea il presidente della camera penale di Lucca, avv. Marco Treggi - è stata organizzata al fine di dare consapevolezza alla società civile delle reali condizioni degli istituti e di formare una coscienza sociale comune e informata sul tema del carcere. Vogliamo far sentire alle persone ristrette la vicinanza dei penalisti e delle istituzioni soprattutto nel periodo estivo, nel corso del quale le condizioni di vita in prigione diventano ancor di più insopportabili e inumane”. Molte sono state le domande dei partecipanti alla dottoressa Savoca, ciascuno per le proprie competenze, ed è nato un nuovo rapporto e progetto di collaborazione, come si è già realizzato, lo scorso anno, con l’ordine degli ingegneri e dei medici. La Camera Penale da sempre monitora e supporta la Casa Circondariale di Lucca con molte iniziative tra le quali organizzazione di importanti convegni all’interno del carcere, attività ludiche come le partite di calcetto detenuti - avvocati, con la fornitura di beni e servizi e anche con iniziative come queste. Attualmente il carcere “San Giorgio” ospita 96 detenuti, 55 dei quali stranieri. I detenuti in attesa di processo sono 34, mentre 6 hanno in corso un appello, 1 è ricorrente, 47 hanno condanne definitive e 8 sono semiliberi. Una situazione di affollamento, con 3 persone stipate in 9 metri quadri. Trento. Giustizia riparativa, ponte tra carcere e società di Dafne Roat Corriere del Trentino, 28 settembre 2025 Presidente Arno Kompatscher ha firmato il protocollo d’intesa per l’istituzione del Centro per la giustizia riparativa. “La giustizia non è solo punizione. Vogliamo trasformare la risposta al reato in un’occasione di ricomposizione e ricostruzione dei legami sociali”. Le parole del presidente della Regione Arno Kompatscher sono esemplificative del significato della giustizia riparativa e di un progetto che vuole “restituire dignità alle vittime” dando nel contempo una chance di riscatto, di reinserimento sociale, a chi ha sbagliato. Perché la giustizia è anche “favorire l’assunzione di responsabilità dell’autore dell’offesa, offrire partecipazione e prospettive alla comunità”, ha spiegato il presidente, a margine della firma del Protocollo d’intesa, siglato tra la Conferenza locale per la giustizia riparativa del distretto di Corte d’appello e la Regione per l’istituzione del Centro per la giustizia riparativa. Il protocollo è propedeutico all’apertura del Centro a Trento e rappresenta un passaggio fondamentale per rendere effettivo e concreto il diritto di accedere ai programmi di giustizia riparativa in materia penale. L’accordo stabilisce che il Centro dovrà garantire fin dall’avvio la piena fruibilità dei programmi, assicurandola presenza di personale qualificato e in particolare di mediatori esperti in programmi di giustizia riparati va iscritti all’ elenco ministeriale. Particolare attenzione sarà riservata alla parità di genere e alla diversificazione dei profili dei mediatori, valorizzando l’età, competenze e professionalità pregresse. Il protocollo prevede inoltre la presenza di interpreti bilingue che siano anche traduttori, in modo tale da rendere accessibile il percorso a tutte le persone coinvolte. L’accesso ai programmi sarà gratuito, su base volontaria e indipendentemente dalla tipologia o dalla gravità dei reati. L’obiettivo resta quello di “costruire un ponte - come sottolinea il presidente Kompatscher - tra il carcere e la società”. Il Centro, infatti, non si rivolge solo alle vittime di reato e all’autore, ma anche ai loro familiari, ad associazioni e istituzioni, al fine di promuovere un percorso di riconoscimento reciproco e ricostruzione dei legami con la comunità. Intanto nell’ultima riunione di lunedì la giunta comunale di Trento ha approvato il protocollo d’intesa “Manifesto per il Tavolo per la cultura riparativa di Trento” che viene integrato con l’inserimento del Tribunale dei minori e del Garante. L’obiettivo è quello di creare una rete tra enti pubblici e privati, istituzioni e associazioni per promuovere i valori riparativi, valorizzando quindi il dialogo tra le parti e facilitare il coinvolgimento della comunità, consapevoli del fatto che la repressione e l’imposizione di soluzioni da parte di terzi spesso non sono efficaci nella gestione di un conflitto. Si parte dalla scuola e dai contesti educativi anche per favorire esperienze di cittadinanza attiva. Lucca. Quelle “Sbarre di solitudine”, sul palco la vita dentro una cella La Nazione, 28 settembre 2025 Appuntamento speciale martedì 30 settembre alle ore 17 all’Oratorio degli Angeli Custodi, in via degli Angeli Custodi, 30 a Lucca, con lo spettacolo “Sbarre di solitudine - Vite spezzate in una prigione di ombre” dedicato al pianeta carcere e ai drammi che in quello si consumano. Un evento organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Lucca e dal suo Comitato Pari Opportunità in collaborazione con la Fondazione Giuseppe Pera e con il coinvolgimento delle Associazioni maggiormente rappresentative dell’Avvocatura lucchese (Camera Penale di Lucca, Camera Civile di Lucca, Aiaf Toscana Sezione di Lucca, Aiga Sezione di Lucca, Ondif e Associazione Pratica Collaborativa). Previsti i saluti istituzionali del Presidente del COA di Lucca avv. Flaviano Dal Lago e della Presidente del CPO avv. ta Maria Grazia Fontana, un’introduzione da parte dell’avv. Carmela Piemontese, tesoriere e responsabile della formazione dell’Ordine degli Avvocati di Lucca. A seguire verrà messo in scena lo spettacolo “Sbarre di solitudine. Vite spezzate in una prigione d’ombre” della Compagnia teatrale Attori e Convenuti, con accompagnamento musicale dell’avv. Michele Salotti. Già dal titolo “Sbarre di solitudine” e dal sottotitolo “Vite spezzate in una prigione di ombre” si intuiscono i temi che saranno analizzati in questa pièce. Si tratta di un monologo dedicato al pianeta carcere e, in particolare, al suo lato oscuro, in cui dolore psicologico, disagio, violenza, privazioni e limitazioni si annidano e si sviluppano nell’animo dei reclusi, potendo talora sfociare nel suicidio. È un soliloquio al femminile, che scandaglia le pieghe più intime dell’animo e le ragioni che possono condurre un detenuto a compiere il gesto estremo. In questo spettacolo viene esplorato il baratro in cui cadono i detenuti costretti a vivere in pochi metri quadrati senza la possibilità di muoversi. Sono muri che incombono - quelli della cella - che soffocano, che trasmettono al detenuto la sensazione di essere chiuso in una scatola. All’angustia dello spazio corrisponde la compressione delle emozioni, degli affetti, dei ritmi della vita “normale”. L’intento è quello di un momento di riflessione rivolto non solo agli “addetti” ai lavori ma anche e soprattutto quello di avvicinare e sensibilizzare i cittadini ad un mondo, un tema così importante e delicato e, purtroppo, ignorato dai più. Trieste. “Fuori Menù”, cena solidale cucinata da una brigata di detenuti velaveneta.it, 28 settembre 2025 Il 7 ottobre al ristorante Zinzendorf di Opicina una speciale cena di pesce preparata da detenuti formati nel progetto “Slow gusto”, con parte del ricavato destinato a DOC - Docenti per l’Istruzione in Carcere. L’edizione 57 di Barcolana si arricchisce di un nuovo evento che unisce inclusione, solidarietà e alta cucina. Nasce infatti “Fuori Menù”, una cena speciale in programma il 7 ottobre presso il nuovo ristorante Zinzendorf di via Nazionale a Opicina. Protagonista della serata sarà una brigata di detenuti della Casa Circondariale di Trieste, che dopo un percorso di formazione professionale prenderà posto ai fornelli per proporre un menù di pesce aperto al pubblico. L’iniziativa rientra nel progetto “Slow gusto: tecniche di cucina marinara”, finalizzato al reinserimento sociale attraverso la valorizzazione delle competenze e dell’impegno. “Dopo un periodo di formazione e un percorso professionale in carcere - ha commentato il presidente della Società Velica di Barcola e Grignano, Mitja Gialuz - il gruppo di detenuti avrà l’occasione di applicare quanto imparato in una cena aperta alla comunità. L’obiettivo di Barcolana è quello di assicurare dialogo e attenzione per una realtà, quella del carcere, rispetto alla quale vi è troppo spesso chiusura, diffidenza e disinteresse. Solo creando dei ponti tra l’esterno e l’interno del carcere si può realizzare la promessa costituzionale di una pena che tende davvero alla rieducazione”. Il costo della cena è fissato a 60 euro e i biglietti saranno disponibili a partire da domenica 28 settembre alle ore 12.00 sul sito ufficiale di Barcolana, nella sezione Shop: www.barcolana.it/shop. Parte del ricavato sarà devoluto all’Associazione DOC - Docenti per l’Istruzione in Carcere, che da anni lavora per favorire percorsi educativi e di reinserimento sociale all’interno delle strutture detentive, creando connessioni tra il “dentro” e il “fuori” attraverso collaborazioni con la comunità. La cena “Fuori Menù” si terrà nello spazio gastronomico e culturale Zinzendorf Okrep?evalnica - Ristoro, nato per valorizzare il dialogo tra culture e la convivialità. L’evento è sostenuto da Consorzio Prosecco DOC, Azienda Agricola Marina Danieli, Bepi Tosolini, Acqua Dolomia ed è organizzato in collaborazione con l’I.S.I.S. Bonaldo Stringher. “Quanti vorranno parteciparvi - ha concluso Gialuz - si troveranno a far parte di un più grande obiettivo: dare un contributo per alimentare la speranza per tante donne e uomini che scontano una pena detentiva e per costruire una società più sicura”. Il male si vince. Leggi, sarai libero di Simona Buscaglia Corriere della Sera, 28 settembre 2025 Fuori dalla finestra le piogge torrenziali segnalano la fine dell’estate. In un pomeriggio di settembre, in una sala biblioteca ben fornita sfilano titoli tradotti in tutte le lingue: dall’arabo al cinese, dall’albanese all’inglese fino al francese. Un ragazzo di circa trent’anni stringe tra le mani un volume dal titolo “Le condizioni ideali”, di Mokhtar Amoudi. Sopra di lui una scritta, “Io amo leggere”; intorno, una sala piena di persone sedute in attesa. Qualcuno si saluta: “Ah, ci sei anche tu? Sei carico e contento?”, dice uno. “Siediti qui vicino a me. Sai, non riesco tanto a parlare, mi hanno operato da poco e mangio ancora solo yogurt e banane. Scriverò le domande su un foglietto”. C’è chi scarta una caramella alla menta e la offre al vicino: “Ne vuoi una?”. Sembrerebbe un incontro di un book club qualsiasi, in un posto anonimo, di una città italiana qualunque. Invece siamo nel carcere di Bollate e le persone che qui hanno residenza stanno per conoscere lo scrittore francese di origini algerine che ha vinto nel 2023, con il romanzo d’esordio, il Premio Goncourt des détenus, un riconoscimento letterario dove il vincitore viene scelto dai reclusi di 45 istituti penitenziari d’oltralpe, in territori che vanno da Rennes a Marsiglia, passando per Parigi, Lille, Strasburgo e Lione. Leggono e votano i libri finalisti, selezionati dall’Académie Goncourt, stabilendo le loro preferenze che portano poi a un vincitore. La storia raccontata da Amoudi potrebbe essere quella di molte persone presenti all’incontro. Le condizioni ideali è infatti il titolo ironico di un libro che racconta la storia di Skander, un ragazzo abbandonato quand’è ancora un bambino da una madre incapace di crescerlo e affidato ai servizi sociali. Il contesto è quello di una violenta banlieue parigina, dove il giovane cerca di sopravvivere e sfuggire a quello che sembra un destino segnato. Il percorso di chi non ha una base di partenza favorevole è sempre a ostacoli e infatti il quartiere influenza il protagonista, che, per racimolare denaro e comprarsi i vestiti di marca per distinguersi dal mucchio, finisce anche in un giro di spaccio di droga. Rimane comunque una storia di riscatto: anche se la sua vita è sempre in bilico tra criminalità e voglia di uscirne, alla fine quest’ultima energia è più forte. La trama non è però quella di un romanzo e basta: potremmo definire Skander un alter ego di Amoudi, che viene dallo stesso contesto e ha vissuto gran parte delle tappe salienti del protagonista del suo libro. La sua vita reale è stata la principale fonte d’ispirazione. Quando arriva nella biblioteca del carcere, per prima cosa osserva gli scaffali di libri. Poi comincia a salutare tutti, uno a uno, stringendo loro la mano e guardandoli in faccia. Quando si siede, le sue prime parole sono: “Consideratemi come un vostro amico, chiedetemi quello che volete. Odio parlare solo io”, ma soprattutto sottolinea: “Spero che leggiate molto qui, ho visto molti bei libri. Leggere è importante, per me ha rappresentato la salvezza. Sono partito divorando con curiosità il dizionario, anche se nessuno mi aveva mai detto di conoscere il mondo attraverso il linguaggio. Sono sempre stato curioso e anche questo mi ha aiutato”. A chi gli chiede quanto sia stato difficile scrivere un libro che parla anche della sua vita, lo scrittore francese non si nasconde: “Mi sono dovuto immedesimare di nuovo nel me stesso di allora, rimettendomi a fare flessioni e ascoltare musica rap. Volevo raccontare le cose com’erano nel contesto in cui vivevo, quando facevo la spola tra due quartieri, che potrebbero essere Scampia 1 e Scampia 2, giusto per capirci”. Il racconto si fa subito diretto, toccando tasti che portano a interventi e domande: “Mi sono ricollegato ai sentimenti di allora e non è stato facile. Mi ero accorto a un certo punto di essere completamente solo, anche se mia mamma la conoscevo, la vedevo ogni tanto e con lei avevo, alla fine, un buon rapporto. Fino all’ultimo non sapevo se inserire o meno la figura della donna che si è occupata di me. Prima non volevo, poi ho cambiato idea. Ho provato a rimettermi in contatto con lei per chiederle il permesso, ho chiesto a uno dei suoi figli. Non ho mai ricevuto risposta ma l’ho interpretato come un silenzio assenso”. Il feeling con la platea è istantaneo, in tanti, prendendo la parola, ripetono: “Mi rivedo molto in quello che racconti”, e a un certo punto uno dei detenuti chiede silenzio prima dell’intervento di un compagno, emozionato nella voce: “Hai mai avuto paura di poter perdere il tuo futuro? Dove hai trovato il carburante per combattere?”. La risposta è secca: “Quando non hai niente, la scuola è l’unico strumento per uscire da una condizione svantaggiata. Ti permette di dimenticare per un po’ le cose che non vanno, ma è un amore che va coltivato, altrimenti piano piano te lo dimentichi. Io amavo la scuola e lo studio è stato la mia forma di riscatto ed evasione, che mi ha fatto dire: “Se ci metti tutta la tua volontà, ce la fai a non perderti”. Ci sono stati momenti in cui ho rischiato ma, seguendo il filo delle mie passioni e della lettura, sono stato anche invitato all’Eliseo per parlare con alcuni consiglieri della politica. Ho aperto porte sbagliate, nella vita succede, però poi arriva il momento dove devi prenderti anche il tempo per pensare, stare solo e ricominciare”. I sentimenti sono al centro di quasi tutte le domande rivolte all’autore, dai rapporti con i genitori a quelli con le altre persone, ma la curiosità si concentra sugli strumenti da trovare per uscire dai momenti insidiosi. Prende la parola un uomo sulla quarantina, camicia blu e occhiali azzurri, uno dei più attenti durante l’evento: “Anche se hai avuto incontri fortunati nella vita e hai pubblicato un libro, a volte ti senti giù? Come fai a non abbatterti? Scrivere ti ha aiutato?”. Il racconto è molto intimo, non ci sono forzature, Amoudi risponde senza tentennamenti: “Nella mia vita ho incontrato persone che volevano solo il mio male, per questo sono stato tanto da solo. A volte mi capita di piangere, di gridare quando non c’è nessuno intorno a me. Poi però penso che sono stato fortunato a conoscere persone che mi hanno aiutato, come quando al tavolino di un caffè la numero due della casa editrice Gallimard mi ha lasciato il suo biglietto da visita dopo aver ascoltato la storia del mio romanzo mentre lo stavo raccontando a un amico. Quindi vado avanti, facendo quello che amo: scrivere è la cosa che mi rende più felice, ma i libri non si scrivono da soli. I lettori non sono nella tua testa e se hai una storia che vuoi raccontare devi lavorare ogni giorno per metterla materialmente nero su bianco”. Sono finite le domande, l’incontro è terminato, qualcuno si avvicina al banco dei dolci allestito per l’occasione. Poi, un uomo con un copricapo arabo chiede di poter leggere un messaggio in francese per lo scrittore. Si ristabilisce il silenzio e tutti restano in ascolto: “Volevo ringraziarti per essere venuto qui da noi. Hai avuto coraggio a non diventare uno spacciatore, a non vendicarti di una vita che ti aveva dato poco. Sei un ottimo esempio di come prendere il cammino giusto invece di quello sbagliato, creando le tue condizioni ideali”. La difficile convivenza tra il potere e la cultura di Cristina Taglietti Corriere della Sera, 28 settembre 2025 Cancellazioni, mancati inviti, esclusioni: sono forme di censura su cui periodicamente anche l’Italia si trova a dibattere. In questi ultimi anni diverse sono state le occasioni di polemica riguardo alla libertà di espressione che hanno coinvolto artisti, scrittori, attori, non soltanto nei Paesi autoritari, dove la carcerazione è all’ordine del giorno, ma anche nelle democrazie. È lecito dunque chiedersi quale posto occupa oggi l’intellettuale nello spazio pubblico. Quanto il potere politico è disposto a riconoscergli un ruolo di interlocutore critico? Negli Stati Uniti show comici e satirici, critici verso Trump, rischiano di essere messi fuori onda o costretti a modificare il loro tono per non essere presi di mira. Come Jimmy Kimmel, colpevole di avere fatto commenti critici sulla morte di Charlie Kirk e sui sostenitori conservatori, sospeso dalla Abc (proprietà Disney) su pressione dell’ente federale che regola le licenze televisive e poi tornato in onda (il comico si è scusato con la famiglia Kirk e i conservatori). La Cbs ha già annunciato la chiusura, da maggio 2026, del Late Show che Stephen Colbert ha ereditato dieci anni fa da David Letterman, mentre Seth Meyers che conduce Late Night sulla Nbc ha rilanciato con un’ulteriore battuta attribuendo all’intelligenza artificiale la responsabilità di ciò che ha detto contro il presidente. In Paesi europei come Polonia e Ungheria l’uso politico delle nomine di istituzioni culturali si è intensificato, mentre qualche giorno fa un tribunale austriaco ha ordinato all’editore Verbrecher di ritirare un libro del regista e drammaturgo Milo Rau per aver attribuito a un politico frasi che avrebbero deriso vittime dell’Olocausto. Secondo Rau, che pure ha ammesso l’errore, il caso rientra in una pratica più ampia: l’uso di strumenti legali per silenziare le critiche. Se dai poeti cortigiani del Rinascimento alle avanguardie del Novecento, gli scrittori hanno sempre definito la propria posizione rispetto alle istituzioni, oggi è spesso il potere a delimitare i confini della legittimità culturale. Gli scontri su quali autori invitare nei festival finanziati con fondi pubblici hanno reso evidente anche in Europa che la politica culturale tende sempre più a selezionare voci compatibili con il clima governativo. Questi interrogativi sono tornati al centro del dibattito nel nostro Paese lo scorso anno quando l’invito della Buchmesse di Francoforte all’Italia come Paese ospite d’onore si è trasformato in un caso rovente. I fatti sono noti: dalla delegazione ufficiale di circa cento autori italiani, curata dal commissario straordinario del Governo Mauro Mazza, è stato escluso Roberto Saviano. La decisione di non invitare uno tra gli autori più noti e più critici verso il governo Meloni, è stata giustificata con motivazioni editoriali e organizzative poco convincenti. Anche perché arrivava dopo un’altra pesante cancellazione: il monologo di Antonio Scurati, in Rai, in occasione del 25 aprile 2024. I due non sono figure addomesticabili: il primo ha fatto della scrittura una forma di resistenza civile fin dall’uscita, ormai quasi vent’anni fa, di Gomorra, il libro che gli ha procurato le minacce della camorra e la scorta; il secondo, autore della monumentale pentalogia su Mussolini, è diventato un simbolo antifascista pur non venendo da una storia di militanza. Lo ha detto chiaramente qualche settimana fa al Festivaletteratura di Mantova: “Sono un ragazzo degli anni Ottanta, epoca del disimpegno, del riflusso. Per aver scritto romanzi su un argomento esplosivo mi sono trovato a essere bersaglio di accaniti attacchi di fazione, di una campagna di aggressione verbale da parte di alcuni dei più alti rappresentanti istituzionali”. Tenere fuori Saviano e Scurati da un evento che avrebbe dovuto rappresentare la pluralità della cultura italiana è apparso a molti come un atto politico, anche in considerazione della vicenda giudiziaria che ha opposto Saviano in tribunale alla premier Giorgia Meloni da cui è stato denunciato. Lo scrittore ha sempre parlato di un “veto” su di lui da parte dell’attuale governo e ha spesso messo in rilievo un punto dirimente: la sproporzione tra chi attacca dal basso, come può fare uno scrittore, e chi attacca da posizioni dominanti, di potere. Come è accaduto a Michela Murgia, voce critica capace di parlare di femminismo, diritti civili e politica, spesso percepita come una minaccia e attaccata sui social da esponenti politici come Matteo Salvini. Fuori dalla delegazione ufficiale, invitati direttamente dalla Buchmesse e dal suo direttore plenipotenziario Jürgen Boos, Saviano e Scurati sono stati protagonisti di una sorta di controprogrammazione che, per tutta la durata della Buchmesse, ha fatto da contrappunto al programma ufficiale italiano. Anche per le reazioni di altri scrittori, come Sandro Veronesi, Emanuele Trevi, Francesco Piccolo, che hanno rinunciato a partecipare alla delegazione in segno di protesta, o di Paolo Giordano, Nicola Lagioia, Donatella Di Pietrantonio, che hanno usato gli spazi a disposizione, con il supporto del Pen Berlin, come momento critico per riflettere, insieme ad altri, sulla libertà di espressione. L’altra Italia era, non a caso, il titolo di questo spazio a disposizione. Lo stesso Giordano, annunciando nel 2023 il ritiro della sua candidatura a direttore del Salone del libro di Torino del dopo-Lagioia, aveva parlato di “mancanza di condizioni di indipendenza”. Anche Ricardo Franco Levi, nel 2023 commissario straordinario per l’Italia Paese ospite a Francoforte, non certo etichettabile come organico alla destra, è caduto nella trappola dell’invito ritirato per compiacenza al governo: prima propone formalmente a Carlo Rovelli di tenere la lectio magistralis di inaugurazione della Buchmesse, poi revoca, via mail, l’invito. L’intervento del fisico al concertone romano del Primo Maggio, critico sull’impegno in Ucraina e sul ministro della Difesa Guido Crosetto, aveva suscitato “clamore, eco e reazioni” tali che la sua partecipazione inaugurale avrebbe potuto - secondo Levi - non essere vista come celebrazione della ricerca e della conoscenza, ma offrire l’occasione di polemiche e attacchi, fonte di imbarazzo per chi avrebbe rappresentato l’Italia. Il caso contribuì a mettere in discussione la posizione di Levi, indotto alle dimissioni dall’allora ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano. A fare da cornice c’è il tema della cosiddetta egemonia culturale della sinistra, concetto che ha radici lontane, in Antonio Gramsci, secondo cui una classe dirigente non deve solo governare sul piano politico ed economico, ma imporre i propri valori e visione del mondo come senso comune condiviso. Sradicare questa egemonia, rivendicare la necessità di una cultura di destra che restituisca spazio a valori nazionali, identitari, tradizionali, religiosi è stato il sottofondo ideologico che ha caratterizzato molte iniziative del governo su cinema, Rai, nomine di istituzioni culturali. Secondo i critici, più che una egemonia culturale, un dominio ideologico calato dall’alto e tradotto in spoils system. A questo clima molti, soprattutto a sinistra, hanno associato la decisione della Commissione consultiva per il teatro del ministero della Cultura di declassare la Fondazione Teatro della Toscana, diretta da Stefano Massini (ne fanno parte il Teatro della Pergola e quello di Rifredi, a Firenze, e l’Era di Pontedera, in provincia di Pisa). Tolto il riconoscimento di Teatro nazionale, è rimasto quello di Teatro di rilevante interesse culturale: il che significa non solo un ridimensionamento del prestigio ma anche un taglio dei finanziamenti di circa 400 mila euro all’anno. Massini e la sindaca di Firenze, Sara Funaro, lo hanno definito un atto politico, di “punizione” e “bullismo istituzionale”, mentre tre membri su sette della commissione si sono dimessi in segno di dissenso. Il ministro Giuli ha ribadito tutta la sua stima a Massini, la Fondazione ha fatto ricorso al Tar. In Algeria lo scrittore Boualem Sansal, naturalizzato francese, settantacinquenne, malato, è in carcere, condannato a 5 anni per “minaccia alla sicurezza nazionale”. In Russia il popolarissimo Boris Akunin, da tempo critico verso il regime di Putin e sostenitore dell’Ucraina, ha appena ricevuto una condanna a 14 anni in contumacia per reati che vanno dal favoreggiamento del terrorismo alla violazione delle leggi sugli “agenti stranieri”. Scrittori, artisti, musicisti russi sono spesso sotto il fuoco di una doppia censura, in patria e all’estero. Nel 2022 una serie di conferenze di Paolo Nori su Dostoevskij in programma all’Università Bicocca di Milano sono state annullate “per evitare tensioni”, due anni dopo la traduzione in russo del suo Vi avverto che vivo per l’ultima volta, dedicato alla poetessa Anna Achmatova, è stata emendata. Nel nuovo libro, appena uscito da Utet, Non è colpa dello specchio se le facce sono storte (sottotitolo provocatorio Diario di un filorusso) Nori cita un tweet del giornalista e politologo Kirill Martynov che proponeva di organizzare il Club dei filorussi anonimi: “Ci troveremo, ci siederemo in cerchio e diremo: “Buongiorno, mi chiamo John e mi piace Dostoevskij”. Giustizia per Alaa, vittima di una legge nemica del diritto di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 28 settembre 2025 Un giovane migrante libico, accusato di essere uno scafista e condannato a trent’anni, pubblica un volume in cui racconta la sua storia. Esempio di un paradosso giuridico da risolvere. Le osservazioni seguenti nascono dalla decisione di un giudice (la Corte d’appello di Messina) confermata dalla Corte di Cassazione, che ha negato il giudizio di revisione di una sentenza di condanna a una pena pesantissima (trent’anni di reclusione) di un ragazzo libico, Alaa Faraj, trovatosi coinvolto in una delle tante tragedie della rotta mediterranea dei barconi di migranti. Nell’agosto del 2015, quarantanove persone, stipate a forza nella stiva d’una barca senza aerazione vi trovarono una morte orribile per asfissia. Questa storia è narrata da Alaa, in un libro - Perché ero ragazzo - pubblicato in questi giorni nelle edizioni Sellerio. È scritto in un italiano, per così dire, sorgivo come può essere quello di chi sta imparandolo non dalle grammatiche ma dalle vicende della sua vita: sorgivo, creativo, preciso e spesso seduttivo. Fallito il tentativo di ottenere i documenti richiesti per l’espatrio, siamo condotti da una tappa all’altra di una vicenda che si svolge tra la decisione di lasciare Bengasi per cercare fortuna in Europa, i sotterfugi per tenerla nascosta ai familiari, la ricerca del danaro richiesto dagli scafisti armati che una notte pigiano nella barca uomini donne e bambini a blocchi di trenta per volta, il viaggio se viaggio può dirsi l’inferno della traversata, l’incriminazione e la condanna come uno dei responsabili dei tanti morti, fino all’approdo nel carcere dell’Ucciardone, dove dei trent’anni ne ha già scontati dieci passati nel tentativo di veder riconoscere la sua innocenza non disperando, anzi confidando nella giustizia italiana. Era un ragazzo di vent’anni pieno di aspirazioni nello sport e nello studio. Oggi, a trent’anni d’età le prime sono tramontate e restano le seconde. Soprattutto, però, resta la sua protesta d’innocenza e la restituzione del suo buon nome: non essere stato uno “scafista” ma, come le altre persone imbarcate, un migrante vittima di politiche che, impedendo l’emigrazione legale, alimentano quella illegale sulla quale speculano i criminali che organizzano i viaggi, spesso con la connivenza degli Stati di partenza. Su questa vicenda si è mobilitata un’attenzione particolare, suscitata e tenuta viva soprattutto dall’impegno di una filosofa del diritto dell’Università di Palermo, Alessandra Sciurba, che, non senza difficoltà, unisce lo studio astratto all’impegno pratico per la giustizia. Se il libro di cui stiamo parlando è giunto a compimento e alla pubblicazione, e non è rimasto soltanto un proposito abbandonato a causa di sfinimento e rassegnazione, lo si deve a lei. Se il giovane Alaa, nel frattempo, non è crollato, mantiene ferma la speranza e continua a riporre fiducia nello “Stato di diritto” che vige in Italia e che egli invoca costantemente malgrado la condanna che l’ha colpito ed egli considera ingiusta, lo si deve, ancora, anche a lei. Ma, che cos’è lo “Stato di diritto” quando gli stessi giudici, chiamati a considerare la domanda di revisione della sentenza di condanna possono parlare, respingendola, di uno “scarto che indubbiamente esiste tra il diritto e la pena legalmente applicata e la dimensione morale dell’effettiva colpevolezza”, senza avvertire l’insostenibile contraddizione e senza trarne alcuna conseguenza? Espressioni piuttosto contorte e tormentate, che esprimono tuttavia chiaramente il turbamento dei giudici davanti al caso che stanno giudicando: c’è una pena, pesantissima per di più, inflitta secondo la legge, ma essa “indubbiamente” si discosta (lo “scarto”) dal diritto e non corrisponde all’effettiva responsabilità morale del condannato. In breve: la sua condanna è legale, ma è ingiusta e l’ingiustizia è tale da risultare al di là di ogni dubbio. Pur in questo contesto, la domanda di riaprire il giudizio per riesaminare il caso è stata respinta perché le condizioni previste dal codice, anche secondo l’interpretazione dalla Corte di Cassazione, sono stringenti. Occorrono prove nuove, incontrovertibili, non esaminate in precedenza ed è ciò che manca. Allargare le maglie per ammettere la revisione pur quando, come in questo caso, le prove a sostegno della condanna erano labili testimonianze, rese allora e poi ritrattate, significherebbe che i processi non si chiuderebbero mai definitivamente e la certezza del diritto andrebbe in fumo. Sarebbe compromessa quella che i giuristi chiamano la “forza del giudicato”. I giudici si fermano qui perché la legge non consente di andare oltre. La sentenza di condanna è stata pronunciata definitivamente e la legge la rende intoccabile. “Ma come?” direbbe chiunque. Questo nostro “Stato di diritto” tollera una condanna ingiusta e immorale, tale ritenuta non da uno qualsiasi di noi e, tantomeno dal condannato stesso, ma proprio dal giudice; questo nostro “Stato di diritto” tollera questa suprema contraddizione tra la legalità e la realtà, tra un dogma giuridico e la vita di una persona? Procedere senza assumersi il peso della contraddizione e delle sue conseguenze significa adeguarsi a un cieco legalismo, al motto “dura lex sed lex” dietro il quale spesso i giuristi si rifugiano, ignorando la complessità della loro funzione al servizio del diritto: il diritto non si riduce alla legge ma è anche giustizia. Se fosse solo legalità, dovremmo accettare qualunque ingiustizia basata sulla legge. Ma una tale spietata visione della giustizia ridotta a mera legalità non è quella che dovrebbe orientare le opere dei giuristi, quando essi abbiano ampia esperienza e coscienza non solo delle virtù ma anche dei vizi della legge. Che cos’è la legge senza giustizia, se non pura forza legalizzata? La legge deve guardare la giustizia e la giustizia la legge: devono conoscersi e riconoscersi. Che fare, allora, affinché la legge non prevarichi la giustizia e la giustizia non prevarichi la legge? Le possibilità delle arti interpretative sono ben note ai giuristi i quali sanno quanto danno essi possono fare alla legittimità e all’autorità delle leggi quando le applicano senza considerare le esigenze della giustizia. Le possibilità dell’interpretazione, però, non sono infinite e, dunque, non sono sempre sufficienti. Allora è il rifiuto dell’arbitrio e il ricorso alla ragionevolezza del diritto, che soccorrono. La ragionevolezza è l’autentica chiave di volta del nostro sistema giuridico, della cui custodia la Corte Costituzionale è il garante. A essa ci si rivolge tutte le volte in cui le leggi, come tali e nella loro interpretazione, contraddicono inconfutabilmente le esigenze di giustizia, precisamente come nel caso in questione in cui la contraddizione è certificata dal giudice stesso. Che cosa c’è di più irragionevole e contraddittorio di una sentenza dove si legge: per la legge è così, ma per il diritto e la giustizia non è così (“lo scarto”)? Questo pare che si sarebbe potuto fare. Invece, il giudice si è voltato dall’altra parte dicendo: io non posso, ma c’è la grazia: ci si rivolga al presidente della Repubblica per chiedere che egli, nella sua saggezza, ristabilisca il diritto. Ma è, evidentemente, una soluzione di ripiego. Il giovane Alaa chiedeva giustizia, non pietà o benevolenza. In questa situazione, tuttavia, ben possono venire l’eventuale buona disposizione del capo dello Stato e la sua clemenza che immetta nella legalità una sorta di supplementum iustitiae. Il libro - “Perché ero ragazzo”, di Alaa Faraj (Sellerio, a cura di Alessandra Sciurba, pagg. 344, euro 17). Il libro verrà presentato lunedì 29 settembre, alle 18.15, sul Sagrato della Cattedrale di Palermo Presenti l’arcivescovo Corrado Lorefice, Daria Bignardi, Gustavo Zagrebelsky e Alessandra Sciurba Modera Elvira Terranova, letture di Corrado Fortuna. Alaa Faraj parteciperà se arriverà l’autorizzazione delle autorità competenti. Il carcere, il lavoro: libri e film nelle biblioteche di Laura Antonini Corriere Fiorentino, 28 settembre 2025 In arrivo la nuova rassegna dello “Schermo dell’Arte” che coinvolge le periferie. Lavoro, violenza di genere, carcere e migrazioni: alcuni dei temi cruciali della società contemporanea diventano spunto di dibattito e riflessione di Moving Archive - Film e libri per leggere il presente che con proiezioni, incontri con artisti e presentazioni di libri coinvolgerà il pubblico dal 2 al 31 ottobre in tre biblioteche della periferia di Firenze. BiblioteCaNova Isolotto (Quartiere 4), Biblioteca Mario Luzi (Quartiere 2), Biblioteca Villa Bandini (Quartiere 3) sono i luoghi scelti per il progetto de Lo Schermo dell’Arte realizzato con Fondazione Cr Firenze - nell’ambito del Bando Partecipazione Culturale/Periferie e con il coinvolgimento dello scrittore Simone Lisi coadiuvato da Valeria Mancinelli e Alessandra Fredianelli e associazioni studentesche di volontari. Si parte il 2 e 3 ottobre alla Biblioteca Mario Luzi con la proiezione dei film degli artisti Danilo Correale, risultato di una serie di incontri con gli operai del porto di Genova, di Valentin Noujaïm che riflette sulle condizioni di precarietà e sorveglianza nelle periferie francesi, e la presentazione dei libri di Diletta Bellotti e Valentina Baronti sullo sfruttamento dei migranti nel lavoro agricolo ma anche sulla storia della Gkn di Campi Bisenzio. Il 16 e 17 ottobre l’appuntamento è a BiblioteCaNova Isolotto con quattro cortometraggi di Eva Giolo, Elena Mazzi e Silvia Giambrone prodotti dalla Fondazione In Between Art Film per Mascarilla 19 - Codes of Domestic Violence. Tra questi lavori ci sarà anche il Premio Cultura del Mediterraneo Adrian Paci con Vedo Rosso, sulla violenza domestica dove lo schermo è saturo di un rosso palpitante dall’interpretazione dell’attrice Daria Deflorian che trasforma l’assenza di immagini in uno spazio drammaturgico e di ascolto. Il tema delle carceri vivrà il 23 e 24 ottobre alla Biblioteca Mario Luzi con il lungometraggio Tehachapi di JR, nato da un lungo lavoro del celebre artista francese all’interno di una prigione californiana di massima sicurezza, e il libro Autoritratti di Tommaso Spazzini Villa, progetto di arte partecipativa che chiama in causa inconscio e letteratura coinvolgendo oltre 361 detenuti di diverse carceri italiane. A chiudere il 30 e il 31 ottobre il tema delle migrazioni alla Biblioteca Villa Bandini con i film dell’artista curdo Hiwa K, del collettivo britannico Forensic Architecture, e il libro di Luca Misculin, giornalista ed esperto di politica internazionale, che racconta le rotte migratorie nel Mediterraneo. Quando una società è giusta? Quattro idee di libertà (e dei suoi limiti) di Leonardo Becchetti Avvenire, 28 settembre 2025 Il modo in cui concepiamo la libertà incide su di noi e sulla collettività. Quanto siamo disposti a concedere? I casi della pandemia e della transizione ecologica. Dietro le tragedie che si stanno consumando oggi nel mondo ci sono radici più profonde dei capricci di alcuni potenti. Il modo in cui concepiamo la libertà, anche se non tutti ne sono consapevoli, incide in maniera decisiva sulla nostra soddisfazione di vita nonché sul benessere (o sul malessere) della collettività. La questione viene sistematicamente alla ribalta in tutte quelle circostanze nelle quali si chiede un sacrificio alla libertà personale in nome di un interesse comune. I due casi più evidenti recenti sono stati quelli della pandemia e della transizione ecologica. Nel primo caso il bene superiore della prevenzione dei contagi e del superamento della fase della pandemia ha posto vincoli rilevanti alla libertà personale (l’uso delle mascherine, l’obbligo dei vaccini, i limiti alla mobilità personale) e non a caso questo ha scatenato molte polemiche e la ribellione soprattutto di quanti hanno affermato di non voler accettare limiti imposti dall’esterno. Con la transizione ecologica sta accadendo qualcosa di analogo, perché alcuni dei comportamenti fortemente consigliati se non obbligati per ridurre le emissioni sono vissuti da una parte rilevante dei cittadini come limiti inaccettabili alla libertà individuale. Ovviamente i contrari alle limitazioni hanno avanzato molti argomenti ragionati sull’inutilità di tali divieti ma, andando alla radice di questo atteggiamento, non possiamo non trovare un filone di individualismo libertario radicale che li anima. Si tratta di un modo di ragionare paradossale che non si rende conto che la convivenza sociale è possibile, anzi fruttuosa, solo grazie a mille invisibili limitazioni della nostra libertà (dai semafori stradali alle tasse). In un lavoro empirico su un campione rappresentativo di più di 5.000 italiani abbiamo messo in scala le diverse concezioni di libertà lungo un continuum i cui due estremi sono l’assolutizzazione della libertà individuale senza vincoli di presunte limitazioni a vantaggio della collettività e la totale subordinazione della libertà individuale agli interessi collettivi. Più in dettaglio, abbiamo chiesto di scegliere tra quattro diverse definizioni di libertà. Secondo la prima “una società è giusta se la libertà individuale è sempre garantita, anche se va contro l’interesse generale”. Per la seconda “una società è giusta se la libertà individuale è garantita, ammesso che non entri in conflitto con l’interesse generale”. Per la terza “una società è giusta se la libertà individuale è intenzionalmente diretta verso il raggiungimento dell’interesse generale”. Per la quarta “una società è giusta se la libertà individuale è subordinata all’interesse generale”. Abbiamo definito “libertario radicale” chi ha scelto la prima definizione, “libertario moderato” chi ha scelto la seconda, “consapevolmente civico” chi ha scelto la terza e “comunitario” chi ha scelto la quarta. Ebbene: poco più della maggioranza del campione (circa il 52%) rientra nel gruppo dei radicali libertari, avendo scelto la prima definizione. I “consapevolmente civici” seguono a distanza con il 19,6%, gli “libertari moderati” sono il 15% e i “comunitari” circa il 12%. Colpisce la correlazione con il livello d’istruzione: i laureati sono il 19,8% tra i consapevolmente civici e solo il 5,8 tra i libertari o i libertari temperati. Come quasi implicitamente dichiarato nelle definizioni di libertà scelte, libertari radicali e libertari moderati (che totalizzano assieme il 67% delle risposte) sono molto meno impegnati civilmente e presentano livelli significativamente più bassi di “intelligenza relazionale”, con dati relativamente peggiori in termini di empatia, generosità, capacità di ascolto. Nella valutazione finale della ricerca sull’effetto delle quattro diverse visioni di libertà sulla soddisfazione di vita, troviamo che, in termini di soddisfazione di vita, i libertari radicali e moderati hanno una probabilità di circa il 10% inferiore di dichiararsi molto felici rispetto ai consapevolmente civici e ai comunitari. Accettare limiti alla propria libertà e investire nelle relazioni con i nostri simili è sicuramente faticoso, e la prima reazione può essere quella di non farlo. Quando parliamo di libertà nella cultura contemporanea abbiamo essenzialmente in mente la “libertà (individuale) di”, che consideriamo qualcosa di sacro ed inviolabile. La “libertà per” - ovvero la nostra decisione ragionata e consapevole di accettare limiti e investire nei rapporti interpersonali - ci rende invece molto più “potenti”, essendo infatti esseri strutturalmente relazionali. Il paradosso è che la maggioranza sceglie qualcosa che inevitabilmente spinge al conflitto e rende meno felici. C’è dunque anzitutto un problema culturale e di formazione - far comprendere che i limiti per interesse generale sono fondamentali per la sopravvivenza della società - e in secondo luogo di felicità pubblica, individuale ed aggregata. I risultati della ricerca aiutano dunque a interpretare l’epoca difficile che stiamo vivendo, dove conflitti e radicalismi libertari mettono a rischio pace e democrazia. Abbiamo urgente bisogno di cultura, scuola e testimonianza d’intelligenza relazionale. È questo il motivo per il quale i concetti di intelligenza relazionale e partecipazione, sviluppati in aspetti problematici e soluzioni sulle diverse dimensioni della crisi, saranno il centro del prossimo Festival nazionale dell’economia civile, il 2-5 ottobre a Firenze. Disagio giovanile, emergenza in Lombardia: 150 mila ragazzi curati in un anno di Sara Bettoni Corriere della Sera, 28 settembre 2025 “I tagli, i vestiti, la solitudine: i segnali per intercettare il malessere”. Secondo l’Oms la stima è per difetto: potrebbero essere 250 mila gli adolescenti lombardi in difficoltà. Il primario: “Evitare di riversare la propria esperienza sui figli”. Il nodo della scuola: “Sulla scelta del corso di studi serve una mediazione tra famiglia e ragazzino”. Circa 150 mila bambini e adolescenti con disturbi neuropsichiatrici e neurologici curati in Lombardia l’anno scorso, di cui 124 mila assistiti negli ambulatori e 28 mila finiti in pronto soccorso. Ma secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità il bisogno potrebbe riguardare fino a 250 mila ragazzi. Come intercettare allora i segnali del disagio silente, prima che la situazione esploda? Alessandro Albizzati, primario all’Asst Santi Paolo e Carlo, ci aiuta a riconoscere i campanelli d’allarme a cui genitori, insegnanti e nonni devono fare attenzione. “La premessa è che bisogna evitare di identificare la propria adolescenza con quella dei propri figli. Le adolescenze sono andate progressivamente differenziandosi”, spiega. La tendenza di madri e padri è quella di ingigantire o minimizzare i comportamenti dei figli, paragonandoli con la propria esperienza. Il confronto, però, non regge. “Questa generazione vive con i device sempre in mano, come smartphone e tablet, ha la tecnologia e i social network. Non è questione di fare guerra a questi strumenti, ma di gestirli. E più i genitori sono “anziani”, meno sono capaci di gestirli”. Il tentativo di identificazione, molto frequente nell’esperienza del neuropsichiatra, annebbia o oscura quello che i ragazzi fanno e potrebbe anzi essere un innesco che aumenta il livello di conflittualità. I segnali, dunque. Il primo e più importante riguarda le relazioni. “Un indicatore da non sottovalutare è il disimpegno sociale, la diminuzione dei rapporti soprattutto con i coetanei. Le relazioni con gli amici sono fondative in adolescenza. Una progressiva riduzione delle relazioni che va verso l’isolamento deve allarmare”. Anche in una generazione abituata a intessere amicizie virtuali. “Bisogna mantenere anche un occhio sull’uso dei social network - dice Albizzati -. Potremmo dire che è quasi più importante chiedere ai ragazzi “come va su Internet?” invece di “come è andata la giornata a scuola?”. I genitori devono entrare in quel mondo, che è comunque un contesto di relazioni”. La scuola non va però trascurata o banalizzata. Anzi, è un contesto a cui va data attenzione. “Non va sottovalutato quello che accade in classe”, continua il primario. L’indirizzo di studio, soprattutto per le superiori, deve essere scelto in una dialettica sana tra adulto e ragazzo. “È lecito che i genitori non annullino le proprie aspettative. Un figlio forte le sa affrontare e contrastare, se necessario. Ma la famiglia deve anche capire quando ridimensionare le proprie richieste”. Anche i brutti voti possono indicare un disagio? “Le scuole sono sotto bombardamento da tanti anni. I licei milanesi, classici e non, hanno una richiesta di performance alta su cui non flettono. E vedo anche poca propensione alla sperimentalità. Da anni chiediamo che si vada oltre la nozione e il profitto. Mentre vedo più apertura negli istituti tecnici e di periferia, dove gli insegnanti sanno in partenza di dover affrontare situazioni difficili”. Terzo punto, il corpo. Elemento centrale soprattutto per le ragazze che lo tagliano, lo bruciano, lo affamano, lo cambiano per manifestare il proprio malessere. E per cancellare le tracce di questo martirio, lo coprono. Magliette a maniche lunghe indossate anche d’estate, strati su strati di maglioni e vestiti per nascondere le forme o i chili persi sono strategie da non sottovalutare. “C’è il rischio che si taglino o compiano altri gesti di autolesionismo. L’attenzione al corpo e al cibo è più marcata a Milano rispetto ad altre città italiane, per esempio Roma”. Il quarto aspetto da monitorare riguarda l’espressione della rabbia. “Tra i ragazzi c’è una epidemia di discontrollo emozionale - riconosce Albizzati. Sono infragiliti, hanno una bassa capacità di sopportare la frustrazione”. I limiti di tolleranza di sfoghi e gesti rabbiosi possono essere flessibili, “ma i ragazzi devono imparare che c’è una reazione a ogni azione fin da piccoli, una questione di sanzioni”. Soprattutto in una città in cui il tasso di violenza è alto. “È la città delle lame. C’è anche chi tiene con sé un coltello perché ha paura”. Cosa fare, una volta che emergono questi segnali? “C’è la tendenza a cercare subito un intervento tecnico, per esempio la psicoterapia. Ma secondo me è importante che i ragazzi possano fare innanzitutto qualcosa di attivo, di pratico in prima persona. Magari non hanno successo a scuola, ma devono trovare altri spazi in cui realizzarsi”. Lo sport, il volontariato, lo scoutismo, ma anche i centri sociali, in cui confrontarsi con ragazzi più grandi, possono essere una risposta al disagio. “Chi riesce a diventare leader degli adolescenti ha una grande funzione educativa - riflette ancora l’esperto -. Oltre e più che di psicologi e neuropsichiatri, abbiamo bisogno di educatori. Ed è spaventoso come il loro ruolo sia così poco riconosciuto”. Migranti. Il Marco Cavallo arriva al Cpr di Ponte Galeria di Albertina Sanchioni Il Manifesto, 28 settembre 2025 Un cavallo azzurro di cartapesta torna a farsi simbolo di libertà e diritti, questa volta davanti ai Centri di Permanenza per il rimpatrio (Cpr). Marco Cavallo, la grande “macchina teatrale” realizzata nel 1973 da Giuliano Scabia e Vittorio Basaglia, cugino di Franco, insieme agli internati dell’ospedale psichiatrico di Trieste, è riapparsa ieri in un corteo rumoroso partito da Fiera di Roma verso il Cpr di Ponte Galeria. “Come negli anni Settanta si abbattevano i cancelli dei manicomi, oggi dobbiamo guardare oltre le reti dei Cpr e osservare quello che ci viene impedito di vedere: persone, vite, sogni interrotti”, hanno spiegato gli organizzatori del Forum salute mentale e della rete Stop Cpr Roma. Nella terza tappa del viaggio, dopo Gradisca d’Isonzo (Go) e Milano, un centinaio di manifestanti con bandiere fatte di tessuti di scarto, accompagnati dai tamburi dei percussionisti di Samba precario, hanno sfilato fino alle mura di quello che gli organizzatori definiscono un “lager urbano”. Lì, gli attori Lino Musella e Anna Ferraioli Ravel hanno ripercorso le storie di tante e tanti reclusi: Ahmed, Hassan, Muhammad, Adil, Julius, Marie. Racconti di violenze, soprusi, abusi di psicofarmaci, assistenza negata a persone non autosufficienti, vittime di tratta. Il presidio ha ricordato anche Ousmane Sylla, morto suicida nel febbraio del 2024 a Ponte Galeria e Moussa Balde, che si tolse la vita a 23 anni nel Cpr di Corso Brunelleschi a Torino nel 2021. Presente anche Hamidou Balde, fratello di Moussa. In contemporanea, una delegazione di parlamentari accompagnati dal Tavolo Asilo e Immigrazione ha fatto accesso al Cpr per documentarne le condizioni. Dall’ultima visita della deputata Pd Rachele Scarpa, nel luglio scorso, il quadro resta drammatico: stanze sovraffollate e sporche, cimici da letto, cibo di pessima qualità, acqua stagnante nei bagni. Mancano protocolli contro i rischi suicidari, nonostante decine di atti autolesivi registrati. I trattenuti denunciano carenze gravi nell’assistenza sanitaria, psicologica e legale, oltre a restrizioni nella comunicazione: all’ingresso i cellulari vengono requisiti, e ogni contatto con i familiari avviene alla presenza di un operatore. Il Cpr romano, inoltre, è l’unico in Italia a disporre di una sezione femminile di 5 posti. “La nostra prospettiva è abolizionista: non c’è possibilità di abbellire una gabbia”, ha dichiarato Roberto Viviani di Stop Cpr Roma. Al centro delle rivendicazioni c’è la questione sanitaria: “Chiediamo all’Ordine dei medici di prendere posizione, per impedire che il personale sanitario si trovi costretto a convalidare visite di idoneità in queste strutture detentive”, ha continuato l’attivista. Per questo il secondo appuntamento della giornata di mobilitazione si è svolto davanti all’Ospedale Grassi di Ostia, dove gli organizzatori hanno rivolto un appello agli operatori medici e infermieristici della Asl Roma 3 affinché si “interrompa la complicità con il sistema di tortura del Cpr”. Sono i medici, infatti, a produrre un “certificato di idoneità alla vita in comunità ristretta”, un lasciapassare per il trattenimento del migrante nel Cpr. “La questione dell’idoneità è abominevole, una mistificazione colpevole”, ha commentato Carla Ferrari Aggradi, psichiatra, presidente del Forum per la Salute Mentale e dell’Associazione Marco Cavallo. “Vogliamo che la psichiatria sia uno strumento a favore delle persone che stanno male. Non ci va bene che invece si presti a questo gioco di tutore dell’ordine”, ha continuato l’attivista. Il viaggio del Marco Cavallo proseguirà: prossimi appuntamenti al Cpr di Palazzo San Gervasio, Brindisi e Bari, rispettivamente il 4, l’8 e il 10 ottobre. Dai manicomi ai Cpr, Marco Cavallo ritorna per sensibilizzare sulle vite interrotte dei migranti di Valerio Cuccaroni Corriere della Sera, 28 settembre 2025 Simbolo delle lotte degli anni 70, nato dall’amicizia tra il drammaturgo Giuliano Scabia, Franco Basaglia e il cugino pittore e scultore Vittorio, il celebre cavallo blu ha contribuito a superare i manicomi, imponendo un nuovo modo di trattare i pazienti psichiatrici. Ora è giunto a Roma, davanti al Cpr di Ponte Galeria, per chiedere la chiusura dei centri e l’abolizione della detenzione amministrativa. Presente anche il fratello di Moussa Balde, morto nel Cpr di Torino. Marco Cavallo ha ripreso a galoppare, dopo cinquant’anni, e oggi è apparso a Roma, davanti al Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria. Simbolo delle lotte degli anni Settanta, Marco Cavallo è un cavallo blu, nato nel 1973 dall’amicizia tra il drammaturgo Giuliano Scabia, che all’epoca insegnava al DAMS di Bologna, Franco Basaglia, in quegli anni direttore dell’ospedale psichiatrico di Trieste, e il cugino Vittorio Basaglia, pittore e scultore. La scultura di Marco Cavallo, tra Don Chisciotte e Blaue Reiter, ha contribuito a superare i manicomi, imponendo un nuovo modo di trattare i pazienti psichiatrici, mettendo in contatto, come mai era stato fatto prima, il mondo interno all’ospedale psichiatrico, quello dei ricoverati, con il mondo esterno. Quella romana è la terza tappa del viaggio di Marco Cavallo nei centri di permanenza per il rimpatrio. Dopo Gradisca e Milano, stamattina alle 10.30 è apparso di fronte al Cpr di Ponte Galeria. Come negli anni Settanta si abbattevano i cancelli dei manicomi, oggi occorre abbattere le reti dei Cpr per vedere quello che non è dato vedere: “Vite interrotte di persone la cui unica colpa è non essere in regola con il permesso di soggiorno”, secondo il Forum salute mentale, organizzatore del tour. I manifestanti, la “mandria” di Marco Cavallo, hanno chiesto la chiusura dei Cpr e l’abolizione della detenzione amministrativa. Prima che il corteo iniziasse Yasmin Accardo, attivista che si batte per la chiusura dei Cpr, ha raccontato a Domani che fino a due anni fa lei eseguiva “monitoraggi nei centri, registrando una violenza sistemica”. “Una volta trovammo un cittadino palestinese registrato come tunisino”, racconta Accardo. “Siamo riusciti a farlo uscire solo grazie a un parlamentare. All’interno dei Cpr abbiamo documentato l’abuso di psicofarmaci, la mancanza di assistenza sanitaria e della difesa d’ufficio. Ai migranti viene sequestrato il telefono, appena entrano. Noi abbiamo un numero per gli SOS, il 328.0364920, che funziona in tutta Italia”. “Quella dei Cpr - continua Accardo - è una detenzione amministrativa. La colpa di chi vi è rinchiuso è solo quella di avere attraversato un confine. A noi capitava di trovare minori non accompagnati, specie durante la pandemia. Siamo stati allontanati due anni fa; ora siamo considerati soggetti ostili. Denunciamo i Cpr dal 2013”. Accardo ha tradotto dal francese le parole di Hamidou Thierno Balde, fratello di Moussa Balde, morto nel Cpr di Torino. “Sono qui con il cuore pieno di dolore perché i nostri fratelli sono stati assassinati e perché non capiti ad altri. Sono qui per chiedere verità e giustizia per coloro che sono stati uccisi. Sono guineano e molti miei compatrioti sono morti per attraversare le frontiere. Sognavano di arrivare in Europa, ma sono stati respinti e fatti naufragare”, ha detto Hamidou, che ha chiesto poi di “riconoscere i familiari di chi è morto attraversando le frontiere, identificare i morti, rimpatriare le salme se richieste dai familiari e, soprattutto, abolire i Cpr e gli altri luoghi di detenzione dei migranti”. “Chiediamo di essere ascoltati dalle istituzioni e non criminalizzati. Vogliamo il diritto di migrare in un mondo diventato un villaggio globale”, ha concluso. “Un mondo equo per tutti” - La dottoressa Carla Ferrari Aggradi, psichiatra e dirigente del Forum salute mentale, ha quindi dato il via al corteo sottolineando che “questo è solo l’inizio del cammino di Marco Cavallo per chiudere i Cpr, che sono luoghi infami, relegati ai confini della città, lontani da tutto: chiediamo la fine della detenzione amministrativa”. “Marco Cavallo - ha aggiunto - accompagna il viaggio della Global Sumud Flotilla che va verso Israele, dove ci sono palestinesi rinchiusi con la medesima detenzione amministrativa. E ora seguiamo Marco Cavallo con le bandiere degli scarti, le stesse che sventolarono i pazienti del manicomio di Trieste quando per la prima volta sfilarono in città negli anni Settanta. Per noi non ci sono scarti dell’umanità: noi vogliamo un mondo di uguali, un mondo equo per tutti”. Il corteo ha sfilato, dunque, al ritmo dei tamburi di Samba Precario ed è giunto davanti alle camionette della polizia, di fronte al Cpr, dove gli attori Anna Ferraioli Ravel e Lino Musella hanno dato voce alle storie dei migranti imprigionati nei Cpr. Storie di schizofrenici liberati solo dopo cinque giorni in seguito all’intervento ripetuto del Garante dei diritti dei detenuti; migranti sedati con punture multiple; lavoratrici senza contratto picchiate da padroni molestatori; vittime di tratta che hanno rischiato il rimpatrio mentre avrebbero dovuto essere ricoverate in case protette; migranti rimpatriati in tutta fretta dopo avere filmato le condizioni dei prigionieri. I loro nomi sono stati scritti su cartelli che i manifestanti hanno portato via con sé al termine del corteo: Amin Saber, Abdeleh Saler, Christiana Amankva, Huri Mohamed, Carlos Santos Da Costa, Mehdy Alik, vittime senza nome, fra gli altri. La manifestazione si è chiusa con la lettura di una lettera rivolta ai migranti rinchiusi nel centro, per portare loro un messaggio di solidarietà e di speranza. Nel pomeriggio, alle 15.30, davanti all’ingresso dell’Ospedale G. B. Grassi di Ostia si è svolto un presidio per sensibilizzare cittadini e mondo sanitario dell’Asl Roma 3 sulle intollerabili condizioni di detenzione e per chiedere ai medici di non validare il trattenimento nei Cpr. Le prossime tappe del viaggio di Marco Cavallo saranno Palazzo San Gervasio, Brindisi e Bari, il 4, 8 e 10 ottobre. Droghe. Crack e proibizionismo mandano in tilt i Serd di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 settembre 2025 L’invasione della “droga dei poveri” ha destabilizzato i servizi per le tossicodipendenze, europei e non solo, costringendoli a ripensare se stessi e le politiche di Riduzione del danno. Palermo è stata la prima città italiana investita dal fenomeno. Al di là di “qualche fantasiosa allucinazione collettiva - che per adesso fortunatamente continua a rimanere tale - sull’arrivo del fentanyl nel nostro Paese”, e oltre i martellanti allarmi sull’ondata di cannabis in versione “droga pesante”, c’è una verità che non è al servizio diretto della dottrina proibizionista. “La verità è che le strade delle città italiane sono invase dal crack”. Ossia cocaina ridotta in cristalli per essere fumata. Una realtà - testimoniata da un esperto come il torinese Lorenzo Camoletto, referente nazionale di Riduzione del danno del Coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza (Cnca) - molto distante da quella paventata dal sottosegretario Alfredo Mantovano, delegato alle politiche antidroga che, con un approccio considerato antiscientifico da gran parte degli addetti ai lavori, sta preparando la VII Conferenza nazionale governativa sulle dipendenze che si terrà a Roma il 7 e l’8 novembre prossimi. Un’”invasione”, quella del crack, che ha destabilizzato i servizi per le tossicodipendenze, europei e non solo, costringendoli a ripensare se stessi e le politiche di Riduzione del danno (Rdd) per rispondere ai bisogni di chi - soprattutto i più giovani - si è fatto annichilire da quella sostanza. Una droga che molto spesso viene preparata in casa - e quando avviene è indice dell’enorme quantità di cocaina pura che ha invaso il mercato - e che “non dà dipendenza fisica ma assuefazione molto elevata”. Al pari della cocaina in polvere, anche per i suoi cristalli non esiste farmaco agonista (come il metadone per gli oppioidi) né antagonista (come il salvavita Naloxone in caso di overdose da eroina). La “droga dei poveri”, come viene chiamata nei sobborghi, non può essere tagliata, come avviene per altre sostanze, e quindi raggiunge spesso percentuali di principio attivo altissimo (fino al 90% di purezza, secondo l’ultima Relazione annuale al parlamento). Ma ha un prezzo molto basso, anche solo 5 euro a dose, perché ne occorre una quantità minima per ottenere un alto effetto psicoattivo. E così “da Palermo a Torino, a Milano, Bologna, passando per Roma, i fumatori di crack si moltiplicano, al punto tale che lo stesso Gruppo Abele - riferisce Camoletto - ha trasformato il suo centro crisi storico in uno adatto ai giovani consumatori di crack”. IN ALCUNE CITTÀ, come a Vancouver o “a Rotterdam, ma ormai diversi anni fa, proprio nell’ambito della Rdd, per riuscire a intercettare i consumatori decisero di assumere un dealer (un “pusher”) con il contratto “good quality, low price”. La migliore qualità al prezzo più basso. In apparente paradosso, il consumo diminuì”, ricorda il ricercatore. Poi però arrivò la falce proibizionista. Ma più in generale, “le strategie sono quelle cognitivo comportamentali, finalizzate ad aumentare consapevolezza, autostima e autoefficacia. L’arma principale della Rdd è la relazione. Che permette al consumatore di distaccarsi da quell’immagine stereotipata che lo incolla alla strada”. Altra voce, quella di Luca Censi di Forumdroghe: “In Svizzera hanno modificato le stanze del consumo sicuro, nate per gli eroinomani e che sono ormai strumenti consolidati di Riduzione del danno anche in Spagna, Grecia, Germania, Olanda e Gran Bretagna, solo per restare in Europa. In Italia - continua Censi - manca un ragionamento serio e aggiornato sull’approccio culturale e socio sanitario da riservare ai consumatori di crack. I quali, per la caratteristica stessa degli effetti della sostanza, hanno bisogno di altri stimoli e altre tipologie di spazio per essere intercettati dai servizi. Per esempio, per loro i dormitori a bassa soglia non sono appetibili: occorrerebbero spazi più aperti e ariosi, meno affollati e a disposizione H24”. Secondo gli stessi fruitori di sostanze, invece, il problema vero è che “siamo un Paese dove le forze politiche non hanno mai affrontato la questione se non in un’ottica repressiva e criminalizzante che ci toglie la parola, mentre la Rdd viene scambiata per incentivo al consumo”, accusa Alessio Guidotti di Itanpud, rete di consumatori che rivendica “dignità e autodeterminazione”. E hanno ragione a chiedere la parola. Se non altro, per una questione di numeri. Secondo l’ultima Relazione annuale sulle droghe, dall’”analisi delle acque reflue urbane, la cocaina è la seconda sostanza psicoattiva illegale più consumata in Italia, con una stima media di circa 11 dosi al giorno ogni 1.000 abitanti, valore in leggero aumento rispetto al periodo 2020-2022”. Nel report si legge anche che “nel 2024, questa sostanza è stata la causa principale per il 38% dei nuovi accessi nei servizi per le dipendenze. Considerando anche i casi di consumo primario di crack, la percentuale sale al 44%, in netto aumento rispetto al 31% rilevato nel 2015”. L’attenzione al tema è particolarmente alta a Palermo, “la prima città italiana a essere investita dal consumo di crack”, secondo Giampaolo Spinnato, capo dipartimento del Serd palermitano che ricorda quando, nel 2018, il capoluogo siciliano fu costretto a misurarsi con il problema mentre ancora “nel resto d’Italia il fenomeno non esisteva”. “Durante la pandemia è stato un crescendo, fino alla fase esplosiva nel 2022”. Dal suo punto di osservazione, l’impatto è stato forte: “Abbiamo visto tanti giovanissimi perdersi, alcuni morire perfino, per cause dirette e indirette. Il crack inevitabilmente induce o slatentizza patologie psichiatriche, e gli eventi suicidari non sono così eccezionali, tra i consumatori”. Non a caso, un anno fa, il 25 settembre 2024, l’Assemblea regionale siciliana ha approvato - all’unanimità - una legge che “si allinea alla normativa nazionale che introduce la Rdd nei Lea - sintetizza Spinnato - e orienta i servizi a un miglior contrasto della dipendenza da crack: è una delle prime e delle più avanzate leggi regionali in materia, perché di solito queste azioni vivono solo di esperienze progettuali, non normate. Nata come legge di iniziativa popolare - ricostruisce il dott. Spinnato - è stata poi elaborata, sviluppando il modello lombardo, da una rete di associazioni e dalla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo. E, per accelerare l’iter, è stata presentata da un intergruppo composto da tutti i partiti dell’Ars. Insomma, una buona iniziativa”. I risultati? “Un dato importante per noi è quello dei nuovi utenti, perché è un indicatore di ciò che accade sul territorio. Nel 2018/2019 avevamo 500 nuovi utenti l’anno; nel 2022 sono diventati più di 800. Se poi andiamo a incrociare i dati con quelli dell’unità mobile, che di solito intercetta soggetti che per il 50% sono sconosciuti ai servizi, posso dire che quest’anno abbiamo almeno 1600 nuovi consumatori di crack sul territorio palermitano. Ora, anche grazie alla nuova legge, abbiamo messo su un centro di accoglienza, una struttura residenziale breve che ospita persone in difficoltà che necessitano di protezione ma che non necessariamente hanno deciso di iniziare un percorso di comunità. Siamo solo all’inizio però, la strada è lunga. E la politica deve saper reagire, adottando strumenti scientifici”. Intervista con Gustavo Zagrebelsky: la libertà di parola al tempo dell’odio di Andea Malaguti La Stampa, 28 settembre 2025 Il costituzionalista: “Odio e orrore sono fratelli, dopo c’è solo la guerra. Il 7 ottobre non giustifica il massacro degli innocenti. L’omicidio Kirk? Nessuno può essere ucciso per le sue idee”. La libertà di parola al tempo dell’odio. Da Charlie Kirk a Bibi Netanyahu, da Donald Trump a Giorgia Meloni, dalla Flotilla alle Università. Che cosa possiamo dire senza essere accusati di alimentare lo scontro? In quale luogo siamo liberi di esprimerci senza timori? Esiste un principio morale al quale ancorarci? O a guidarci è soltanto il caos? Pieno di dubbi, suono il campanello di Gustavo Zagrebelsky. Mi sembra il posto migliore per affrontare la questione. Una grande tavola di legno, molti libri, i codici, un pianoforte, gli spartiti, le idee che scorrono ed un dubbio atroce: non ci servirà un’altra guerra per fare ripartire la fabbrica della democrazia? Premessa del professore... “Lei lo capisce che ragioniamo sul filo del rasoio?”. Mi sento come uno studente... “Direi di sì”. Non possiamo più dare per scontata la libertà di parola, presupposto ovvio di qualunque convivenza civile basata sulla libertà, la tolleranza e la democrazia... “Esatto. Allora la prima domanda me la faccio da solo, mettendomi nell’ottica del giurista. Cioè, di colui che evita di fare di tutta l’erba un fascio”. Allude? “Mi lasci proseguire. Sa quali distinzioni fa la Costituzione su questi temi?”. Quali? “La prima riguarda i luoghi in cui ci si esprime. Esistono luoghi privati, per esempio casa nostra o la sede di un circolo a cui accedono i soci. Lì abbiamo il diritto di ammettere e di escludere chi vogliamo. Ovvio, no?”. Ovvio... “Poi ci sono i luoghi privati aperti al pubblico: ad esempio una sala conferenze o un cinematografo, dove può accedere chiunque. I gestori invitano chi vogliono a parlare, ma il pubblico ha il diritto di dire la sua. E anche di contestare, fischiare, applaudire. In altri termini, di reagire. Nei luoghi aperti al pubblico è necessario garantire il diritto di tutti. Dell’oratore in cerca di consenso e di chi dissente assistendo all’incontro”. Chi li garantisce questi diritti? “Normalmente il moderatore. Ma nemmeno l’oratore ha il diritto di sottrarsi in un modo o in un altro, alle critiche: tutti hanno il diritto di parola”. Perdoni, professore. E le Università? “Ci stavo arrivando. Terza distinzione: i luoghi amministrati dalla pubblica autorità. Le Università sono tra questi. Fanno parte della pubblica amministrazione”. E che cosa significa? “Che hanno un onere particolare, l’imparzialità. Lì si deve pensare, ragionare, non fare propaganda”. Esclude che qualcuno faccia propaganda convinto di spiegare? “La distinzione è semplice. Chi spiega deve rappresentare tutte le posizioni e poi, su questa base anche dire la sua. Ma lo ripeto: è chiaro che camminiamo sul filo del rasoio”. Che cosa succede se un gruppo filopalestinese interrompe una lezione, come è successo al Politecnico di Torino? “Se c’è interruzione, si viola la libertà di parola. Se c’è interlocuzione, anche al calor bianco, c’è il trionfo della parola”. E se a domanda diretta sull’esercito di Netanyahu, fatta ad un professore israeliano, la risposta è: sono i soldati più morali che conosca, si ha torto o ragione? “Torto”. Perché? “Perché la risposta giusta sarebbe: non siamo qui per sparare menzogne contraddette dalla realtà che solo i ciechi non vedono, ma per discutere di tale realtà. La questione della vocazione della scuola è antica. In Francia, quando la scuola venne sottratta alle autorità ecclesiastiche per consegnarla allo Stato, si aprì un confronto tra Condorcet e Tallyerand”. L’epoca dei lumi. Che cosa sosteneva Condorcet? “Che la scuola non doveva inculcare, ma limitarsi ad istruire, a trasmettere conoscenza, perché l’educazione come agente di manipolazione morale avrebbe leso la libertà e l’autodeterminazione dei giovani e aperto un conflitto con le famiglie, addirittura distruggendo la felicità domestica. Mettendo i figli contro i padri”. E Talleyrand? “Il contrario. Che lo Stato è il necessario dispensatore della morale civica. Lo Stato etico deve avere i propri catechismi per formare la gioventù. Le rivoluzioni spesso richiedono una morale conforme”. Regimi... “Appunto”. Piuttosto di moda, direi... “È lo spirito dei tempi”. Professore, sintetizzo il discorso all’Onu di Netanyahu: non c’è differenza tra Hamas e i palestinesi. Dunque, li sterminiamo tutti, donne, vecchi, bambini, perché hanno festeggiato il 7 ottobre. Giusto? “Per uno come me è una domanda irricevibile. Io sono dostoevskjiano”. Ovvero? “Ha presente i Fratelli Karamazov? Ivan dice ad Alyosha: in nome della felicità saresti disposto a creare un dolore, anche solo a fare scendere una lacrimuccia ad un innocente? La risposta di Alyosha mi pare chiara. La voce di Hind Rajab da Gaza, nello sconvolgente film che porta il suo nome, mi pare l’argomento definitivo”. La sua risposta? “Chiarissima. Io dico di no”. Salvare molti condannando uno solo non è giusto? “Le opere umane, anche non belliche, hanno spesso le loro vittime, purtroppo. Quanti morti, le piramidi? Quanti, la galleria del Frejus, per esempio. Facendo il bene, spesso si fa il male. Ma, quelle, non erano morti intenzionali. Tanto più alto è il bene conclamato, addirittura la felicità del genere umano, tanto più diventa accettabile l’infelicità degli individui. Dalla lacrimuccia al bagno di sangue, il Terrore in Francia, lo sterminio dei kulaki in Russia, ad esempio”. La Palestina è in guerra? “Non so. Lei che dice? Come definirebbe quello che sta accadendo? Certo un’esplosione di violenza, di quelle viste poche volte. Ma la guerra di cui parla il diritto internazionale e umanitario è un’altra cosa. Per questo, il richiamo al diritto bellico mi pare piuttosto velleitario. Inter armas silent leges”. Parliamo del caso Charlie Kirk? L’hanno ucciso con una pallottola sulla quale c’era scritto Bella Ciao... “Lei crede che sia un riferimento “alla sinistra” o alla resistenza italiana? Penserei, piuttosto, al “ciaone” del nostro linguaggio politico degradato”. Basta un pazzo per stravolgere il senso di ogni cosa? “Dipende. Se abbiamo la testa a posto non cadremo nella trappola dei pazzi”. Kirk propugnava idee orribili: i bianchi sono meglio dei neri, se il pilota del mio aereo fosse di colore sarei preoccupato, le donne devono essere sottomesse al marito, le armi sono un diritto e le morti eventuali sono solo danni collaterali. Si può dissentire ora che è stato assassinato? “Ci sono state molte polemiche su questo. Una considerazione preliminare: ogni essere umano è diverso dagli altri. Non ne troveremmo due uguali, a meno che si diventi dei cloni. La natura, per fortuna, distingue. Ci sono però due momenti in cui siamo tutti uguali: la nascita e la morte”. Innegabile... “Tra questi due momenti, però, nulla è uguale. Per esempio, una cosa è nascere nel deserto del Gobi e un’altra in una clinica di Torino, così come una cosa è morire tra le macerie di Gaza e un’altra nel proprio letto. Ma nel primo vagito e nell’ultimo rantolo siamo tutti uguali”. Perciò? “Perciò nell’arco che corre tra questi due momenti siamo tutti diversi e tutti abbiamo il diritto-dovere di guardare noi stessi e gli altri e di sottoporci e sottoporli al giudizio politico, culturale e morale”. Qual è il giudizio sulle idee di Charlie Kirk? “Lontane mille miglia dalla mia visione. Ma davanti alla morte il giudizio tace”. Tace o cambia? “Tace di fronte alla morte, per senso di umanità. Non tace affatto rispetto alle idee, per esempio al clima d’odio che negli Stati Uniti uomini come Kirk o Trump vanno coltivando. Né la morte santifica le idee, né le idee giustificano la morte”. Il Parlamento italiano ha ricordato ufficialmente Charlie Kirk. Era successo solo per Mandela... “È ridicolo, non so come altrimenti definirlo. Ma qui stiamo cambiando prospettiva, entriamo nel campo della strumentalizzazione e della propaganda”. Perché strumentalizzazione e propaganda? Magari erano convinti... “Non credo lo conoscessero prima che venisse ucciso. La morte gli esseri umani va rispettata, non strumentalizzata. La vita d’ogni essere umano è un fine, non un mezzo. Ha presente Kant? Il valore della vita è un valore assoluto”. A sinistra qualcuno ha detto il contrario? “Purtroppo sono sfuggite delle frasi interpretabili in quel modo”. Non si può ragionare sul fatto che certi comportamenti provocano ritorsioni? “Si può, facendo esercizio di prudenza e responsabilità. Ma il dovere è sempre quello di battersi per cambiare le idee, non per far sparire le persone. La democrazia è questo”. Ma se certe idee velenose si espandono? “Se ne propongono altre, finché è possibile farlo”. Anche con un presidente americano che ha appoggiato l’assalto a Capitol Hill e dice, tra mille altre cose, di odiare i suoi nemici? “Sono cose orribili. La democrazia comprende l’autonomia della stampa, della libera ricerca o della scienza. Mi ha molto colpito che l’altro giorno Trump abbia invitato le donne in gravidanza a non prendere composti al paracetamolo. Dov’è il confronto delle idee su questo e su tanti altri temi da affrontare razionalmente, discutendo?”. E se il libero confronto delle idee è represso? “Si rischia la guerra civile”. È lì che stanno arrivando gli Stati Uniti? “Molti lo dicono”. La destra italiana denuncia una montata di odio contro il governo. Preoccupazione legittima? “Mi pare proprio di no, ma qualcuno vuole simulare che non sia così. L’epoca del terrorismo e delle stragi di Stato, dei servizi segreti deviati e della violenza a destra e a sinistra mi sembra molto diversa da questa. Certo, l’allerta non è mai troppa”. Perché simulare che non sia così? “Forse per demonizzare l’avversario, magari provocare i pazzi che vanno a spaccare le vetrine e su questa base giustificare anche i decreti securitari”. Meloni sostiene di guidare il partito dell’amore. “Lasciamo che le stupidaggini si sgonfino da sole”. Ma non si parla d’altro. “Appunto, lasciamo dire. Certe libertà, per quanto in pericolo, da noi ancora esistono. Negli Usa non lo so, mi domando spesso che cosa sarebbe successo se Trump avesse perso le elezioni. Avrebbe accettato l’esito del voto?”. Eppure, le elezioni le ha vinte. Che cosa ha capito Trump che a noi sfugge? “Che l’odio travolge qualunque forma di pensiero critico e meditativo. Odio e orrore sono fratelli. Dopo l’odio c’è solo l’orrore della guerra”. Siamo destinati alla guerra? “La prospettiva c’è. C’è addirittura chi ne fa l’elogio e la considera inevitabile perché c’è sempre stata. Ma che argomento è? Anche i tumori ci sono sempre stati”. Professore, qual è il nostro compito oggi? “Tenere accesa la fiammella, fino al momento in cui potrà essere utile. Non solo a noi. Ma a tutti e quelli che verranno”. Fausto Bertinotti: “In piazza è nata la generazione Gaza e la sinistra non l’ha vista arrivare” di Alessandro De Angelis La Stampa, 28 settembre 2025 L’ex presidente della Camera: “La Flotilla dovrebbe fermarsi per evitare rischi? La discussione, così posta, rovescia le responsabilità. Il problema non è la Flotilla ma Israele. E le rovescia per una ragione semplice: quella missione rappresenta la rottura di un canone anche piuttosto ipocrita. Sanzioni, rottura degli accordi commerciali, alcuni neanche il riconoscimento dello Stato di Palestina. Non c’è corrispondenza tra condanna e azione. Al massimo è consentito l’obiettivo caritatevole degli aiuti o l’invio, sacrosanto, di una fregata. Ma siamo sempre sotto il livello necessario, che implicherebbe uno scontro, ovviamente politico, con Israele. Dentro questa missione c’è dunque una supplenza verso una politica che ha disertato”. Perché andare avanti rischiando la vita? “Anche qui si rovesciano le responsabilità. L’atto illegale sarebbe quello di Israele, perché davanti a Gaza le acque non sono di Israele e i blocchi navali si sospendono a davanti a interventi umanitari. Domando: perché il governo italiano non convoca l’ambasciatore intimando che un eventuale incidente avrebbe conseguenze senza precedenti nei rapporti tra i nostri Paesi? “ Le ricordo che quel governo ha bombardato Doha dopo aver chiesto la mediazione del Qatar. Insisto: perché rischiare per un atto dimostrativo? “Come spesso accade in azioni non violente, ci si può trovare a un bivio che propone scelte drammatiche. Per questa ragione la decisione non può che essere presa dagli attori della scelta non violenta. Noi possiamo soltanto sperare che una giusta causa non debba esporre a rischi chi la sostiene”. La Flotilla ha già raggiunto un doppio obiettivo: gli aiuti via Cei e una grande legittimazione politica. Non basta? “Comprendo il ragionamento che attiene alla ragion politica. E tuttavia comprendo anche che la natura profonda dell’impresa è proprio il suo essere in contraddizione con la ragion politica tradizionale. Perché si dà un obiettivo ad essa superiore. Qui ed ora dovrebbe entrare in campo la politica, chiamata a rispondere alla domanda: come si abbatte quel muro di ingiustizia e inumanità? Cosa ci raccontano le manifestazioni per Gaza? “Una doppia novità. Sono grandi manifestazioni di una nuova generazione politica, la generazione Gaza. E il processo è prevalentemente spontaneo, altra differenza rispetto al passato”. A quando cioè il conflitto, in Italia, era organizzato dai grandi partiti e dai grandi sindacati... “Esattamente. Anche l’ultimo grande movimento “altermondista” degli anni Duemila aveva un’organizzazione con strutture nei singoli Paesi. Qui non c’è una centrale o un soggetto. Il movimento è carsico: si costruisce, si dissolve, si ricostruisce”. Però c’è anche il tema degli episodi di violenza come ieri a Torino... “Che richiedono una condanna e una critica radicale proprio perché non hanno nulla a che fare col movimento”. Vede una novità anche in questa violenza? “Sì. C’è stato un momento in cui le forme “tollerabili” di violenza erano promosse da forza interne alla manifestazione, tanto è vero che i servizi d’ordine le bloccavano. Poi c’è quello in cui l’elemento esterno ha strumentalizzato il rapporto col movimento, pur non essendoci dentro: i black block a Genova per intenderci. Ora proprio il carattere limitato degli episodi dimostra che i violenti sono un corpo del tutto estraneo al movimento”. Perché la miccia si accende su Gaza e non prima, ad esempio, sull’Ucraina? “Quell’altra tragedia viene percepita come un conflitto classico invasore-invaso. Qui il motore non è il giudizio politico, ma l’indignazione. Pietro Ingrao, che viveva una dinamica tradizionale di conflitto, diceva: “Non basta l’indignazione”. Adesso è l’indignazione ad accendere una generazione che si costruisce sulle immagini di Gaza, sull’emotività e sul vuoto della grande politica”. È solo sdegno morale o c’è una dimensione politica? “A domanda novecentesca rispondo col Novecento. Questi giovani non sono Jean-Paul Sartre, che aveva una dimensione politica. Quando gli chiesero perché non denunciava l’Urss, rispose: per non far disperare gli operai. Sono Albert Camus dell’uomo in rivolta. La rivolta dello spirito con cui si resiste all’aria del tempo”. Una manifestazione imponente indetta dai sindacati di base. Per la Cgil è una batosta? “Non c’è dubbio che in quelle piazze si è manifestato uno spiazzamento. Protagonista non è stata la Cgil, pur essendo un sindacato con un peso e una storia di battaglie anche per la pace”. Come se lo si spiega? “Con una società divisa tra l’alto e il basso. Chi sta nell’alto, luogo della rappresentanza ufficiale, sia pur nelle differenze tra destra e sinistra, è pervaso da uno stesso linguaggio, che impedisce di pescare nel mondo di sotto. Chi, invece, come i sindacati di base, non è inserito nel meccanismo delle compatibilità è più in grado di essere permeato”. Quindi quelle piazze percepiscono la sinistra come “istituzione”? “E infatti sinistra e sindacato non le hanno vista arrivare. Questa generazione è stata letta per mesi come una generazione di indifferenti. Poi gli stessi diventano i protagonisti di un movimento con un successo di partecipazione”. La dinamica assomiglia al “blocchiamo tutti” o agli scioperi contro Macron, o no? “Proprio così. E, con le debite differenze di merito e di parole d’ordine, ai gilet gialli. Anche lì la Sgt fu interna al movimento perché meno istituzione dei sindacati italiani. In “Blocchiamo tutto” non sappiamo neanche chi è il soggetto che ha promosso il movimento”. Morale? “Siamo di fronte alla rottura del canone. Da un lato la Flottila, dall’altro le piazze per Gaza. Con una differenza tra destra e sinistra. La destra, forte nel mondo di sopra, se la gioca col riflesso d’ordine, aggravato da una svolta trumpiana nella destra italiana. La sinistra politica è debole in quanto prigioniera della sua dimensione istituzionale. Sta con la Flotilla e con le manifestazioni, ma ci sta da “avvocato difensore” e non da protagonista”. Quindi è un’altra storia rispetto a movimenti che trovano uno sbocco politico, anche nel rapporto con i partiti? “Dico una cosa blasfema: lo sbocco politico non è all’ordine del giorno. “Blocchiamo tutto” è blocchiamo tutto. Nella rottura si manifesta la politica. Lo sbocco, per questo movimento, è rappresentato dall’atto in sé e dalla crescita fino al raggiungimento della sua potenza”. E la sinistra? “Dovrebbe fare un atto di umiltà. Dire: ho fallito, proviamo a leggere dentro questo movimento quali sono le istanze, autoriformarsi e costruire, essa sì, uno sbocco politico”. La Flotilla va avanti: “Direzione Gaza”. E Tajani sente gli attivisti di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 28 settembre 2025 Le imbarcazioni riprendono la missione nonostante l’ultimo tentativo di mediazione. La telefonata del ministro alla portavoce Maria Elena Delia. “Vanno avanti. Ci fosse mio figlio a bordo gli direi di non andare”. Occhi e voce bassa, Antonio Tajani annuncia così che è andato male anche l’ultimo tentativo di convincere i partecipanti italiani alla missione della Global Sumud Flotilla a non proseguire. Dopo la disponibilità espressa da tutte e due le parti alla fine la telefonata tra il ministro degli Esteri e la portavoce italiana, Maria Elena Delia, è arrivata in serata. Altri contatti ci potrebbero essere oggi. “È molto pericoloso. Ho chiesto più volte agli israeliani la rassicurazione che non ci siano atteggiamenti violenti. Ma io non so chi c’è a bordo delle navi”, spiega Tajani. E il sospetto che tra loro ci siano persone legate ad Hamas il governo di Nethanyahu glielo ha ribadito più volte. Dunque, al telefono, lui ha raccomandato: “Siate prudenti. Ghandiani”. La missione va comunque avanti. Dopo il rifiuto dei due porti di approdo offerti nei giorni scorsi da Israele, che non convincono per nulla gli attivisti. E con Frontex, l’Agenzia di controllo delle frontiere europee, che fa sapere di non poter scortare le imbarcazioni verso Gaza. Come già noto per la Marina italiana: “Se una nave militare forza il blocco - ribadisce Tajani - entriamo in guerra. Chi si assume la responsabilità di eventuali morti?” Dagli attivisti, invece, arrivavano accuse di “sabotaggio gravissimo” proprio per la lettera inviata dalla Farnesina a ciascun partecipante alla missione con cui li si avverte che in caso di attacco di Israele non sarà garantita alcuna protezione. Gli attivisti di Freedom Flottilla Italia tengono il punto anche nella lettera inviata al presidente della Repubblica Sergio Mattarella dopo il suo appello di due giorni fa: “La nostra azione - scrivono - non si limita al piano umanitario, pur fondamentale per ridurre le sofferenze” nella Striscia di Gaza. E ricordano i padri costituenti che offrirono i “loro corpi e le proprie vite” a tutela della nostra libertà e dei nostri valori, chiarendo che obiettivo della missione è anche interrompere il “blocco navale, illegale dal 2007”. Le navi vanno, dunque. E a bordo ci sono ancora 40 italiani. La decina di componenti che ha “legittimamente deciso di scendere”, spiegano dalla Global Sumud Flotilla, lo ha fatto per proseguire l’attività insieme all’equipaggio di terra. Nessuna marcia indietro nemmeno da parte loro, dunque. La missione verso Gaza continua ancora a far discutere la politica. “Prosegua il dialogo con il Patriarcato” raccomanda la leader del Partito democratico Elly Schlein. E, dalla festa dell’Arcigay, spiega: “Non siamo noi gli organizzatori della missione. Ma siamo in contatto con tutti. Con il governo naturalmente, con i nostri sulla Flotilla, con Zuppi”. E manda un forte apprezzamento al presidente Mattarella e all’azione di mediazione messa in campo dal Patriarcato latino. “Praticamente cita tutti tranne il governo - ribatte Tajani -. Ma sono io che ho condotto la trattativa e contattato il Patriarcato del cardinal Pizzaballa e parlato con Israele per offrire quello che siamo ancora in grado di garantire: un modo sicuro per distribuire gli aiuti umanitari. Schlein è stata fra le prime ad essere avvertita”. E chi ha dato uno sguardo al vortice di contatti telefonici di questi giorni riferisce di un messaggio della leader dem: “Grazie per avermi avvertita. Chiamo i miei”. Flotilla, cortei in tutta Italia. A Taranto in migliaia al porto di Luciana Cimino Il Manifesto, 28 settembre 2025 “Chiediamo un incontro urgente con il presidente della Repubblica”. All’indomani dell’intervento di Mattarella sulla Global Sumud Flotilla, Marcello Amendola, segretario generale della Cub (uno dei sindacati di base che ha organizzato lo sciopero dello scorso 22 settembre) ha scritto al Quirinale per chiedere un altro intervento pubblico. Questa volta per “sollecitare il governo italiano e quelli europei a dare concreta attuazione a ciò per cui le componenti e i componenti della Gsf stanno esponendo a rischio le proprie vite: chiedere ai 44 stati di cui sono cittadini di far cessare le morti per fame, l’illegittimo blocco navale, i bombardamenti, cui la popolazione civile è sottoposta indiscriminatamente da quasi due anni”. Negli ultimi giorni si sono intensificati i contatti tra la Cgil e le organizzazioni dei lavoratori più piccole con lo scopo di allargare la mobilitazione su Gaza. I rapporti sembrano essere ancora interlocutori. Intanto, anche ieri, cortei e presidi si sono tenuti in diverse città e continua la mobilitazione nei porti italiani per non far passare carichi di armi a Israele. A Taranto, da venerdì sera migliaia di cittadini e attivisti sono in presidio davanti alla raffineria Eni per protestare contro l’attracco della nave Seasalvia che dovrebbe caricare greggio destinato, secondo denunce sindacali e di associazioni, all’aviazione dell’Idf. Ieri mattina, invece, sempre in Puglia, un corteo è partito dal centro di Grottaglie per raggiungere lo stabilimento di Leonardo. Ancora in mobilitazione anche il porto di Genova, dove ieri si è tenuta l’assemblea dell’Usb con altri sindacati europei dei portuali che “non lavorano per la guerra”. Il coordinamento ha annunciato una giornata internazionale di agitazione negli scali marittimi dell’Ue. Anche la Filt-Cgil Campania ha ribadito “il rifiuto assoluto di ogni coinvolgimento dei porti della regione nello sterminio del popolo palestinese”. Il sindacato ha chiesto inoltre all’Autorità portuale, alle capitanerie, alla regione “di prendere posizione e assumersi le proprie responsabilità”. Cortei di migliaia di persone si sono svolti anche a Caserta, Padova, Mestre, Firenze, Alessandria, Campobasso, Trieste. Cariche delle forze dell’ordine a Torino, quando i manifestanti hanno provato a entrare all’aeroporto di Caselle, che dista poche centinaia di metri da un’altra sede di Leonardo. La polizia non ha fatto passare il corteo e ha contenuto gli attivisti con lacrimogeni e idranti. I manifestanti denunciano una decina di feriti che sono stati medicati nel punto sanitario attrezzato dal coordinamento. In vista della manifestazione nazionale del 4 ottobre a Roma, si allunga la lista delle 100 piazze per Gaza, la mobilitazione permanente indetta da Usb con i colLettivi universitari. Presidi a Firenze, Pisa, Ancona, Trieste, Bari oltre che Napoli e Bologna. A Milano piazza della Scala è stata ribattezzata piazza Gaza. “Chiediamo al sindaco Sala di sciogliere il gemellaggio della città di Milano con Tel Aviv, dando un segnale politicamente tangibile di rifiuto delle violenze messe in atto dal colonialismo sionista”, hanno dichiarato gli attivisti. Il presidio resterà attivo almeno fino al 4 ottobre. Lo stesso a Roma dove piazza dei Cinquecento, davanti la stazione Termini, si sta riempiendo di tende. Intanto a Lucca, alcuni militanti di Prc risultano indagati “per aver simbolicamente e per brevissimo tempo fermato la circolazione nella stazione di Lucca lunedì scorso a margine della manifestazione -ha fatto sapere la segreteria toscana di Rifondazione Comunista. Un fatto grave che si inserisce in un clima repressivo a livello internazionale e nazionale”.