Carceri, La Russa non convince i suoi di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 settembre 2025 L’indifferenza della maggioranza sulle carceri. Naufraga senza neppure passare in commissione, la proposta del presidente del Senato La Russa contro il sovraffollamento nelle carceri (domiciliari ai detenuti con residuo di pena inferiore a 18 mesi) trascritta in un testo dalla vicepresidente Anna Rossomando (Pd). Ieri, a sorpresa, La Russa ha decretato il naufragio dell’iniziativa, malgrado le aperture dell’opposizione. “Nella prossima capigruppo dirò che ciascun gruppo rimane libero di assumere, se lo ritiene, iniziative”, ha detto a Catania a margine del congresso dell’Ucpi. La Russa ha fatto trasparire una certa preoccupazione che “si faccia qualcosa nel presente”, “nell’attesa che il governo possa completare i progetti” contro il sovraffollamento nelle carceri. Ma allo stesso tempo ha cercato di addossare la responsabilità alla dem Rossomando: “Non è riuscita a trovare un’intesa sul testo”. A stretto giro, la risposta della vicepresidente del Senato: “Evidentemente le buone intenzioni di La Russa sulle carceri si sono scontrate con l’indifferenza della maggioranza di centrodestra sul tema”. Sulla misura proposta (la stessa già sperimentata durante il Covid) “da agosto non c’è stato alcun avanzamento. Evidentemente - ha concluso Rossomando - la maggioranza non è disposta neppure a discuterne”. Dal ddl Nordio al carcere: tutta la giustizia al congresso Ucpi di Valentina Stella Il Dubbio, 27 settembre 2025 Un grande “hub” del dibattito sulla giustizia, a partire dalle carriere separate: è il senso del congresso Ucpi a Catania. Da Sisto, Pinelli e Greco appelli per la riforma La Russa: “Carcere, niente intesa: ma si intervenga”. La bellissima cornice del Teatro Bellini di Catania ha ospitato ieri la prima giornata del XX congresso ordinario dell’Unione Camere penali, che si concluderà domani. Oggi interverrà in vide collegamento il guardasigilli Carlo Nordio. Nonostante lo sciopero dei voli, moltissimi gli avvocati arrivati nel capoluogo siciliano per ritrovarsi tutti insieme l’ultima volta prima del referendum sulla separazione delle carriere, tema obbligatorio e centrale dell’assise. Tra i primi a intervenire, il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli per il quale “l’avvocatura deve rivendicare la prerogativa di classe intellettuale, ed essere all’altezza del compito” e “non deve per altro verso perdere la propria identità e autonomia di pensiero, non credo lo stia facendo, allineandosi a una parte politica legittimamente portatrice dei progetti di riforma costituzionale”. Allo stesso modo, dice Pinelli, “la magistratura non deve perdere la propria radice costituzionale mescolandosi, sino a confondersi, con l’opposizione politica che legittimamente gioca il proprio ruolo, come fisiologico nelle democrazie. L’autonomia e l’indipendenza vanno difese e conquistate ogni giorno sul campo, con i comportamenti individuali e con le politiche associative”, ha concluso il numero due di Palazzo Bachelet. Dopo di lui, il presidente del Cnf Francesco Greco: “Dobbiamo convincere i cittadini che la riforma è assolutamente necessaria e indispensabile per l’attuazione del giusto processo. Oggi il processo italiano non è giusto, per la contiguità tra due parti, il giudice e l’accusa. E allora”, è l’appello di Greco, “dobbiamo impegnarci affinché non si realizzi uno scontro politico tra maggioranza e minoranza in Parlamento: quella che affronteremo non è una battaglia politica ma un impegno di noi avvocati per la civiltà giuridica”. E ha concluso: “Se fosse in pericolo l’autonomia e l’indipendenza della magistratura saremmo i primi a scendere in piazza con le toghe, ma non è così: l’articolato della legge non lo prevede affatto”. Nella “tana del lupo”, con umiltà e ironia è intervenuto il presidente dell’Anm Cesare Parodi che ha esordito: “Ho fatto un incubo stanotte: mi invitavano al convegno dell’Ucpi e dovevo fare un intervento per convincere gli avvocati penalisti e i politici presenti del fatto che Anm ha ragione! La mia era una missione impossibile. Ero disperato”. Risate dalla platea. Ha proseguito nel suo racconto onirico: “A un certo punto, una voce dall’alto, profonda e inquietante, mi scuote… ‘ Ricorda… uno vale uno! Quell’uno può decidere della libertà personale, del patrimonio dei cittadini, come potrebbe non essere un buon consigliere del Csm?’ Già. Uno vale uno. Certo: ma l’Ucpi è stata fortunata perché ha estratto a sorte avvocati come il presidente Petrelli o il presidente Caiazza. O qualsiasi avvocato potrebbe essere comunque al loro posto, rappresentare allo stesso modo, con passione e intelligenza la maggioranza di tutti i penalisti?”. Molti applausi, poi, per il past president Ucpi Beniamino Migliucci: “Lei in commissione Affari costituzionali”, dice rivolto proprio a Parodi, “ha dichiarato che con la separazione non si avrebbe più un pm che chiede archiviazioni. Le assicuro che noi abbiamo più fiducia in voi di quanta voi ne abbiate in voi stessi”. La polemica non è finita qui: altri hanno fatto notare che tutti i capi degli uffici giudiziari locali avevano detto che sarebbero venuti e poi hanno disdetto. Ha preso poi la parola il presidente del Senato Ignazio La Russa, e ha annunciato che “entro la prima settimana di novembre, al massimo, la riforma della separazione delle carriere arriverà nell’Aula di Palazzo Madama: mi prendo questo impegno”. Ha terminato con un auspicio: che ci sia un “dibattito comprensibile per i cittadini e scevro da eccessi: è questo il mio invito. Toccherà agli italiani decidere, e mi aspetto che quanto deciderà il corpo elettorale sia accettato di buona grazia da tutti”. Gli abbiamo poi chiesto un commento sulla situazione carceraria: La Russa ci ha detto che non si è trovata intesa tra i partiti sul provvedimento deflattivo della popolazione detenuta di cui si era discusso in questi mesi. Ha quindi precisato che “nella prossima Capigruppo dirò che ciascuno rimane libero di assumere, se lo ritiene, iniziative. Il mio rimane un auspicio: è tuttora necessario, e non lo era solo per il periodo estivo, che, nell’attesa che il governo possa completare i progetti per rendere il sovraffollamento nelle carceri qualcosa del passato, si faccia qualcosa nel presente”. Tra gli ospiti più attesi Goffredo Bettini, che da remoto ha detto: “Se la separazione delle carriere è un segnale verso la terzietà del giudizio, per me ben venga. E se c’è un modo per evitare che qualche tipo di sentenza sia al riparo da reciproche convenienze, da scambi di favori, da un clima politicamente intossicato, ben venga il superamento delle correnti di potere nella magistratura, affidandosi a altre vie per la costituzione del Csm”. Sarebbe dovuta intervenire anche la responsabile Giustizia dem Debora Serracchiani, che ha declinato in extremis perché “colta da afonia”, ha detto il moderatore Giovanni Valentini. In molti sono rimasti delusi per il mancato incontro- scontro con Bettini. Presente anche Enrico Costa, il primo a depositare una pdl sulla separazione delle carriere che ricalcava quella dell’Ucpi: il deputato di FI ha voluto sottolineare che, nonostante ci si avvia votare in quarta lettura la riforma, molti altri provvedimenti sono fermi anche per colpa di dissensi interni alla maggioranza: “La prescrizione è bloccata da Lega e da opposizioni, sulle intercettazioni stessa cosa: il 27 ottobre sarà in Aula la proposta Zanettin sul 254 ter ma non sono convinto che andrà in porto, perché anche nella maggioranza ci sono dubbi. Si parla tanto di abuso della custodia cautelare ma quando si affronta il tema i miei odg vengono bocciati. Faccio la proposta per diminuire i fuori ruolo che sono eccessivi a via Arenula e mi dicono no da destra a sinistra. Spesso la trasversalità va a scapito delle garanzie”. In collegamento ha preso la parola il viceministro Francesco Paolo Sisto: “Abbiamo la necessità di vincere il referendum: è una occasione imperdibile, non possiamo farcela sfuggire. Sono convinto che raggiungeremo il risultato, ma non sarà semplice. Dobbiamo impegnarci subito con i comitati per il sì”, l’appello del numero due di via Arenula, che ha preso l’applauso quando ha accusato l’Anm di “aver partecipato alle audizioni private del Pd”. E tra i dem, è intervenuto anche l’ex viceministro Enrico Morando: “Anch’io, come altri parlamentari e dirigenti della mia parte, non condivido la soluzione del sorteggio, che mi pare un cedimento nei confronti del populismo. Non è tuttavia ragionevole far derivare da questo giudizio critico una scelta di opposizione a tutta la riforma: nel 1999”, ha ricordato Morando, “centrodestra e centrosinistra furono concordi nell’introdurre l’articolo 111”. La vita immensa delle donne ristrette di Giulia Ribaudo Il Foglio, 27 settembre 2025 Nel tempo trascorso in carcere, si dissolve la distinzione tra chi dà e chi riceve, e quasi anche quella tra chi viene premiata e chi punita. C’è la cura del danno, c’è una sorellanza disordinata e imperfetta che crea relazioni difficili da trovare altrove, perché sono spogliate dalle convenzioni della vita libera. L’incontro di fragilità diverse e lei che dice: “Di’ la verità, noi siamo il tuo alibi”. La Casa di reclusione femminile di Venezia si trova sull’isola della Giudecca, in Fondamenta delle Convertite. Per raggiungerla prendo il vaporetto della linea 2, scendo a Palanca e percorro la fondamenta costeggiando il canale, al campo San Cosmo attraverso un ponte, cammino e mi ritrovo davanti a un portone che quasi si confonde con gli edifici vicini, riconoscibile soltanto dal tricolore, dallo stemma e dalle telecamere che ne sorvegliano l’ingresso. Dal 2016, ogni venerdì o sabato pomeriggio, varco quella soglia per organizzare con le donne gli incontri di Ias - Interrogatorio alla scrittura, un progetto dell’associazione Closer di cui sono volontaria. Capita che arrivi ancora al telefono, ma proprio davanti a quel portone verde avverto sempre l’urgenza di interrompere velocemente la conversazione: so che all’interno il tempo è fatto di attese e non voglio aggiungerne di mie, come se il mio valesse più del loro. Le telecamere mi ricordano che da lì in poi sono osservata e mi sembra quasi che possano restituire un’immagine deformata di me - quella di una volontaria distratta, che prima di entrare si trattiene nei propri affari, come se le detenute non fossero la sua priorità. È allora che chiudo la chiamata e mi rivolgo agli agenti in portineria. Ogni ingresso si apre con sempre lo stesso identico rito: consegno portafoglio, chiavi e telefono, e poi, come per fugare il sospetto di aver dimenticato qualcosa addosso, mi tocco le tasche una a una. Posso portare dentro soltanto i libri che tengo stretti sotto il braccio. Attraverso il blindo, lascio alle spalle la frenesia del mondo esterno ed entro in uno spazio che sospende i codici consueti. È lì, leggendo e dialogando con le donne ristrette, che mi confronto con una verità che non riguarda soltanto chi è detenuta ma investe chiunque viva fuori, perché il confine che separa il dentro dal fuori non taglia soltanto le mura dell’istituto: attraversa la società intera e, in qualche misura, ciascuna di noi. Il carcere è un punto di massima esposizione del sistema sociale; una soglia che rende visibili i meccanismi di esclusione, le paure collettive, i criteri impliciti con cui si decide chi ha diritto a essere ascoltato e chi può essere rimosso dal campo del visibile. È uno spazio che concentra e rivela ciò che nel mondo esterno si distribuisce in modo più sottile e meno dichiarato: le disuguaglianze strutturali, le gerarchie normative, le forme del controllo e della punizione. Per me il carcere diventa una lente capace di mettere a fuoco tensioni sociali invisibili, trasformando ciò che appare sfilacciato in un nodo centrale di conflitti, esclusioni e possibilità. In questo spazio i codici abituali si sospendono, le relazioni si trasformano: si costruiscono su presupposti più instabili, certo, ma non per questo meno autentici. Mi appare evidente che lì dentro non esistano indifferenza o neutralità; il coinvolgimento è inevitabile e la vulnerabilità si manifesta in modo palpabile - non solo quella di chi sta dentro, ma anche la mia, soprattutto. Di questo le donne detenute si accorgono. È in questa condizione di esposizione reciproca che prende forma una sorellanza disordinata e imperfetta, capace di scardinare ruoli predefiniti e di aprire nuove possibilità relazionali. Una sorellanza che nasce dalla condivisione di un tempo e di uno spazio che obbligano a guardarsi davvero, senza filtri o mediazioni, e che si fonda su una sincerità che mi sembra spesso negata nelle relazioni esterne. Nel tempo condiviso dentro il carcere, le linee tra chi è lì per educare e chi è lì per essere educata, tra chi offre e chi riceve, diventano fluide. Entro e non sono solo portavoce e mediatrice del mondo esterno, perché il mio ingresso mi trasforma; vengo destabilizzata dal confronto con esperienze che mettono in discussione i miei privilegi, le mie solide certezze morali, i miei riconoscibili limiti emotivi. Questo scambio, pur non essendo simmetrico, apre uno spazio generativo, fondato su un ascolto radicale, sull’esposizione reciproca e sul riconoscimento di desideri e fratture comuni. La relazione si nutre della possibilità di lasciarsi attraversare, senza voler imporre soluzioni o gerarchie. Sono convinta che nel carcere femminile questa complessità si faccia ancora più evidente rispetto agli altri istituti, intende quelli maschili. Le donne detenute portano con sé storie intrecciate a trasgressione, cura, maternità, dipendenza, amore e sopravvivenza. Le loro biografie sfidano le griglie semplicistiche con cui la società definisce il femminile accettabile, rivelando contraddizioni che attraversano ogni donna: la fatica di conformarsi a modelli, la resistenza alle aspettative normative, la possibilità di scegliere o sottrarsi. In questo intreccio si apre la relazione tra donne come un laboratorio etico e, di conseguenza, politico, capace di mettere in discussione i fondamenti della giustizia, del castigo e del merito. In carcere mi sembra proprio evidente che la legge perda la sua certezza assoluta: la distinzione tra colpevole e innocente, tra meritevole e punita, si dissolve, lasciando spazio a domande più profonde sulla convivenza nella fragilità, sulla cura del danno senza riprodurlo, sulla costruzione di relazioni in grado di sostenere la complessità del reale. Dopo aver visto Fuori, il film con Valeria Golino, mi sono ritrovata a riprendere in mano i libri di Goliarda Sapienza e ad ascoltare alcune sue interviste, come se cercassi una eco a un sentimento difficile da nominare. Il modo in cui Goliarda Sapienza racconta il carcere è distante dalle narrazioni comuni perché non si limita a denunciarne la durezza o l’ingiustizia, ma ne restituisce anche la capacità, paradossale e ambivalente, di generare intensità relazionali e forme di verità difficili da trovare altrove. È uno sguardo che non vuole assolutamente legittimare la prigione (come Enzo Biagi prova a ribattere a Goliarda Sapienza), ma è uno sguardo che si sofferma sul desiderio di contatto che quel luogo, nella sua brutalità e violenza, può innescare. Che sia chiaro, personalmente, non riconosco al carcere alcuna utilità, né come strumento di giustizia né come istituzione riformabile: credo vada superato nella sua interezza, smantellato come struttura sociale e politica che riproduce disuguaglianze, umiliazione e controllo. Potrei continuare a lungo sostenendo questa posizione, ma - proseguendo il mio ragionamento - il punto è se penso a quel luogo, il carcere, come al contenitore di vite che la società ha reso invisibili, come lo spazio in cui si concentrano storie interrotte, corpi fragili e saperi marginalizzati o peggio mai scoperti, allora comprendo l’attrazione che esercita su di me: non verso l’istituzione in sé, ma verso le persone che vi sono rinchiuse, verso il desiderio profondo di entrare in relazione con chi è stato spinto ai margini, anzi, completamente escluso. A differenza di Goliarda Sapienza - per fortuna - non ho bisogno di farmi arrestare per poter ascoltare le donne ristrette, per conoscere i loro racconti, per imparare da loro cosa significhi sopravvivere all’abbandono, attraversare la sofferenza e ridere nonostante tutto; ma come lei, sento che ogni volta che varco il blindo e, in fondo al corridoio, una donna con la sigaretta tra le dita mi saluta con familiarità, si accende qualcosa di irriducibile e profondamente umano, una forma di autenticità che il mondo di fuori, ingabbiato da ruoli e deadline, prestazioni e maschere, raramente consente di incontrare. Anche mentre scrivo queste righe, sento il desiderio che G. - una delle ragazze incontrate in carcere - sia accanto a me: vorrei farle ascoltare le interviste di Goliarda che sto guardando su YouTube, chiederle cosa ne pensa, provare a scrivere insieme chi siamo e cosa ci tiene unite. È un desiderio che per molto tempo ho tenuto nascosto, come se parlarne apertamente comportasse il rischio di essere fraintesa. Quando racconto del mio impegno in carcere tendo spesso a presentarlo come una forma di attivismo civile, come un gesto politico, e certamente lo è - perché entrare in quell’istituzione, giorno dopo giorno, significa confrontarsi con la sua violenza sistemica, con le sue contraddizioni più evidenti, e maturare un’urgenza di trasformazione. Ma accanto a questa spinta politica ne esiste un’altra, più intima e meno dicibile, che ha a che fare con una forma di attrazione verso uno spazio dove le relazioni, spogliate dalle convenzioni e ritmi sociali che regolano la vita “libera”, possono assumere una qualità più ruvida e sincera, e che per me, in modo del tutto inatteso, si è trasformato in una fonte di libertà. Goliarda Sapienza in un’intervista parla di fantasia come se proprio la restrizione, l’assenza di distrazioni, la brutalità del quotidiano, la noia rendessero possibile una forma diversa di immaginazione, capace di generare sogni, desideri, racconti. È paradossale, ma nel tempo sospeso e vuoto della detenzione si aprono spazi di possibilità che, nel mondo di fuori, sono soffocati dalla frenesia. Anche per me, il carcere è diventato un luogo in cui riesco a concedermi un tempo che altrove non so più ritagliarmi: un tempo in cui ascoltare senza interruzioni, restare, stare. In questo, mi sono sentita complice di Goliarda Sapienza riconoscendo in lei - e in me - il rischio che questa dimensione diventi una forma di dipendenza perché dentro si stabiliscono legami che altrove sembrano impossibili, relazioni non filtrate da performance, competizione, giudizi. Proprio per questo, ho paura di perderle. Una volta, durante un laboratorio in un sabato di marzo del 2023, ho confessato a una donna la mia preoccupazione per mia mamma che era malata e in attesa di un trapianto imminente. Le ho detto che forse sarei andata in carcere meno e, mentre parlavo, mi rendevo conto di quante giustificazioni mi stavo dando. Lei mi ha guardata e, senza esitazione, ha detto: “Allora perché sei venuta? Forse non avevi voglia di stare con lei, non riesci a vederla soffrire. Di’ la verità, noi siamo il tuo alibi”. Aveva ragione. Era una verità aspra, senza protezione, che solo chi non ha niente da perdere riesce a pronunciare così, con quella lucidità spietata. È stato in quel momento che ho capito che questo genere di relazione non può essere pensata come un “aiuto” che si dà, ma come uno spazio ineguale che mi mette in crisi, mi espone, mi costringe a guardarmi. Un legame che destabilizza e disordina, invece di consolarmi (ahimè!). Sono sentimenti che faccio molta fatica ad accogliere dichiarandomi attivista per i diritti delle persone ristrette e abolizionista, convinta dell’inutilità educativa dell’istituzione carceraria; mi sembra contraddittorio, profondamente illogico, trovare una forma di senso in ciò che considero insensato come la violenza che la restrizione e la detenzione comportano. Ma mi hanno “rassicurata” le teorie di Kelly Hannah-Moffat (2001), la quale, analizzando le prigioni femminili canadesi, dichiara che il vero obiettivo del carcere è la normalizzazione delle donne detenute secondo criteri patriarcali e neoliberali. La retorica del “recupero” maschera l’estensione dei dispositivi di controllo e trasforma la vulnerabilità in colpa, da correggere. I programmi di rieducazione si fondano su un modello normativo di femminilità basato sul dover essere responsabile, silenziosa, devota, capace di prendersi cura degli altri. Chi non vi si conforma viene ulteriormente marginalizzata, messa in discussione, trattata come irriformabile. Eppure, anche dentro queste cornici disciplinari, nascono forme di resistenza impreviste. Hannah-Moffat le chiama “comunità inattese”: legami emotivi, linguistici e affettivi che sfuggono al controllo penitenziario e che le donne costruiscono per sopravvivere, ma anche per prendersi cura l’una dell’altra. Sono spazi di solidarietà che nessun programma ufficiale riesce a prevedere né controllare, ma che potremmo considerare, forse, l’unica forma possibile di giustizia all’interno del carcere. Ed è allora che mi sento più serena: quelle relazioni che mi appaiono come sincere e autentiche fanno probabilmente parte proprio di ciò che si genera come inatteso. Sono relazioni che io sento il bisogno di intrecciare per sentirmi parte, per abitare un mondo che ha la consistenza del reale. Per me, dalla prima volta che sono entrata, il carcere si è trasformato da un luogo che credevo di mera osservazione a un luogo di immersione, di esposizione, di “rischio”, ma anche di imbarazzo perché sono consapevole della mia fortuna e so che non basta entrare per cancellarla. Ho la percezione che questi legami siano esclusivi e ogni volta ci casco. Capita che le donne detenute mi dicano - per ferirmi, d’altronde sono loro le cattive - che solo in carcere ho il coraggio di parlare con loro, che fuori le temerei. Mi dicono: “Tanto lo sappiamo che ci mollerai una volta che siamo fuori”. Ma accade il contrario; quasi sempre sono loro a non cercarmi più, a non chiamarmi, anche se dentro si erano annotate il mio numero su un quaderno. Scelgono di non coinvolgermi nelle loro vite libere, forse per vergogna, per non mostrarsi nel loro contesto, o per proteggersi dalla mia aura borghese e privilegiata. Sono io quella che resta legata, la vera egoista. Io che non so lasciar andare, io che continuo a desiderare quel legame che loro - giustamente? - rompono. Io che, a differenza loro, non ho interiorizzato il mantra carcerario: “Si entra da soli e si esce da soli”, le parole che un giorno mi ha pronunciato S., con la bocca impastata dal metadone e gli occhi socchiusi dallo stordimento. Fatico ad accettare che quel patto implicito nato tra le mura non possa sopravvivere fuori. Quella separazione però è inevitabile, e purtroppo ci ho fatto l’abitudine. Infine, c’è un tempo che non appartiene né al dentro né al fuori: è quello in cui le donne ristrette sono in permesso all’esterno per motivi famigliari, lavorativi o di volontariato. Un tempo che serve a mantenere saldi i legami, ma che rende evidente quanto il contesto in cui si sono creati fosse chiuso, serrato. L. aveva ottenuto un permesso, e le avevo promesso che l’avrei aspettata fuori per offrirle un caffè e farle vedere come prendere il vaporetto nella direzione corretta. È uscita mentre io stavo ascoltando un audio su Telegram, e si è messa a ridere perché non sapeva che si potesse ascoltare la voce velocizzata - quando è stata arrestata, quell’opzione non esisteva ancora. Ed ecco un’altra rivelazione, in quel momento mi sono accorta del vero fattore che separa me da lei. Lei è stata bloccata - metaforicamente e de facto - ristretta entro quattro mura. Tendenzialmente pensiamo che la punizione massima, e la misura più efficace per contenere la minaccia alla società rappresentata da chi ha trasgredito, sia quella di immobilizzare un corpo nello spazio, ma l’effetto collaterale più dannoso è che la si blocca anche nel tempo. Un tempo accelerato dalla tecnologia, che intanto fuori continua a cambiare, aggiornarsi, rilasciare nuove versioni di Telegram con la funzione x2. A lei era successo proprio questo; il tempo, là dentro, si era fermato. Sono anni che la conosco, anni che ogni venerdì o sabato pomeriggio ci ritroviamo a parlare: pensavo che mi conoscesse. Ma lì, fuori, dovevo accettare che io ero diventata come tutto il resto: da riscoprire, da riraccontare, da risincronizzare in una dimensione sociale da cui è stata esclusa. Capisco che ciò che mi manca davvero è la possibilità di ricominciare ogni volta da zero, senza appoggiarmi a ruoli o aspettative precostituite, ma incontrando l’altra persona nella mia - nella nostra - interezza, con la libertà di essere quella che sono, o che voglio essere, senza filtri. È forse questa la forma più rara e preziosa di relazione che abbia mai sperimentato, e che il carcere, per assurdo, riesce a restituirmi. Sottolineo: sono emozioni che mi vergogno a esprimere, e chiedo perdono a chi la detenzione la subisce. Ma quando apro l’armadietto, prendo la mia borsa, tolgo la modalità aereo dal cellulare, vivo una grande forma di solitudine. Esco e cammino lungo la Fondamenta, aprendo le mail, rispondendo a chi - addirittura per un’ora e mezza! - ha aspettato un mio Teams. Non guardo neanche se è cambiato il tempo, ma accelero verso il ponte per non perdere il vaporetto. Fuori ci si sfalda. Si torna a funzionare nei tempi stabiliti. Come prima, prima di entrare. *Giulia Ribaudo (Venezia, 1990), per lavoro è HR Business Partner di Arsenalia. Per “vocazione” nel 2016 ha fondato Closer, un’associazione culturale che promuove attività all’interno del carcere femminile della Giudecca. Dal 2020 cura, insieme a Severino Antonelli, PIOMBI, la newsletter di Closer per parlare di carcere, libertà, giustizia e ingiustizie. Quando sei qui con me: le stanze dell’amore in carcere di Alessia Arcolaci vanityfair.it, 27 settembre 2025 Diana, Roberta e Anna vedono i mariti in carcere, ma non possono abbracciarli. I giudici hanno autorizzato le stanze dell’amore, ma gli ostacoli ci sono ancora. Se il desiderio di riabbracciarsi fosse un paesaggio con alberi dal fusto largo sui quali scende pacifica la prima neve, la storia di Diana e Diego (nomi di fantasia), che non si abbracciano da quando lui è finito in carcere, dovrebbe apparire ai nostri occhi con la stessa candida tenerezza. Ma quando si sconta una detenzione, la dolcezza è la prima cosa a essere recisa. E allora, se vogliamo continuare a immaginare questa coppia come quel tenero paesaggio imbiancato, dobbiamo fare lo sforzo di vedere la neve scendere nell’auletta dai colori pallidi adibita ai loro colloqui, dentro al carcere. Con le sedie messe una di fronte all’altra, fissate al pavimento così da non avvicinarsi troppo. E sotto lo sguardo attento di chi deve controllare. Nessun contatto fisico, niente parole sussurrate. In queste stanze, per una o più ore, le coppie possono parlare guardandosi negli occhi, in mezzo ad altri uomini e donne nella loro stessa condizione. La colpa e la condanna di un amore destinato al ricordo di un bacio. Ma smettiamo per un attimo di essere romantici, riflettiamo sul giudizio verso chi entra in carcere e su come spesso viene intesa la vita all’interno di un istituto penitenziario. Permettiamo che il muro dell’auletta per i colloqui delle coppie in carcere si sposti, che una porta si apra e che, dopo anni, questi uomini e donne entrino in una dimensione privata. Lasciamo che Anna e Diego, e le coppie come loro, si diano un bacio o tremino per l’emozione di essere finalmente a tu per tu, uno di fronte all’altro. Sorpresi perché non si erano mai più incontrati da soli da quando i loro figli erano bambini, mentre oggi sono ormai quasi adulti e loro, forse, non sanno più come si fa a volersi bene da vicino. Quello che invece noi sappiamo è che, nell’ottobre del 2024, la Corte Costituzionale ha dichiarato in parte illegittimo l’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario, che riguarda il divieto all’affettività in carcere e quindi anche ad avere rapporti sessuali. In particolare, i giudici hanno contestato quella norma “nella parte in cui non prevede che alla persona detenuta sia consentito, quando non ostino ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche a carattere sessuale, con la persona convivente non detenuta, senza che sia imposto il controllo a vista da parte del personale di custodia”. Come spiega l’associazione Antigone, da sempre con lo sguardo rivolto alle condizioni delle carceri nel nostro Paese, “l’accoglimento della questione da parte della Corte costituisce una vera e propria rivoluzione culturale nella concezione della pena detentiva, vista non più come una necessaria e totale privazione dei diritti del condannato, ridotto a essere una “non-persona”, quanto alla dimensione affettiva della sua stessa esistenza. Non va, infatti, taciuto che i giudici hanno significativamente considerato non solo la sfera sessuale, ma l’intera sfera affettiva delle persone detenute e di chi con esse ha rapporti di matrimonio, unione e anche semplice convivenza”. In Italia, i colloqui tra un detenuto e sua moglie o la fidanzata devono sempre avvenire davanti agli agenti della polizia penitenziaria attenendosi a diverse regole, tra cui quella di non avvicinarsi al partner. Per questo, appena chiediamo a Diana come immagina il suo primo incontro privato con il marito condannato all’ergastolo, lei risponde che il suo desiderio più grande è sedersi sulle sue gambe. Accoccolarsi con lui. Diana ha circa cinquant’anni. Da più di venti, una volta al mese prende il treno da Napoli per recarsi presso il carcere di Parma, dove suo marito sta scontando la pena in regime di alta sicurezza. Ha cresciuto da sola i loro figli, facendo lavori di fortuna. Ma non ha mai immaginato di innamorarsi di un altro. Invece, ha sempre confidato le sue paure - tra cui quella di non poter mai più abbracciare l’uomo che ama - all’avvocato di suo marito, Pina Di Credico. Vive nella stessa condizione anche Roberta. Suo marito ha 43 anni e ne sta scontando diciassette in carcere per vari reati, tra cui estorsione aggravata dal metodo mafioso perché, all’epoca della condanna, faceva parte del clan camorristico dei Casalesi. Per lui, nel febbraio 2024, l’avvocato Di Credico ha chiesto alla direzione della struttura penitenziaria il permesso di esercitare il diritto ad avere “colloqui intimi visivi” con sua moglie. La risposta del giudice di sorveglianza è stata positiva, soprattutto per la buona condotta del detenuto, che in carcere ha finito gli studi, lavora e dona parte delle sue entrate ad associazioni che sostengono le vittime di mafia. Il carcere, però, non ha ancora trovato un luogo adatto a creare queste “stanze dell’amore”. Nei fatti, Diana e Roberta non sanno quando potranno davvero tornare a essere sole dentro una stanza con i rispettivi mariti. E questo nonostante che il giudice abbia dato parere favorevole perché ciò accada anche, eventualmente, appoggiandosi a momentanee strutture esterne al carcere. Anna ha la voce bassa, quando risponde al telefono si sente in sottofondo la voce di un bambino. Suo marito è stato condannato a diciotto anni di carcere, è in regime di alta sicurezza nel carcere di Larino e lei riesce a incontrarlo una volta al mese, quando va bene. Anche lei prende un treno da Napoli, arriva al carcere con un contenitore pieno di ragù che lui adora. Più tardi, nella stessa giornata, lei rientra a casa, dai loro figli. Scherzando, Anna immagina che comprerà un nuovo completino intimo per festeggiare questo incontro nella “stanza dell’amore”. Ma quando torna seria, la voce è rotta dall’emozione: “Questa non è vita. Non posso nemmeno fargli una carezza quando lo vedo. È entrato in carcere poco dopo il nostro matrimonio e dovrà restarci a lungo. Non sono mai stata arrabbiata con lui”. Anna provvede alla sua famiglia lavorando come “signora delle pulizie”. Quando pensa al futuro, come Diana non prende in considerazione l’idea di amare qualcuno che non sia suo marito. Un’altra vita non è possibile. “Il carcere deve tendere alla rieducazione del condannato, non deve essere punizione, altrimenti che senso ha?”, commenta l’avvocato Di Credico. “Durante l’espiazione, il detenuto non può essere assoggettato a una pena ulteriore. I suoi diritti inviolabili, come quello all’affettività, devono essere sempre garantiti. Diversamente, la funzione della pena verrebbe privata della sua stessa essenza. Inoltre, i detenuti per i quali ho presentato la richiesta di colloqui intimi sono reclusi da tanti anni nel reparto di alta sicurezza e hanno sempre osservato una condotta ottima e collaborativa. Non si può non tenerne conto. Aspettiamo, quindi, che vengano allestiti spazi ad hoc come richiesto dal giudice di sorveglianza”. Nel mondo delle carceri sovraffollate, dove capita che restino celate le rivolte interne, dove i suicidi non diminuiscono di anno in anno (e anzi il 2024 con 88 vittime è il più tragico per il nostro Paese), sembra quasi superficiale parlare di diritto all’affettività, ad abbracciarsi, a vivere l’intimità con la persona che si ama. E forse è proprio questo il tassello che manca: sentirsi autorizzati a chiedere amore, anche da dentro un carcere. Una speranza che regala il coraggio di immaginarsi in una nuova vita, di farcela per davvero. La separazione dei magistrati di Massimo Gramellini Corriere della Sera, 27 settembre 2025 Il delitto infinito di Garlasco si sdoppia e, come un mostro mitologico, all’improvviso mostra due teste: mentre la procura di Pavia continua a indagare sull’assassino o gli assassini di Chiara Poggi come se già non ci fosse un condannato con sentenza definitiva in galera, quella di Brescia accusa di corruzione il collega che per primo si occupò del caso. All’ex procuratore Mario Venditti, oggi presidente di un Casinò, non viene contestato un errore professionale, umanamente sempre possibile, ma la malafede. Avrebbe, cioè, dirottato le indagini da Andrea Sempio in cambio di denaro. Stavolta non è la politica ad attaccare la magistratura, ma sono i giudici stessi a infangarsi tra loro, in uno svolazzar di toghe che offre un ghiotto pretesto a chiunque voglia dissolvere l’alone epico che i Falcone, i Borsellino e, per un certo periodo, anche il pool di Mani Pulite avevano contribuito a creare intorno alla categoria. Comunque vada a finire il mostro a due teste di Garlasco, forse è arrivato il momento di convincerci che le generalizzazioni funzionano sui social, ma molto meno nella realtà, dove non esistono “i magistrati”, “i giornalisti”, “i politici”. Esistono gli individui. E non è giusto che, per amor di polemica, le (eventuali) responsabilità di un individuo gravino su un’intera comunità, tanto più quando questa dimostra di avere ancora al suo interno degli anticorpi che funzionano. Fino a prova contraria, s’intende. Troppa sproporzione tra gli imputati e i poteri dello Stato: per questo dico sì alle carriere separate di Goffredo Bettini Il Dubbio, 27 settembre 2025 Il tema del processo penale sta da sempre, come interesse e impegno, alla radice della mia persona. Lo devo a mio padre, avvocato penalista repubblicano, che mi ha coinvolto fin dall’adolescenza dentro il mondo della giustizia. E aggiungo che a quattordici anni mi iscrissi al Partito Comunista Italiano, non certo per una lettura dei testi sacri, di Marx, di Gramsci e tantomeno di Togliatti. Ma perché allora mi sembrò, quasi occasionalmente, che quel partito fosse uno strumento per affrontare il sentimento di dolore, di sofferenza che mi procurava vedere nel mondo, troppo spesso, la forza “offendere” la debolezza. Una debolezza priva della possibilità di replica. Intrappolata in una condizione di impotenza. La professione di mio padre, a cui ho voluto molto bene, libertario e profondamente umano, si mischiò, così, con le mie scelte di vita ideali e politiche. Egli amava difendere gli imputati, soffriva il ruolo di parte civile, il suo habitat privilegiato era la corte d’assise, lo strumento, l’arringa dove si può arrivare nelle più nascoste profondità dell’imputato come persona; trasformandosi in “palombari” dell’animo umano. È la passione per le sorti di chi ha affidato la sua vita nelle tue mani. Quella passione che ho visto, fin da ragazzino, in una generazione di grandi avvocati che ho avuto la fortuna di ascoltare dal vivo. Bruno Cassinelli, Annibale Angelucci, De Marsico e i loro discepoli di allora. Nicola Madia, al quale cambiò la vita la sentenza di condanna di Raoul Ghiani e De Cataldo, Pannain, Sotgiu, Enzo Trapani e tanti altri. Vedete, per me la parola garantismo è legata alla consapevolezza dell’enorme sproporzione di forza tra l’imputato (se non supportato da organizzazioni mafiose e terroristiche) e tutto lo stato, i suoi poteri e la sua rappresentatività. L’imputato che nel mentre è indagato e poi sottoposto a giudizio, è come sospeso dal suo status naturale. Varca un confine che lo separa dai riferimenti che aveva costruito per vivere al meglio. È nudo. Entra in una dimensione di incertezza, fragilità e casualità. Montesquieu ha definito “terribile” l’esercizio della giustizia. Non c’è giustizia certa, prevedibile, al riparo della volubilità di chi la esercita. La giustizia è relativa. È diversa tra paese e paese. Da qualche parte l’omosessualità vale la pena di morte. O la violenza sulle donne è un comportamento ammissibile. Il furto, la corruzione, l’omicidio, sono sottoposti alla moralità delle specifiche storie, culture e diverse tradizioni. Ricordo una frase che mi diceva spesso mio padre, quando entravamo nelle austere e solenni stanze del vecchio palazzo di giustizia a proposito degli imputati: “Vedi una sorta di pietà umana è la premessa di ogni buon avvocato. Perché a me tocca difendere un possibile colpevole che è stato acciuffato. Un possibile colpevole sfortunato, perché fa parte della minoranza che paga per la stragrande maggioranza di colpevoli a cui la giustizia non è stata capace di arrivare”. L’avvocato lo aiuta nel processo, che essendo maneggiato dagli esseri umani porta con sé le loro imperfezioni. Lo deve accompagnare attraverso le tempeste determinate dall’opinione pubblica. Lo deve guidare tra le indagini, gli umori dei magistrati, i ricordi dei testimoni, le estrapolazioni di conversazioni fuori contesto che non potranno mai ricomporre la verità di ciò che è accaduto, ma spicchi di verità che possono alla fine costituire, messi insieme, l’errore giudiziario. Questo accompagnare dell’avvocato è decisivo nel tunnel dell’attesa, della paura, di quella giustizia che può avere degli aspetti anche paradossali descritti nel suo magnifico libro, appunto “Giustizia”, di Dürrenmatt. Dunque, il garantismo, se è questo il quadro, è l’esercizio del dubbio, lo sforzo di rendere il più possibile limpido l’iter processuale, e il più possibile breve la situazione transitoria dove degli esseri umani hanno “sospeso” la loro vita. Per questo è decisivo limitare facili carcerazioni, variegare gli strumenti per scontare la pena, come tentò di fare il ministro Orlando. Riequilibrare la lunghissima fase delle indagini con il contraddittorio in aula, dove tutte le parti possono far valere le proprie ragioni. Rendere i tempi della prescrizione compatibili ai tempi di vita delle persone e indurre anche l’avvocatura a non utilizzarli in modo furbesco. Non intervenire su questo significa sottoporre i presunti colpevoli ad una procedura torturante. È non è affatto vero che tutto ciò sia una questione minoritaria. Al di là delle leggi, ci sono, tuttavia, regole di condotta che dovrebbero presiedere nella coscienza di tutti i magistrati. Che hanno nelle loro mani, come i medici, la vita degli esseri umani. Ho detto: la consapevolezza del carattere relativo della verità, la possibilità dell’errore, la necessità dell’ascolto di tutte le parti in causa, l’indifferenza, vale a dire l’oggettivazione del caso da affrontare, il carattere specifico, singolare di ogni responsabilità, rifuggendo le caotiche ammucchiate di responsabilità che poi spesso si sgonfiano, il rispetto e la fiducia che si devono suscitare tra tutti i soggetti coinvolti, la riservatezza, il riserbo e la sicura distanza da ogni strumentalizzazione politica. La magistratura italiana ha avuto meriti immensi. Ha difeso la repubblica nei momenti più difficili del suo sviluppo e della sua crescita. Tuttavia, i comportamenti che ho prima accennato non sono generalmente garantiti. Non entro sui tempi, i modi, le reciproche polemiche che attualmente condizionano il dibattito politico su queste questioni decisive. Mi permetto solo di osservare che se la bilancia ancora pende comunque dalla parte della forza inquisitoria, che tutto ciò rappresenta un equilibrio e da me visto con favore. Se la separazione delle carriere è un segnale verso la terzietà del giudizio per me ben venga. Se c’è l’imputato e due giudici è meglio che i giudici non si sommino ma, al contrario, si distinguano. Non due contro uno. Ma uno e uno. E se c’è un modo per evitare che qualche tipo di sentenza sia al riparo, di reciproche convenienze, di scambio di favori, di un clima politicamente intossicato ben venga il superamento delle correnti di potere nella magistratura, affidandosi a altre vie per la costituzione del CSM. Ed evitando che i PM rispondessero al potere politico che in quel momento comandava. Un ultimo pensiero. Non mi piace lo sforzo garantista nel processo e nelle indagini dell’attuale governo, accompagnato da una serie di provvedimenti che inaspriscono le pene, immaginano nuovi profili di reato e limitano le libertà di manifestare ed esprimere le proprie idee. Non mi piace quell’idea che una volta condannato, l’imputato merita l’inferno delle attuali carceri italiane. Su questo non si è fatto nulla, su questo si sono compiuti passi illiberali. La pena detentiva è già il massimo che un essere umano possa sopportare. È giusta se corrisponde ad un reato. La pena detentiva è l’imposizione di un periodo più o meno lungo di “non vita”. Cosa ci deve essere di più rispetto a questo. Cosa sono le celle sovraffollate e fredde o terribilmente calde? I servizi igienici indecenti, i topi e le blatte, la noia forzata che porta a tanti suicidi? Sembra a me il modo di concentrare sugli emarginati e i deboli del mondo, tutto il marcio che cammina, invece, regolarmente e indisturbato nelle società in cui viviamo. Ecco, la giustizia e le carceri sono lo specchio della civiltà di un popolo. La misurano. La politica, la magistratura, l’avvocatura, si comportino all’altezza di questa enorme responsabilità. Cultura della giurisdizione, controllo di legalità di Pietro Di Muccio de Quattro L’Opinione, 27 settembre 2025 La riforma della magistratura (carriere separate di giudici e pubblici ministeri, due Consigli superiori diversamente formati, Alta Corte disciplinare) sta per compiere l’ultimo passo parlamentare. In primavera gli elettori diranno sì o no alla revisione della Costituzione. Politici e magistrati non sono su fronti contrapposti. L’opposizione sta con i magistrati. La maggioranza difende la legge voluta dal Governo e approvata in Parlamento. Risentiremo fino alla noia i pro e i contro triti e ritriti dentro le Camere, compresi i due rimasti sullo sfondo, come una piattaforma ideologica sommersa. Nel corso dei decenni della magistratura imperante, l’Associazione nazionale dei magistrati, in documenti ufficiali, convegni, articoli, interviste, ha fatto un uso reiterato di due concetti che, sebbene accattivanti, posseggono quella indeterminata vaghezza che torna comoda pro domo sua ma non pro Iustitia nostra e, anche perciò, non dimostra affatto quel che pretendono i magistrati. Mi riferisco alla cosiddetta “cultura della giurisdizione” e al cosiddetto “controllo di legalità”, due espressioni vuote che suggeriscono più di quanto comunicano. Secondo gli oppositori della riforma, specialmente magistrati, il pubblico ministero separato da colleghi giudici perderebbe quella cultura della giurisdizione che invece contrarrebbe, come un virus benefico, lavorando spalla a spalla, a contatto, con i giudici nella stessa carriera unica. Dunque vengono incardinati (dovrebbe supporsi!) nelle procure della Repubblica i pubblici ministeri vergini, senza quella cultura della giurisdizione che, rettamente intesa, dovrebbero possedere o per natura o per preparazione o, più esattamente, per quel senso del diritto e della giustizia senza il quale è certo che avrebbero sbagliato carriera. Cultura della giurisdizione di cui i magistrati dell’accusa sarebbero a digiuno senza la consuetudine con i giusdicenti. Viene pure da chiedersi, prescindendo dalla ricerca del suo sfuggente significato, se un magistrato dell’accusa debba poi avere la stessa identica cultura della giurisdizione che parrebbe ovvia in ogni magistrato giudicante. Nel processo penale l’accusa è diversa di per sé. Sebbene la legge imponga (imporrebbe) al pubblico ministero di ricercare anche le prove a favore dell’indagato (una stramberia, a ben vedere), sta di fatto che la mentalità che dispiega l’accusatore nella ricerca e valutazione delle prove a carico è sostanzialmente differente da quella imposta dall’etica giuridica e dalla Costituzione al magistrato giudicante nel soppesare le prove sottopostegli dal pubblico ministero. La cultura della giurisdizione, invocata dalla magistratura contro la riforma, non è confacente ma priva di sostanza. È un artificio dialettico assimilabile alla petizione di principio. Seppure l’espressione cultura della giurisdizione avesse un che di allusivo, il controllo di legalità pare una creazione letteraria della magistratura che non trova riscontro nel nostro ordinamento, non perché in esso non vengano esercitati controlli di legalità ma perché non vi esiste un tale potere conferito alla magistratura come attribuzione generale intera e completa. Quando la magistratura pretende di attribuirsi un potere generalizzato di controllo legale degli atti e fatti nell’ordinamento, essa scambia la causa con l’effetto. Le sentenze vengono pronunciate e i provvedimenti vengono emessi dalla magistratura non perché costituiscano frazioni di un preteso controllo generale di legalità. È invece la trama delle sue particolari decisioni che sancisce direttamente la legalità dei comportamenti controllati mentre indirettamente produce l’effetto inintenzionale di realizzare la propensione alla legalità di tutti i comportamenti. Non sussiste lo Stato di diritto perché la magistratura esercita un totale controllo di legalità, ma la magistratura esercita il controllo di legalità perché esiste lo Stato di diritto. È lo Stato di diritto, complessivamente considerato come ordinamento giuridico, che costituisce in senso generale la garanzia della legalità (conformità alla legge) della vita ivi svolgentesi, e della quale garanzia i pronunciamenti dei magistrati sono la parte riguardante le singole controversie. Alla magistratura competono casi individuali, non la complessiva legalità delle condotte dei titolari di funzioni pubbliche e dei privati cittadini. Il controllo di legalità, malamente inteso, sembra evocare una sorta di magistratura über alles, depositaria di una globale competenza soprastante l’assetto ordinamentale. Quasi una supremazia obliquamente rivendicata. In conclusione, cultura della giurisdizione e controllo di legalità, prive di un loro proprio significato specifico, sono espressioni da espungere dalla prossima campagna politica di preparazione al voto referendario, decisivo per la prospettata revisione costituzionale concernente la magistratura. E, se fraintese come argomenti a favore del “no”, diventano pericolose perché fallaci. Quel mostro creato dai media: Bibbiano e la giustizia piegata allo spettacolo di Luigi Manconi e Marica Fantauzzi Il Dubbio, 27 settembre 2025 Un caso giudiziario che diventa show da prima serata: così l’informazione ha reso vano il processo. Il capolavoro dell’ingiustizia è di sembrar giusta senza esserlo. Con questa frase, attribuita a Platone, potrebbe cominciare questo libro. In tutte le epoche, evidentemente, uomini e donne hanno preferito credere a una verità piuttosto che a un’altra: per convenienza, per ignoranza, per vergogna e per timore o per fiducia in credenze ritenute plausibili, si finisce per costruire una realtà parallela, minuziosamente precisa, autentica quasi quanto quella che si lascia alle spalle. Nulla di strano, si dirà. Il mondo può essere talmente crudele da risultare insopportabile e se l’unico rifugio è l’immaginazione, che si trovi riparo lì dove si può. Per tale ragione, la costruzione di una verità storica, ancor prima di quella giudiziaria, è una responsabilità per pochi. I quali, oltre a doverla accertare, verificare e comprovare, la dovranno anche comunicare. E la responsabilità, a quel punto, si ramifica: c’è chi confeziona una verità e chi, comunicandola, decide se accoglierla così com’è, alterarla o metterla in dubbio. Ed è proprio lungo questa articolazione che solitamente prende avvio un processo in grado di anticipare quello giudiziario, che non prevede alcuna garanzia per l’imputato: è il processo mediatico, la gogna massmediale, l’inesorabile costruzione del Mostro. In Italia, la stretta corrispondenza tra la spettacolarizzazione del crimine e l’andamento di un processo giudiziario, ha causato grandi traumi e altrettanto grandi sofferenze, sia private che collettive. E quando al centro di questa spettacolarizzazione si trovano dei bambini, gli effetti sono incalcolabili e i danni spesso irreparabili. Si pensi a quel padre di Limbiate, in provincia di Monza, che nel 1989 portò la figlia, di appena due anni e mezzo, in ospedale perché febbricitante. Dopo l’immediato ricovero la segnalazione al Tribunale dei minorenni e l’accusa a mezzo stampa: l’uomo, così aprirono i giornali, avrebbe reiteratamente abusato di sua figlia. Da lì l’allontanamento del padre e il processo da parte di settori dell’opinione pubblica e del sistema mediatico. Nel frattempo, la procura di Milano chiese una perizia: l’abuso fu smentito. Pochi mesi dopo si scoprirà che la bambina era affetta da un tumore maligno e da lì a poco morirà. Francesco Cossiga, allora Presidente della Repubblica, scriverà alla famiglia: “Sono qui a chiedervi perdono per le ingiuste sofferenze che la terrena limitatezza dell’attività dello Stato vi ha così crudelmente inferto e per i peccati di indifferenza e leggerezza di cui una intera società si è resa colpevole verso di voi”. La realtà, ci insegna quella storia, tende ad essere alterata quando di per sé non prevede colpevoli. La possibile casualità del male se da un lato è complicata da accettare, dall’altro è priva di ulteriori significati, quindi difficile da utilizzare, sia mediaticamente che politicamente. Questo non significa che bisogna accettare le verità così come vengono proposte/ imposte. Significa piuttosto che chi è tenuto a verificarle dovrebbe assumere una postura onesta, ovvero priva di pregiudizi e sempre aperta al dubbio. Questo è ciò che, né più né meno, ha saputo e voluto fare Simona Musco seguendo dall’inizio la vicenda del presunto sistema degli affidi illeciti nella Val d’Enza: capire prima di scrivere, dubitare prima di decretare. E se tutta questa vicenda si potesse leggere attraverso il nome dato all’indagine dalla Procura di Reggio Emilia? E se quel “Angeli e Demoni” offrisse la chiave interpretativa più efficace per cogliere nei cosiddetti “fatti di Bibbiano” alcune robuste tendenze dell’amministrazione della giustizia, dell’orientamento del sistema mediatico e persino della lotta politica, capaci di manipolare profondamente la realtà? Angeli e Demoni (attenzione: demoni, non diavoli) non rivela solo un’idea talmente dicotomica del perimetro del bene e del perimetro del male da risultare inevitabilmente fallace. No, non è solo questa rappresentazione di un mondo della virtù, contrapposto radicalmente a quello del vizio che suona non credibile: c’è qualcosa di più in quel titolo così pesantemente evocativo. Una circolare del Consiglio Superiore della Magistratura del 1996 raccomandava di non ricorrere a termini suggestivi per indicare le inchieste giudiziarie in corso. Il motivo è semplice e quanto mai ragionevole: attraverso parole troppo denotative si contribuisce a formare l’opinione pubblica nei confronti di quelle stesse inchieste. Dunque, ancora quel titolo è evidentemente pericoloso e, alla resa dei conti, manipolatorio. Infatti, Angeli e Demoni richiamano un ambiente, un tempo, una sottocultura assai precisamente connotati: un fosco scenario premoderno, nelle pieghe oscure della bassa padana, dove la civiltà rurale si è industrializzata lasciando tuttavia sacche di arretratezza sociale, ma anche mentale. E dove la cooperazione e il mutualismo convivono con forme esasperate di individualismo e con suggestioni oscurantiste. Così gli Angeli e i Demoni sembrano coerenti con un paesaggio dove si diffondono sette esoteriche e rituali satanici, manipolazione di menti e di coscienze e aggregazioni di potere corporativo. Questo anche perché, del tutto indebitamente, si è voluto creare un collegamento tra l’indagine iniziata nel maggio del 2018 e quella precedente dove rituali necrofili e gruppi satanisti apparivano e scomparivano. Perché ciò è stato possibile? Innanzitutto, perché quegli “angeli” richiamavano un tratto fondamentale del senso comune: l’idea del bambino come bersaglio eterno e ricorrente della malvagità umana e, in specie, di quella nazionale. L’apparato narrativo è amplissimo, le circostanze elencate, i dettagli, la costruzione degli episodi smisurata. Il sistema discorsivo è talmente imponente da mettere, di per sé, gli accusati con le spalle al muro. Il racconto è complesso e ricco di mille episodi, soggetti, interessi e complicità. Eppure, per quanto dettagliato sembri il disegno fornito all’opinione pubblica, la verità giudiziaria ha bisogno di prove reali, che vadano oltre ogni ragionevole dubbio. Ma la vicenda di Bibbiano, come racconta in modo documentato Simona Musco, assumerà contorni che andranno ben oltre il perimetro giudiziario: la pressione mediatica sarà utilizzata, in sede processuale, come cordone sanitario nei confronti degli imputati. E, poi, i leader di partito faranno propaganda elettorale utilizzando le biografie di quei bambini e di quelle famiglie, fino ad auspicare l’allontanamento di altri figli, quelli dei rom: “Mi domando perché quando gli assistenti sociali visitano un campo rom non tolgono loro i bambini. Sono implacabili con chi non riesce a pagare le bollette, mentre con chi educa i bambini a rubare non fanno niente” (Matteo Salvini). Verranno gonfiati i dati, fornite letture inesatte del mondo degli affidi in Italia (assolutamente in linea con la media europea, anzi, ben al di sotto dei picchi di altri paesi), messo sotto accusa l’intero lavoro del Tribunale dei minori e quindi quello degli assistenti sociali, degli psicologi e del sindaco della città. E in tutto questo a scomparire, ancora una volta, è la vittima. Nella forza centripeta di un processo mediatico tutto converge verso il potenziale colpevole: non c’è tempo per la storia di chi è sopravvissuto, non c’è motivo di proteggere chi è già esposto. Serve tutto e subito e se quel tutto appare incoerente non importa, l’essenziale è che sia verosimile. Se quella circolare del Csm che chiedeva cautela nel dare un nome ai fascicoli fosse stata accolta dalla Procura di Reggio Emilia, non chiamando “Angeli e Demoni” l’indagine su quanto sarebbe accaduto a Bibbiano, probabilmente nulla sarebbe cambiato. Eppure, quel nome appunto seducente un qualche ruolo l’ha avuto nella costruzione di un immaginario comune. Un nome che si è insinuato nel linguaggio politico e mediatico e che ha finito per consegnare una realtà privata delle sue sfumature, semplificata e resa irrimediabilmente binaria. Ma come sappiamo oggi, anche grazie al lavoro dell’autrice di questo libro, la realtà, come la giustizia, non appartiene né ai buoni né ai cattivi. P.S. Nell’inaudito florilegio di dichiarazioni pubbliche spiccano, per la loro brutalità, in particolare due. Giorgia Meloni: “Un po’ come nelle favole ci sono gli orchi che mangiano i bambini, qui pare che ci fossero degli orchi che rubavano i bambini per mangiarci sopra”. Luigi Di Maio, allora leader del Movimento 5 Stelle (rivolgendosi al Partito democratico): “Mai con il partito di Bibbiano”. Dio, come sarebbe bello sentirli pronunciare delle scuse. Un buco nero nel cuore dell’Emilia rossa: quando i titoli diventarono sentenza di Simona Musco Il Dubbio, 27 settembre 2025 Le redazioni esplodono. I titoli arrivano prima dei fatti. Hanno la forza di un verdetto, l’immediatezza di un pugno in faccia. Dal 28 giugno 2019 i giornali spremono l’ordinanza di custodia cautelare come un limone. Ogni riga interpretata, ogni frase gonfiata. Il processo? Non serve nemmeno. “Finti abusi e lavaggio del cervello per togliere i bambini ai genitori”, scrive il Corriere. “Scariche elettriche sui bimbi”, rincara il Mattino. Nessuna sentenza. Un’indagine appena avviata. Ma la storia è già scritta, il copione già distribuito. Bibbiano, piccolo paese emiliano, diventa una parola oscura, un sinonimo di orrore. I giornalisti inseguono notizie, audio, dettagli. Alimentano il fuoco. “Mostri malati di cupidigia”, “bimbi strappati alle famiglie”, “un affare da cinque miliardi”. Nessun condizionale. Si parla al presente. Si accusa. Si condanna. Poi arrivano le televisioni. Uno Mattina. La Vita in Diretta. I talk serali. Scenografie appositamente studiate per evocare l’angoscia. Il mostro, si lascia intendere, può bussare alla porta di chiunque. Nei salotti tv spuntano sedicenti genitori vittime dei servizi. Nessuno chiede riscontri di quei racconti: sono strappalacrime e tanto basta. Le vittime di questi “mostri” sembrano migliaia. L’inferno è concentrato tutto lì, a Bibbiano. Nessuno ha dubbi. Le immagini scorrono: il municipio, le case famiglia, i volti sfocati degli operatori sociali. Il linguaggio è netto, perfino crudele. Nessuno dubita, nessuno corregge. La macchina del fango corre. In questo clima, la verità non interessa. Conta il racconto. E il racconto vuole eroi e mostri. Bibbiano diventa un totem, un campo di battaglia ideologico. Le magliette con scritto “Parliamo di Bibbiano” spuntano ovunque. Indossarle è un atto di guerra. Gli hashtag popolano feroci la rete. Non c’è luogo in cui non si parli di Bibbiano. E i politici fiutano l’aria. Il vicepremir Luigi Di Maio annuncia una commissione d’inchiesta e attacca frontalmente: “Noi col “partito di Bibbiano”, il partito che toglie i bambini alle famiglie con l’elettroshock allo scopo di venderli, non avremo mai a che fare”. Giorgia Meloni, leader dell’unico partito di opposizione, promette: “Ripareremo noi i danni della sinistra”. E si fa immortalare sotto il cartello di Bibbiano: “Siamo stati i primi ad arrivare e saremo gli ultimi ad andarcene”. L’altro vicepremier, Matteo Salvini, chiede pene durissime. Le parole rimbalzano, si amplificano, diventano slogan. Perché le elezioni regionali sono alle porte e conquistare l’Emilia Romagna significa espugnare la roccaforte rossa d’Italia. Nel giro di pochi giorni, un’indagine diventa un caso morale. Poi mediatico. Poi politico. Ogni prudenza è complicità. Ogni invito a tacere, una confessione. Tutti parlano. Tutti sanno. Tutti sentenziano. Anche chi non c’entra. Laura Pausini, sui social, scrive: “Sono senza parole, senza fiato, piena di rabbia nei miei pugni, mi sento incazzata fragile impotente... Questa notizia è uno scandalo per il nostro Paese... Se avete un figlio pensate che improvvisamente una persona, della quale potreste anche fidarvi, fa un lavoro psicologico tanto grave da portarveli via. Come si rimedia adesso nella testa e nei cuori e nell’anima di queste persone? Ma vogliamo fare qualcosa?”. Trentottomila like. Settemila commenti. Tutti indignati. Anche Nek scrive: “Penso a mia figlia e alla possibilità che mi venga sottratta senza reali motivazioni solo per abuso di potere e interesse economico... Ci sono famiglie distrutte, vite rovinate per sempre. E non se ne parla. Ci vuole giustizia!”. Nessuno ne parla, urlano indignati. Ma sui giornali e in televisione non si parla d’altro. E chi chiede cautela pare difendere i colpevoli. E allora anche Ornella Vanoni dice la sua: “È mostruoso ciò che è accaduto a Bibbiano. Questi bambini hanno perso l’infanzia... Non sono pupazzi che si possono spostare da una famiglia all’altra. Queste persone dovrebbero andare in galera senza processo”. Senza processo. È esattamente quello che chiede l’opinione pubblica. Un patibolo pronto in piazza. Nessuna attesa. Solo la gogna. A nessuno importa più se quei bambini sono stati salvati o strappati. Se ci sono responsabilità o solo errori. Se l’indagine è fondata o no. E questo, in uno Stato di diritto, non dovrebbe essere possibile. Lo so, penso, sono parole che si dicono spesso. Trite e ritrite. Slogan, come quelli dei politici in piazza. Ma stavolta è diverso. Stavolta persino i giornali più prudenti, quelli che si dichiarano garantisti, attaccano. Nessuno difende la presunzione d’innocenza. E mentre tutto intorno si muove a velocità vertiginosa, sento che sto per imboccare una strada stretta, scomoda. Forse senza uscita. Ma sento anche che è l’unica che posso prendere. Il dolore della mia vita passata di Cesare Battisti L’Unità, 27 settembre 2025 L’illusione di cambiare il mondo con il fragore delle armi e l’arroganza del diritto di vita e di morte sulle persone. Ritrovarsi in una cella tanto tempo dopo a ricordare fatti e malfatti successi mezzo secolo prima, rianimare il contesto che li ha generati e risentire gli umori e le speranze che li hanno accompagnati. Fare questo sforzo di memoria senza cedere alla tentazione di piegare gli avvenimenti a propria convenienza è una lotta che mi fa trascurare perfino il carcere. I suoi deleteri effetti, con l’addio interminabile alla vita e il tormento dei familiari, che stanno fuori ad aspettare e non potranno mai capire il prezzo che stanno pagando per un debito contratto in un passato che loro non hanno mai vissuto. Non c’è una lingua per dire la sofferenza di chi a sua volta ha fatto soffrire. Pretendere, invano, ricordare sé stesso con la distanza di uno sconosciuto, non mi eviterà di cadere in un vittimismo paradossale e, comunque, le mie parole non scalfiranno il corso di una storia già avvelenata e archiviata. È difficile rievocare il passato quando i legami con la libertà, che in prigione non servono ad altro che a far soffrire, sono stati relegati in un cassetto del quale non si possiede più la chiave. Non voglio dire che si riesca sempre, a fingere di dimenticare, tanto basta una parola, un gesto, un’espressione, un accenno musicale che fluttua nell’aria a sballottarci da un capo all’altro della nostra vita. E poi, con il tempo, in carcere si impara a immagazzinare i ricordi che ingombrano, è questione di allenamento, di atroci forzature. La decisione di forzare il cassetto dei ricordi non è stata presa alla leggera. Non ho ubbidito a nessun impulso creativo, nessuna necessità impellente di sedersi a tavolino per scrivere una storia nuova. È stato qualcos’altro che mi ha obbligato a farlo, un groviglio di emozioni altrettanto forti ma diverse da quelle che ho già sentito correre sul filo di un romanzo. C’è dietro a questo travaglio una ragione che mi sfugge perché non mi appartiene, non sono stato io a decidere, a maturarla. Lo faccio e ciò che ne traggo non è il godimento per l’opera compiuta, obbedisco a un sentimento che mi fa sentire dentro un’altra persona. Scrivere, bene o male, serve a scoprire una parte di sé stesso, ma che piacere potrei trarre dallo scoprire che quello che ho fatto coincide solo in parte con chi realmente sono e che rimarrà sempre il lato oscuro. Detto così, sembrerebbe un’ovvietà, ma questo è quanto di più palese viene fuori al ripercorrere il cammino inverso di ciò che sono stato. Volevamo cambiare il mondo e per questo ci siamo arrogati il diritto di vita e di morte sulle persone. Sembrava radicalmente onesto, fondamentale, ma adesso, una riga dopo l’altra, scopro che non era nemmeno necessario conoscerci a fondo e investirci interamente per credere a quello che abbiamo fatto. Bastava quella parte di noi rivolta alla politica, alla pubblica approvazione, avere un sentimento di appartenenza con il mondo in movimento era sufficiente. Andavamo incontro alla nostra fine e lo facevamo perché credevamo che dovesse essere fatto, era la fede nella lotta, credevamo alle sue virtù. Ci ha creduto fino alla morte il mio caro amico e fratello Roberto e con lui le donne e gli uomini con i quali ci riunivamo nel suo appartamento di ringhiera di quella via annerita dalla miseria, affianco alla stazione Centrale di Milano. Ho la certezza che ci credessero anche i nostri vicini del Meridione con i quali, oltre allo stesso bagno sulla ringhiera, condividevamo ammiccamenti, musica e qualche piatto di pasta al sugo la domenica. Ci ho creduto e ci credo ancora, non più al fragore delle armi, che mi hanno sempre e solo visto correre, ma all’umanità che ritrovavo in loro compagnia e che nella clandestinità mi faceva sentire più vicino a casa, con i miei. Erano innanzitutto uomini e donne, eravamo i giovani che invece di mordere la Mela destinata ai pochi ne volevamo fare una piantagione per offrirla a tutti. Ha funzionato per un po’, ma è costato caro, quasi a tutti. Abbreviato, anche se già indagato valide le dichiarazioni rese come persona informata sui fatti di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2025 La Cassazione, sentenza n. 32019 depositata oggi, ha chiarito che l’inutilizzabilità riguarda solo violazioni di regole di rango costituzionale o sovranazionale. Nel giudizio abbreviato, non sono rilevabili le inutilizzabilità derivanti da violazioni delle regole di acquisizione della prova, salvo che si tratti di divieti probatori espressivi di principi o disposizioni costituzionali o sovranazionali. Ne consegue che sono utilizzabili, anche contra alios, le dichiarazioni rese da persona sentita come informata sui fatti, benché già gravata da indizi di reità e dunque da assumere quale indagato. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 32019 depositata oggi, respingendo il ricorso dell’imputato condannato per false dichiarazioni fiscali, attraverso l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, al fine di far figurare elementi passivi fittizi. Secondo il ricorrente le dichiarazioni di uno dei due accusatori, e coimputato, sarebbero inutilizzabili perché rese alla Guardia di Finanza senza le garanzie previste per l’interrogatorio dell’indagato, sebbene fossero già emersi elementi indizianti a suo carico. Esse sarebbero dunque affette da inutilizzabilità patologica, perché la violazione dell’art. 63, co. 2, Cpp dà luogo a una inutilizzabilità assoluta, integrante la violazione di un divieto probatorio, come tale rilevante anche nel giudizio abbreviato, rilevabile in ogni stato e grado del giudizio. Per la Terza sezione penale, tuttavia, una simile affermazione non si confronta con il comma 6-bis dell’art. 438 Cpp (aggiunto dall’art. 1, co. 43, L. n. 103/2017), che dispone: “La richiesta di giudizio abbreviato proposta nell’udienza preliminare determina la sanatoria delle nullità, e la non rilevabilità delle inutilizzabilità, salve quelle derivanti dalla violazione di un divieto probatorio…”. Il tema allora attiene alla individuazione della categoria delle “inutilizzabilità derivanti dalla violazione di un divieto probatorio”. Secondo i giudici dall’area delle inutilizzabilità rilevabili nel giudizio abbreviato “sono da escludere quelle derivanti da violazioni di regole relative al procedimento acquisitivo dell’elemento istruttorio”, “salvo si tratti di violazioni di regole espressive di un principio o di una disposizione costituzionale o sovranazionale”. E allora, devono ritenersi “alla stessa area estranee anche le inutilizzabilità concernenti le dichiarazioni rese a carico di terzi da persona escussa in fase di indagini dalla polizia giudiziaria perché sentita in qualità di persona informata sui fatti, invece che in veste di persona indagata”. Infatti, prosegue il ragionamento, le dichiarazioni rese durante le indagini in qualità di persona informata sui fatti, e che, invece, avrebbe dovuto essere sentita in veste di indagato “sono assunte in violazione non di una regola di esclusione, bensì di una regola che disciplina le modalità di assunzione dell’elemento istruttorio”. E, continua la Cassazione, questa regola “non sembra potersi dire espressione di principi o disposizioni costituzionali o sovranazionali, perché non attiene direttamente nemmeno al diritto di difesa dell’indagato o dell’imputato, restando il medesimo del tutto estraneo all’atto di assunzione delle informazioni dal terzo ad opera della polizia giudiziaria”. Roma. Il carcere in Comune. I detenuti: “Siamo cittadini anche noi” di Luigi Manconi e Federica Delogu La Repubblica, 27 settembre 2025 Dopo oltre 20 anni dall’ultima volta l’assemblea Capitolina si è riunita tra le mura di Rebibbia: “Le carceri diventino il sedicesimo municipio”. Sette ordini del giorno approvati all’unanimità. Martedì 23 settembre l’Assemblea Capitolina, ovvero il consiglio comunale di Roma Capitale, si è riunita dentro le mura del carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. Erano presenti trentanove consiglieri tra maggioranza e opposizione, il sindaco Roberto Gualtieri, la Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, la presidente del Tribunale di sorveglianza, la direttrice dell’istituto. Ma erano presenti soprattutto tre delegazioni di persone detenute: una da Rebibbia Nuovo Complesso, una dall’istituto femminile e una dall’altro carcere romano, Regina Coeli. L’ultima volta che il consiglio comunale di Roma era entrato nell’istituto era il 2002 e ci è tornato, a distanza di oltre vent’anni, nei mesi in cui si sono verificati tre suicidi a distanza di poche settimane: due nel Nuovo Complesso e uno nel carcere femminile. Certamente i poteri dell’Assemblea capitolina non consentono interventi risolutivi negli istituti penitenziari, ma la presenza dell’istituzione di prossimità dentro un luogo che soffre di invisibilità cronica non è solo un messaggio simbolico. Potrebbe anche avere l’effetto di indurre l’istituzione a interrogarsi sulla quotidianità detentiva e i suoi problemi, e ascoltare la voce delle persone recluse, che martedì hanno preso parola per intervenire nel merito degli ordini del giorno presentati e votati. Dalla drammatica carenza di personale sanitario e di scorte di polizia penitenziaria per l’accompagnamento alle visite mediche, fino all’affettività e le difficoltà dell’uscita: si è assistito a un confronto e un dialogo da cui sono emerse le criticità di ogni giorno, difficili da immaginare fuori e completamente estranee al dibattito pubblico. L’ex sindaco di Roma Gianni Alemanno, oggi detenuto nel carcere di Rebibbia e che in più occasioni nei mesi scorsi ha denunciato lo scarso interesse da parte della politica sulle condizioni detentive, ha dichiarato nel suo intervento che la scelta dell’Assemblea capitolina ha “riammesso” i detenuti nella comunità cittadina. Perché, ha ribadito Alemanno, “etiam nos cives Romani sumus - anche noi siamo cittadini romani”. Tra le novità previste dagli ordini del giorno un orto urbano dentro il carcere per “vincere il grande nemico: l’ozio”, come ha sostenuto Alemanno, e per riconnettersi con la natura, ma anche trasparenza sui dati sanitari con monitoraggio da parte dell’Assemblea, la realizzazione di spazi sportivi, un’attenzione al lavoro intramurario, il miglioramento del servizio di trasporto pubblico per le famiglie che si recano ogni settimana al colloquio. Perché i colloqui sono “il raccordo” con il mondo fuori, come ha sostenuto Clizia Forte, detenuta nell’istituto femminile di Rebibbia “Germana Stefanini”. “Questo non è un ambiente a misura di bambini - ha detto Forte - Servirebbero attività per rendere i bambini gioiosi di venire a incontrare la mamma o la nonna. Per non far gravare il peso della nostra pena su chi amiamo di più”. E, ancora, va affrontata la questione cruciale dello stigma che, per esempio, crea grandi difficoltà nella ricerca di un alloggio per tornare nella società libera “perché nessuno vuole affittare la casa a chi è stato in carcere, come ha raccontato una donna detenuta. In conclusione l’Assemblea ha approvato un ordine del giorno per “considerare d’ora in poi Rebibbia nuovo complesso e gli altri istituti di pena insistenti sul territorio capitolino come il Sedicesimo municipio della città, cui rivolgere sistematicamente i propri servizi e supporti”, come si legge nel testo presentato dalle consigliere Cristina Michetelli, promotrice dell’iniziativa, e Valeria Baglio. Perché non resti un gesto estemporaneo ma si traduca in un’attenzione costante. “Vorremmo che tutte le amministrazioni entrino in carcere” ha detto in conclusione Michetelli “per vedere le condizioni, ma anche per decidere da qua le politiche sociali”. Roma. Carceri romane? Il XVI Municipio. I detenuti denunciano i diritti negati di Cristina Michetelli* L’Unità, 27 settembre 2025 Tra i temi illustrati direttamente dalle persone ristrette all’Assemblea Capitolina a Rebibbia Sport, casa, formazione-lavoro, senza mai dimenticare il dramma del sovraffollamento. Una seduta emozionante quella dell’Assemblea Capitolina tenutasi a Rebibbia. Un consiglio straordinario da fortemente voluto e sul quale sono stati coinvolti, con l’aiuto della Presidente Svetlana Celli ed il supporto della Garante dei detenuti romana Valentina Calderone, tutta l’Aula Giulio Cesare. Dopo diversi incontri tra consiglieri capitolini e detenuti di Rebibbia Nuovo Complesso e Rebibbia Femminile, sono stati prodotti sei ordini del giorno, illustrati anche direttamente dalle persone ristrette, sul valore dello Sport, sul problema della casa per chi debba ricominciare fuori, sui progetti di formazione e lavoro, sull’esigenza pratica di più mezzi pubblici da e per Rebibbia, di pensiline e case dell’acqua e, ancora, sulla drammaticità delle condizioni sanitarie e di cura e sul diritto all’affettività, tuttora negato. È stato approvato all’unanimità anche il settimo odg, che denunciava le condizioni drammatiche degli istituti di pena di Roma e di tutto il sistema carcere del Paese. Dal sovraffollamento al dramma dei suicidi, dalla fatiscenza delle strutture alla mancanza di spazi per i percorsi di recupero e reinserimento. La Magistratura di Sorveglianza è insufficiente per le centinaia di migliaia di istanze provenienti da persone la cui vita rimane sospesa per anni. Davanti ad una delegazione di ragazzi provenienti da Casal del Marmo, sono state rilevate anche le gravi disfunzioni delle carceri minorili, che oggi vedono un aumento del 50% dei giovani detenuti per effetto del Decreto Caivano. Sono state prese in considerazione anche le condizioni del personale che lavora dentro agli istituti di pena, come gli Agenti di polizia penitenziaria e le educatrici, figure centrali ma che scontano un grave sotto organico, con turni di lavoro massacranti. A fronte di tutto ciò, sono state chieste a Governo e Regione Lazio più risorse umane e finanziarie. Basta quindi con riforme a costo zero, quelle di più reati e più pene, che sul sistema carcerario hanno effetti devastanti. È stato anche chiesto di considerare le carceri romane come il sedicesimo municipio della Capitale, bisognoso di servizi e supporti come gli altri territori, oltre che di modificare l’art. 67 OP, per consentire anche a sindaci e consiglieri comunali di recarsi più facilmente nelle carceri, sperando che altre amministrazioni seguano il nostro esempio per migliorare le politiche sociali a favore di chi ha sbagliato. Solo così si possono produrre meno recidiva e più inclusione e sicurezza. In conclusione i saluti: ringraziate tutte le Autorità presenti, in particolare la Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Roma, Dott.ssa Finiti, la Camera penale, presente con l’Avv. Giuseppe Belcastro e il COA di Roma rappresentato dall’Avv. Vincenzo Comi. Riportare le carceri al centro del dibattito romano abbatte i muri che separano il dentro e il fuori e, con la partecipazione attiva al Consiglio capitolino, si è restituito cittadinanza alle persone private della libertà in carcere. Roma Capitale continuerà a lavorare per realizzare gli impegni presi e continuerà il percorso con i detenuti. Si può anche sbagliare, ma noi abbiamo il dovere di offrire i supporti migliori. Nessuno si salva da solo. *Consigliera Assemblea Capitolina, Direzione Nazionale Pd Roma. Parla il detenuto torturato a Regina Coeli: “Unghie staccate, mi hanno quasi cavato l’occhio” di Gabriel Bernard fanpage.it, 27 settembre 2025 Legato, picchiato, seviziato a Regina Coeli per essersi rifiutato di nascondere un cellulare. Le torture sono andate avanti per due giorni, in cui gli hanno fatto saltare le unghie e affossato un occhio. Nessun agente della polizia penitenziaria si sarebbe accorto dell’accaduto. “Lo Stato mi ha abbandonato, speravo di vedere una divisa, e invece ero solo”. “Ho ancora gli incubi. Nessuno si è accorto che in quella cella volevano ammazzarmi”. I demoni tornano ogni notte come un’eco: le ombre di quegli uomini che lo hanno seviziato per due giorni. Simone (nome di fantasia, ndr) è un uomo di quarant’anni finito in carcere a Regina Coeli per un reato minore. Quello che avrebbe dovuto essere un passaggio rapido - una misura cautelare, qualche giorno di attesa - si è trasformato in un inferno dentro le mura del carcere di Regina Coeli. Simone è infatti stato torturato per due giorni da altri detenuti che si sono definiti senza mezzi termini ‘i padroni del carcere’. Botte, soprusi, umiliazioni: tutto per essersi rifiutato di nascondere un cellulare. Lo hanno picchiato in uno spazio angusto, legato a un letto, gli hanno strappato un’unghia e sfregiato l’occhio. Dopo la denuncia, nella sua stessa sezione gli agenti hanno sequestrato telefoni, droga e armi rudimentali. In quei due giorni Simone non è stato solo torturato: i suoi aguzzini hanno chiamato i suoi affetti per chiedere denaro. Non era solo violenza fisica: era un’estorsione, un ricatto gestito con tranquillità all’interno di un carcere. Tutto questo, racconta la vittima, sotto lo sguardo assente dello Stato che avrebbe dovuto proteggerlo. Sembra assurdo, ma in due giorni pare che nessun agente della polizia penitenziaria si sia accorto di quanto stava avvenendo all’interno di quella cella. Simone ha deciso di raccontare il suo calvario, in maniera anonima, a Fanpage.it: il dolore, la paura, la rabbia e il senso di impotenza durante quelle ore infernali in cella. “Ero in un carcere, nelle mani dello Stato e nessuno si è accorto di quello che stava accadendo. Ho deciso di denunciare, insieme all’avvocato penalista Marco Valerio Verni, perché nessun detenuto soffra quello che ho dovuto subire io”. E, ad agosto, racconta agli investigatori della presenza di una pistola. Lei è entrato nel carcere di Regina Coeli i primi giorni di luglio. Il portone si è chiuso dietro alle sue spalle. Quali sono stati i suoi primi pensieri? Non sarei dovuto restare molto tempo, sono entrato in misura cautelare, e mi aspettavo di essere nella settima sezione, quella di transito. Invece dove è finito? Nella terza sezione, quella per i detenuti comuni. Sembrava un film: gente che sbatteva alle porte, grida, caos. Il clima era questo, poi è arrivato quel dannato venerdì. Cosa è successo? Tre persone mi hanno raggiunto in cella per chiedermi di nascondere un cellulare nell’armadietto. Ero contrario. Rispettoso delle regole? Sarei rimasto poco e non volevo mettermi in queste situazioni. Quando gli ho detto che non l’avrei fatto la loro risposta è stata: “Questa non è una domanda. Qui comandiamo noi”. Poi è iniziato il pestaggio. Ma in cella? Sì. Ero chiuso con loro in due metri quadrati e mi hanno rifilato un pugno dopo l’altro. Ricordo bene la voce di uno dei tre uomini. Aveva rovistato nel mio cassetto dove conservavo un biglietto con i numeri dei miei cari. Hanno preso un telefono e li hanno chiamati per chiedere dei soldi. Chi hanno contattato? Mia madre. E pensare che lei credeva che fossi al sicuro. Ero in un carcere, affidato allo Stato, di certo non poteva credere che qualcuno stesse cercando di estorcerle dei soldi da lì dentro. Si è rifiutata? Certo. Pensava a un raggiro. A quel punto hanno chiamato una mia amica e lei ha ceduto. Le hanno inviato l’iban di una PostePay da ricaricare e lei ha mandato centocinquanta euro. Ma ai miei aguzzini non è bastato, così hanno rilanciato chiedendo altri soldi. Hanno ricevuto un no come risposta e hanno iniziato a torturarmi. Può ripercorrere con noi quei momenti? Ho ancora gli incubi, quei demoni mi svegliano la notte. Sono stato legato al letto, mi hanno staccato un’unghia e affossato l’occhio destro. Vedo ancora delle ombre, la vista non si è ancora ripresa. Poi mi hanno ferito dietro le gambe, credo con un coltellino di fortuna, e il mio letto si è impregnato di sangue. Questo inferno è durato due giorni. Due giorni in cui ho sentito che lo Stato mi aveva abbandonato in una cella con i miei aguzzini. Non è intervenuto nessuno? No. Nessuno. In quei giorni ho sperato di vedere una divisa, un agente che venisse a fare la conta, un’infermiera che passasse a portare la tachipirina. Ma così non è stato. Mi hanno lasciato lì da solo a subire il primo pestaggio, il secondo, il terzo, il quarto. Cosa le ha dato la forza di resistere? Ciò che c’era fuori, dovevo salvarmi, volevo vivere. Come è riuscito a liberarsi? Sabato hanno cercato di sedarmi con una pastiglia, ma non l’ho ingoiata e ho finto di dormire per tutta la notte, nonostante il dolore lancinante. Quella notte hanno discusso sulla fine che avrei dovuto fare, parlavano di come inscenare il mio suicidio: soffocandomi con un cuscino o tagliandomi le vene. E ci hanno anche provato. Poi uno di loro ha avuto il dubbio che il finto suicidio non funzionasse. Un rimorso di coscienza? No, questioni logistiche. Il più scettico si è chiesto: “Chi s’accolla il morto?”. Un altro ha risposto che poteva farlo lui perché aveva sedici anni da scontare lì dentro e così hanno aspettato tutta la notte. Domenica mattina qualcosa è cambiato? Ho sentito un giro di chiavi e sono riuscito a trovare la forza per ribellarmi. Fisicamente ero esausto, ma ho capito che quella era l’unica possibilità di salvezza. Ero sulla terza brandina in alto del letto a castello, mi sono lanciato giù, ho visto un agente penitenziario, ma sono scappato via. Ho raggiunto l’infermeria, l’unico posto dove pensavo di essere al sicuro. L’agente l’ha rincorsa? Non credo. L’ho sentito chiudere la porta della cella. A quel punto è stato portato al pronto soccorso? All’ospedale sono stato trasferito solo due giorni dopo e i medici mi hanno dato venticinque giorni di prognosi. Lei è stato punito per essersi rifiutato di nascondere un cellulare. E dopo la sua denuncia, a Regina Coeli nella sezione in cui lei era recluso. hanno sequestrato venti telefoni, droga e armi rudimentali. Come funziona il traffico? Io avrò contato dodici telefoni, poi la droga, le armi con cui mi hanno ferito. E i detenuti parlavano di una pistola presente a Rebibbia, che forse sarebbe potuta arrivare da noi. Tutto questo aveva un prezzo: lo smartphone costava millecinquecento euro. Ci si parlava da un carcere all’altro? C’era uno scambio continuo di informazioni con i cellulari. Come avveniva? Credo che i telefoni, così come la droga, venissero lanciati in cortile durante l’ora d’aria da qualcuno al di là del muro. In quel momento nessuno controlla, in fondo io sono rimasto bloccato in stanza per quarantotto ore e nessuno si è mai accorto della mia assenza. Ma i poliziotti non fanno l’appello? Ad ogni turno-mattina, pomeriggio, notte, sono sei conte al giorno. E nessuno si è mai accorto che lei non c’era? Ero legato al letto, ma avrei avuto per ben quattordici volte la possibilità di incrociare un agente. Purtroppo nella mia cella non è mai venuto nessuno. Si limitavano a passare nel corridoio e si accontentavano dei detenuti che rispondevano “Qui tutto ok”, senza nessun controllo visivo. Avrei potuto essere evaso e invece ero sanguinante, immobilizzato sul letto. Ha ancora fiducia nello Stato? Sì, voglio fidarmi. Credo che ci sia una parte che non abbassa la testa davanti a ingiustizie simili. E sa perché lo faccio? Mi dica... Perché non voglio che qualcun altro debba subire quello che ho subito io, perché un Paese si valuta anche dalle condizioni carcerarie e io voglio credere in un’Italia che a un certo punto deciderà di pensare ai detenuti. La criminalità non può comandare all’interno di un istituto penitenziaria. Nessuno può mettersi al di sopra della legge nel luogo in cui più di tutti lo Stato è chiamato a far vedere la sua presenza. Modena. Suicidi in carcere, De Fazio: “Noi Garanti ci sentiamo impotenti” tvqui.it, 27 settembre 2025 Il suicidio del 24enne marocchino ha riacceso i riflettori sulla situazione carceraria a Modena. Il sovraffollamento, la mancanza di strutture adeguate e la carenza di personale a tutti i livelli, secondo la Professoressa Laura De Fazio garante per i diritti ai detenuti, rendono difficile la prevenzione degli episodi suicidari. La vita all’interno del carcere resta insostenibile per molte, troppe persone. Cinque detenuti si sono tolti la vita all’interno del Sant’Anna dall’inizio dell’anno. Le indagini sono in corso per stabilire l’esatta dinamica che ha portato alla morte dell’ultimo giovane, un imputato marocchino di 24 anni. Il giorno successivo all’evento, la garante dei detenuti per il Comune di Modena, la Professoressa Giovanna Laura De Fazio ha fatto visita alla struttura. Per il giovane risultava essere stato attivato il regolare protocollo di accoglienza, con la valutazione del rischio suicidario, ma questo non è bastato per evitare il tragico epilogo. Una situazione che, dice la Professoressa, lascia un senso di impotenza. La fotografia del carcere di Modena è similare a quella di tutti gli istituti penitenziari italiani, e i problemi sono ormai noti, ma ancora non risolti. La Professoressa De Fazio sottolinea come non solo il sovraffollamento, ma anche la mancanza di strutture adeguate e la carenza di personale a tutti i livelli, concorrono a rendere difficile la prevenzione degli episodi suicidari Venezia. “Picchiato in carcere”. Processo per 4 agenti, assolto il medico di Alberto Zorzi Corriere del Veneto, 27 settembre 2025 Il 23enne, trasferito nel carcere di Verona, si suicidò. La difesa: furono aggrediti. Sarà un processo in aula, dopo l’audizione dei testimoni, a stabilire se il 24enne romeno Robert R., all’epoca detenuto, sia stato massacrato di botte da quattro agenti penitenziari del carcere di Santa Maria Maggiore, come sostiene l’accusa del pm Andrea Petroni; oppure se invece - come replica la difesa - sia stato solo “contenuto” dopo averli aggrediti. Così ha deciso il gup Benedetta Vitolo che ieri ha rinviato a giudizio i quattro, come aveva richiesto la procura che li accusava di lesioni e falso. Il giudice allo stesso tempo ha invece assolto il medico del carcere che era accusato solo di falso: il suo legale, l’avvocato Marco Vianello, è riuscito a convincere il magistrato che il suo cliente si era comportato correttamente e che non era sua intenzione “coprire” le eventuali botte degli agenti. Per lui il pm aveva chiesto la condanna a un anno e mezzo. La vicenda risale al 19 febbraio 2024 e la prima parte è stata ripresa dalle telecamere interne. Si vede il giovane che viene fatto uscire dalla sua cella e però invece di seguire le guardie carcerarie corre nella direzione opposta, finché arriva davanti alla porta di uno degli uffici degli agenti. Lì viene fermato da un altro poliziotto che era dentro, poi arrivano anche gli altri e dai gesti si capisce che gli chiedono che cosa volesse fare. Lui li affronta a muso duro e parte un pugno. A quel punto gli agenti lo spingono dentro nella stanza e lì, per l’accusa, l’avrebbero picchiato per una ventina di minuti. Il giorno dopo, com’era già previsto, il giovane era stato trasferito nel carcere di Montorio Veronese, dove il medico, vedendo le ecchimosi, l’aveva subito inviato in ospedale: era stata riscontrata la lesione alla milza che poi avrebbe portato all’intervento di asportazione 48 ore dopo. Il giovane poi era tornato in cella, ma a dicembre si era impiccato. Per i difensori Mauro Serpico, Francesco Paolo De Simone Policarpo e Martina Pinciroli, in realtà, non c’è stato alcun pestaggio. Ieri hanno depositato una consulenza, firmata dal medico legale Roberto Rondinelli, in cui si afferma che le lesioni riportate dal giovane sono compatibili non solo con un’azione violenta, ma anche con il contenimento di una persona in escandescenza. E che non c’è stata una “frattura” della milza, ma una “lesione splenica” moderata. La difesa aveva chiesto una perizia al gup su questo aspetto, che però ha rimandato la decisione alla collega Alessia Capriuoli, di fronte alla quale si aprirà il processo il prossimo 24 novembre. Quanto al medico, il pm Petroni lo accusava di aver firmato il nulla osta per il trasferimento a Montorio nonostante lo stato di salute. Il difensore ha però dimostrato che quando visitò Robert aveva ematomi e botte, che furono refertati, ma nessun sintomo di lesioni agli organi o emorragie interne. Gli aveva detto di avvisarlo se le sue condizioni fossero peggiorate, così il giorno dopo non si era opposto. Venezia. “Voglio giustizia per il mio Robert: aveva problemi, non doveva stare lì” di Antonella Gasparini Corriere del Veneto, 27 settembre 2025 “Voglio sia fatta giustizia e chiedo che quanto è successo non accada più a nessuno”. A parlare è Anna, mamma di Robert, il 24enne che per la procura è stato picchiato in carcere da quattro agenti. “Sono i documenti a parlare. Robert non poteva stare in carcere, aveva problemi psichici. Prima del pestaggio stavamo chiedendo che venisse trasferito in una struttura di recupero”. Che cosa è successo quel giorno? “Non mi ha chiamato. L’ho sentito solo molte ore dopo il pestaggio. Parlava a malapena, con voce bassissima mi ha detto: “Mamma, aiutami ti prego. Mi hanno picchiato tantissimo. Faccio fatica a respirare, a mangiare. Non mi hanno permesso di telefonare e non mi hanno portato al pronto soccorso”. Gli ho chiesto se avesse fatto qualcosa. “Ti giuro, non ho fatto niente”, mi ha risposto. Qualche schiaffo era già successo, mai però era stato riempito di botte”. Poi il trasferimento a Verona, l’intervento... “Quella sera sono stata chiamata dal carcere di Verona: “Suo figlio è qui, abbiamo visto la situazione e l’abbiamo mandato all’ospedale”. Aveva una rottura della milza, lesioni, fratture. È andato in Terapia intensiva. Non doveva succedere. Robert era stato affidato alle guardie, invece di pestarlo dovevano sorvegliarlo. Ci sono tanti modi per punire un detenuto indisciplinato. Si poteva denunciare o aggiungere mesi alla condanna. Non di certo ridurlo così”. Il medico è stato assolto. Cosa pensa? “Non sono un giudice, né un avvocato, ma penso che sapesse quello che era successo a Robert. Parliamo di un professionista con trent’anni di esperienza. Sono delusa. I testimoni hanno detto che si vedeva che Robert era dolorante, stava male, non stava fingendo. E allora perché non è stato portato al pronto soccorso? Perché è stato trasferito al carcere di Verona? Certo doveva pagare per i suoi sbagli, ma andava sorvegliato a maggior ragione, perché mentalmente era instabile”. Invece dieci mesi dopo, sempre in carcere, ha compiuto un gesto estremo... “Quella è l’altra parte della storia di Robert, per cui mi aspetto che chi doveva essere con lui risponda per averlo lasciato da solo”. Brescia. “Nerio Fischione”, la neo Garante dei detenuti boccia il carcere di Federica Pacella Il Giorno, 27 settembre 2025 Nessuno nega il lavoro encomiabile di amministrazione penitenziaria, area trattamentale, area sanitaria, polizia penitenziaria, volontariato. Tuttavia, il sovraffollamento resta un grande problema, soprattutto al ‘Nerio Fischione’ (ex Canton Mombello), che ha un tasso di presenze del 205% rispetto ai posti regolamentari; in Lombardia, peggio fa solo Milano San Vittore (226%), ma sono sopra il 200% anche Busto Arsizio, Lodi e Como. “La prima impressione dopo la prima visita al ‘Nerio Fischione’ è stato durissimo. È noto che la struttura soffre di sovraffollamento e rispecchia l’idea della pena afflittiva - spiega Arianna Carminati, nuova Garante dei diritti delle persone private della libertà personale, audita ieri in Commissione servizi alla persona e sanità - che è ormai superata. Ciò che colpisce, entrando nelle aree di detenzione, non è solo l’inadeguatezza logistica, ma anche constatare che le persone recluse trascorrono gran parte della giornata chiusa in cella. Colpisce anche la condizione delle celle, con servizi igienici inadeguati, materassi consunti su cui il detenuto vive quasi interamente la giornata, muri scostrati. Mancano spazi minima di vivibilità”. Una condizione che “rischia di trasformare la pena in esperienza di pura segregazione, disumana e degradante, ai limiti della tortura. So bene - ha spiegato Carminati - di usare parole pesanti. Da costituzionalista, è una realtà che ci allontana dai principi costituzionali di rieducazione e, prima ancora, di dignità della persona, e che rende difficile qualsiasi percorso di reinserimento”. Anche dentro vincoli esistenti delle condizioni date, la garante sollecita a lavorare comunque per costruire una quotidianità capace di aprire prospettive di futuro. “Dentro e intorno a entrambe i due istituti penitenziari, operano tanti soggetti di grande valore, a partire dall’amministrazione penitenziaria”. Tra i grandi problemi, la difficoltà a trovare un’abitazione, condizione che non permette, a molti detenuti, di accedere a misure alternative, ma grande attenzione è rivolta anche al tema dei figli e delle figlie di detenuti, per i quali sarà avviata una collaborazione col Garante dei diritti dei minori del Comune di Brescia. “Importante anche una maggiore collaborazione di tutti i Comuni - sottolinea l’assessore ai Servizi sociali, Marco Fenaroli - perché la pluralità di presenze richiede un contributo da parte di tutti”. Nuoro. “Nel carcere di Badu ‘e Carros cure negate e diritti violati” sassaritoday.it, 27 settembre 2025 L’Associazione Luca Coscioni raccoglie nuove segnalazioni su negligenze e carenze nell’istituto penitenziario nuorese: dal mancato accesso alle cure odontoiatriche alla sospensione dei contatti familiari. Nuove segnalazioni di criticità emergono dal carcere di Badu e Carros, a Nuoro. L’Associazione Luca Coscioni, che già nei mesi di agosto e settembre aveva ricevuto denunce riguardanti la qualità dell’offerta socio-sanitaria nell’istituto, segnala attraverso il portale di whistleblowing FreedomLeaks.org ulteriori episodi di negligenza amministrativa. Secondo quanto riferito, per mesi a diversi detenuti sarebbero state negate le cure odontoiatriche richieste, con un conseguente peggioramento delle condizioni di salute. Le prestazioni, quando infine garantite dopo gli appelli di avvocati e garante dei detenuti, non sarebbero risultate adeguate al trattamento delle patologie riscontrate. Un altro caso riguarda la sospensione, da parte della direzione del carcere, dell’accesso ai contatti telefonici con i familiari per un detenuto che aveva terminato il periodo di sorveglianza particolare, provvedimento giudicato privo di giustificazioni. Una problematica costante nelle carceri italiane - A queste segnalazioni si aggiunge inoltre la mancata prosecuzione del percorso di studi di almeno una persona ristretta. Queste problematiche, sottolinea l’Associazione Luca Coscioni, si inseriscono in un quadro nazionale già segnato da carenze strutturali, mancanza di adeguati servizi sanitari e condizioni igieniche definite “fortemente degradanti”. Criticità più volte denunciate ma che, a oggi, non avrebbero ancora trovato risposte concrete. Per tali ragioni l’associazione rinnova l’appello alle autorità sanitarie competenti affinché vengano predisposte visite di controllo e garantito il diritto alla salute dei detenuti, avvertendo che in mancanza di interventi sarà avviata una diffida formale nei confronti dell’amministrazione penitenziaria di Badu ‘e Carros. Infine, l’organizzazione ricorda che attraverso il portale report.freedomleaks.org è possibile segnalare in modo sicuro e anonimo eventuali problematiche riscontrate negli istituti penitenziari italiani. Cremona. Dal carcere alla panificazione: la rinascita di un giovane minorenne Francesca Morandi laprovinciacr.it, 27 settembre 2025 Un 17enne tunisino, protagonista di episodi di violenza giovanile, ottiene la messa alla prova e intraprende un percorso educativo in una cooperativa sociale, tra scuola e laboratori, con l’obiettivo di ricostruire la propria vita accanto alla famiglia. “Buongiorno signor giudice, le riassumo brevemente il mio percorso. Sono stato in comunità, ma dopo pochi giorni sono scappato e per questo sono finito in carcere. Dopo l’esperienza del carcere sono tornato in comunità con una testa diversa. Il carcere non è stato bello e mi ha fatto capire che devo cambiare vita… Le mostrerò che sono cambiato. La ringrazio molto per avermi ascoltato”. La lettera è del 19 settembre scorso. Al giudice minorile, Daniela Martino, l’ha scritta un 17enne tunisino, uno dei minori non accompagnati arrivati tempo fa in Italia su un barcone. L’adolescente è uno dei bulli della baby gang arrestata all’alba del 22 novembre di un anno fa nella struttura di via del Giordano nella maxi operazione congiunta di carabinieri e polizia. Oggi, il giudice minorile si è complimentato con lui per il percorso sin qua fatto e con il parere favorevole del pm, gli ha concesso la messa alla prova: frequenterà una scuola e seguirà un progetto nel laboratorio di panificazione di ‘Fratelli tutti’, la cooperativa sociale fondata nel 2021 da don Ettore Musa, cappellano del carcere di Cremona. Le ‘mani in pasta’, l’adolescente ha imparato a metterle in comunità e ora si è detto “felice” di fare “le ricette che ho imparato”. I reati che ha commesso non si giustificano”, puntualizza il suo avvocato Cristina Pugnoli. Da sedicenne, il giovane si è cacciato in una serie di guai, frequentando brutti giri. Al giudice ha detto: “Io ero drogato. Quando vedevo i miei amici violenti aggredire, io mi ci buttavo senza neanche sapere che cosa stesse succedendo”. “È una storia di riscatto”. L’avvocato Pugnoli lo afferma di ritorno dall’udienza. Con sé ha una cartelletta verde. Contiene il carteggio della “storia del riscatto”: le relazioni positive sull’adolescente che vuole ricominciare daccapo. Per sé stesso e per riparare al “dolore” causato ai genitori. È la storia di un giovane che “ha assolutamente compreso il disvalore delle sue azioni, non da subito, però, e si è assunto le sue responsabilità per le sue azioni”. Quando il 22 novembre lo hanno arrestato e portato in comunità, si atteggiava ancora da bullo. Dopo tre giorni, dalla comunità è scappato: è tornato nella struttura di via del Giordano, dai genitori nel frattempo arrivati a Cremona. Da qui, è stato portato al Beccaria di Milano. E qui, ha cominciato a “cambiare la testa”. “Al Beccaria è diventato il punto di riferimento degli altri ragazzini”. L’avvocato Pugnoli racconta il caso di un giovanissimo che per aver combinato qualcosa, era stato messo in isolamento. “Era terrorizzato. Il mio assistito si è offerto volontario per non lasciarlo solo e si è fatto cinque giorni di isolamento”. Nei quattro mesi al Beccaria, “lui si è dato molto da fare, ad esempio dava una mano in cucina, sistemava, puliva senza che glielo chiedessero. Le relazioni sono state tutte positive”. Il 15 aprile di quest’anno, il 17enne è stato riportato in comunità. La lettera al giudice: “Il carcere mi ha fatto capire che devo cambiare vita. Per questo in comunità ho iniziato diversamente e mi sono impegnato fin dall’inizio. Difficoltà ne ho avute, ma le ho superate tutte, grazie agli educatori e all’assistente che mi hanno aiutato. All’inizio di settembre ho iniziato un percorso di panificazione che mi è stato molto utile, mi è piaciuto molto e mi servirà molto, nella vita. Anche in comunità faccio le ricette che ho imparato e mi rende felice fare qualcosa di buono. Ora mi sento pronto per tornare a casa con la mia famiglia e reiniziare una vita nuova. Vorrei continuare la messa alla prova. Da casa con la mia famiglia, sono pronto a seguire tutte le attività e dimostrare che sono cambiato. Sento il bisogno di sperimentare la vita fuori e stare vicino alla mia famiglia. Le mostrerò che sono cambiato. La ringrazio molto per avermi ascoltato”. Il 17enne è “pronto” per il giudice. Oggi ha lasciato la comunità e riabbracciato i suoi genitori. Non vede l’ora di cominciare nel laboratorio di Fratelli tutti. “Se a questi giovani dai gli strumenti, possono integrarsi nel territorio e cambiare - sottolinea l’avvocato -. Il mio assistito si è assunto la responsabilità di tutte le sue azioni, si è scusato, ha voluto personalmente ringraziare il giudice per la chance che gli è stata data; non era scontata”. Nei suoi molti interventi, Cristina Maggia, ex presidente del Tribunale per i minori di Brescia, l’ha sempre sottolineato: “Con i minori la legge ci impone di indagare chi è la ragazza o il ragazzo che ha commesso il reato, qual è la sua storia personale, da quale contesto familiare e socio-culturale proviene. La nostra non è una giustizia buonista, ma ci preme recuperare il minore autore di reato”. “È proprio così - rimarca l’avvocato Pugnoli -. Prima di giudicare, bisogna conoscere la storia. Parliamo di un minore arrivato in Italia non accompagnato. Non è il solo che assisto. Si tratta di ragazzi che non hanno le possibilità dei loro coetanei più fortunati. Deragliare è un attimo. Bisogna recuperarli in tempo. Ci si deve provare. E quando il risultato arriva, è una vittoria”. Varese. Una “Luce Vera” illumina il carcere e fa riflettere sul reinserimento sociale di luca spada varesenews.it, 27 settembre 2025 L’installazione della Varese Design Week apre il dibattito su detenzione e reinserimento sociale. Il carcere di Miogni si è trasformato in un palcoscenico inusuale per la Varese Design Week, ospitando l’installazione “Luce Vera” e un dibattito che ha toccato il cuore del sistema penitenziario italiano: la possibilità di trasformare il tempo di detenzione in un’opportunità di crescita e reinserimento sociale. Nel sottolineare il valore dell’opportunità Carla Santandrea, direttrice di Miogni, ha illustrato come l’istituto stia già percorrendo la strada dell’apertura verso l’esterno. “Ringrazio Varese Design Week per l’opportunità di contatto con l’esterno - ha dichiarato, presentando le iniziative già avviate - Il nostro istituto ha già una importante collaborazione con il Comune per lavori di pubblica utilità, che fino ad ora ha coinvolto circa 30 detenuti, è stato attivato uno sportello con CGIL per il lavoro fuori dal carcere ed abbiamo firmato un protocollo con il prefetto per facilitare la riammissione al lavoro dei detenuti al termine della pena”. Anche il rappresentante del Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria ha offerto una riflessione profonda sul significato stesso della detenzione: “La gabbia può essere momento di riflessione sul reinserimento sociale, una riflessione che può portare benefici a tutti: detenuti, personale, famiglie. Perchè non tutto il tempo della detenzione è tempo inutile. Ma può diventare un tempo dove crescere”. È stata però la testimonianza di Luca Spada, amministratore delegato di Eolo, a portare l’esperienza concreta del reinserimento lavorativo. La sua azienda telefonica e di connessione internet “È nata per risolvere un mio problema di connessione, a Casciago uno dei tanti piccoli comuni penalizzati dal digital divide. Ed è passata da un cliente - io - 700mila”. Per dare impulso a uno dei settori dell’azienda, ha scelto di andare oltre i pregiudizi e rivolgersi a un carcere: “Sono andato al carcere di Bollate con l’idea iniziale di trovare tre operatori di Call center - racconta Spada - ora a Bollate lavorano per noi in 40, e abbiamo replicato l’esperimento anche nel carcere di Vigevano, con altre 10 persone”. Per l’azienda, un vantaggio notevole anche dal punto di vista qualitativo: ““Per chi è in libertà non è il lavoro dei sogni, lo si fa come ripiego, o come primo lavoro quando si è giovani - spiega Spada - Ma per un detenuto che fa sei ore nel call center quella è la parte migliore della giornata, perchè gli permette di relazionarsi, anche se solo al telefono, con decine e decine di persone nuove ogni volta, una sensazione che fa sentire vivi. Per questo tra gli operatori detenuti c’è una grande passione nel lavoro, superiore agli altri operatori”. Spada sottolinea il valore sociale della formazione lavorativa in carcere, che dà una concreta opportunità al detenuto, che ha una vera possibilità di rifarsi una vita una volta uscito, senza correre il rischio di ricadere nel crimine: “La prima cosa che si trova davanti chi esce dal carcere sono i debiti, una rete sociale persa e una formazione lavorativa tutta da rifare. Uscire senza alcun aiuto significa tornare in carcere dopo poco tempo: i dati dicono che il 70% dei detenuti torna in carcere dopo la sua uscita. Ma è impressionante il dato relativo ai detenuti che hanno ricevuto una formazione lavorativa in carcere: tra queste persone la percentuale di recidiva crolla dal 70% al 2%”. Forte del successo ottenuto, Spada annuncia i piani di espansione: “Ora stiamp pensando di replicare lo stesso progetto nel centro e sud Italia. Va detto però che questa è un’operazione che ha bisogno dei alcuni set minimi: innanzitutto degli spazi adatti, poi una cooperativa che gestisca l’attività con i detenuti”. Eolo ha, tra gli “assunti in carcere” anche un lieto fine: “Quando è stato scarcerato dopo 20 anni abbiamo assunto Gianni, che lavorava per noi a Bollate: ora lavora nel call center di Busto Arsizio e forma altri detenuti. È bravissimo, e ogni volta che mi vede piange di gioia”. Una prova che dare una speranza lavorativa già durante il periodo del carcere, aiuta un vero reinserimento sociale, ma non l’unica: durante l’incontro ha preso la parola infatti anche Emanuele, attualmente detenuto ai Miogni, coinvolto nel progetto di lavori all’esterno: “Anch’io sono un esempio di reinserimento. Sono in carcere da 29 anni, dal 2006 ho cambiato rotta, ho fatto un percorso e ora lavoro nel campo della ristorazione”. La sua storia è emblematica: “Ho commesso reati gravissimi, sono stato condannato all’ergastolo, ma in carcere sono cambiato profondamente. Prima vivevo in ambienti criminali e per me le istituzioni erano il nemico, ora mi sento rinato, sono una persona nuova”. Luca Spada, nel raccontare l’esperienza di Eolo, ha sottolineato l’importanza della Legge Smuraglia: “Dà contributi significativi agli imprenditori che assumono detenuti ed ex detenuti: si tratta di benefici importanti, ma malgrado ciò ancora questa possibilità viene sfruttata in modo marginale”. Da allora, Spada ha raccontato più volte ai colleghi imprenditori la sua esperienza. Cosi come ha fatto la Prefettura di Varese, come ha raccontato il prefetto Salvatore Pasquariello: “Abbiamo organizzato due convegni importanti sull’argomento, uno alle Ville Ponti per illustrare i benefici della Legge Smuraglia, un altro a Barza di Ispra, grazie a Rotary e Lions”. L’azione si è tradotta in un protocollo sul reinserimento lavorativo sottoscritto con Provincia, Comune di Varese, Camera di Commercio, Confindustria, Ufficio Scolastico Provinciale, ATS Insubria e ASST Sette Laghi e Valle Olona, Garante regionale dei detenuti e le due case circondariali. La vera protagonista della giornata però era l’installazione realizzata per la Varese Design Week, che è stata realizzata all’interno di una cella, su un tavolino dei piccoli locali in cui i detenuti sono costretti. La direttrice Santandrea ha spiegato il significato dell’installazione: “Abbiamo creato una particolare installazione all’interno dell’istituto: l’installazione è stata realizzata da un gruppo di detenuti coordinati dalla volontaria Rita Brunati. Sono state create due forme con materiale povero: carta, cronaca di giornale, atti amministrativi… Il significato profondo di questa installazione è che se queste forme, che sembrano buttate lì o oscure, vengono illuminate dalla luce, assumono la sembianza di persone. Spesso i nostri schemi mentali sono sbagliati: sia chi sta fuori e vede la gabbia illuminata dalla luce può vedere le cose in maniera diversa, ma anche chi è dentro, e vive in uno spazio fisico delimitato, può vedere le cose in altra maniera. La costrizione fisica non è la costrizione mentale, e le sbarre che sono il limite fisico dello spazio in cui vivono i detenuti possono essere comunque sempre aperte”. Silvana Barbato e Nicoletta Romano di Varese Design Week hanno sottolineato l’importanza simbolica dell’evento. “È una bella congiunzione tra il carcere e il mondo esterno, grazie al tema di Luce Vera”, ha commentato Barbato. Mentre Romano ha aggiunto una nota personale: “Mio padre era avvocato penalista e veniva spesso qui. Per fare quel lavoro ci voleva molta umanità, e non bisogna mai sottovalutare il pensiero che c’è dietro queste gabbie”. L’incontro ha aperto nuovi orizzonti di collaborazione e ha dimostrato come il carcere possa davvero trasformarsi da “gabbia” a opportunità, purché ci sia la volontà di guardare oltre i pregiudizi e investire nel potenziale umano di chi ha sbagliato ma può rinascere. Alba. Torna “Valelapena!”, il mercatino di cibo, artigianato e idee dell’Economia Penitenziaria comune.alba.cn.it, 27 settembre 2025 La Città di Alba, in accordo con il Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale Emilio De Vitto, quest’anno ripropone “Valelapena! Mercatino delle produzioni ristrette: cibo, artigianato e idee dell’Economia Penitenziaria e della Legalità” con il coordinamento del Consorzio CIS, che realizza da oltre vent’anni interventi per l’integrazione socio lavorativa delle persone in esecuzione penale interna ed esterna. L’appuntamento è domenica 5 ottobre in piazza Elvio Pertinace dalle ore 10,00 alle ore 19,00 all’interno del Mercato della Terra. Il mercatino era stato proposto più volte tra il 2011 e il 2019, sempre nel giorno del Palio degli Asini. L’iniziativa vuole essere una vetrina delle economie penitenziarie e delle tante attività di integrazione sociale presenti nelle diverse realtà penitenziarie e sui territori. Attraverso un momento pubblico si vuole valorizzare il lavoro svolto dalle persone detenute nelle carceri o all’esterno e, più in generale, dare evidenza delle azioni intraprese sui temi della legalità e dell’integrazione sociale delle persone con problemi di giustizia, nonché sensibilizzare i cittadini, ma anche le imprese, sul valore di tali iniziative. Il sindaco Alberto Gatto e l’assessora alle Politiche sociali Donatella Croce: “Siamo molto felici di accogliere nuovamente il mercatino Valelapena, che dopo alcuni anni di pausa torna a vivere e ad animare la nostra comunità. Questa iniziativa ha un grande valore sociale e culturale: attraverso i prodotti realizzati dai detenuti di diversi istituti penitenziari, non solo piemontesi, ci ricorda quanto sia importante offrire percorsi di riscatto e di reinserimento, fondati sul lavoro e sulla creatività. Il ritorno di Valelapena è per noi anche un buon auspicio per il futuro del carcere di Alba, che, una volta conclusi i lavori di ristrutturazione, dovrà tornare a essere un punto di riferimento per le proposte formative e rieducative rivolte ai detenuti. Ringrazio tutti coloro che hanno reso possibile questa nuova edizione e invito i cittadini a partecipare numerosi”. “La manifestazione - spiega il Garante comunale Emilio De Vitto - vuole ridurre quella distanza, soprattutto culturale ma anche fisica, che esiste tra la cittadinanza ed il sistema penale della giustizia, alimentata da stereotipi, pregiudizi, paure. Permettere ai cittadini di vedere e conoscere cosa si fa in carcere significa contribuire a modificare visioni e preconcetti. Significa poter costruire ponti tra il dentro ed il fuori che sostengano l’integrazione, riducano la recidiva, aumentino la consapevolezza che è necessario prendersi “cura”, perché il beneficio è per la collettività, più sicura, più inclusiva, e non solo per le persone ristrette”. L’evento è organizzato con il patrocinio di Città di Alba e Ufficio del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Piemonte, con la collaborazione di Casa di Reclusione “G. Montalto”, Mercato della Terra Slow Food, studenti delle scuole superiori di Alba - Istituto Umberto I°, Liceo artistico P. Gallizio, Liceo classico G. Govone - e con il contributo della Fondazione CRC. Psicosi, pillole e repressione nell’universo delle carceri di Luigi Grassia La Stampa, 27 settembre 2025 In America un libro svela l’uso di psicofarmaci e tecniche di controllo psicologico a scopo repressivo ma fa scoprire anche reti di solidarietà e cooperazione dietro le sbarre. Il carcere può creare problemi di salute mentale, o aggravarli se già i detenuti ne soffrono, e questo rischia di essere particolarmente vero negli Stati Uniti, che con due milioni di reclusi hanno il sistema di prigionia più esteso fra quelli dei Paesi occidentali avanzati, sia per numeri assoluti sia in quota rispetto alla popolazione totale. Probabilmente si tratta anche del sistema carcerario più violento e repressivo, benché i raffronti siano opinabili. Le condizioni di vita dietro le sbarre negli Usa prevedono non di rado per i detenuti trattamenti coercitivi come l’essere immobilizzati su letti di ferro per giorni interi, con cinghie alle braccia e alle gambe; divieto punitivo di uscire all’aria aperta; celle in cui possono essere imposti (di proposito) rumori costanti e/o luci accese 24 ore su 24; uso e abuso di psicofarmaci come l’Haldol per “calmare” i prigionieri, fino a causare gravi problemi neurologici come tic e tremori di forte intensità; come conseguenza, sintomi psicotici e depressioni non curate hanno tale diffusione da essere quasi la regola, e il tasso di suicidi è altissimo, al pari di varie forme di autolesionismo. Le biografie/autobiografie carcerarie in America sono quasi un genere letterario a sé stante, si persi per esempio a “Educazione di una canaglia” di Edward Bunker, ma ci sono ancora prospettive nuove da esplorare. Introduce altri punti di vista il bestseller “The Jailhouse Lawyer”, un libro non ancora pubblicato in Italia ma che è diventato un caso editoriale negli Stati Uniti, dove è stato recensito in modo ultra-positivo dal re dei “legal thriller” John Grisham e da Sister Helen Prejean (autrice di “Dead Man Walking”). L’autore si chiama Calvin Duncan, è un nero passato da innocente nel tritacarne del sistema giudiziario americano, è stato riconosciuto innocente solo dopo 28 anni - ventotto! - di galera, poi è diventato avvocato penalista e ha cominciato a combattere per tante altre persone a cui è toccata e tocca un’esperienza simile alla sua. In prigione non solo violenza ma anche reti di solidarietà - In “The Jailhouse Lawyer” ci sono anche delle luci: mentre le biografie/autobiografie carcerarie americane di cui raccontano, di regola, storie di pura violenza ed estraneazione, e per di più da una prospettiva strettamente individuale, sia per quanti riguarda la caduta dei protagonisti sia per il loro eventuale riscatto, il libro di Duncan sorprende perché ci racconta come il carcere possa dar vita a vere e proprie comunità di resistenza: reti di mutuo aiuto, giornalismo carcerario (scopriamo che molti detenuti si offrono volontari per scrivere sui fogli dei penitenziari), classi di studio del diritto gestite dai detenuti, e campagne legislative organizzate dall’interno. L’autobiografia “The Jailhouse Lawyer” è uno spaccato dell’America, verrebbe da dire dell’America di Trump ma sarebbe troppo facile, perché tutto è cominciato nel 1982, e a quell’epoca Donald Trump era lontanissimo dalla Casa Bianca e ben poche colpe gli si potevano attribuire. In quel lontano 1982 Duncan aveva 19 anni, viveva a New Orleans, e fu arrestato per rapina e omicidio. Vere prove a suo carico non c’erano, sarebbe bastato un avvocato decente per scagionarlo, ma un avvocato decente non si trovò, e Calvin Duncan fu condannato all’ergastolo. Una storia di caduta e di riscatto - Rinchiuso nel Penitenziario Statale di Angola (in Louisiana) durante la prigionia studiò legge, sperando di poter presentare ricorso. Nel frattempo, divenne avvocato carcerario, come parte del Programma di Sostituto dell’Avvocato dei Detenuti, una figura ufficiale nel Penitenziario Statale di Angola. “Gli avvocati carcerari - spiega - forniscono assistenza legale a coloro che non possono permettersene uno”; uno vero, si intende. Ma lui in quel ruolo risultò bravo. Duncan ha lavorato su centinaia di casi mentre era in prigione. Nel 2011 Duncan è stato rilasciato. Ora a New Orleans è fondatore e direttore del programma Light of Justice, che si occupa di assistere legalmente i detenuti. Ovviamente “The Jailhouse Lawyer” mostra la forte influenza che il fattore razziale esercita sul sistema giudiziario e carcerario americano, ma questa è solo una delle varie chiavi di lettura. “Elisa”: lo sguardo freddo della cinepresa sull’abisso dell’animo umano di Gianluca Iovine Il Dubbio, 27 settembre 2025 Due suggestioni in particolare si fanno strada appena iniziano i titoli di coda di “Elisa” di Leonardo Di Costanzo, ed entrambe scaturiscono naturalmente dal vissuto artistico dell’attrice protagonista: Barbara Ronchi è laureata in archeologia, e l’aver incrociato quegli studi accademici con il suo viaggio infinito nell’interpretazione cinematografica e teatrale, le ha offerto l’opportunità di scavare a fondo per dissotterrare le sfumature più segrete del suo personaggio, precluse ad altre interpreti. Inoltre, scorrendo la lunghissima e prestigiosa lista di premi ricevuti, colpisce l’attenzione proprio quello ricevuto dallo ShorTS International Film Festival di Trieste come Interprete del Presente. Ecco, nulla di più vero, viene da dire, dopo aver seguito la Ronchi nella complessità di Elisa Zanetti, donna spezzata e tormentata dall’annientamento di sé stessa, della memoria, della comunità in cui è cresciuta, forse senza mai essere stata davvero capita né accettata. Nel passaggio al cinema, l’accento sospeso tra Francia e Nord Africa del criminologo che affida al registratore i loro incontri, racconta la doppia estraneità del fuori contro il dentro, e dell’indagine scientifica rispetto alla insospettabile banalità del male. Elisa ha forse rimosso, o non ricorda, o, peggio ancora, mistifica quel che ha fatto e che la tiene in un carcere moderno, senza sbarre, fra le montagne, comunque consegnata ai suoi disordinati, debordanti frammenti. Il film alcune settimane fa era ancora in concorso per il Leone d’Oro a Venezia, e si inserisce pienamente nel dibattito quanto mai attuale sulla recuperabilità di chi si macchia di fatti di sangue, senza apparentemente mostrare pentimento. La pellicola oltrepassa completamente il momento della difesa e in parte anche quello dell’atto criminoso, scegliendo di narrare con la forza delle parole la dissonanza sinistra della morte inflitta senza motivo apparente. Il regista e la protagonista non provano alcuna operazione di comoda empatia: Elisa ha il volto scarno, non mangia, si sente una portatrice di doni di morte, una traditrice di verità. Elisa non vuole sconti o simpatie, ma capire chi è e perché ha agito distruggendo ogni cosa, e allora guarda il pubblico per rivelare il suo viaggio segreto oltre la colpa. Nell’amnesia che Elisa patisce, insieme a un sopore che è insieme depressione e voglia di fuggire da se stessa, affiorano tutte le tragiche verità mai ammesse, che solo dopo anni trascorsi nel penitenziario svizzero che le consente la semilibertà e la possibilità di lavorare e di essere seguite psicologicamente, fluiscono dolorosamente nel confronto con il Professor Alaoui, che il grande Roschdy Zem salda alla realtà del confronto. Con tempi rarefatti, panorami nevosi e silenzio, e il tempo scandito dalle visite di un padre straordinario come Diego Ribon o dalle poche chiacchiere scambiate con l’agente Radice (Giorgio Montanini) o con il direttore (Hyppolite Girardot), Elisa consuma una lenta implosione. E Di Costanzo dopo Ariaferma, nel quale reclusi e carcerieri diventavano un unico gruppo di dannati, riesce in questo suo film a mostrare il carcere invisibile che la fragilità di una persona, le rigidità familiari, gli obblighi sociali fondano. Elisa più che un crimine sula perdita di controllo sembra essere la storia di una degenerazione legata all’ossessione per il controllo, la pulizia, l’apparenza. La reclusa non è un animale televisivo o una criminale orgogliosa del suo gesto, anche nella patologica menzogna in cui si dibatte: non si assolve, non cerca ribalte, lontana anni luce dalle indiziate e dalle assassine dell’era mediatica. Elisa, dopo aver cercato di dimenticarsi, guarda nel pozzo senza luce dove vivono i suoi demoni. E in un viaggio doloroso con il criminologo che ne registra i racconti e l’ascolta leggere dalla sua agenda rossa i momenti della sua follia omicida, Elisa diventa Alice che attraversa lo specchio: ritrova il senso della verità e del ricordo, riappropriandosi del male fatto, smettendo di sentirsi l’unico errore di un mondo giusto, e preparandosi, in una piena consapevolezza data anche da una completa solitudine, a mettere quel che resta di lei a disposizione del mondo esterno. Il film ha qualche inciampo nel ritmo, e un aspetto talvolta monocorde, ma attraverso alcune svolte nel racconto e nella costante, limpida interpretazione della Ronchi, ma anche di Zem e Ribon, segue il pubblico oltre la sala, sconfiggendo quel processo di rimozione o di linciaggio mediatico cui per istinto si vorrebbe confinare ogni assassino. In “Elisa” non si parla di perdono, specie nel doloroso cameo di Valeria Golino, che espone le ragioni delle vittime, ma si riafferma la civiltà del diritto, che si batte per la dignità di chi ha sbagliato, assistendolo nel difficile viaggio di abbandono del vecchio sé. E in fondo “Il mistero di chi provoca dolore è ancora più profondo di chi lo subisce” dice il Professor Alaoui; e anche se ammetterlo può mettere in crisi ogni nostro possibile orientamento, sentiamo in questa frase istintivamente la più profonda delle verità. Pro Pal e politica, la lezione di Mattarella di Marcello Sorgi La Stampa, 27 settembre 2025 C’è una fondamentale differenza tra l’appello di Mattarella, ieri, agli equipaggi della Flotilla in rotta verso Gaza, e il discorso di Meloni all’Onu sull’accettazione da parte dell’Italia - dopo Francia e Regno Unito - dello Stato di Palestina, seppure a condizioni che non è esagerato definire irrealizzabili. Per inciso, la premier ha giudicato i marinai della Flotilla “irresponsabili”, perché sottovalutano le conseguenze dell’eventuale ingresso nelle acque israeliane, in violazione del divieto assoluto imposto da Netanyahu. E ha chiesto al ministro della Difesa Crosetto di inviare due fregate per scoraggiare gli ardimentosi navigatori, almeno quelli italiani, dal proseguire la missione, e scortarli verso una meta diversa da Gaza. Anche in questo caso la risposta dei comandanti della Flotilla è stato un sonoro “no”. È in questo quadro di obiettive difficoltà che il Presidente della Repubblica, pur conoscendo la prevalenza di posizioni estremistiche - estremisti per giunta di 40 diversi Paesi del mondo, ciò che appunto ha reso “global” la Flotilla - ha scelto egualmente di cercare un dialogo, finora senza successo, con gli italiani ma non solo, per spingerli a una maggiore ragionevolezza e a una prova di responsabilità. Si sa che quando l’estremismo pone dei paletti, tagliando fuori le posizioni di mediazione, a prevalere sono quasi sempre le posizioni più radicali, anche se non necessariamente le più giuste. “Gareggiando a fare i puri - diceva il vecchio leader socialista Nenni, ormai entrato nella storia - troverai sempre uno più puro che ti epura”. Ed è un po’ questa la situazione della Flotilla, ormeggiata a Creta e in attesa di ripartire. Per dove? Mattarella suggerisce di aderire alla disponibilità del Patriarca latino di Gerusalemme, di scaricare le casse di alimenti, medicine e ogni altro genere di aiuti a Cipro, e affidarle alla sapiente amministrazione dello stesso cardinale, uno dei pochi in grado di superare i veti di Netanyahu. La Flotilla avrebbe tutto da guadagnare da una scelta del genere: il risultato politico della missione è ormai ampiamente raggiunto, ora arrivano le rogne vere: chiunque sa che muoversi nella Striscia adesso rappresenta un rischio da correre solo se si hanno capacità diplomatiche e un’effettiva conoscenza del territorio. Sempre che quando la Flotilla dovesse veramente tentare di avvicinarsi a Gaza, Netanyahu non faccia partire le cannonate che ha promesso. In un modo o nell’altro, così, la vicenda della Flotilla si avvia a conclusione. Se non sarà tragica, macchiata di sangue e dalla durezza di un leader come Netanyahu, avrà rappresentato una delle iniziative a più forte illuminazione mediatica di giornali e tv in tutto il mondo. La storia di un gruppo di navigatori dilettanti, spesso gente senza arte né parte (sia pure con qualche intrusione politica) che attraversano il Mediterraneo per andare ad aiutare i palestinesi e sfidare Israele, ha acceso l’attenzione di centinaia di migliaia di lettori e milioni di telespettatori. A un certo punto i sondaggi hanno rivelato che s’era generato una specie di “tifo” in favore dei ragazzi della Flotilla. E magari tra qualche anno ne verrà fuori un film. È strano che una leader “media-sensibile” come Meloni se ne sia accorta in ritardo, e abbia voluto fare la faccia feroce contro questa iniziativa. La sua risposta pesante ha finito per metterla in un’inutile situazione di contrapposizione con la Flotilla. Non è detto che le gioverà. Quanto a Mattarella, il Presidente ha dato a tutti una lezione di politica: specie nelle situazioni difficili, bisogna cercare di dialogare sempre, con tutti, fino all’ultimo, senza arrendersi mai. Chissà se invece di andare incontro a un cannoneggiamento garantito (ma per affondare molte delle barche usate in questa missione, basta molto meno di una cannonata), gli incoscienti navigatori della Flotilla non abbiano un momento di resipiscenza, ascoltando il saggio consiglio del Presidente. Flotilla, l’appello di Mattarella: “Serve una mediazione” di Andrea Carugati Il Manifesto, 27 settembre 2025 Il Capo dello Stato smentisce Meloni: “La missione ha un grande valore”. Lei lo ringrazia. Pd, M5S e Avs: “Aprire una riflessione”. Poco dopo mezzogiorno, Sergio Mattarella entra con tutta la sua forza nella vicenda della Sumud Flotilla in viaggio verso Gaza. Con poche parole prende nettamente le distanze dalla premier, che aveva definito la spedizione “irresponsabile” e finalizzata a “creare problemi al governo” e sottolinea “il valore dell’iniziativa che si è espresso con ampia risonanza e significato” e lancia un appello “alle donne e agli uomini” in mare da oltre 20 giorni. “Il valore della vita umana, gravemente calpestato a Gaza con disumane sofferenze per la popolazione, richiede di evitare di porre a rischio l’incolumità di ogni persona. Mi permetto di rivolgere con particolare intensità un appello perché raccolgano la disponibilità offerta dal Patriarcato Latino di Gerusalemme - anch’esso impegnato con fermezza e coraggio nella vicinanza alla popolazione di Gaza - di svolgere il compito di consegnare in sicurezza quel che la solidarietà ha destinato a bambini, donne, uomini di Gaza”. Un appello forte, che nasce da una grave preoccupazione per l’incolumità dei naviganti, non solo per gli italiani. Al Quirinale non hanno dubbi: se le barche dovessero avvicinarsi a Gaza rischierebbero di essere colpite. Per questo, anche se ora la Flottilla si trova in Grecia, ancora molto distanze dalle coste palestinesi, Mattarella ha deciso di intervenire. Per spingere su una soluzione negoziale a cui sta lavorando il Vaticano che appariva ormai bruciata dalle parole di Meloni che aveva tentato di intestarsela chiedendo alla Flotilla di lasciare gli aiuti a Cipro. Le parole della premier erano state una provocazione: “Non si può rischiare l’incolumità delle persone per fare iniziative che sembrano prevalentemente fatte per creare problemi al governo”. Al Quirinale le parole del presidente vengono spiegate come “un appello”, quanto di più lontano da un atto presidenziale: non dunque l’azione di un potere, ma un messaggio che riconosce la positiva azione politica della Flotilla e, contemporaneamente, chiede di scongiurare un esito pericoloso. Prima che sia troppo tardi. A nessuno è sfuggita la nettezza della presa di distanza dal governo, a 24 ore dall’attacco di Meloni ai naviganti: forse la più esplicita da quando nel 2022 la destra è arrivata a palazzo Chigi. Prima di divulgare l’appello il presidente ha sentito Meloni, spiegando il senso della sua iniziativa. Ma sul testo non c’è stata alcuna consultazione né condivisione. Le parole di Mattarella scuotono il mondo politico. La destra prova a tirarlo dalla propria parte, ignorando lo schiaffo appena ricevuto e accusando gli attivisti di essere degli irresponsabili per il garbato no alla richiesta di invertire la rotta. Tra i partiti che sostengono la missione e hanno alcuni loro parlamentari a bordo, Pd, Avs e M5S, le parole del Capo dello Stato aprono una riflessione. “Da Mattarella parole importantissime: riconoscono l’alto valore della missione e rinnovano la condanna per le disumane sofferenze che subisce la popolazione di Gaza. Condividiamo il suo appello a raccogliere la disponibilità del Patriarcato Latino di Gerusalemme a una mediazione che consenta di conseguire il primario obiettivo umanitario della missione”, dice il responsabile esteri Peppe Provenzano. “Auspichiamo che il dialogo tra i cardinali Zuppi e Pizzaballa e i coordinatori della Flotilla continui proficuamente”, dicono i deputati dem Arturo Scotto e Annalisa Corrado, a bordo di una delle navi. “Fate un supplemento di riflessione, valutate bene. C’è un rischio di incolumità”, dice Giuseppe Conte. “Qualunque decisione prenderanno, avranno sempre il mio sostegno e della mia comunità, la nostra comprensione”. Il leader 5s sottolinea come il messaggio di Mattarella riconosca “l’alto valore di questa iniziativa, a differenza di Meloni che è stata irriguardosa, supponente, ha insultato tutti i cittadini di 44 paesi” che si sono imbarcati. Per Conte, sull’iniziativa della Chiesa si era creato un “equivoco”. “Dalle parole di Meloni sembrava che fosse un partenariato col governo, c’è stata una sorta di cointestazione di questa iniziativa e il tentativo di offrirsi come mediatrice. Ma se insulti il tuo interlocutore parti male”. Nicola Fratoianni si AVS apprezza l’intervento del Capo dello Stato “assai diverso da quello di altri vertici delle istituzioni italiane” e ne condivide le preoccupazioni, convinto che “ci siano gravi rischi visto che Israele si comporta come uno Stato terrorista”. “Ci auguriamo che si possa trovare una mediazione che garantisca la sicurezza degli equipaggi e affermi le ragioni politiche, oltre che umanitarie, della missione. Ma ogni decisione spetta alla Flotilla”. Meloni fa buon viso e ringrazia il Quirinale per le sue “sagge parole”. Ringraziamenti, inusuali, anche alle opposizioni che spingono per una mediazione: “È fondamentale lavorare per garantire l’incolumità delle persone e non assecondare chi sostiene che l’obiettivo debba essere forzare il blocco navale israeliano”. Nelle stesse ore dal governo arrivano altre parole incendiarie. “C’è l’intenzione da parte di alcuni di trasformare questa vicenda in qualcosa che potrà riflettersi nelle nostre piazze, gli organizzatori devono prestare più attenzione”, dice il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che accusa il segretario della Cgil Landini di aver respinto l’appello di Mattarella quando ha detto che se le barche saranno colpite scatterà lo sciopero generale. Dura la replica di Landini: “È Piantedosi che deve essere il primo responsabile e garantire che non ci siano violenti in piazza”. No a Mattarella, la Flotilla si spacca di Niccolò Carratelli, Eleonora Camilli La Stampa, 27 settembre 2025 Respinto l’appello del Quirinale a fermarsi. Venti attivisti lasciano. La portavoce torna a Roma per trattare. Discussioni, chat roventi e riunioni fiume. Quella di ieri è stata un’altra giornata di tensione per la Global Sumud Flotilla. E stavolta non per le minacce di Israele. Una ventina di persone, la metà italiani, ha abbandonato la missione. Chi per stanchezza, chi per paura, chi in disaccordo con le decisioni del direttivo centrale. Dopo gli ultimi alert, che segnalano nuovi possibili attacchi, non tutti sono concordi nella decisione di proseguire dritti, senza esplorare la mediazione offerta dalla Cei e del patriarca di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa. C’è chi considera quella raggiunta finora già una vittoria, per aver portato gli occhi dell’opinione pubblica internazionale sul massacro a Gaza e per aver attirato l’attenzione dei governi. E chi teme di mettere in pericolo gli equipaggi. Perché nelle ultime missioni della Flotilla l’idea di forzare il blocco navale israeliano è stata interpretata “politicamente”: arrivare a ridosso del limite di acque internazionali e poi, una volta intercettati dall’Idf, arrendersi. Il timore è che, questa volta, qualcuno voglia andare oltre. In quel caso, la risposta dell’esercito di Tel Aviv potrebbe essere particolarmente violenta. Per questo ogni nave sta facendo le sue considerazioni. La responsabilità ultima, infatti, è dei singoli capitani, che potrebbero decidere di staccarsi dalla Flotilla lungo il percorso, se la missione dovesse diventare troppo pericolosa. Di certo, i prossimi cinque giorni, previsti per l’arrivo davanti alla Striscia, saranno decisivi da un punto di vista diplomatico. Gli attivisti vogliono ottenere un risultato tangibile e duraturo: chiedono di aprire un corridoio umanitario permanente via mare, con le navi Onu, o via terra, ad esempio con la riapertura del valico di Rafah dove sono stoccate tonnellate di aiuti. Uno dei due portavoce della delegazione italiana della Flotilla, Maria Elena Delia, oggi torna in Italia in Italia anche per provare a mediare da terra. Nelle prossime ore potrebbe essere ricevuta alla Farnesina per poi continuare le interlocuzioni con la Cei. Del resto, gli italiani, parlamentari compresi, sono tra quelli che più spingono per una soluzione di compromesso. Furiosi perché la premier Meloni, con l’annuncio alla stampa da New York, ha rovinato una trattativa che era già in corso tra Pizzaballa e il direttivo della Flotilla. Ora, dunque, dopo l’appello del presidente Mattarella, lo strappo va ricucito senza che la politica cerchi di intestarsi il risultato. Questo non vuol dire che i rappresentanti di Pd, M5s e Avs (Arturo Scotto, Annalisa Corrado, Marco Croatti e Benedetta Scuderi) non stiano lavorando sottotraccia per favorire una soluzione. Fermi nel porto di Creta, in attesa di ripartire, passano il loro tempo al telefono. Ma la linea arrivata da Roma, dai rispettivi leader, è quella di non esporsi troppo. Anzi, di precisare a ogni occasione che non sono loro a decidere. “Spetta agli organizzatori, a chi ha il governo della Flotilla - dice Giuseppe Conte - i parlamentari sono lì come cittadini, non partecipano ai vertici dove si decide cosa fare”. E Angelo Bonelli, Avs: “È compito dei membri della Flotilla fare la giusta valutazione”. Anche dal Pd il responsabile esteri Peppe Provenzano sottolinea che “i parlamentari sono lì come scorta istituzionale, ma non rappresentano la Flotilla. E gli italiani sono solo una delle 44 delegazioni”. Dichiarazioni che possono suonare come una presa di distanza, di certo servono a mettere le mani avanti rispetto a quelli che saranno gli sviluppi della missione. Nessuno li può prevedere con certezza, ma nessuno vuole nemmeno subirli dal punto di vista politico, a maggior ragione dopo l’intervento del Quirinale. La linea di dem, 5 stelle e Verdi-Sinistra è più o meno simile: sostenere la Flotilla, ma fare di tutto per scongiurare una forzatura del blocco navale israeliano, con i rischi per l’incolumità dei partecipanti che ne conseguirebbero. Poi, come sempre nel campo progressista, ci sono sfumature diverse a livello comunicativo. Se il Pd è allineato all’appello di Mattarella e Avs “sconsiglia” di arrivare allo scontro davanti alle coste di Gaza, Conte invita gli attivisti della Flotilla a un “supplemento di riflessione”, ma assicura che “qualunque decisione prenderanno avranno sempre il nostro sostegno”, scandisce il presidente del Movimento. Quindi, in teoria, anche qualora dovessero decidere di provare ad avvicinarsi alle coste di Gaza sfidando le navi militari israeliane. In quel caso, però, è improbabile che il senatore M5s Croatti e gli altri tre colleghi parlamentari saranno ancora a bordo delle barche su cui stanno partecipando alla Flotilla. Perché, anche se nessuno lo ammette esplicitamente, loro dovrebbero fermarsi comunque a Cipro, prossima tappa prevista, l’ultima prima di avventurarsi verso Gaza. “Ad oggi non c’è intenzione di sbarcare”, si limita a dire Scuderi. Non ci si deve esporre, ma nemmeno dare l’impressione di volersi disimpegnare da una missione, che ha assunto una dimensione politica e mediatica superiore alle aspettative. Le vittime e lo spirito di fazione di Walter Veltroni Corriere della Sera, 27 settembre 2025 Il bivio americano. In democrazia non devono esistere “morti giusti” e “morti sbagliati”. C’è il pericolo di una deriva violenta. Non esistono, non dovrebbero esistere in democrazia, i morti dell’una o dell’altra parte. Chi è ucciso dalla violenza politica, per le cose che dice o per le idee che ha, deve essere sempre considerato un martire della libertà. Tutti, a destra e a sinistra, dovrebbero accettare questa semplice regola della libertà. Se invece si strumentalizzano le morti, le si trasforma in nuovi laboratori di odio, in istigazione alla demonizzazione dell’avversario - che invece mai dovrebbe essere considerato un nemico -, allora si accelera la strada verso la radicalizzazione dei conflitti e la loro possibile deriva violenta. L’America è a un passo dal rischio di un conflitto devastante, perché è a un passo dalla perdita di libertà fondamentali. Gavin Newsom, possibile candidato democratico alle prossime presidenziali, ha parlato, in termini allarmati, di “codice rosso” per la democrazia americana aggiungendo una frase raggelante: “Non sono sicuro che nel 2028 si svolgeranno le elezioni”. È un dato di fatto che la faziosità, lo spirito di parte, la totale perdita del senso dello Stato hanno lacerato quel Paese e lo hanno esasperato. La Casa Bianca non celebra le vittime della violenza politica allo stesso modo. Esalta i “suoi” e rimuove gli “altri”. I morti degli altri non contano. Per la semplice ragione che gli altri sono un inspiegabile impiccio, un’eresia, una presenza assurda e ingiustificabile che va rimossa. Perché gli altri meritano “odio”, una parola che mai dovrebbe essere pronunciata da un leader politico responsabile, tantomeno da chi guida quella che era la più grande forza, anche morale, dell’Occidente. Per esempio Melissa Hortman. Nessuno ha organizzato delle onoranze con centinaia di migliaia di persone, nessuno in Italia ha convocato il Parlamento per onorarla. Pochi conoscono la sua storia terribile. Nel giugno scorso lei, deputata dello Stato del Minnesota, è stata uccisa in casa insieme a suo marito da un uomo vestito da poliziotto che, non soddisfatto del suo operato, ha poi sparato al senatore dello Stato Hoffman e a sua moglie, ferendoli gravemente. L’assassino, Vance L. Boelter, aveva nella sua automobile un elenco di settanta persone da colpire tra i quali vari esponenti democratici e medici favorevoli all’aborto. Era un fondamentalista cristiano, elettore di Trump. In un sermone aveva detto: “Ci sono persone, soprattutto in America, che non sanno di che sesso sono” e che “non conoscono il loro orientamento sessuale, sono confuse. Il nemico è entrato così profondamente nella loro mente e nella loro anima”. Questa è la storia avvenuta in Minnesota. Nel 2022 un estremista di destra, imbevuto di teorie cospirazioniste, è entrato in casa di Nancy Pelosi, speaker della Camera dei Rappresentanti e leader storica del partito democratico e, non trovandola, ha preso a martellate sulla testa suo marito. Nessun leader democratico ha colto l’occasione di queste violenze per affermare, come ha fatto Trump alle esequie di Charlie Kirk, “Io odio i miei avversari”. Un anno prima dell’aggressione in casa Nancy Pelosi aveva avuto il suo ufficio al Campidoglio occupato dai dimostranti del 6 gennaio 2021, quelli istigati da Trump presidente uscente e poi graziati con una firma, apposta il primo giorno del nuovo mandato, che ha scagionato 1.600 persone che avevano fatto un’irruzione violenta nella casa della democrazia americana. Che segnali sono? Il presidente degli Stati Uniti ha recentemente attaccato la sua ministra della Giustizia perché ancora non aveva messo sotto accusa i suoi avversari tra i quali l’ex capo dell’Fbi, ora prontamente incriminato, un senatore democratico e la procuratrice di New York. Ha deriso l’Unione europea, l’Onu, annunciato, siamo alla farsa, di aver fatto finire guerre che continuano, si è lodato e imbrodato nonostante la pace in Ucraina non sia arrivata in 24 ore come promesso, ha demolito l’emergenza climatica, definita una farsa, ha annunciato - cosa dicono i cattolici del governo italiano? - la reintroduzione a Washington D.C. della pena di morte. Ha esaltato l’economia americana, annunciando nuovi dazi isterici, nonostante crescano inflazione e disoccupazione come documentato responsabilmente dal presidente della Federal Reserve Jerome Powell, altra testa da tagliare, ha messo all’indice giornalisti e conduttori televisivi non graditi, minacciando di togliere licenze a chi non si mette in riga. Come per le università, come per i musei. L’aria che tira negli Usa è quella che avevamo previsto, molto prima delle elezioni di novembre scorso. La presidenza Trump si propone, diversamente da quanto accadde nel primo scialbo mandato, di cambiare le regole del gioco, di annientare ogni forma di dissenso, di rimuovere i bilanciamenti necessari in una democrazia presidenziale, di passare, in sostanza, ad una forma di autocrazia. Non assistiamo a un capitolo della normale alternanza tra repubblicani e democratici, ma a un episodio di tutt’altra natura. È una stagione “rivoluzionaria” che avviene sotto il segno dell’autocrazia e del populismo e che altera delicati equilibri geopolitici. Bisogna dirlo, per tempo, se questo accade in un paese che è stato leader dell’Occidente. E dovrebbero dirlo, senza la tremarella alle gambe, i governi europei che finora hanno incassato dalla Casa Bianca solo dazi e costante delegittimazione. Non si lede la maestà se si mette in guardia un proprio alleato storico dai rischi di una deriva autoritaria. I governanti Dc, nel tempo della guerra fredda, non ebbero timore di condannare la guerra in Vietnam e il Watergate. Se l’Occidente smarrisce il suo riferimento atlantico, l’Europa deve ancora di più serrare le fila e valutare chi davvero, al suo interno, vuole procedere verso l’integrazione e la costruzione di un soggetto forte, dotato di politiche economiche, sociali, ambientali, estere, di difesa davvero comuni. Si ascoltino le sagge raccomandazioni di Mario Draghi e ci si muova, in fretta, per un’Europa pronta a ritrovare relazioni con potenze estere a partire dalla sua forza autonoma. Identità e apertura sono gemelle siamesi. L’Occidente non può accettare supinamente, pena la sparizione dei suoi valori fondamentali, la radicalizzazione estrema delle posizioni, l’alterazione delle garanzie fondamentali, la riduzione delle libertà. Questa escalation genera violenza assurda, diffusa, e rischi di conflitti che precipitano verso guerre, in assenza della saggezza e della forza della politica. È quello che sta avvenendo, sotto i nostri occhi, ogni giorno. Davvero non lo si capisce? L’appello globale per fermare la guerra sui bambini di Ernesto Caffo* La Stampa, 27 settembre 2025 In occasione dell’80ª Assemblea generale delle Nazioni Unite si è svolta una sessione di alto livello promossa dall’Early Childhood Peace Consortium (Ecpc) con un titolo che non lascia spazio ad esitazioni: “Stop alla guerra sui bambini”. L’incontro, presso la Missione Permanente d’Irlanda e organizzato dalla Fondazione Telefono Azzurro e della Fondazione Child, ha portato al centro del dibattito internazionale la condizione dei bambini nei conflitti armati, ricordandoci che l’infanzia continua a pagare il prezzo più alto delle guerre. Secondo le Nazioni Unite, oltre 460 milioni di bambini nel mondo vivono in aree colpite da conflitti armati, esposti a violenze, fame e privazioni. L’Onu ha documentato nel 2023 più di 32.000 gravi violazioni contro minori in contesti di guerra: uccisioni, mutilazioni, rapimenti, stupri, reclutamento forzato, attacchi a scuole e ospedali. Dietro questi numeri ci sono volti e storie di bambini privati della possibilità di crescere, studiare e sognare un futuro. Inoltre, solo nel 2024 le violazioni gravi contro i bambini nelle zone di guerra hanno registrato un aumento del 25%, un dato allarmante che ci impone una riflessione urgente e una chiamata all’azione concreta. Il messaggio emerso dalla sessione è stato chiaro: non possiamo più rimandare la protezione dei diritti dei bambini. Le evidenze scientifiche indicano chiaramente che i primi anni di vita sono determinanti nello sviluppo futuro della persona, ed è proprio in questa fase che si formano le competenze socio-emotive, la capacità di costruire relazioni e di vivere nel rispetto dell’altro e delle diversità. Allo stesso tempo la scienza ci dimostra che i traumi vissuti con la guerra si trasmettono da una generazione all’altra, alimentando nuove spirali di violenza e marginalità. Investire nello sviluppo della prima infanzia è dunque non solo un dovere morale, ma anche una strategia efficace e sostenibile per spezzare i cicli del conflitto e promuovere la coesione sociale e una pace duratura. Durante l’evento, la Rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite sulla violenza contro i bambini, Najat Maalla M’jid, ha ribadito la centralità dell’ascolto dei minori nelle politiche di pace. L’Arcivescovo Gabriele Caccia, Osservatore permanente della Santa Sede all’Onu, ha richiamato la responsabilità morale della comunità internazionale. Esperti come Catherine Panter-Brick, Theresa Betancourt e Hirokazu Yoshikawa hanno mostrato come programmi basati su evidenze possano rafforzare la resilienza di bambini e famiglie anche nei contesti più fragili. Esperti di tutto il mondo chiedono con forza che nei prossimi anni vengano garantiti programmi di intervento che si basano su evidenze scientifiche, integrandoli nelle risposte umanitarie. Inoltre, è importante diffondere programmi educativi e di sostegno alla genitorialità nelle aree colpite da conflitti e mantenendo un advocacy instancabile con l’obiettivo di fermare le conseguenze delle guerre sui bambini e sugli adolescenti. Telefono Azzurro e Fondazione Child riconoscono con urgenza il valore di questo appello e sono impegnate in prima linea nei contesti di guerra in Ucraina e in Medio Oriente attraverso il progetto Erice sulla salute mentale. I bambini nei conflitti non sono solo vittime invisibili, ma anche portatori di resilienza e speranza. In altre parole, sono il punto da cui ripartire. Le nostre esperienze ci dimostrano che è possibile coniugare ricerca scientifica, intervento diretto e advocacy internazionale per costruire risposte efficaci e una società più giusta, resiliente e inclusiva. Il dovere della comunità internazionale oggi è rompere il silenzio e agire. Fermare la guerra sui bambini significa costruire pace per l’intera umanità. Non c’è più tempo da perdere: le voci dei bambini ci chiedono di ascoltare, di proteggere, di trasformare la loro speranza in realtà. *Presidente della Fondazione Telefono Azzurro e della Fondazione Child Venezuela. La telefonata della premier Meloni alla mamma di Alberto Trentini di Anna Maselli Corriere del Veneto, 27 settembre 2025 “Faremo di tutto per portarlo a casa”. Alberto Trentini, 46 anni, originario di Venezia, è incarcerato in Venezuela da più di 300 giorni. La presidente del consiglio Giorgia Meloni telefona alla madre di Alberto Trentini. È la seconda volta che accade (la prima in aprile) ma ora, dopo la visita dell’ambasciatore italiano in Venezuela al cooperante italiano, la telefonata lascia intravedere spiragli sul proseguo della trattativa. Meloni - si legge in una nota trasmessa ieri da Palazzo Chigi - ha rinnovato la propria personale vicinanza e quella del governo alla famiglia dell’operatore umanitario originario del Lido di Venezia, detenuto nel paese di Nicolás Maduro da oltre dieci mesi. La premier ha inoltre “confermato alla signora Colusso Trentini la grande attenzione con cui il governo segue la vicenda e il suo massimo impegno, attraverso tutte le strade praticabili, per un esito positivo”. La vicenda non è ancora chiusa ma se tre indizi fanno una prova, allora tre notizie confortanti sono un passo in avanti verso la liberazione di Trentini, in carcere senza accuse formali dallo scorso 15 novembre. Intanto le due brevi telefonate che Alberto ha avuto con la famiglia, una in maggio e l’altra in luglio, poi la nomina di Luigi Vignali come inviato speciale della Farnesina per i detenuti italiani in Venezuela (che, stando a quanto riferito dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, sarebbero circa una quindicina) e infine la visita martedì del diplomatico Giovanni De Vito al 46enne e a un altro detenuto, Mario Burlò. L’ambasciatore ha raccontato di aver visto entrambi in discrete condizioni, pur visibilmente dimagriti, hanno riferito di ricevere regolarmente pasti, di godere dell’ora d’aria e di essere trattati correttamente dal personale carcerario. De Vito ha potuto consegnare loro le lettere delle famiglie e beni di prima necessità mentre Alberto ha lasciato un messaggio per ringraziare chi dal primo giorno tiene accesi i riflettori sulla vicenda. “Sono forte, sto bene. Fate sapere ai miei genitori e a tutti quelli che mi vogliono bene che resisterò fino al giorno della mia liberazione”. Trentini e Burlò, sempre stando alla testimonianza dell’ambasciatore, sono stati presentati all’autorità venezuelana insieme ad altri detenuti, con accuse vaghe di terrorismo e cospirazione ma, ancora una volta, senza “capi d’accusa ufficiali né atti di un eventuale processo”. Anche perché l’avvocata della famiglia Trentini, Alessandra Ballerini, non è mai stata convocata. Le porte del penitenziario El Rodeo I, a 30 chilometri da Caracas, rimangono quindi chiuse nonostante sia trascorso quasi un anno dall’arrivo in Venezuela di Trentini, per conto della ong Humanity & Inclusion. “Siamo contenti che la premier Meloni abbia telefonato alla signora Armanda - commenta il presidente della municipalità del Lido Pellestrina Emilio Guberti -. Noi siamo da sempre vicini alla famiglia ma con discrezione, senza gesti eclatanti, perché così ci è stato richiesto dall’avvocato. Ho parlato recentemente con la mamma, che conoscevo già da prima, e l’ho vista molto provata. Sono genitore anch’io e spero solo che questa vicenda finisca al più presto, che Alberto torni con noi”. Trentini, è stato detto di recente al Festival della Politica di Mestre della Fondazione Pellicani, ha dedicato la sua vita agli ultimi: dopo gli studi a Ca’ Foscari e la specializzazione all’estero, ha lavorato in diversi Paesi e continenti, dall’Ecuador al Paraguay, dal Perù al Libano. Fino all’arresto al confine con la Colombia, 317 giorni fa. Prosegue intanto la mobilitazione della società civile per chiederne la liberazione: con la petizione su Change.org: sono state raccolte quasi 110 mila firme.