Ennesimo suicidio, la lista si allunga: nomi, volti e fallimenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 settembre 2025 Mercoledì scorso un altro detenuto ha scelto di togliersi la vita nelle carceri italiane. Il 62esimo suicidio dell’anno, una cifra che fa tremare le vene ai polsi e che arriva a soli tre giorni di distanza dall’ennesima tragedia: il 21 settembre, nel carcere di Capanne a Perugia, una detenuta italiana di 30 anni, originaria di Taranto e con disturbi psichiatrici, si era impiccata nella sua cella. Due morti in 72 ore. Due vite spezzate che si aggiungono a un elenco già troppo lungo, mentre dalle istituzioni arriva solo il silenzio assordante di chi dovrebbe intervenire. Gennarino De Fazio, segretario generale della UilPa Polizia Penitenziaria, non usa mezzi termini: “Siamo al 62esimo recluso che si toglie la vita nel corso dell’anno, cui bisogna aggiungere un internato in una Rems e 3 operatori”. Un bollettino di guerra che racconta di un sistema al collasso, dove a morire non sono solo i detenuti, ma anche chi dovrebbe vigilare su di loro. Una mappa del dolore lunga nove mesi I numeri raccolti dalla redazione di Ristretti Orizzonti disegnano una geografia del dolore che attraversa tutta l’Italia. Dal 3 gennaio, quando Ibrahim Khaled Salem, 26 anni, si è impiccato nel carcere di Firenze Sollicciano, fino all’ultimo caso di Perugia, il 2025 si sta rivelando un anno drammatico per il sistema penitenziario italiano. Scorrendo l’elenco dei 62 suicidi emerge un dato che colpisce immediatamente: l’impiccamento è il metodo più utilizzato, scelto in 56 casi su 62. Un dato che dice molto sulle condizioni delle celle, dove lenzuola, coperte o vestiti diventano strumenti di morte. Solo in sei casi si registrano modalità diverse: due si sono buttati, due casi di asfissia da gas, un dissanguamento e un soffocamento. L’età media delle vittime si aggira intorno ai 40 anni, ma il range è drammaticamente ampio: si va dai 17 anni di Danilo Rihai, morto nel carcere minorile di Treviso il 13 agosto, ai 70 anni di Lucio Saggio, che si è tolto la vita nel carcere di Genova Marassi il 23 marzo. Un dato, quest’ultimo, che fotografa come il sistema penitenziario italiano non riesca a gestire neanche le fragilità legate all’età. Rebibbia, epicentro della disperazione. Alcuni istituti penitenziari emergono come veri e propri epicentri di questa tragedia. A Roma, c’è il carcere di Rebibbia che guida questa classifica del dolore con quattro suicidi: Flavio Evangelista (41 anni, 6 settembre), Daniela Zucconelli (52 anni, 4 settembre), Maurizio Di Battista (54 anni, 19 luglio) e Gianluca Bennato (56 anni, 19 aprile). Quattro vite spezzate nello stesso istituto, quattro storie di disperazione che si consumano nella più grande casa di reclusione d’Europa. Non va meglio negli altri grandi centri penitenziari. Firenze Sollicciano conta tre suicidi, così come Cagliari, Napoli Poggioreale e Barcellona Pozzo di Gotto. Una distribuzione geografica che non risparmia nessuna regione, dal Nord al Sud, dalle isole alle metropoli. Un altro dato emerge con forza dall’analisi dei casi: il 40% dei suicidi riguarda detenuti stranieri. Tunisini, romeni, marocchini, libici: persone che alla sofferenza della carcerazione aggiungono l’isolamento culturale e linguistico, la lontananza dalla famiglia, spesso l’impossibilità di comunicare efficacemente con il personale penitenziario. Hashem El Sai, 25 anni, si è impiccato a Pescara il 17 febbraio. Osmane Boussahab, 29 anni, ha fatto la stessa scelta a Monza l’ 11 luglio. Said Talazouga, 22 anni, è morto a Milano San Vittore il 24 giugno. Storie di giovani vite che si spezzano lontano dalla terra natia, in un sistema che evidentemente non riesce a offrire loro né speranza né sostegno. Un sistema che uccide anche chi lo serve Ma il dramma non si consuma solo tra i detenuti. Come sottolinea De Fazio, quest’anno si sono tolti la vita anche tre operatori penitenziari, vittime di un sistema che “per mano del dicastero della giustizia continua a mostrarsi patrigno e caporale”. Carichi di lavoro disumani, turni che arrivano fino a 26 ore continuative, 2.500 aggressioni subite dall’inizio dell’anno: anche per chi dovrebbe garantire la sicurezza, il carcere è diventato un inferno. Gli agenti di polizia penitenziaria “espiano le pene dell’inferno per la sola colpa di essere al servizio del Paese”, denuncia il sindacalista. Una situazione che mette in luce come la crisi del sistema penitenziario non risparmi nessuno, creando vittime su entrambi i lati delle sbarre. Il mese di settembre si è rivelato particolarmente drammatico. Prima dell’ultimo suicidio, sono sei le vite spezzate in meno di quattro settimane: la detenuta di Perugia del 21 settembre, Elena, una romena di 26 anni morta a Sollicciano il 7 settembre, Flavio Evangelista e Daniela Zucconelli a Rebibbia rispettivamente il 6 e il 4 settembre. Un’escalation che ha portato il numero totale dei suicidi a quota 62 (più un internato a una Rems, confermando un trend drammatico che attraversa tutto l’anno. Di fronte a questi numeri, le parole di De Fazio suonano come un atto d’accusa: “Mentre al Ministero della Giustizia e al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria si esercitano nel pestare l’acqua nel mortaio, nelle carceri si continua a soffrire, più del necessario, e a morire”. Il riferimento al “pestare l’acqua nel mortaio” fotografa l’inefficacia delle politiche messe in campo dalle istituzioni. Nonostante gli annunci, le commissioni, le promesse, il sistema penitenziario italiano continua a produrre morte e sofferenza a ritmi insostenibili. I detenuti, secondo De Fazio, “subiscono una carcerazione non rispettosa di elementari principi di civiltà”. Una denuncia che trova conferma nei numeri: 62 suicidi in nove mesi significano una media di quasi sette morti al mese, più di una alla settimana. Un tasso che pone l’Italia tra i paesi europei con i più alti livelli di suicidi in carcere. La Costituzione italiana, all’articolo 27, stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ma i dati di Ristretti Orizzonti raccontano una realtà ben diversa, dove il carcere sembra essere diventato un luogo di disperazione piuttosto che di recupero. Il prezzo di un sistema al collasso Dietro ogni nome nell’elenco di Ristretti Orizzonti c’è una storia spezzata, una famiglia distrutta, un fallimento del sistema. Andrea Paltrinieri, 49 anni, si è asfissiato con il gas nella sua cella di Modena il 7 gennaio. Francesca Brandoli, 52 anni, si è impiccata a Milano Bollate il 30 marzo. Danilo Rihai aveva solo 17 anni quando ha scelto di morire nel carcere minorile di Treviso. Ogni caso rappresenta una sconfitta collettiva, un monito per una società che sembra aver dimenticato che anche chi sbaglia mantiene il diritto fondamentale alla vita e alla speranza di redenzione. I 62 suicidi del 2025 non sono solo statistiche: sono il grido disperato di un sistema che ha urgente bisogno di essere ripensato dalle fondamenta. Serve un intervento immediato e strutturale che restituisca dignità umana a chi vive dietro le sbarre e a chi le custodisce. Ancora è rimasta lettera morta l’iniziativa intrapresa dal presidente del senato Ignazio La Russa di Fratelli d’Italia. Il parlamento ancora non affronta la proposta di liberazione anticipata speciale. Il fallimento della politica edilizia è evidente. La promessa di far uscire almeno coloro che hanno meno di un anno di pena da espiare, rimane tuttora vana. Una strage, nell’indifferenza. Oltre 60 i detenuti suicidi in carcere di Valter Vecellio huffingtonpost.it, 26 settembre 2025 “È drammatico il problema dei suicidi nelle carceri che da troppo tempo non dà segni di arresto: si tratta di una vera emergenza sociale sulla quale occorre interrogarsi per porre fine immediatamente a tutto questo. Deve essere fatto per rispetto dei valori Costituzione, per rispetto del vostro lavoro e della storia della polizia penitenziaria”. Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in occasione del 208° anniversario della costituzione della polizia penitenziaria il 30 giugno scorso. Un monito, un allarme, una accorata sollecitazione a provvedere e farsi carico dell’emergenza diventata “ordinaria”, a tutta la classe politica, di governo e di opposizione; e, in definitiva, a tutti noi, che si prenda almeno coscienza e consapevolezza della situazione. Da allora: * 7 luglio: carcere di Vasto. Magrebino, 40 anni, problemi di natura psichica, viene trovato impiccato nella sua cella della casa di lavoro di Vasto. Nel penitenziario di Vasto sono reclusi 103 fra detenuti e internati; 69 gli agenti della polizia penitenziaria, a fronte di un organico previsto di 143 agenti. * 21 luglio: carcere di Massa. Tunisino, 26 anni non ancora compiuti, in carcere dal 16 luglio per revoca degli arresti domiciliari, è trovato impiccato nella sua cella. * 25 luglio: carcere di Trapani. Tunisino, 30 anni non ancora compiuti, accusato di reati connessi alla detenzione e allo spaccio di stupefacenti, affetto da patologie psichiche, si impicca nella sua cella. A Trapani 524 reclusi sono stipati in 497 posti disponibili, gli operatori di Polizia penitenziaria assegnati sono 260, ne servirebbero almeno 417; capita così che un solo agente debba occuparsi di sorvegliare a vista ben 4 detenuti contemporaneamente. * 30 luglio: carcere di Pavia. Da solo in cella, 36 anni: annoda le lenzuola, ne ricava una corda, si impicca. Era originario dell’est Europa. Carcere di Parma: un detenuto italiano di 53 anni si uccide impiccandosi. Detenuto ad alta sicurezza per reati associativi era in isolamento dal 2 maggio scorso per un motivo sanitario. Si impicca con l’elastico delle sue mutande. * 3 agosto: carcere di Aosta. Si lega un sacchetto di plastica intorno al collo e inala il gas propano emesso da una piccola bombola inserita all’interno del sacchetto. Si uccide così, un cittadino libico non ancora trentenne detenuto nel carcere di Brissogne-Aosta per reati inerenti lo spaccio di stupefacenti. * 5 agosto: carcere di Brescia. Un detenuto tenta di togliersi la vita, in condizioni disperate viene ricoverato in ospedale, dopo qualche giorno di agonia, muore. * 15 agosto: carcere di Benevento: un detenuto 53enne, italiano, in carcere da pochi giorni, si uccide recidendosi la giugulare. * 23 agosto: carcere di Cremona. Un detenuto magrebino di 40 anni è deceduto presso la Casa Circondariale di Cremona per aver inalato gas dalla bomboletta da campeggio regolarmente detenuta per preparare i pasti. A Cremona sono ammassati ben 563 detenuti in soli 384 posti disponibili, mentre si contano 187 operatori di Polizia penitenziaria assegnati, ma ne servirebbero almeno 335. * 27 agosto: carcere di Busto Arsizio. Un detenuto italiano di 61 anni, in carcere da 10 giorni per l’applicazione del c.d. codice rosso si toglie la vita impiccandosi nella sua cella. A Busto Arsizio sono stipati 423 detenuti in 211 posti (in pratica più del doppio rispetto alla capienza), gestiti da 178 appartenenti alla Polizia penitenziaria (ne servirebbero almeno 315). * 6 settembre: carcere di Roma-Rebibbia: un detenuto italiano si toglie la vita impiccandosi nella sua cella del reparto G12 del carcere. A Rebibbia 1.576 reclusi sono stipati in 1.068 posti disponibili, mentre gli appartenenti alla Polizia penitenziaria assegnati sono 640 (dovrebbero essere almeno 1.137). * 7 settembre: carcere di Firenze-Sollicciano. Una detenuta di origini rumene di 26 anni si impicca nella sua cella. Sarebbe stata scarcerata fra circa un anno. A Sollicciano sono reclusi 565 detenuti, di cui 73 donne, in 358 posti disponibili, gestiti da meno di 400 agenti (ne servirebbero minimo 622). * 21 settembre: carcere di Perugia. Una detenuta italiana, di circa 35 anni, affetta da patologie psichiatriche e in carcere per reati legati al traffico di stupefacenti, si toglie la vita impiccandosi nella sua cella. A Perugia sono stipati 495 detenuti (70 donne) in soli 313 posti disponibili, di contro vi sono 196 agenti in servizio, ne necessiterebbero almeno 338. * 25 settembre: carcere di Modena. Tunisino, 25 anni non ancora compiuti, si impicca nella sua cella della sezione accoglienza, dove si trovava da poco. A Modena sono ammassati 580 detenuti in 371 posti regolamentari, mentre gli agenti in servizio sono solo 225, ne servirebbero almeno 296. Dall’inizio del 2025 sono 62 i detenuti che ufficialmente si sono tolti la vita; a questa tragica lista vanno aggiunti un internato in una REMS e tre operatori della polizia penitenziaria. Elevati, anche se non esattamente quantificabili, i tentati suicidi sventati; e i decessi “per cause da accertare”. Ancora. Nelle carceri italiane, al 31 maggio 2025, risultano stipati quasi 63mila detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 51.296 posti (ai quali però andrebbero tolti quelli ormai inagibili: circa 4.500 secondo i calcoli di Antigone). Il tasso medio effettivo di affollamento è almeno del 133%. Si tratta appunto di un tasso di affollamento medio. Delle quasi 190 carceri italiane quelle non sovraffollate, riferisce Antigone nel suo ultimo rapporto, sono solo 36, mentre quelle con un tasso di affollamento uguale o superiore al 150% sono 58. Al 30 aprile 2025 gli istituti più affollati erano Milano San Vittore (220%), Foggia (212%), Lucca (205%), Brescia Canton Mombello (201%), Varese (196%), Potenza (193%), Lodi (191%), Taranto (190%), Milano San Vittore femminile (189%), Como (188%), Busto Arsizio (187%), Roma Regina Coeli (187%), Treviso (187%). Garantire i diritti ai detenuti Lgbt+, banco di prova del rispetto della dignità in carcere di Andrea Oleandri* lavialibera.it, 26 settembre 2025 In alcune carceri esistono sezioni protette speciali per le persone omosessuali o transessuali, ma rischiano di isolarle. Il loro destino resta affidato alla sensibilità dei singoli direttori o alla presenza di associazioni esterne. Senza un salto di qualità a livello nazionale. Cosa succede in carcere alle persone Lgbtqia+? Di certo l’identità non scompare e orientamento sessuale e identità di genere entrano insieme alla persona che varca il cancello. Troppo spesso però non si è in grado di farsene carico e diventano motivo di discriminazione, solitudine, negazione di diritti. Si tratta di un tema poco raccontato, per il quale mancano numeri, dove le testimonianze sono difficili da raccogliere e, di conseguenza, le politiche sono ancora parziali e spesso insufficienti. Antigone ha raccontato di questo in un report sull’Italia, recentemente pubblicato nell’ambito del progetto finanziato dalla Commissione europea “Strengthening the rights of Lgbtiq detainees in the EU”. Un report che parte da una constatazione, cioè che quante siano oggi le persone Lgbtqia+ detenute nelle carceri italiane non lo sappiamo con certezza. A una richiesta di accesso civico generalizzato agli atti (Foia) presentato da Antigone, il ministero della Giustizia aveva risposto che a fine luglio 2025 gli uomini gay reclusi erano 88, mentre le donne trans 76. Mancano però numeri ad esempio sulle donne lesbiche o sulle persone intersessuali o non binarie. E quelli relativi agli uomini gay, potrebbero non fotografare la situazione reale dato che in molti casi può prevalere la necessità per le persone di “nascondersi”, sapendo quanto il loro dichiararsi possa portare a discriminazione, ma anche ad atti ostili e persino violenti nei loro confronti. Questa assenza tuttavia non è neutra: rende le persone invisibili, e l’invisibilità diventa il primo ostacolo per riconoscere diritti, vulnerabilità, bisogni specifici. Quando una persona trans entra in carcere, il criterio resta quello del sesso biologico. Così una donna trans viene collocata in un istituto maschile, e un uomo trans in una sezione femminile, indipendentemente dal percorso personale o giuridico compiuto. Anche chi ha ottenuto la rettifica anagrafica spesso si scontra con resistenze o interpretazioni restrittive. Il risultato è una collocazione che nega l’identità. C’è poi un altro dato generale, cioè che le donne trans sono generalmente collocate in apposite sezioni e difficilmente, se non in alcuni casi e per specifiche attività, possono incontrare le altre persone. Il che si trasforma in una forma di isolamento di fatto e in una riduzione delle opportunità che invece sarebbero importanti per il loro percorso di reinserimento sociale. Un discorso che non vale per gli uomini trans che, non costituendo un problema in termini di sicurezza, non necessitano di una collocazione ad hoc. Le donne trans o gli uomini gay, dunque, generalmente sono collocate nelle cosiddette “sezioni protette promiscue” dove si trovano anche altre categorie di detenuti a rischio aggressioni o discriminazioni, come le persone accusate o condannate per resti sessuali o gli ex appartenenti alle forze dell’ordine. Dal 2018, poi, sono state create le cosiddette “sezioni protette omogenee”, che ospitano solo donne trans (ce ne sono sei in tutta Italia) o uomini gay (di queste ce ne sono tre). In teoria sembrerebbe una conquista mentre in pratica la protezione si traduce spesso in isolamento. Nelle sezioni protette le opportunità trattamentali e formative sono ridotte, le attività culturali scarse, i contatti con il resto della popolazione limitati. Chi vi è collocato finisce in una sorta di carcere nel carcere: tutelato dai rischi, ma privato di pari opportunità. Una protezione che diventa, in alcuni casi, segregazione. Il report curato da Antigone pone poi l’accento anche su altre barriere strutturali quotidiane. Ad esempio episodi di misgendering, che significa riferirsi alla persona utilizzando nomi e pronomi sbagliati, che non fanno riferimento all’identità che quella persona ha affermato. La sensibilità varia molto da istituto a istituto, ma la formazione del personale resta frammentaria. A questo si aggiungono difficoltà nell’accesso alla salute: terapie ormonali interrotte o ritardate, assenza di specialisti, continuità terapeutica compromessa da trasferimenti e burocrazia. Ormai diversi anni fa, nel carcere di Sollicciano, avevo incontrato una detenuta trans che mostrò delle cicatrici sulle sue braccia e raccontò alla delegazione con cui eravamo in visita al carcere che erano dovuti a tagli che si era autoinflitta per richiedere attenzione alla sua richiesta di ricevere la terapia ormonale di cui necessitava. Per molte persone vivere in carcere significa affrontare una doppia pena: la restrizione della libertà e la negazione della propria identità. Nonostante le criticità, alcune esperienze positive esistono. In alcune carceri la collaborazione con associazioni come Arcigay ha portato laboratori, gruppi di supporto, momenti di confronto. Alcuni istituti hanno sperimentato corsi di formazione per il personale penitenziario, con l’obiettivo di ridurre discriminazioni e aumentare la consapevolezza. Sono esperienze parziali, ma dimostrano che un carcere più inclusivo è possibile. Le eccezioni, però, non bastano. Senza un salto di qualità a livello nazionale, il destino delle persone Lgbtqia+ in carcere resta affidato alla sensibilità dei singoli direttori o alla presenza di associazioni esterne. Servono invece politiche strutturali che contemplino alcuni aspetti fondamentali. Raccolta dati: monitoraggi sistematici, su base volontaria e nel rispetto della privacy, per conoscere davvero la dimensione del fenomeno; salute: terapie ormonali e assistenza specialistica vanno garantite senza interruzioni; formazione obbligatoria del personale: perché il rispetto di nomi, pronomi e identità non dipenda dalla buona volontà del singolo agente; parità di opportunità: chi vive in una sezione protetta deve poter accedere ad attività formative, culturali, lavorative come il resto della popolazione detenuta. Garantire i diritti delle persone Lgbtqia+ in carcere è un banco di prova della capacità di un sistema penitenziario di rispettare la dignità umana. Se un carcere sa tutelare chi è più vulnerabile, allora sarà più giusto per tutti. Se invece la protezione si trasforma in esclusione, quel che ne emerge è un sistema che produce disuguaglianze, non che le riduce. *Responsabile comunicazione di Antigone Cospito: no della Cedu al ricorso, continuate pure a torturarlo di Frank Cimini L’Unità, 26 settembre 2025 Per i giudici europei il carcere duro è compatibile con lo stato di salute del detenuto, il deterioramento delle sue condizioni è stato attribuito al lungo sciopero della fame portato avanti dall’anarchico. Tortura europea. Il ricorso presentato da Alfredo Cospito contro l’applicazione del 41bis è stato dichiarato “manifestamente infondato” dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. I giudici hanno ritenuto che le autorità italiane abbiano fornito prove sufficienti per giustificare la misura, anche in relazione al deterioramento delle condizioni di salute del detenuto, causato con lo sciopero della fame da lui stesso. La Cedu ha ritenuto legittima l’applicazione del regime speciale e compatibile con le condizioni di salute del detenuto. Il deterioramento fisico è stato attribuito allo sciopero della fame. “Prendiamo amaramente atto della decisione, tutto sommato scontata, la giurisprudenza della Cedu è nota e non lasciava grandi speranze di successo - dice il difensore Flavio Rossi Albertini - tra pochi mesi scadrà il termine di quattro anni del provvedimento applicativo e vedremo quali saranno i pareri che giungeranno al Ministro Nordio sulla necessità o meno del rinnovo. Già nel 2022 la DNAA aveva rivisto il proprio parere sulla necessità del 41 bis per Cospito associandosi alla difesa nel richiedere una revoca anticipata del l’afflittivo regime detentivo. Nonostante l’attuale fase politica improntata al populismo penale e alla repressione del dissenso, speriamo che la direzione nazionale confermi il convincimento espresso”. La decisione della Cedu arriva dopo mesi di tensioni, dibattiti giuridici e mobilitazioni civili. Cospito, anarchico condannato per reati di matrice terroristica, due petardoni che non fecero morti e nemmeno feriti, è stato trasferito al 41-bis nell’aprile 2022 per decisione del ministro Marta Cartabia. La misura, pensata per isolare i boss mafiosi e impedire loro di mantenere contatti con l’esterno, era stata estesa al suo caso per il rischio di comunicazioni con gruppi anarchici ancora attivi. Insomma Cospito continua a restare in regime di carcere duro per colpa sua. In effetti quel lunghissimo sciopero della fame venne considerato “a scopo di terrorismo”. L’anarchico pescarese paga per le simpatie che quel digiuno aveva suscitato creando imbarazzo nei palazzi del potere e della politica. Il dibattito sul 41bis ha riacceso la discussione sulla compatibilità del regime di massima sicurezza con i diritti dei detenuti. La Cassazione aveva confermato l’impossibilità di passare a una detenzione meno afflittiva come aveva invece suggerito la Dna. Ora è la Cedu a ribadire che non c’è alcuna violazione della convenzione europea dei diritti dell’uomo. Sia sul piano umano che su quello della salute. La decisione chiude la questione sul piano giuridico ma il discorso resta aperto a livello della proporzionalità delle misure penitenziarie. La situazione resta incerta anche riguardo alla trasparenza delle proroghe della misura. E pure sul fatto che a decidere sul 41bis è solo il tribunale di sorveglianza di Roma con una evidente violazione del principio del giudice naturale. Opera una sorta di tribunale speciale. Va anche ricordato che sono sempre più pesanti del solito le pene decise dai giudici, ultimamente a Milano, sulle manifestazioni e cortei in solidarietà per Cospito dove si registrano incidenti tra manifestanti e forze di polizia. In pratica Alfredo Cospito è una sorte di aggravante contestata in modo strisciante. Attualmente Cospito attende la decisione in merito alla possibilità di poter prendere libri in biblioteca o acquistarli. Il magistrato aveva accolto la sua richiesta ma la direzione del carcere di Sassari Bancali non aveva eseguito la disposizione. L’udienza è stata aggiornata in attesa che la direzione risponda al giudice che aveva chiesto spiegazioni. Insomma non poter leggere, una misura afflittiva in più. Dal Palazzo di vetro al cortile di casa. Meloni porta il ddl Nordio all’Onu di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 26 settembre 2025 Nel suo intervento all’assemblea delle Nazioni Unite, la presidente del Consiglio ha attaccato i “giudici politicizzati”, con un occhio al referendum. C’è un filo rosso che lega il Palazzo di vetro a Palazzo Bachelet. All’assemblea generale dell’Onu, Giorgia Meloni non ha solo parlato di guerra e pace. Ha portato fin dentro la sede delle Nazioni Unite la battaglia politica che forse in questo momento più le sta a cuore: quella contro la magistratura “politicizzata” e per il sì al referendum sulla separazione delle carriere. In un intervento dai toni duri, la presidente del Consiglio ha messo nel mirino giudici e convenzioni internazionali, denunciando un sistema incapace di reggere alle nuove sfide della migrazione irregolare. Per molti osservatori non è stata solo una presa di posizione su scala globale: è stato il vero debutto della lunga campagna elettorale referendaria. Meloni ha scandito che le regole nate decenni fa per tutelare i diritti fondamentali “non esistevano in un’epoca di migrazioni irregolari di massa” e che, se interpretate “in modo ideologico e unidirezionale da magistrature politicizzate”, finiscono per calpestare il diritto invece che affermarlo. Il messaggio è chiaro: il problema non sta solo nei trafficanti, ma anche in una giustizia che, secondo il governo, frena il contrasto all’immigrazione clandestina. Rivolgendosi al consesso mondiale, Meloni ha quindi ribadito che l’Italia non è sola, che il tema è stato sollevato con altri paesi europei e che si tratta non di abbassare le garanzie, ma di aggiornarle ai tempi. Un passaggio che ha fatto rumore dall’altra parte dell’oceano perché, se è vero che la premier ha toccato anche i dossier più prevedibili - dal conflitto russo- ucraino all’escalation in Medio Oriente - l’attacco ai giudici ha assunto un significato politico ben preciso. Al centro non c’era tanto la diplomazia internazionale quanto il referendum confermativo sul ddl Nordio, che si terrà con ogni probabilità in primavera. Separazione delle carriere, depoliticizzazione della magistratura, equilibrio tra poteri: sono i temi che Palazzo Chigi vuole trasformare in un plebiscito a favore del governo, senza però ripetere l’errore che fece Matteo Renzi mettendo sul piatto il proprio mandato. E quale migliore occasione per lanciare il messaggio, se non dal palco più importante del mondo? La scelta non è casuale. I sondaggi in mano a Palazzo Chigi danno grosso modo un testa a testa. E la campagna per la giustizia è considerata dalla stessa maggioranza la più delicata e strategica. Portare il dibattito all’Onu significa proiettare l’immagine di una premier che difende la sovranità nazionale contro giudici e convenzioni “superate”, trasformando una riforma interna in un tema globale. L’obiettivo è mobilitare l’elettorato di centrodestra e parte di quello moderato, sensibile al legame tra sicurezza, confini e giustizia. Il ragionamento è semplice: se l’Italia viene frenata nella difesa dei suoi confini, la colpa non è solo dei trafficanti ma anche di chi, nelle aule giudiziarie, interpreta le leggi contro lo spirito della nazione. Un messaggio che risuona bene con l’elettorato e che consente a Meloni di saldare insieme due piani - quello della politica estera e quello della politica interna - in una narrazione unica. È così che l’intervento di New York si è trasformato in un manifesto politico, un atto di campagna elettorale anticipata. La reazione non si è fatta attendere. Dall’Associazione Nazionale Magistrati è arrivato un laconico “nulla da dichiarare”, ma il silenzio è stato eloquente. Le opposizioni invece hanno colto la palla al balzo. In particolare Elly Schlein, che alla Camera ha attaccato frontalmente la premier: “Non si era mai visto un presidente del Consiglio usare il palcoscenico internazionale per attaccare opposizioni e giudici. Giorgia Meloni è andata a New York per dividere la nazione”. Un’accusa durissima, che fotografa bene la frattura politica che la riforma della giustizia sta alimentando. Per la leader del Pd, Meloni rischia di trascinare la politica estera italiana dentro una contesa tutta interna, trasformando un discorso che dovrebbe essere di coesione nazionale in un’arma di scontro. “Meloni esca dalla megalomania”, ha aggiunto Schlein, con toni che restituiscono il clima incandescente destinato ad accompagnare la lunga marcia verso il referendum. Nella maggioranza, al contrario, l’uscita della premier viene letta come una mossa opportuna. Parlare all’Onu di giudici politicizzati e di riforma della giustizia significa blindare un terreno che per il centrodestra è identitario e mobilitante. Non solo immigrazione e sicurezza, dunque, ma anche una narrazione che mette in discussione le stesse regole del gioco, trasformandole nel cuore della sfida referendaria. La premier ha scelto dunque di giocare in attacco, lanciando la campagna non dalle piazze italiane ma dallo scranno più autorevole. In questo modo ha imposto il tema ai media, costringendo opposizioni e magistratura a reagire. Una strategia che rivela quanto il governo punti tutto sulla riforma della giustizia, considerata la chiave per consolidare il consenso e presentarsi alle elezioni europee con una vittoria referendaria in tasca. Il messaggio è arrivato forte e chiaro: Meloni ha portato la giustizia italiana al centro del mondo. Non per rafforzare i tavoli diplomatici, ma per trasformare l’assemblea generale dell’Onu nell’anteprima di una battaglia politica interna. Da oggi la campagna referendaria non si gioca più solo nei talk show o nei comizi: si combatte anche nelle aule internazionali. Petrelli (Ucpi) lancia la campagna per il Sì: “Siamo in prima linea” di Valentina Stella Il Dubbio, 26 settembre 2025 Al via la tre giorni congressuale dei penalisti che si svolge alla vigilia del referendum sulle carriere separate: “Sono convinto che gli elettori di sinistra siano favorevoli alla riforma perché è una storia che intreccia il pensiero liberale di sinistra”. Si apre domani a Catania - e proseguirà fino a domenica - il XX congresso ordinario dell’Unione Camere Penali Italiane. Titolo della tre giorni “La giustizia che sarà - Il giudice e le parti: ruoli, funzioni, culture”. Numerosi gli ospiti istituzionali e politici. Fabio Pinelli, numero due del Csm, Francesco Greco, presidente del Cnf, il vertice del Senato Ignazio La Russa, il vice ministro Francesco Paolo Sisto, il deputato Enrico Costa, i consiglieri di Palazzo Bachelet Andrea Mirenda e Felice Giuffrè, il procuratore Antimafia Giovanni Melillo. Si tratta dell’ultimo appuntamento dei penalisti prima del referendum sulla separazione delle carriere. Il presidente dell’Ucpi, Francesco Petrelli, è convinto che “ci sarà una grande partecipazione perché il clima del momento è particolarmente sentito dall’avvocatura penale. Siamo infatti vicini all’ultimo passaggio parlamentare della riforma costituzionale ed all’apertura di una campagna referendaria che vedrà gli 11.000 avvocati dell’Unione impegnati in prima linea nell’attività di comunicazione e di informazione dei cittadini”. Come ricorda Petrelli “l’intera storia dell’Ucpi è legata a questa fondamentale e irrinunciabile idea riformatrice e sono convinto che questo sarà un motivo di grande entusiasmo e di forte mobilitazione”. Ad intervenire oggi pomeriggio anche il presidente dell’Anm, Cesare Parodi. Al di là dei convenevoli, è noto a tutti che i rapporti tra avvocati e magistrati sono molto tesi sul tema della riforma Nordio. Tuttavia Petrelli si dice “felice” che Parodi “abbia accolto subito il nostro invito, anche perchè l’avvocatura è convinta che sarebbe un danno per il Paese se il confronto sulla riforma costituzionale finisse con l’essere travolto da tensioni improprie. Questo distoglierebbe l’attenzione dai temi concreti della campagna referendaria, che sono quelli che interessano tutti i cittadini. Credo che la tensione caratterizzi piuttosto i rapporti fra politica e magistratura, perché è in quel campo che vi è interesse all’acquisizione di consenso. Ma il tema referendario è un altro, relativo al diritto o meno dei cittadini ad un giudice terzo e quindi ad una giustizia penale più efficace, più equilibrata e trasparente”. Più volte, infatti, l’Ucpi ha contestato “l’impegno politico” del sindacato delle toghe. Chiediamo a Petrelli se non ritenga che anche i magistrati da cittadini abbiano il diritto di esprimere la propria posizione e dove finisca la loro libertà di espressione. “Finisce esattamente dove inizia il loro ruolo - ci spiega l’avvocato - perché i magistrati, diversamente dai comuni cittadini, sono titolari di poteri straordinari ed ogni potere è inevitabilmente fonte di responsabilità e di restrizioni, soprattutto con riferimento all’esercizio dei diritti politici. Ogni cittadino è libero di esercitare i propri diritti di elettorato passivo e di iscriversi evidentemente a qualsiasi partito, ma non è così per i magistrati soggetti in questa materia a molteplici ovvie limitazioni. D’altronde, la stessa Corte costituzionale ci ricorda che “sebbene i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni cittadino” deve tuttavia “ammettersi che le funzioni esercitate e la qualifica da essi rivestita non sono indifferenti e prive di effetto” proprio perchè occorre “evitare che possa fondatamente dubitarsi della loro indipendenza e imparzialità”. Credo che i magistrati dovrebbero essere i primi a coltivare questo self-restraint, nell’interesse della loro stessa categoria” auspica Petrelli a cui domandiamo se a suo parere sarà vincente trasformare il referendum in un plebiscito pro o contro magistratura, utilizzando anche argomenti estranei al contenuto della riforma. “Credo che si tratti della cosa peggiore che possa accadere perché allontanerebbe i cittadini dal merito della riforma, sui quali le ragioni della magistratura sono indifendibili, mentre imposterebbe il confronto su di uno stucchevole registro vittimistico di cui non abbiamo alcun bisogno”. Tra gli ospiti di oggi ci sono sia Goffredo Bettini che Debora Serracchiani. Entrambi del Pd ma con posizioni opposte sulla separazione delle carriere. “Sono convinto - dice ancora Petrelli - che vi sia una parte molto consistente di elettori di sinistra favorevoli alla riforma rimasti impigliati in un pregiudizio ideologico che credo sia facilmente superabile, perché quella della separazione delle carriere è una storia che intreccia il pensiero liberale di sinistra”. D’altronde “il superamento dell’unitarietà delle magistrature requirenti e giudicanti è una evidente conquista democratica: è il superamento di quella “unità spirituale” della magistratura proclamata nell’Ordinamento giudiziario di Dino Grandi, guardasigilli di Mussolini. Di questo Giuliano Vassalli, socialista, padre, nel 1988, della prima riforma repubblicana del processo penale accusatorio, era perfettamente consapevole, come ne erano convinti lo stesso Giovanni Falcone e poi di lì, per citarne solo qualcuno, Agostino Viviani, Emanuele Macaluso, Enrico Morando, Goffredo Bettini, appunto, fino a Maurizio Martina che affermava addirittura nel suo programma, sottoscritto anche da Debora Serracchiani, la ‘ineludibilità’ della riforma”. Sempre a proposito di riforma chiediamo a Petrelli se sia d’accordo con chi sostiene, ad esempio, che colpire il capo di Gabinetto di Nordio Giusi Bartolozzi nasconda la volontà di colpire la separazione delle carriere e Nordio. “Impostare il discorso su questa base “complottista”, non solo incrementa quelle tensioni che rischiano di eclissare del tutto il merito delle riforme, ma impedisce anche di comprendere i reali fenomeni in atto all’interno della magistratura deformandoli attraverso le lenti dell’”anti-berlusconismo” e delle cd. “toghe rosse”. Mi pare un teatrino che giovi unicamente agli interessi di parte della politica e della magistratura”. L’ultima questione affrontata con Petrelli riguarda quegli avvocati che pubblicamente e non esprimono incertezza sul votare “Sì” al referendum perché promosso da un governo di destra. “Non so a quali avvocati si riferisce, ma ammesso che ve ne siano, direi semplicemente che le leggi vanno valutate per il loro contenuto e per la loro autentica storia, al di là di chi le propone e, come ha detto un giurista del livello del prof. Paulo Pinto de Albuquerqe, accademico e giudice della Corte europea, non sospettabile di simpatie governative, che questa riforma non è né di destra né di sinistra e farà solo bene alla giustizia di questo Paese, così come ha fatto bene al Portogallo, dove è stata introdotta dopo la rivoluzione dei garofani del 1974” conclude Petrelli. Gratteri lancia la campagna anti-separazione delle carriere di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 26 settembre 2025 Ascolti in discesa per il procuratore antimafia, che intanto prepara la battaglia per il No alla riforma. Se qualcuno si fosse preoccupato del fatto che le “lezioni di mafie” del professor Nicola Gratteri, potessero interferire in qualche processo in corso, o che parlassero in modo esplicito del referendum di primavera sulla giustizia, ha proprio sbagliato la mira. E ha un tono quasi irridente lo stesso procuratore di Napoli nella risposta al ministro Nordio, che gli aveva chiesto chiarimenti in seguito a un’interrogazione del deputato di Forza Italia Pietro Pittalis. La mia, ha scritto il magistrato al guardasigilli, è solo “libera espressione di pensiero”. E ha spiegato che le quattro puntate, mandate in onda da La7 il mercoledì in prima serata, sono state registrate tutte insieme durante le vacanze, nell’ambito di un’attività gratuita e non continuativa, in cui non si tratta mai di inchieste in corso. Tutto vero, per quel che si è visto finora, nelle prime due puntate. E chissà se i telespettatori di La7 sapranno resistere alla noia di scene già viste e riviste sulle piantagioni sudamericane di foglie di coca e di spiegazioni banalizzate sul fatto che la ‘ndrangheta ormai non spara più ma si organizza in multinazionali immobiliari. Già la seconda puntata, con la discesa dello share dal primo piccolo successo del 7% al 5,5%, senza paragonarla alla Ruota della fortuna con il suo 23% e neanche al 19% di Montalbano, ha segnato distrazione dopo il primo momento di curiosità. Ma il risultato comunque c’è già. Perché il procuratore ha messo in tasca, proprio come fa ogni volta che pubblicizza i propri libri, grosse briciole di popolarità. La sua immagine, la sua faccia, saranno impresse nella memoria di chi lo ha visto, anche di sfuggita, sullo schermo. E così anche Capitan Gratteri, la toga dura e pura che guida la procura più forte d’Europa, è già pronto alla battaglia di primavera per il referendum sulla giustizia. Lo ha annunciato la settimana scorsa alla festa del quotidiano di riferimento, tra le ola dei manifestanti. Farà campagna per il No, va da sé. Sarebbe strano il contrario. Visto che nella sua carriera di procuratore in Calabria, pure costellata più dai flop che dai successi delle sue inchieste, di giudici “appiattiti” ne ha incontrato più di uno. Ma del resto ai risultati non ha mai badato più di tanto. Piuttosto, proprio come un tempo era capitato a un altro uomo del sud, se pure in attività al nord, Tonino Di Pietro, per Nicola Gratteri il vero risultato è quello di essere oggetto di venerazione popolare. Anche se veleggiano nell’aere i fantasmi della sua creatività suggestiva di procuratore, “Basso profilo”, “Farmabusiness”, “Lande desolate”, palloncini ridotti in quel nulla che erano da subito, da quando si erano alzati al cielo. Le suggestioni sono il suo forte. Diversamente, come avrebbe potuto scrivere diciotto libri diciotto, in simbiosi con Antonio Nicaso, oggi suo collega anche in tv? Testi così perfettini da parere compilati con l’intelligenza artificiale. Ma che importa? I libri non devono per forza essere letti, l’importante è che vengano comprati. E i suoi lo sono, eccome, diversamente la Mondadori non continuerebbe a coccolarlo come un cucciolo affettuoso e riconoscente. I libri, lo sappiamo, sono anche un grande strumento di propaganda. Lo sanno bene i politici, i quali, proprio come i magistrati, li scrivono, si fa per dire, “con”. E quel “con”, che in francese è solo una parolaccia, in italiano è preposizione preziosa a indicare chi il testo lo ha davvero pensato e steso. Poi, quando si va in giro per i paesi di mare e montagne di cui la Calabria è ricca, è sufficiente presentarsi come guerriero coraggioso e invincibile. Bisogna saper dosare il sussurro e il tono di voce alto. E parlare di giustizia con gli esempi, o la messa in burla. Ricordate quando il Parlamento approvò la norma europea sulla presunzione di non colpevolezza? Quello fu il giorno, insieme ai tanti che seguirono, blitz dopo blitz, del vero trionfo di Nicola Gratteri nella comunicazione, l’arte che gli riesce meglio. A ogni arresto il procuratore si presentava in conferenza stampa, accerchiato da tante divise con tante stellette, e annunciava tutto giulivo, come fece nella sua ultima esibizione, “oggi abbiamo arrestato 84 presunti innocenti”. Lui ridacchiava e il popolo adorante era in delirio. Proprio come trent’anni prima i cittadini milanesi andavano in corteo con le torce accese intorno al palazzo di giustizia gridando “Di Pietro facci sognare”. Così i magistrati sempliciotti nell’apparenza ma di grande astuzia nella realtà sanno combattere anche le riforme più sofisticate. Come quella che, passando dai tempi di Cartabia a quelli di Nordio, ha introdotto l’interrogatorio dell’indagato da parte del gip pima della decisione sulla custodia cautelare. Il procuratore Gratteri non parla al suo popolo solo di “colletti bianchi”, come farebbe quel sapientone di Caselli o quel mafiologo di Scarpinato. Lui va subito nel basso napoletano, a toccare con mano i problemi delle famiglie con il figlio scapestrato e tossico. Se la madre disperata va a denunciare lo spacciatore e questo viene interrogato prima dell’arresto, verrà anche a sapere chi è che sta cercando di mandarlo in galera, e magari attuare una ritorsione. Questo dice alle mamme di Scampia, e il ministro Nordio con le sue riforme è già fritto nell’opinione pubblica, proprio come Cartabia. Possiamo quindi già immaginare la sua campagna di primavera contro la separazione delle carriere tra giudici e magistrati requirenti. Sembra un paradosso, ma chi è contrario alla riforma costituzionale, e proprio per l’eccesso di potere che si concentrerebbe nelle mani del pubblico ministero, descrive il rappresentante dell’accusa proprio come un “gratterino”. Individualista, molto attivo, magari anche simpatico, ma comunque pericoloso perché troppo decisionista. Lui invece, il Gratteri autentico, pare avere il timore opposto. Cioè che, attraverso la (inesistente) sottoposizione della toga requirente al ministro guardasigilli, non si possa più indagare sulla mafia o la corruzione, in quanto altre potrebbero essere le priorità politiche. Che non è un argomento astratto. Perché intanto, con le sue “lezioni” su La7, e le spiegazioni sulla pericolosità delle organizzazioni mafiose, Nicola Gratteri ci sta già offrendo un antipasto di quel che sarà la sua campagna di primavera. In quell’occasione il procuratore-scrittore si mostrerà, ne siamo certi, come il più “puro”, quello che non si è mai fatto contaminare dalle correnti sindacali delle toghe. Racconterà che tutte quelle belle indagini sul narcotraffico, proprio quelle di cui ci ha raccontato in tv, non si potranno più fare. Non avrà bisogno di aderire al Comitato dell’Anm contro la riforma Nordio. Gli basterà condurre la sua campagna solitaria e immacolata. Che rischia di essere più efficace di tutte le conferenze dei sindacalisti dell’Associazione Nazionale Magistrati. Sarà bene che Carlo Nordio e i futuri Comitati per il Si lo tangano d’occhio, questo scrittore-conferenziere. Perché alla fine è più politico dei politici, anche di quelli in toga. Carriere separate. Bettini e il tentativo di riportare la sinistra a parlare del merito di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 26 settembre 2025 A Catania, dove si sta svolgendo il congresso dell’Unione delle Camere Penali, oggi prenderà la parola Goffredo Bettini. L’ex stratega del Partito Democratico ribadirà un concetto che negli ultimi mesi non ha smesso di sostenere: la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri non è una bandiera della destra, ma una riforma che può rafforzare la terzietà del giudice e la fiducia dei cittadini nella giustizia. Una presa di posizione che, per quanto oggi sembri minoritaria dentro al Pd, fino a pochi anni fa non era affatto isolata. Anzi, era scritta nero su bianco nei documenti congressuali e sottoscritta da esponenti che ancora oggi siedono in Parlamento. Basta tornare al 2019, quando Maurizio Martina si candidò alla segreteria. Nel suo programma, la separazione delle carriere veniva definita “ineludibile” per garantire un giudice davvero imparziale. A firmare quella mozione furono molti dirigenti democratici: da Graziano Delrio a Lorenzo Guerini, da Simona Malpezzi a Valeria Valente, fino a Debora Serracchiani, che allora condivideva la necessità di un intervento strutturale e oggi, da responsabile giustizia del partito, guida la trincea contro la riforma che il centrodestra sta portando ad approvazione e che sarà sottoposta a referendum confermativo. Un capovolgimento che stride con la memoria recente e rende il paradosso evidente: ciò che allora appariva una necessità democratica viene oggi bollato come attentato alla Costituzione. L’ultimo passaggio alla Camera, con i 243 sì alla riforma costituzionale e le proteste vibranti dell’opposizione, ha messo in scena tutta la contraddizione. Le grida, le accuse al governo di ignorare Gaza pur di esultare per la vittoria parlamentare, gli applausi di maggioranza: il merito della questione è scivolato via, sostituito da una battaglia di simboli e slogan. Ma il dato resta: il centrodestra sta portando a casa un risultato che cinque anni fa era iscritto nell’agenda del Pd. In questo quadro, l’intervento di Bettini arriva come un contrappunto non necessariamente scomodo. Non per sfiducia nella magistratura, precisa lui, e nemmeno per alimentare pulsioni giustizialiste. Al contrario, il suo ragionamento parte da una visione della giustizia come equilibrio fragile, in cui l’imputato - spesso solo, smarrito, disarmato - deve poter confidare in un giudice realmente terzo. Da figlio di un avvocato cresciuto tra i racconti e le arringhe dei grandi penalisti del passato, Bettini richiama il dovere civile di riconoscere la sproporzione di forza che in ogni processo oppone lo Stato al cittadino. È qui che la separazione delle carriere diventa, nella sua prospettiva, un passo di civiltà: non un totem ideologico, ma un modo per rafforzare l’equità e restituire dignità tanto al giudice quanto all’imputato. La sua visione affonda le radici in una tradizione di liberalismo di sinistra che diffidava di ogni potere senza contrappesi. Montesquieu, ha ricordato Bettini in un suo recente intervento, temeva un potere giudiziario stabile e organizzato, preferendo immaginarlo intermittente, aperto, privo di strutture permanenti. Utopia, forse. Ma un’utopia nobile che serve a orientare il cammino, anche quando i passi sono piccoli e faticosi. Per questo, insiste, la separazione delle carriere non è né vendetta né cedimento populista: è un tentativo di dare forma a una giustizia che non si riduca a strumento di potere. Il paradosso politico è che, mentre il Pd in blocco si schiera oggi contro la riforma del governo Meloni, un pezzo della sua stessa storia recente parla un linguaggio diverso. L’intervento di oggi di Bettini a Catania avrà il merito di ricordare che su questo terreno non tutto è bianco o nero, e che la sinistra italiana aveva a lungo discusso della necessità di rafforzare l’imparzialità del giudice. La domanda che resta sospesa è semplice ma inevitabile: se nel 2019 la separazione delle carriere era auspicata, perché oggi viene trattata come una minaccia? Le urla in Aula non hanno dato risposta. Bettini, con la sua voce fuori dal coro, proverà almeno a riportare il dibattito sul merito. Dare la grazia. La scelta simbolica e controcorrente di Mattarella di Francesco Damato Il Dubbio, 26 settembre 2025 Considerate una per una, le quattro grazie appena concesse dal presidente della Repubblica hanno risolto altrettanti casi personali di condannati in condizioni particolarmente difficili e penose. Condanne anche controverse emesse tra polemiche durissime in sede politica e mediatica, in un disagio avvertito anche dai magistrati che le avevano promosse ed emesse. Particolarmente clamorosa fu la condanna di Gabriele Filotello, oggi trentenne, che nel 2021 uccise il padre per difendere la madre delle sue violenze. O della guardia giurata Massino Zen, di 54 anni, che uccise dieci anni fa un ladro in fuga procurandosi la solidarietà pubblica di politici anche di primo piano. O di Patia Altanà, di 53 anni, autrice di furti ed estorsioni fra il 2012 e il 2016 e ridotta in precarie condizioni di salute. O di Acuta Strimbu, di 39 anni, autrice anch’essa di estorsioni, e in più di violazione delle norme di disciplina degli stupefacenti. Qui finisce il racconto sommario dei singoli casi, ripeto, risolti dall’intervento del Capo dello Stato nell’esercizio insindacabile delle sue funzioni, comunque sempre al riparo dei pareri favorevoli dei magistrati di sorveglianza e delle parti lese. E comincia una riflessione che mi sembra quanto meno opportuna, se non doverosa, sulle circostanze e modalità delle decisioni di Sergio Mattarella, prese simultaneamente controcorrente rispetto al clima politico e sociale in cui viviamo. Un clima di intolleranza e violenza che attraversa le piazze e persino le aule parlamentari, non so se le une più condizionate dalle altre, o viceversa. Un clima nel quale il problema dell’affollamento delle carceri viene risolto praticamente ignorandolo. E opponendo la cosiddetta certezza della pena alla impossibilità frequente di garantirne una decente applicazione. Non parliamo poi delle guerre, quelle vere in mezzo alle quali viviamo ormai da troppo tempo - nonostante la convinzione del presidente americano Donald Trump di averne risolte almeno sette da quando è tornato alla Casa Bianca - nel rischio di abituarvici. O di opporvi solo manifestazioni unilaterali di protesta o solidarietà che per ciò stesso, cioè per la loro parzialità, ne aumentano i danni e compromettono la fine. Guerre come quella, certo, a Gaza e dintorni ma anche in Ucraina. A proposito di quest’ultima, le cui responsabilità risalgono incontrovertibilmente alla Russia di Putin, che la cominciò chiamandola “operazione speciale” di “denazificazione” del paese limitrofo, Mattarella non può parlare, come fa invece dal primo momento, senza finire in Italia e nella stessa Russia nell’elenco dei guerrafondai. Degli emuli di Hitler. In questo clima allucinante, a dir poco, adottare grazie al Quirinale e parlarne fuori può apparire un felice ossimoro. Anzi, felicissimo. Il detenuto rifiuta le cure? Escluso il differimento della pena per motivi di salute di Emanuela Foligno* responsabilecivile.it, 26 settembre 2025 Un detenuto con gravi problemi di salute aveva chiesto il differimento della pena, sostenendo l’incompatibilità con il regime carcerario. Ma i giudici hanno respinto l’istanza: chi rifiuta cure e terapie non può invocare motivi sanitari per ottenere la sospensione della detenzione. Il Giudice deve rigorosamente valutare se le condizioni di salute del condannato possano essere adeguatamente assicurate all’interno dell’istituto penitenziario, o in centri clinici penitenziari (Corte di Cassazione, prima penale, sentenza 4 settembre 2025, n. 30259). Il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha rigettato l’istanza del detenuto di differimento della pena per motivi di salute. Il quadro patologico del detenuto, osserva il Giudice, è si complesso, ma privo di risvolti critici espressivi di rischio di aggravamenti, scompensi e complicanze, tali da non poter essere gestiti in ambito intramurario; il condannato presenta una condizione problematica, aggravata da uno stato di obesità, sul piano circolatorio e respiratorio, e sotto tale aspetto i monitoraggi e le cure sono stati continui e hanno rivelato valori stazionari. Inoltre nel maggio 2024, il condannato ha rifiutato il ricovero per un dolore toracico, e nell’estate del medesimo anno, iniziava lo sciopero della fame rifiutando la terapia ipertensiva. In generale, osserva ancora il Tribunale, anche con riferimento alle ulteriori problematiche sul piano neurologico, dell’apparato respiratorio e dell’apparato urinario, completi e tempestivi erano stati gli interventi di monitoraggio e cure, e come non vi era evidenza di complicanze o pregiudizievoli ritardi nello svolgimento degli esami programmati. Il condannato presenta ricorso in Cassazione, deducendo violazione di legge, nonché mancanza e contraddittorietà della motivazione in relazione al giudizio di pericolosità. Secondo la sua tesi il Tribunale non avrebbe correttamente valutato la compatibilità delle gravi condizioni di salute con il regime detentivo intramurario, come attestate dalla relazione del 15/05/2024 dell’ASL Roma, che evidenziava i “gravissimi rischi per la salute e la vita” derivanti dal perdurare del regime detentivo. Infatti proprio l’aggravarsi delle condizioni di salute aveva infatti comportato il ricovero del ricorrente dal 29/10/2024 al 10/04/2025 presso l’ospedale Belcolle di Viterbo. A seguito delle dimissioni dal nosocomio si era inoltre reso necessario il trasferimento del detenuto dal carcere di Civitavecchia al centro clinico di Rebibbia. La S.C. ritiene il ricorso infondato. La concessione della detenzione domiciliare, il differimento facoltativo dell’esecuzione della pena per grave infermità fisica ai sensi dell’art. 147 cp, e il differimento obbligatorio ai sensi dell’art. 146, sono istituti che si fondano sul principio costituzionale di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge senza distinzione di condizioni personali (art. 3 Cost.), su quello secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27 Cost.) e, infine, su quello secondo il quale la salute è un diritto fondamentale dell’Individuo (art. 32 Cost.). Pertanto, a fronte di una richiesta di differimento dell’esecuzione della pena per ragioni di salute, o di detenzione domiciliare, per grave infermità fisica, il Giudice deve valutare se le condizioni di salute del condannato, oggetto di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all’interno dell’istituto penitenziario o, comunque, in centri clinici penitenziari, e se esse siano, o meno, compatibili con le finalità rieducative della pena, con un trattamento rispettoso del senso di umanità, tenuto conto anche della durata del trattamento e dell’età del detenuto, a loro volta soggette ad un’analisi comparativa con la pericolosità sociale del condannato e alla possibilità che un eventuale (anche residuo) rischio di recidiva sia adeguatamente fronteggiabile con la detenzione domiciliare cosiddetta umanitaria, considerate le limitazioni e le restrizioni ad essa apponibili. Il giudice deve, quindi, operare un bilanciamento di interessi tra le esigenze di certezza e indefettibilità della pena, nonché di prevenzione e di difesa sociale, da una parte, e la salvaguardia del diritto alla salute e ad un’esecuzione penale rispettosa dei criteri di umanità, dall’altra, al fine di individuare la situazione cui dare la prevalenza. Detto in altri termini, la valutazione che deve essere compiuta riguardo alla compatibilità tra il regime detentivo carcerario e le condizioni di salute del detenuto, deve raffrontare le complessive condizioni di salute del condannato e le cure praticabili in ambiente carcerario, ovvero anche presso i presidi sanitari territoriali. Il Tribunale di sorveglianza di Roma ha applicato correttamente tali principi, arrivando a una motivazione coerente ed esaustiva, immune da vizi logici e giuridici e, quindi, incensurabile, sulla compatibilità tra lo stato di restrizione in carcere e la condizione patologica nella quale versa il condannato. Difatti, dopo attenta analisi delle relazioni sanitarie, è stato messo in luce come il detenuto sia affetto da un quadro patologico certamente complesso, ma, purtuttavia, privo di risvolti critici espressivi del rischio di aggravamenti, scompensi o complicanze tali da non poter essere gestiti in ambito murario. Sul punto, la S.C. richiama e ribadisce il seguente principio: “I trattamenti sanitari nei confronti del detenuto sono incoercibili ma, se potenzialmente risolutivi di condizioni di salute deteriori, in forza delle quali il detenuto medesimo chiede il differimento della pena, o una misura alternativa alla detenzione, la loro accettazione si pone come condizione giuridica necessaria alla positiva valutazione della relativa richiesta”. Tutto ciò in quanto non appare lecito strumentalizzare le patologie di cui si sia portatori, in vista del risultato di ottenere il differimento della pena: invero, la condizione di sofferenza autoprodotta dal condannato, realizzata cioè mediante comportamenti come la mancanza di collaborazione per lo svolgimento di terapie e di accertamenti o il rifiuto dei medicamenti e del cibo, non può essere presa in considerazione ai fini del bilanciamento tra esigenze di salvaguardia dei diritti fondamentali ed obblighi di effettività della risposta punitiva, non potendosi pretendere tutela di un diritto abusato ed esercitato in funzione di un risultato estraneo alla sua causa. Pertanto, la S.C. considera assolta la verifica del bilanciamento tra il diritto alla salute del condannato e le esigenze di sicurezza della collettività. La decisione è congruamente argomentata e frutto dell’esercizio della discrezionalità giudiziale, a fronte della quale il ricorrente oppone obiezioni confutative inidonee a individuare sintomi di illogicità o contraddittorietà. *Avvocato Abbreviato senza appello, l’ulteriore taglio di 1/6 di pena non si estende ai reati in continuazione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2025 La Cassazione, sentenza n. 31887 depositata oggi, ha chiarito che la misura deflattiva introdotta dalla riforma Cartabia riguarda solo la sentenza di primo grado non impugnata divenuta irrevocabile dopo l’entrata in vigore della norma. Nel rito abbreviato, la riduzione di un sesto della pena introdotta dalla riforma Cartabia si applica solo alla pena inflitta con la sentenza di primo grado non impugnata e divenuta irrevocabile dopo l’entrata in vigore della norma e senza estensione alla pena complessiva risultante dalla continuazione con condanne già definitive. Lo ha affermato la Corte di cassazione, con la sentenza n. 31887 depositata oggi, respingendo il ricorso dell’imputato. Il ricorso è stato proposto contro il rigetto, da parte del Gip, in funzione di giudice dell’esecuzione, dell’opposizione contro il provvedimento che aveva accolto parzialmente l’istanza di riduzione di un sesto della pena irrogata dal Gup senza estenderla dunque anche alle condanne per i reati in continuazione esterna (30 anni) divenuti definitivi prima dell’entrata in vigore della norma. Secondo l’imputato invece la riduzione doveva applicarsi all’intera pena, in quanto la continuazione rende le condanne unitarie. La Prima sezione penale ha, invece, chiarito che il beneficio dell’ulteriore riduzione di un sesto, previsto, dall’art. 442, co. 2- bis, Cpp, inserito dall’art. 24, co. 1, lett. c), Dlgs 10 ottobre 2022, n. 150, “si applica in presenza della condizione processuale costituita dalla irrevocabilità della sentenza per mancata impugnazione che, in quanto soggetta al principio del “tempus regit actum”, è ravvisabile solamente rispetto a sentenze di primo grado divenute irrevocabili dopo l’entrata in vigore del citato d.lgs. n. 150 del 2022, pur se pronunciate antecedentemente”. Infatti, prosegue la Corte, solo nella ipotesi di “coesistenza” della norma di favore e del presupposto processuale (la scelta di non impugnare) vengono salvaguardati, al contempo: a) l’effetto deflattivo perseguito voluto dalla Cartabia; b) la logica sinallagmatica correlata al meccanismo premiale contemplato; c) il rispetto del principio del “tempus regit actum”, relativo alle questioni processuali; d) la volontà dell’effetto premiale in capo al soggetto richiedente; e) il rispetto dei principi di eguaglianza e responsabilità penale; f) la conseguente giustificazione del trattamento sanzionatorio difforme, posto che a situazioni diverse si applicano discipline diverse. La rinuncia all’impugnazione della sentenza di condanna, dalla quale dipende la riduzione di un sesto della pena, chiarisce la Corte, integra un sacrificio diverso e ulteriore rispetto alla rinuncia alle garanzie del dibattimento, che è già “compensata” dalla riduzione della metà o di un terzo prevista dal comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen. Riguardo alla questione della continuazione, la sentenza ritiene utile rammentare che le Sez. U, n. 35852 del 22/02/2018 hanno affermato che “L’applicazione della continuazione tra reati giudicati con il rito ordinario e altri giudicati con il rito abbreviato comporta che soltanto nei confronti di questi ultimi - siano essi reati cd. satellite ovvero reati che integrino la violazione più grave - deve essere applicata la riduzione di un terzo della pena, a norma dell’art. 442, comma secondo, cod. proc. pen.” Una simile ricostruzione interpretativa, porta dunque ad escludere l’applicabilità del meccanismo premiale ulteriore al ricorrente. Nel caso specifico, infatti, l’ordinanza impugnata ha confermato il provvedimento opposto che aveva riconosciuto il beneficio della riduzione del sesto per la sola porzione di pena (4 anni di reclusione) inflitta per i reati giudicati da tale sentenza e non, come invece richiesto, in relazione alla pena complessiva (anni 30 di reclusione) applicata a seguito del riconoscimento della continuazione esterna con i fatti che hanno portato alla condanna in altre sentenze. Fine pena oggi: l’alba di un nuovo inizio di Fabrizio Pomes* bandieragialla.it, 26 settembre 2025 Undici anni. Quattromila quindici giorni. Novantaseimila trecento sessanta ore. Un’eternità scandita dal rumore metallico di una porta che si chiude, dal silenzio che urla più forte di qualsiasi condanna. Era il 6 ottobre del 2014. Il cielo plumbeo aveva lo stesso colore di oggi ma sembrava più lontano. Le manette strette ai polsi, il cuore che batteva come se volesse sfuggire prima di me, i flash dei fotografi e le telecamere dei giornalisti. Avevo 48 anni e una vita che si spezzava in due. Da quel momento, ogni giorno è stato un passo dentro me stesso, nel buio, nel rimorso, nella speranza che un giorno, forse, avrei potuto tornare ad essere qualcuno. Ho visto stagioni passare dietro le sbarre, ho imparato a leggere gli occhi di chi entra e di chi esce. Ho perso pochi amici ma tanti conoscenti, ho perso tempo. Mi sono aggrappato a ogni libro, a ogni parola scritta, a ogni lettera ricevuta. Ho pianto in silenzio, ho gridato dentro. Ho chiesto scusa mille volte, anche quando nessuno ascoltava. E oggi, dopo questi lunghi 11 anni, finalmente la libertà. Non con il clamore che mi ha rinchiuso, ma con un sussurro arrivato via mail: fine pena oggi! La fine di una condanna è un momento denso di emozioni, una soglia fragile che separa il passato doloroso da un futuro incerto ma carico di speranza. Quando si raggiunge il fine pena, non c’è solo la liberazione fisica, ma anche una profonda trasformazione interiore, fatta di rimpianti, ricordi, paure e desideri di riscatto. Significa portare con sé il peso di un tempo segnato dall’isolamento, dalla solitudine e dalla sofferenza, ma anche con la voglia di rinascere. Ogni passo verso la libertà è un viaggio tra dubbi e speranze, tra la paura di non essere più accolti e il sogno di una vita nuova. C’è chi ha perso affetti e chi li ha ritrovati, chi ha lottato contro la disperazione e chi ha tentato di costruire, anche dentro quelle mura, un seme di futuro. Il fine pena non è mai un punto di arrivo definitivo, ma l’inizio di una strada difficile da percorrere. Fuori, il mondo corre veloce, mentre dentro si è stati costretti a fermarsi, a osservare, a riflettere. Riconquistare la libertà significa trovare il coraggio di affrontare il giudizio degli altri, di ricostruire relazioni, di rialzarsi dopo ogni caduta. È un cammino che richiede forza, umiltà, e soprattutto la capacità di perdonare sé stessi. In questo momento fragile e potente, si affacciano ricordi di giorni bui e di sogni infranti, ma anche la consapevolezza che nessun passato può cancellare la dignità che resta nell’anima. Dal profondo del cuore, chi ha vissuto l’esperienza carceraria sa che la libertà più grande non è solo uscire, ma imparare a vivere di nuovo, a sperare, a volare con le proprie ali. A chi è ancora ristretto, vorrei dire: non perdete la speranza, anche quando l’oscurità sembra invincibile. Ogni giorno dentro è una sfida, ma c’è sempre una luce, anche piccola, che attende di essere scoperta. Non siete soli, e la vostra vita può ancora riscriversi. A chi mi è stato sempre vicino, credendo in me nonostante tutto e tutti, dedico tutta la mia gratitudine. La vostra fiducia è stata la forza silenziosa che mi ha sostenuto nei momenti più difficili, la voce che mi ha ricordato chi sono e chi posso diventare. Senza di voi, questo traguardo sarebbe stato impossibile. E così, stappando una bottiglia di bollicine, resta la promessa di una seconda possibilità: quella di chi ha saputo soffrire, riflettere e, infine, rinascere. Perché ogni fine pena porta con sé il seme di una nuova vita, e con esso la forza di guardare al futuro senza più catene. Dietro ogni storia giudiziaria, dietro ogni errore c’è un cuore che batte. Non il cuore di un colpevole, non quello di un numero di matricola. Ma il cuore di un essere umano che ha pianto, che ha amato, che ha imparato. Un cuore che non ha smesso di cercare redenzione, che oggi esce dalla condanna non per dimenticare ma per ricominciare. *Redazione di “Ne vale la pena” Il lutto dentro il carcere: come la libertà cambia il dolore di Fabrizio Pomes* bandieragialla.it, 26 settembre 2025 Porto dentro due dolori che non si somigliano, ma che hanno inciso la stessa cicatrice nel mio cuore. Il primo è arrivato quando ero in carcere: mia cugina Barbara, giovanissima, se n’è andata all’improvviso. Lei era più di una parente: era un pezzo della mia infanzia, la mia confidente, la mia risata nei giorni bui. La notizia mi è arrivata come un pugno nello stomaco durante un incontro della redazione di giornalismo dalla funzionaria pedagogico giuridica. Il lutto è un terremoto silenzioso che scuote l’anima. Ma quando arriva mentre si è privati della libertà, il dolore cambia forma, colore e respiro. In carcere, la morte di una persona cara non è solo un vuoto: è un vuoto che rimbomba tra le mura fredde, amplificato dall’eco dei cancelli che si chiudono. In cella, il tempo non scorre, si trascina. Le brutte notizie arrivano spesso in modo brusco, in un colloquio con un educatore come nel mio caso o in una telefonata concessa d’urgenza. Non c’è un abbraccio immediato, non c’è il calore di una mano che stringe la tua. Il dolore diventa un segreto da custodire tra quattro pareti, condiviso solo con compagni di detenzione che, pur solidali, non possono sostituire la famiglia. Il funerale, se e quando concesso, è una parentesi sorvegliata: catene invisibili che ti ricordano che sei lì “in prestito” e che presto tornerai alla tua cella. E quando la bara si allontana, tu non puoi seguirla: resti fermo, con il cuore che corre e il corpo che resta prigioniero. Il secondo lutto è arrivato quando ero in affidamento esterno: mio padre. Questa volta ero “fuori”, ma non libero. Chi sconta la pena fuori dal carcere, in affidamento o in altre misure alternative, vive il lutto in un’altra dimensione. Può essere presente, può stringere mani e ricevere abbracci, può piangere accanto ai propri cari. Ma anche qui la libertà è condizionata: orari, obblighi, controlli. Il dolore è lo stesso, ma può respirare: può trovare conforto negli sguardi, nei ricordi condivisi, nei silenzi che non hanno bisogno di spiegazioni. Eppure, anche in questa condizione, c’è un’ombra: la consapevolezza che la propria vita è ancora sospesa, che ogni gesto è osservato, che la ferita deve rimarginarsi sotto lo sguardo vigile dello Stato. Il lutto non fa sconti: colpisce con la stessa forza chi è libero e chi non lo è. Ma la possibilità di viverlo insieme agli altri, di attraversarlo con la vicinanza fisica e affettiva, cambia tutto. In carcere, il dolore è un urlo soffocato. Fuori, anche se sotto controllo, può diventare un pianto condiviso. Due dolori, due prigioni: una fatta di ferro e cemento, l’altra di regole e controlli. E in entrambi i casi, resta la stessa verità: la perdita non si misura in metri di libertà, ma nella profondità dell’amore che ci legava a chi non c’è più. Il lutto, quello vero, non conosce sbarre né libertà condizionata. Ti abita dentro, e ti accompagna ovunque, ricordandoti che certe assenze non si colmano mai. *Redazione di “Ne vale la pena” Modena. S’impicca in carcere. Quinto suicidio nel 2025: “Situazione inaccettabile” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 26 settembre 2025 Tra le sbarre si è tolto la vita un 24enne: era in una cella controllata. Ha compiuto il gesto estremo in bagno. Sovraffollamento di 200 detenuti. È successo ancora e ancora una volta è successo a Modena: un detenuto si è tolto la vita, impiccandosi nel bagno. Era ritenuto a rischio suicidio ‘lieve’, ed è proprio per questo che poche ore prima del gesto estremo è stato trasferito in una sezione speciale, in ‘accoglienza’. Nonostante la misura adottata, che prevede una maggior vigilanza, il giovane carcerato, un marocchino di 24 anni, si è tolto la vita. Era da poco in cella per il reato di maltrattamenti. Un’emergenza nazionale quella dei suicidi nelle carceri, soprattutto in un penitenziario come quello modenese dove il sovraffollamento è ai massimi livelli e va di pari passo con la carenza d’organico. Infatti, sono stati 62 suicidi in Italia da iniziò anno, cinque dei quali a Modena: a fronte di 371 posti regolamentati sono 580 i detenuti effettivamente presenti e si ‘contano’ sessanta ‘penitenziari’ assenti a vario titolo su 238. Il giovane è stato trovato cadavere intorno alle 20 di mercoledì; aveva usato un lenzuolo come cappio e ogni soccorso è risultato vano. A gennaio l’uxoricida 50enne Andrea Paltrinieri si era tolto la vita inalando gas da un fornellino che deteneva legittimamente in cella: quello era il terzo suicidio in venti giorni nel carcere di Modena e la procura, sul decesso, ha aperto un fascicolo così come proprio in questi giorni è scaduto il termine imposto dal gip alla Procura per effettuare le indagini supplettive circa il suicidio di Fabio Romagnoli, 40 anni, deceduto a sua volta dopo aver inalato gas da un fornellino il 20 febbraio 2023. Il gesto estremo del detenuto 24enne, dunque, segna un drammatico primato del sistema penitenziario regionale e ancora di più della struttura detentiva di Modena secondo il garante regionale per i detenuti dell’Emilia-Romagna Roberto Cavalieri. “È difficile poter contribuire in modo serio e adeguato al contrasto di un fenomeno che genera morti quando le istituzioni si trincerano dietro un inadeguato silenzio e mi riferisco all’amministrazione penitenziaria, alla sanità e alle procure che non hanno mai riferito in modo autonomo o congiunto tra loro ricostruzioni dei fatti, dinamiche e azioni di rimedio per evitare che questi suicidi si verifichino con questa frequenza, che oramai supera di gran lunga ogni statistica riferita alle persone in libertà”. Il suicidio del detenuto di appena 24 anni al carcere Sant’Anna di Modena, “che da anni accusa questo tipo di tragedie”, è un fatto “inaccettabile, che mostra ancora una volta la gravità della situazione in cui versa la nostra casa circondariale”, affermano poi il segretario cittadino del Pd, Diego Lenzini e il consigliere comunale Luca Barbari. Secondo l’Osservatorio carcere ed informazione giudiziaria ed il Direttivo della Camera Penale di Modena Carl’Alberto Perroux: “Urge l’avviamento di percorsi assistenziali e di supporto che siano in grado di fornire l’apporto pedagogico ed il sostegno terapeutico occorrenti a chi risulta ristretto, anche mediante rinforzi di professionalità umane”. Modena. Il carcere è una fabbrica di suicidi di Vito Totire* labottegadelbarbieri.org, 26 settembre 2025 Ancora morte a Modena; carcere, casa circondariale, istituto penitenziario: lo si chiami come si vuole ma la realtà è che le carceri sono ormai camere mortuarie e “fabbrica di suicidi”. Dopo la cosiddetta rivolta delle carceri di Modena un altro drammatico evento evidenzia e conferma che è la istituzione totale in quanto tale ad essere mortifera e non i “detenuti cattivi”. Le cronache ricordano che quello di ieri a Modena è il quinto suicidio dell’anno nello stesso carcere e il 62° in Italia nel corso del 2025; il numero di morti, poi, per incuria e incapacità di presa in carico, è molto più alto; la speranza di vita e di salute delle persone recluse è gravemente compromesso dallo stato di cose presenti; poi stiamo ancora aspettando le decisioni della magistratura di Modena in relazione alla morte di F.R. avvenuta nel febbraio 2023; respinta una prima istanza di archiviazione proposta dal pm il tribunale ancora non ci fa sapere quale è la sua decisione finale; per quello che ci riguarda riteniamo di aver argomentato con chiarezza come e perché quella morte si poteva e doveva prevenire anche in rapporto all’uso sconsiderato che la istituzione totale carceraria continua a fare delle bombolette di “gas da campeggio” ; l’ultima persona deceduta a Modena, informano le agenzie di stampa, aveva 24 anni era marocchino ed era appena giunto nella sezione “accoglienza”: ma che accoglienza! Deceduto pare per impiccagione; questo ennesimo tragico evento forse agli occhi di qualcuno non riproporrà immediatamente la questione particolare dell’uso delle bombolette di gas (come è successo per altri eventi anche a Modena dopo la morte di F.R.) ma evidenzia comunque la infondatezza assoluta del modo di vedere esplicitato dal ministro Nordio sul tema dei suicidi; il ministro, che ovviamente, non ha nessuna competenza professionale ma anche nessuna progettualità in materia di prevenzione, confonde la strategia necessaria per la prevenzione del suicidio con una mera gestione custodialistica del rischio, gestione di infausta memoria manicomiale ; il ministro ha infatti sostenuto che il sovraffollamento è un antidoto al suicidio e non ne è la causa; il ministro non comprende o comprende ma rimuove per opportunismo politico che il problema non è garantire la sorveglianza a vista 24/24 ore della persona privata della libertà; il problema è invece mettere in campo una strategia complessiva e sistemica che vada alla radice delle motivazioni e delle cause della disperazione che conduce a gesti autolesivi e auto soppressivi; e questo approccio sistemico non può essere fondato su una controproducente overdose di psicofarmaci che hanno più effetti collaterali che vantaggi terapeutici; spesso anzi l’effetto terapeutico è, in quanto tale, uguale a zero; siamo stanchi di dichiarazioni di rammarico del “giorno dopo”: il ministro Nordio si presenti dimissionario alla camera dei deputati e consenta con le sue dimissioni un dibattito parlamentare sulla drammatica, disumana, non più tollerabile situazione delle carceri italiane; che questo dibattito si concluda con la adozione di linee guida vincolanti per la gestione dei penitenziari al fine di affermare finalmente il ruolo che la Costituzione attribuisce alla possibile limitazione della libertà personale senza debordare, come avviene oggi tutti i giorni, nell’abuso di messi di contenzione e e nella tortura. E si riaprano i processi per la cosiddetta “rivolta” del carcere di Modena per giungere alla revisione delle incaute e infondate sentenze. La morte a Modena non è causata dai “detenuti cattivi” ma è generata dalla istituzione totale, come peraltro, sempre accaduto nella storia della umanità. *Psichiatra, portavoce del “Centro Francesco Lorusso” Ancona. A lezione per imparare a relazionarsi con i detenuti di Claudio Desideri Il Resto del Carlino, 26 settembre 2025 “Il carcere oggi è un luogo dove la pena corporale diviene anche pena dell’anima, non riconosce la dignità della persona. In questo la Società di San Vincenzo De Paoli cerca di insinuarsi con la finalità proprio di riconoscere e mettere al centro la persona”. Parole queste di Antonella Caldart, Responsabile del Settore carcere e devianza della San Vincenzo De Paoli in occasione della conferenza stampa che si è tenuta a Palazzo del Popolo per presentare il corso di formazione: “Essere presenza nel mondo del carcere”. Otto incontri che si terranno di sabato mattina, dal prossimo 11 ottobre al 6 dicembre, ad Ancona, Ascoli Piceno, Pesaro e potranno essere seguiti in presenza e on line. I corsi, aperti a tutti, sono rivolti a chi ha desiderio di imparare a relazionarsi con le persone detenute o ex detenute e a sostenere le loro famiglie in un percorso che punta a promuovere inclusione, reinserimento e dignità, offrendo strumenti concreti a chi sceglie di camminare accanto a chi vive l’esperienza del carcere. La conferenza, aperta dal presidente del Consiglio Comunale Simone Pizzi, ha visto la partecipazione dell’Arcivescovo di Ancona Osimo Mons. Angelo Spina che ha tenuto a precisare come “portare le persone fuori dalle sbarre in una forma spirituale e umana significa liberare l’uomo da quel luogo e questo è possibile con l’incontro e il dialogo, l’aiuto e la vicinanza. Un segno di speranza”. I corsi, che saranno tenuti da professionisti del sociale, della giustizia e da esperti del mondo del volontariato e delle istituzioni, vedranno una particolare attenzione rivolta ai minori. “Nelle Marche non sono presenti istituti penali per minorenni - ha affermato Gabriele Cinti coordinatore del progetto - ma ciò nonostante una attenzione particolare sarà rivolta proprio ai giovani. Nel biennio 2022 - 2024, i minori presi in carico dall’Ufficio dei servizi sociali per i minori nelle Marche sono aumentati del 13 %. Inoltre i casi di recidiva nei minori nel nostro Paese supera il 40%”. Durante i corsi verranno affrontati temi come la devianza minorile, il reinserimento sociale, le misure alternative alla detenzione, l’ascolto empatico, le problematiche legate alla criminalità e alla droga nelle Marche. “Essere volontari in carcere richiede disponibilità d’animo - ha concluso Caldart - competenze tecniche e conoscenza delle regole della vita in carcere, significa accogliere senza giudicare, offrire ascolto e speranza a chi l’ha smarrita. Accompagnare detenuti e famiglie nel loro percorso”. Iscrizioni e contatti: whatsapp 3501766581 - E mail sanvincenzojesi@libero.it Claudio Desideri Verona. L’Università varca i confini del carcere cronacadiverona.com, 26 settembre 2025 L’evento inserito nel percorso avviato a sostegno delle persone private della libertà personale. La Notte europea della ricerca è entrata nella Casa circondariale di Montorio, portando il linguaggio e i risultati della ricerca scientifica e umanistica dell’Università scaligera tra le mura del carcere. L’iniziativa, giunta alla sua quinta edizione, ha visto il coinvolgimento di molti atenei aderenti alla Conferenza nazionale universitaria dei Poli penitenziari (Cnupp). Diciotto le università coinvolte e ventuno i poli universitari penitenziari (Pup) collegati da tutta Italia: un evento corale, di rilievo nazionale, che ha coinvolto ricercatrici e ricercatori, docenti e insegnanti, studentesse e studenti, tutor, persone recluse, dirigenti e personale dell’amministrazione penitenziaria, garanti dei detenuti e rappresentanti delle amministrazioni locali. Tra questi l’ateneo di Verona che, nella mattinata di giovedì 25 settembre, all’interno della biblioteca de carcere, ha proposto l’incontro dal titolo “Transizioni sociali, ambientali e digitali”, in linea con il tema scelto quest’anno dalla Cnupp, dedicato alle trasformazioni del nostro tempo: dai mutamenti culturali e tecnologici alle sfide ambientali ed educative. Dopo i saluti istituzionali da parte della direttrice della casa circondariale di Montorio, Mariagrazia Bregoli, del garante dei diritti dei detenuti del Comune di Verona, don Carlo Vinco, dell’assessora comunale alla Legalità, Stefania Zivelonghi e del dirigente scolastico Cpia, Centro provinciale per l’istruzione degli adulti, Luca Saggioro, i docenti di ateneo Ivan Salvadori, Alessia Bevilacqua, Federico Barbierato, Daniele Butturini, Irene Salvo e Marco Di Donato hanno presentato, presso la Biblioteca del carcere di Montorio, le loro ricerche ai detenuti iscritti all’Ateneo veronese, o in procinto di iscriversi, e ai detenuti iscritti alle Scuole superiori. L’evento, organizzato con il supporto della Direzione e del personale del carcere di Montorio e del Cpia, si è inserito nel percorso già avviato dall’Ateneo scaligero a sostegno delle persone private della libertà personale, sancito dall’accordo quadro per le pari opportunità di studio e formazione, rivolto a chi è detenuto nella Casa circondariale di Montorio o vive in regime di limitazione della libertà personale nella provincia di Verona. Padova. A Torreglia il teatro abbatte i muri: detenuti e studenti in scena insieme padovaoggi.it, 26 settembre 2025 Al Teatro La Perla sabato 27 settembre alle 17:45 va in scena “Da Babele alla Città Celeste”: un progetto di teatro sociale che diventa spazio di dialogo e riconciliazione. Il teatro diventa strumento di incontro tra mondi lontani. Sabato 27 settembre, alle 17.45, il Teatro La Perla di Torreglia ospiterà “Da Babele alla Città Celeste”, spettacolo corale realizzato dalla Compagnia Teatrocarcere Due Palazzi e dal Collegio Universitario Gregorianum di Padova. Sul palco saliranno insieme persone detenute della Casa di Reclusione Due Palazzi e studenti universitari, protagonisti di un percorso teatrale condiviso che supera confini, differenze e pregiudizi. Il progetto, ideato e diretto da Maria Cinzia Zanellato con il supporto di Stefania Limena e Attilio Gallo, nasce da mesi di laboratorio teatrale che hanno intrecciato due mondi spesso distanti: quello chiuso e sospeso del carcere e quello dinamico e proiettato al futuro dell’università. Al centro del percorso, una convinzione semplice ma radicale: la crescita personale passa sempre dalla relazione - con se stessi, con l’altro, con la comunità. Ed è proprio su questo terreno che il teatro diventa strumento di giustizia riparativa, capace di trasformare il palcoscenico in un luogo dove parola, corpo e creatività riaprono ponti interrotti. “Da Babele alla Città Celeste” non è soltanto una rappresentazione teatrale: è il punto d’arrivo di un lavoro collettivo che ha portato la Parola biblica dentro le mura di un istituto penitenziario, trasformandola in un’esperienza condivisa. Al termine della rappresentazione è previsto un momento di confronto con il pubblico. A guidarlo saranno Simone Grigoletto, docente dell’Università di Padova, e Morena Garbin, educatrice e insegnante. Un dialogo necessario in tempi in cui il carcere rischia spesso di essere un luogo dimenticato, ma può trasformarsi - anche grazie al teatro - in un crocevia di umanità. L’iniziativa, sostenuta dall’Associazione Universale Sant’Antonio e patrocinata dai Comuni di Padova e Torreglia, è a ingresso libero. Una scelta coerente con lo spirito del progetto: quello di riportare al centro il valore del teatro come spazio di cittadinanza condivisa, dove il confine tra dentro e fuori si assottiglia fino a scomparire. Sabato, sul palco, non saliranno semplici interpreti: saliranno persone che provano a ricostruire, parola dopo parola, un ponte verso la comunità. Salute mentale, la regressione verso i manicomi di Franco Corleone L’Espresso, 26 settembre 2025 Finite le cerimonie per il centenario della nascita di Franco Basaglia, comincia un’operazione di rivincita. Il ministro della Salute Schillaci ha prontamente risposto alla contestazione del mondo della scienza sulla composizione della Commissione sui vaccini, affrontando il malumore della Lega e di Fratelli d’Italia e la freddezza della presidente del Consiglio Meloni. Invece non ha (ancora?) risposto alla Lettera aperta di decine di associazioni e centinaia di operatori, esperti e militanti contro la Bozza del Piano di azione nazionale per la salute mentale (2025-2030). La lettura del documento produce una profonda delusione perché rappresenta una occasione mancata rispetto alle attese dopo tanti anni dalla scadenza del piano precedente. D’altronde diversi nomi dei componenti la Commissione esprimevano un chiaro orientamento per un ritorno a una psichiatria alternativa alla legge 180. Finite le cerimonie per il centenario della nascita di Franco Basaglia, comincia dunque una operazione di rivincita. Le cento pagine di presuntuoso sfoggio di citazioni delle indicazioni dell’Oms sono pura retorica, senza risorse e personale, perché il cuore del testo si rivolge al carcere e alle Rems, secondo la famigerata logica del binomio “cura e custodia”. Per quanto riguarda il disagio psichico dei detenuti viene proposta l’estensione delle cosiddette Articolazioni di tutela della salute mentale con un aumento dei posti da 320 a oltre 3000, che rappresentano il 5% della popolazione presente nelle patrie galere; addirittura si ipotizza di poter arrivare al 10%. Siamo di fronte a una follia o meglio a un disegno di creare tanti piccoli manicomi, tornando agli Opg sotto mentite spoglie. Le risorse per creare questi reparti e i costi del personale sarebbero imponenti e meglio sarebbe destinarle all’applicazione della sentenza 99 del 2019 della Corte Costituzionale che equipara la patologia mentale a quella fisica e quindi la possibilità di una detenzione domiciliare umanitaria in strutture terapeutiche. Per quanto riguarda le criticità della applicazione della legge 81 del 2014 che ha chiuso gli Ospedali psichiatrici giudiziari, la più orrenda istituzione totale, si rilancia l’aumento delle strutture e dei posti, (addirittura il raddoppio della realtà attuale!) e la militarizzazione delle strutture con un controllo del ministero della Giustizia. Non è certo casuale che la stessa analisi sia stata proposta dal capo di gabinetto del ministero della Salute, Marco Mattei nel dicembre scorso. Queste idee regressive vanno lette contestualmente alla proposta di legge del senatore Zaffini di Fratelli d’Italia che riscrive la legge 180 e arriva a ipotizzare l’uso del Trattamento sanitario obbligatorio (Tso) in carcere. Per fortuna, recentemente la Corte Costituzionale ha stabilito limiti e garanzie per l’uso di questa pratica eccezionale. Non mancano invece contributi diversi, dalla riflessione sviluppata nel convegno della Regione Emilia Romagna il 1° aprile 2025 al documento finale della Conferenza nazionale autogestita per la salute mentale del 6-7 dicembre 2024. È necessario aprire uno spazio di discussione mettendo al centro i principi costituzionali e valorizzando le buone prassi e rafforzando il welfare di comunità. Un appuntamento significativo è previsto a Genova il 3-4 ottobre su un tema accattivante: “Azioni e resistenza nell’epoca della complessità. Ripensare l’imputabilità: proposte di riforma e futuro delle Rems”. Occorre una nuova rivoluzione gentile. Decreto Sicurezza, quando la legge diventa finzione di Michele Ainis La Repubblica, 26 settembre 2025 Da un lato, la manifestazione; dall’altro, la legge manifesto. La prima, il 22 settembre, ha riempito 80 città italiane con mezzo milione di persone, indignate per i crimini di Gaza; la seconda è stata timbrata dal Parlamento in giugno, ratificando il decreto sicurezza. E cosa dispone quel decreto, tanto urgente da strangolare l’esame delle assemblee legislative, che da 16 mesi discutevano un disegno di legge d’identico tenore? No, non l’arresto per chi compia violenze, come quel centinaio di scalmanati alla stazione di Milano. La violenza era punita pure prima, nessuno Stato di diritto può mai tollerarla. Specie se si esercita contro i poliziotti che rappresentano lo Stato. Sennonché quel decreto trasforma in delitto un pacifico sit-in di studenti, che ferma il traffico dinanzi alla propria scuola. Oppure il picchetto di operai di fronte ai cancelli d’una fabbrica. Senza l’uso della forza, né cassonetti rovesciati, né transenne messe di traverso. Una resistenza non violenta, come quella che in India praticava Gandhi, o in Italia Marco Pannella. È il nuovo reato di “blocco stradale”. Castiga con un mese di galera chi impedisca la circolazione; e se poi a farlo sono più di due persone, la pena viaggia da 6 mesi a 2 anni. Ma come fai a imprigionarli tutti, se questi nuovi malviventi si contano a migliaia? Non basterebbero gli stadi che usava Pinochet, anche perché le carceri italiane sono già fin troppo affollate. Tuttavia a Firenze migliaia di persone si sono radunate presso la rotatoria all’uscita dell’autostrada A1, bloccando il traffico già di buon mattino. A Napoli i manifestanti si sono riversati sui binari della stazione centrale. A Genova hanno sbarrato i varchi del porto. A Roma blocco di entrambe le corsie della tangenziale est, mentre gli automobilisti, anziché protestare, applaudivano il corteo. D’altronde non si può vietare lo sdegno per decreto. Né i diritti sindacali: nel giugno scorso, a Bologna, 10 mila metalmeccanici hanno fermato il traffico sulla tangenziale. Senza arresti di massa, neppure in quel caso. Sarebbe stato impossibile, e poi talvolta il buon senso prevale sull’insensatezza delle leggi. Ma a cosa serve, allora, una legge che non si può applicare? Serve a mostrare i muscoli, benché siano sgonfi. Serve a trasmettere al pubblico pagante un’immagine decisionista - quella d’un governo energico, efficiente, che risolve ogni problema. Come quando, di fronte all’ultimo caso di cronaca nera che allarma l’opinione pubblica, s’inventano nuovi tipi e sottotipi d’omicidio, dall’omicidio stradale a quello sul lavoro. E s’aggiunge poi il femminicidio, anziché investire in risorse educative nella scuola: “una ennesima affermazione del diritto penale simbolico”, ha sentenziato l’Unione delle camere penali. O come quando un’altra legge trasforma la maternità surrogata in un reato “universale”. Universale un piffero, dato che in 65 Paesi del mondo questa pratica non è affatto reato; una confusione lessicale, che mira a confondere le menti. Trucchi da prestigiatore, dei quali offre un esempio luminoso il Taglia-leggi approvato dal Parlamento in aprile. “Abbiamo cancellato 30 mila leggi”, ha annunciato - fiera - la ministra per le Riforme istituzionali. Già, ma quali? Un decreto regio del 1861, che imponeva alle Finanze di cedere “al sig. Luigi Rinaldi una casa demaniale nella Città di Rimini”. O un altro decreto del 1932, che disponeva l’emissione di francobolli celebrativi del decennale della marcia su Roma. Norme obsolete e ormai prive d’ogni effetto. “Tu uccidi un uomo morto!”, esclamò nel Cinquecento un condottiero fiorentino, rivolto al suo assassino. Qualche secolo più tardi, i nostri governi si sono specializzati nella pratica opposta: i morti li concepiscono, e senza l’aiuto della maternità surrogata. Succede quando licenziano una legge orfana di ricadute applicative, perché ha bisogno dei decreti d’attuazione: quanto al gabinetto Meloni, ne mancano all’appello 432, ha calcolato in luglio Sergio Rizzo sull’Espresso. Ma dopotutto è una conseguenza inevitabile: se la politica è menzogna, anche la legge diventa una finzione. Preoccupazione di Piantedosi per i cortei pro Gaza. Il ministro Ciriani: “E se ci scappa il morto?” di Carmelo Caruso Il Foglio, 26 settembre 2025 Le paure del ministro degli Interni per gli “ingegneri della collera” (imbucati nei cortei) e per la radicalizzazione dei docenti su Gaza. Mattarella contrario alla scelta di diluire le elezioni regionali che esaspera il clima. Possibile incontro con Meloni. La parola è Intifada. Il governo teme “l’intifada italiana”, gli “ingegneri della collera”. La Palestina è adesso ordine pubblico, sicurezza Italia. Sentite cosa dice al Foglio, Luca Ciriani, il ministro per i Rapporti con il Parlamento: “E se poi ci scappa il morto? Chiedo a Elly Schlein di presentarsi in Aula. Fino a quando potrà spingersi a difendere la Flotilla, un eventuale suo sconfinamento? Fino a quando? Il Pd appartiene alla grande famiglia socialista. Sia responsabile”. È preoccupato il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che usa l’adagio “l’ordine si mantiene e non si impone”, è angosciato il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ed è allarmato anche Sergio Mattarella. Non si può escludere, questo fine settimana, un colloquio fra Giorgia Meloni e il presidente della Repubblica. Piantedosi ha già spiegato che il clima è peggiorato, che operano professionisti del disordine. Nuove norme sulla sicurezza vengono escluse. In Aula, alla Camera, Crosetto incanta quando chiede, a cuore aperto, all’opposizione, vi prego, “fermatevi”, vi prego, nessuno potrà garantire la sicurezza di un eventuale sconfinamento della Flotilla in acque israeliane. Peppe Provenzano, il responsabile Esteri del Pd, che intuisce l’onestà di Crosetto, il suo tono grave, esclama: “Sembra il ministro di un altro governo e di un altro partito”. Al Senato, il discorso cambia, tanto che nel Pd, il capogruppo Francesco Boccia (pensa Boccia: “La mozione di Meloni? È la solita furbizia. Fa la furba ma non ci riesce. Sulla Palestina si è isolata, sta con i paesi canaglia”) fa notare: “Il discorso di Crosetto al Senato è diverso rispetto a quello della Camera, non vorrei che abbia ricevuto qualche chiamata dalla sua presidente”. Sono preoccupati e sul serio. Ma nessuno riesce più a fermarsi. Al governo si è assemblato un gruppetto di “volenterosi”, un gruppetto di ministri di buona volontà che chiede “calmiamoci”. Li guida il ministro Piantedosi (con tutto il rispetto: cosa sarebbe accaduto oggi se al suo posto ci fosse stato un ministro come Salvini?) e insieme a Piantedosi c’è Crosetto, la ministra dell’Università, Anna Maria Bernini, che ogni giorno scorre l’elenco degli atenei occupati (a Bologna prosegue l’occupazione con tende e FdI propone il Daspo urbano). I contatti fra Mattarella e Piantedosi, regolari, franchi, affettuosi, sono aumentati in queste settimane. Si tratta di telefonate e di continue “solidarietà” che il presidente esprime, personalmente, al ministro a seguito dei ferimenti delle forze dell’ordine. Cresce il numero degli agenti colpiti, come cresce il numero dei blocchi, degli scioperi. Al Viminale non si teme l’episodio eclatante ma il “clima favorevole a scorribande”, a “lupi solitari”. Preoccupa anche la radicalizzazione dei docenti nelle scuole. Dario Franceschini, al Senato, spiega al Foglio che “le piazze che protestano non sono organizzate e questo dovrebbe far riflettere Meloni”. Per i funzionari del Viminale il rischio è la solita suggestione, immaginare che nel caos si possa incappucciare lo sbandato di mestiere. È quella collera che ha sempre avuto valvola di sfogo negli stadi, nelle frange più estreme, una collera che adesso si imbuca nei cortei a favore della Palestina. Dice Ciriani, ancora: “Osservo le bandiere dei cortei e ci trovo sindacati Usb, Potere al Popolo… Dispiace dirlo ma è il solito brodo. Non sono parenti lontani ma vicini di gruppi estremi. Al Pd, che non è un partito di scappati di casa, chiedo: fermatevi. Non utilizzate una tragedia umanitaria per fini elettorali. Non possiamo arrivare al riconoscimento della Palestina visto che l’Autorità Palestinese controlla solo Ramallah. Alla fine si finisce per riconoscere Hamas”. Il canone Piantedosi non è cambiato: contenimento, inviti alla cautela, ma è convinzione del ministro, come del governo, che la Palestina sia solo il pretesto che hanno questi antichi “professionisti del disordine”. Sono i gruppi che operano in Val di Susa, contro la Tav, gli ultras delle curve. Non aiuta neppure la contesa elettorale. Al Colle si ritiene che aver “diluito” le elezioni regionali non sia stata una scelta avveduta. È una “patologia”, così la definisce chi frequenta il Quirinale, una patologia che finisce per piegare la politica estera e costringere i partiti a mantenere la tensione alta, ad alimentare la mobilitazione continua dell’elettorato. Il 2 ottobre, Antonio Tajani riferirà alla Camera su Gaza e il governo presenterà la sua risoluzione. Arriverà dopo le elezioni nelle Marche, solo che a seguire ci sarà il voto in Calabria. Si mescolerà, ancora, l’urna con la tragedia, gli aiuti a Gaza con le preferenze. Per la destra è impossibile non riconoscere che Israele ha “superato i limiti della proporzionalità”, per la sinistra il rischio è essere sorpassata in protesta. Sono le primarie della collera. Dialogo con un ragazzo in piazza per Gaza e il no allo scontro di Francesco Riccardi Avvenire, 26 settembre 2025 Le posizioni di chi ha tentato di bloccare la Stazione Centrale e chi si appella al confronto non violento. Con una amara consapevolezza: sulla guerra la politica lascia spazio al radicalismo. Alla fine avete “tradito” e in qualche modo “rovinato” una bella manifestazione pacifica, partecipata da giovani e adulti, perfino da intere famiglie con i bambini, che chiedevano la fine della guerra a Gaza e la coesistenza di due Stati in Terra Santa. Usare la guerriglia contro la guerra è non solo inaccettabile perché sono rimasti feriti decine di agenti di polizia e alcuni giovani, ma è pure contraddittorio e controproducente per le ragioni stesse della protesta. “Ma quale guerriglia? Non sarebbe accaduto nulla se ci avessero fatto passare e avessimo potuto bloccare per qualche ora i binari della stazione. La manifestazione aveva uno slogan: “Blocchiamo tutto” e volevamo davvero bloccare tutto per “sbloccare” la posizione del Governo e dell’Italia rispetto alla tragedia di Gaza, di cui siamo non solo spettatori passivi non riconoscendo lo Stato di Palestina, ma persino complici continuando a sostenere il Governo Netanyahu, fornendo armi e supporto logistico al massacro di un intero popolo”. Avete tirato sanpietrini, pali e quant’altro ai poliziotti, avete sfondato vetrine, è inaccettabile. Ci sono, per me, due limiti assoluti: il rispetto della vita e dell’integrità delle persone, a cominciare da chi serve lo Stato, cioè tutti noi, garantendo l’ordine pubblico. E il rispetto della legge, anche quando non piace, anche quando non si è d’accordo. Il ricorso alla violenza squalifica qualsiasi ragione delle proteste, anche di quelle giuste. “Non ho tirato nulla contro gli agenti, ma sì ero lì per bloccare i treni. La violenza, per altro, è stata esercitata anche nei nostri confronti con un lancio esagerato di lacrimogeni, con manganellate ingiustificate. E soprattutto con la repressione della protesta, come dimostra il decreto sicurezza approvato di recente. Il rapporto di forza tra gli agenti in tenuta antisommossa e i ragazzi in corteo è tutto a loro favore. Ci sono dei momenti, come questo, nei quali lo scontro sociale si rende necessario. Perciò sciopero generale, manifestazione e occupazione dei binari andavano fatti. Poi mi parlate di rispetto della legge sempre? E l’obiezione di coscienza? E il rifiuto dell’uso e della fornitura delle armi alcune volte sì, altre no, a seconda di quale Paese è in guerra?”. L’obiezione di coscienza è sempre un atto pacifico, che “costa” un sacrificio personale (in termini di libertà o professionale) e si esercita per difendere la vita altrui, oltre che i principi in cui si crede, non per ferire quella di altri. E poi c’è il rischio di essere strumentalizzati o servire una causa non “cristallina”. La vicenda di Israele e Palestina, di Netanyahu e Hamas è complessa, i torti non stanno tutti dalla stessa parte, c’è stato il pogrom del 7 ottobre, i terroristi non liberano gli ostaggi… “Sì, un massacro terribile, un atto terroristico disumano. Se vuoi stiamo qui tre ore a parlare anche dell’oppressione di Israele nei confronti dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, della violenza quotidiana dei coloni, dei mancati accordi sullo scambio tregua-ostaggi, delle proteste in Israele stesso, possiamo andare indietro fino alle responsabilità occidentali e dei Paesi arabi dal 1948 in poi. Ma l’urgenza adesso è fermare il genocidio in atto, quanti altri bambini devono essere uccisi perché il Governo e l’Italia non siano più complici di Israele? La tua coscienza quale limite mette? Anche la nostra è una forma di obiezione di coscienza al massacro che sta avvenendo a Gaza. Questi morti non pesano sulla nostra coscienza? Abbiamo sostenuto le organizzazioni che assistono le persone nella Striscia, abbiamo protestato in università e ovunque. Ma ormai non basta più nemmeno urlare, neppure in una manifestazione di massa, che non si è d’accordo, che l’Italia deve cambiare posizione, perché la verità è che il dissenso pacifico viene totalmente ignorato. Evidentemente serve un’azione politica più incisiva, almeno sul piano dimostrativo, sì lo scontro sociale è necessario perché cambi qualcosa. E se ci saranno denunce sarà il prezzo di questa obiezione”. Attenzione, perché così la china si fa pericolosa. Le azioni politiche “più incisive” sono quelle che hanno funestato gli anni 70 e 80. Di violenza verbale e non solo ne abbiamo già oggi abbastanza. Allo scontro sociale preferisco di gran lunga la partecipazione, il dialogo e il confronto. Riconosco un solo metodo che è quello democratico: la manifestazione del proprio pensiero, la protesta pacifica, il voto, la rappresentanza che nel nostro Paese sono libertà garantite. “Non c’è alcuna intenzione di ritornare al terrorismo né volontà di ferire gli agenti. Ma il confronto e il dibattito politico sono inesistenti. E non si può delegare tutto solo al voto politico una volta ogni 5 anni… Ci sono fasi storiche in cui bloccare i treni o perfino spaccare una vetrina può essere necessario”. E qui il dialogo si chiude. Perché, al di là delle preoccupazioni comuni per le vittime civili di ambo le parti e invece il dissenso profondo sul tema dello scontro sociale, il punto su cui è impossibile ribattere è quello della pochezza, se non inesistenza del dibattito politico nel nostro Paese. Si trova il tempo di normare la presenza dei cani a bordo degli aerei, ma non quello per discutere - in Parlamento, nella sede democratica per eccellenza - della guerra a Gaza, dei suoi 60mila morti dopo i 1.200 in Israele, di quale atteggiamento assumere, se votare sanzioni ed embarghi o quali canali diplomatici alimentare. Quando invece se ne parla fuori è solo per vomitare insulti sull’avversario di destra o sinistra che sia. Fermiamoci. È un tempo di lutto, questo. E se non ne vogliamo altri in Terra Santa, come in Ucraina, e magari violenze anche da noi, apriamo in Parlamento una sessione speciale di una settimana di dibattito solo sulle guerre. Dando l’esempio di come un Paese democratico agisce: votando a maggioranza dopo un confronto aperto tra forze politiche responsabili, che non si insultano e non si danno reciprocamente degli assassini, che dismettono - loro per primi - la logica disumanizzante del nemico. O si lascerà spazio solo al radicalismo da una parte e dall’altra. La matematica dell’amore spiegata dai ragazzi di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 26 settembre 2025 Si può insegnare la matematica dell’amore? Lì, in classe, cattedra e banchi, qualcuno che si distrae in fondo, i professori a volte eroici a volte spenti? Vale o non vale quella che per molti sarà giusto “una pena” in più? Si può insegnare la matematica dell’amore? Lì, in classe, cattedra e banchi, qualcuno che si distrae in fondo, i professori a volte eroici a volte spenti? Vale o non vale quella che per molti sarà giusto “una pena” in più? Sull’educazione affettiva integrata nel curriculum degli istituti superiori - o, perché no, anche prima - ci dividiamo tra adulti secondo un copione ormai consumato dai talk show televisivi e frantumato dalle risse digitali. In entrambi i casi, nessuno ascolta: si grida come quando nei dibattiti senti di possedere “la verità”, se pure mai la soluzione. Ci sono i favorevoli (ne sarebbe felice il 70% delle famiglie, hanno ricordato qui una settimana fa Gianna Fregonara e Orsola Riva) e ci sono i contrari (soprattutto a destra, ma anche a sinistra del palinsesto progressista). Noi ci torniamo perché abbiamo dato la parola a loro. Ai ragazzi e alle ragazze dei licei milanesi. Divisi in due squadre, durante l’estate avevano letto Cara Giulia, il libro-diario di Gino Cecchettin: sono approdati a metà settembre con le loro motivazioni, obiezioni e arringhe finali. Si sono affrontati durante la tappa di CampBus al Tempo delle Donne, la nostra festa-festival alla Triennale di Milano. L’idea del “pullmino” targato Corriere è sempre quella di mettersi lì, nei cortili o davanti ai cancelli delle scuole, per offrire interazioni - non solo tecnologie - che possano aggiungere un pezzo mancante. Argomento-chiave della squadra pro: anche i sentimenti si “imparano”, anzi rappresentano la materia più complessa. E la scuola resta il luogo migliore in cui incontrarsi e discutere, tutti insieme, senza trincee sociali o culturali. Perché non vogliamo credere che la Casa dello studente possa diventare Casa della persona? Argomento-chiave della squadra contro: l’amore non può essere portato in uno spazio dell’obbligo e trasformato in una nozione, di nuovo impacchettata e lanciata dall’alto come un sasso. Davvero pensiamo di fermare i femminicidi con una manciata di ore incastrata tra geografia e italiano? Nello scambio, le strategie prendono intanto forme nuove. Per i pro: chiedere aiuto alle fondazioni, sostenere anche le famiglie, evitare la lezione frontale. Per i contro: cercare spazi extra come i centri sportivi, usare la scuola come intermediaria all’interno di un sistema di supporto che sposti però l’investimento sui genitori, lavorare sulla volontarietà. Il voto alla fine definirà vincitori e vinti, ma non li separerà: per un’ora si sono messi in discussione, si sono scrutati e ascoltati, ragionando sulle contro-obiezioni. Con sguardi come spade, ma disarmati di ogni pregiudizio. I primi allacciati all’ottimismo come a un paracadute. I secondi esploratori di un realismo combattente. La distanza è così sottile che se ne perdono le tracce già durante la foto di gruppo. E nell’incertezza, regola del nostro tempo, una certezza c’è: che Gaia, Ivan, Marco, Emanuele, Rebecca, Victoria, Giorgio, Leandro, Arina ed Emma sapranno riconoscere la violenza - dentro di sé e tutt’intorno - e faranno quanto potranno per fermarla. Prima che sia troppo tardi, prima che si discuta soltanto di reati aggravati e risarcimenti da ricalcolare all’infinito. L’Onu e tutto il peso dei suoi 80 anni: senza riforme è in morte cerebrale di Gabriele Segre La Stampa, 26 settembre 2025 Solo la modifica del Consiglio di Sicurezza e del diritto di veto può ridarle incisività nei conflitti. Dopo ottant’anni di onorato servizio, le Nazioni Unite sono ormai clinicamente morte. O almeno così sembrano a molti. Tanto più dopo aver assistito a una settimana di passerelle diplomatiche, con capi di Stato e dignitari da tutto il mondo impegnati a pronunciare soliloqui al limite del surreale o formule ritrite della diplomazia internazionale. Parole rarefatte che evaporano appena proferite, senza quasi mai lasciare traccia concreta. Ma la realtà è più sfumata di quanto appare. L’Onu è oggi schiacciata dal collasso dell’ordine mondiale che l’aveva generata, travolta dalla fine del multilateralismo e da un’epoca che predilige i droni alle colombe della pace. Eppure, uno spiraglio di speranza resiste ancora. Proprio i lavori dell’Assemblea Generale di questi giorni mostrano che l’istituzione non è una scatola vuota. Resta un luogo di confronto rilevante e, attraverso le sue agenzie, un centro indispensabile di sviluppo sociale in molte parti del mondo. La crisi, certo, esiste. E, come ha riconosciuto lo stesso Segretario Generale António Guterres, riguarda anzitutto un deficit di legittimità politica. Le Nazioni Unite sembrano incapaci di incidere sulle crisi che esplodono in ogni angolo del globo, al punto che molti ne pronosticano la stessa sorte della Società delle Nazioni. Considerando che quest’ultima nacque dopo la Prima guerra mondiale e fallì nel prevenire la seconda, non è un precedente incoraggiante. Per questo la necessità di un cambiamento è ormai ampiamente riconosciuta. E, in effetti, l’Organizzazione ha già avviato una profonda riforma di carattere amministrativo: snellire le procedure, “fare meglio con meno”. Scelte obbligate, visto che i Paesi membri sono sempre meno disposti a sostenerla finanziariamente. Ma il punto è che non si tratta di recuperare denaro, bensì credibilità. Se la crisi è politica, la risposta non potrà che essere politica. Solo un progetto in grado di misurarsi con la realtà del mondo di oggi può evitare di trasformarsi nell’ennesima utopia di carta. Il principio è semplice: ogni progetto di riforma che non voglia naufragare sul nascere deve saper partire dai fatti. E questi dicono che il tanto proclamato funerale del multilateralismo è, in realtà, una menzogna. Non è morta la cooperazione internazionale in sé, ma soltanto un suo specifico modello: il nostro. È crollata la rete di relazioni costruita dalle potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, la stessa che aveva dato vita all’Onu e che, dopo la Guerra Fredda, aveva blindato gli equilibri funzionali alla nostra egemonia. Ora, di fronte al tramonto di quell’ordinamento, altre nazioni vedono nel multilateralismo non un residuo del passato, ma uno strumento indispensabile per parlarsi, unire gli sforzi e costruire reti diverse, ma non più modellate sull’Occidente. Il problema è che lo strumento per farlo - l’Onu - resta ancorato a logiche ormai superate, e il nodo principale è la composizione antiquata del Consiglio di Sicurezza. È vero che vi siedono gli Stati Uniti, ripiegati su sé stessi ma ancora decisivi nel definire gli equilibri mondiali; la Cina, potenza in piena ascesa e al centro della scena globale; e la Russia, sempre più assertiva e proiettata verso Est. Ma gli altri? Francia e Regno Unito conservano un seggio che riflette più la gloria del passato che l’influenza di cui dispongono oggi. Intanto, cresce il fronte di chi pretende un riconoscimento adeguato al proprio peso: l’India, che ha solide ragioni per rivendicare il seggio dei suoi ex dominatori coloniali; una parte del Vecchio continente che reclama il posto di Parigi a favore dell’Unione europea; e ancora l’Unione Africana, il Brasile, i Paesi arabi. Potenze demografiche ed economiche che non intendono più restare spettatrici. È chiaro che, per rappresentare questa nuova realtà, serva una riforma strutturale, non un maquillage burocratico. Un’operazione capace di togliere il velo dell’ipocrisia, ma che da decenni si scontra con la resistenza di chi, pur predicando inclusività, non vuole rinunciare ai privilegi garantiti dallo Statuto del 1945. Del resto, è opinione ormai diffusa in gran parte del pianeta: gli europei credono che i loro problemi coincidano con quelli del mondo, ma che i problemi del mondo non coincidano mai con i loro. La riforma più urgente è, dunque, culturale: è tempo di abbandonare la favola dell’Onu come grande attore globale, di crederla una “super nazione” sovrana e indipendente, capace di dominare e ordinare tutte le altre, garante del diritto internazionale e al tempo stesso tribunale e polizia incaricata di imporre valori universali. Non lo è mai stata: quei “valori universali” erano i nostri, e la forza coercitiva che spingeva alla cooperazione proveniva da noi. Meglio allora restituirle il ruolo che le è più adatto: un’assemblea in cui i veri protagonisti del pianeta si incontrano per parlarsi. In ogni villaggio c’è un consiglio di saggi che si riunisce per interpretare i segni del presente e orientare le scelte della comunità. Così dovrebbe essere anche per il villaggio globale, a patto che attorno al fuoco non siedano solo anziani legati al passato, ma anche voci nuove, capaci di indicare le priorità e le ambizioni per il futuro. Un’Onu che dia più spazio alle parole che ai Caschi Blu può sembrare irrilevante; eppure, se le parole sanno aprire varchi tra le diffidenze, possono ancora bastare a scongiurare la terza guerra mondiale. I pericoli delle teocrazie politiche di Luciano Violante Corriere della Sera, 26 settembre 2025 Solo il 20 per cento della popolazione mondiale vive oggi in un regime democratico; qualche decennio fa arrivava al 60. E ora le democrazie stanno perdendo la propria carica emotiva e i propri valori. Dopo la fine della guerra fredda ci siamo adagiati su due certezze: l’inarrestabilità del processo di occidentalizzazione del mondo e la conseguente inarrestabilità del processo di democratizzazione del mondo. Entrambe le certezze stanno franando. Tra il 22 e il 24 ottobre 2024 a Kazan (800 km a Est di Mosca) si sono riuniti i 36 Paesi del gruppo Brics, animati da una forte motivazione antioccidentale. A Pechino dal 31 agosto al primo settembre scorsi si sono riuniti i Paesi del cosiddetto Sud del Mondo, circa 30, alcuni dei quali rientrano nel gruppo Brics, tutti ad egemonia cinese e russa. Alcuni hanno forti tensioni interne, India e Pakistan ad esempio, ma tutti perseguono una ferma linea antioccidentale sempre a guida russa e cinese. Rispetto a questi Paesi l’Occidente è in minoranza economica, politica, energetica e numerica. La democrazia non vive tempi migliori; solo il 20% della popolazione mondiale vive oggi in un regime democratico; qualche decennio fa era il 60%. La parte del mondo nella quale viviamo deve affrontare quattro autoritarismi, diversi tra loro, ma tutti pericolosi per l’Occidente e per la democrazia. Si tratta di Trump, Putin, Netanyahu, Hamas, che vantano una legittimazione teocratica, esplicitamente biblica nel caso di Trump e Netanyahu, islamica nel caso di Hamas, assolutistica nel caso di Putin. La potente Heritage Foundation, del partito repubblicano, ha redatto il Programma 2025 per la vittoria di Trump sulla base delle istanze dei gruppi cristiani più tradizionalisti che fanno una lettura letterale della Bibbia. I punti chiave sono: a) Dio ha delegato le questioni umane a tre istituzioni distinte: la famiglia, la Chiesa e il governo civile, che devono orientarsi secondo una visione biblica; b) La lotta spirituale si combatte tra le forze del bene e le forze sataniche; ci sono amici e nemici; non ci sono alleati; d) bisogna scalare sette montagne: le arti, gli affari, l’educazione, la famiglia, il governo, i media, la religione; occorre mettere un cristiano a capo di ciascuna di montagne. Questo spiega perché alcuni incompetenti, ma fedeli a questi principi, sono stati messi al vertice di importanti settori dell’amministrazione. Netanyahu, dal canto suo, ha paragonato i palestinesi agli Amaleciti, la popolazione che Saul, il primo re d’Israele, riceve l’ordine di sterminare da parte del profeta Samuele. Il retroterra filosofico di Putin integra comando politico e comando divino. Questa filosofia ha trovato la sua formalizzazione nel “Codice dell’Uomo Russo”, recentemente pubblicato da Sergej Karaganov , l’unico filosofo che Putin dice di leggere. Il libro di Karaganov ha un unico motivo conduttore: la Russia e il suo governo sono investiti di una missione particolare davanti a Dio. È citata come guida una frase di von Münnich, comandante dell’esercito russo a metà Settecento: “La Russia è direttamente governata dal Signore nostro Dio. Altrimenti sarebbe impossibile comprendere come mai questo Stato esista ancora”. Il metropolita di Crimea e Simferopoli, Tichon, il candidato più accreditato alla successione del patriarca di Mosca Kirill, ha scritto sul suo sito che Kirk è stato ucciso come missionario tra gli infedeli nel nome degli stessi valori tradizionali per i quali si batte Vladimir Putin. L’assolutismo di Hamas, fondato su una lettura bellica dell’Islam, è purtroppo ampiamente noto. I retroterra religiosi conferiscono alle decisioni di Trump, Putin, Netanyahu, Hamas, rapidità, esecutività, indiscutibilità e un forte impatto motivazionale, perché legittimate da quelle matrici. Non bisogna dimenticare la straordinaria capacità trascinante dei valori religiosi. La democrazia invece sta perdendo la propria carica emotiva, la propria capacità di convincere; sta perdendo, per usare un linguaggio di altri tempi, la propria spinta propulsiva. Ha smarrito il proprio fondamento valoriale e si è ridotta a proceduralismo. È sintomatico l’atteggiamento nei confronti della Russia. Mentre Putin motivava l’aggressione all’Ucraina come lotta contro l’Occidente immorale perché legittimiamo le unioni omosessuali e consentiamo le manifestazioni Lgbt, l’Europa, in questo momento l’unico continente liberaldemocratico, ha risposto con le sanzioni. Giustissimo. Ma abbiamo taciuto sui nostri valori, sulla centralità che ha per noi rispetto della persona e dei suoi diritti. Abbiamo taciuto perché la democrazia è diventata pura procedura, tecnicalità. Eppure sui valori, lo dimostra la partecipazione alle manifestazioni per Gaza, i cittadini, le famiglie sono certamente disposti a mobilitarsi. Bisogna perciò contrastare le teologie politiche riprendendo con forza i valori dell’uguaglianza e del rispetto dei diritti fondamentali. Si tratta di temi che attengono ad una visione democratica della società e del futuro. Insomma, per reggere l’urto delle teocrazie politiche dobbiamo democratizzare le nostre democrazie. Flotilla, se la protesta decreta la fine della diplomazia di Francesca Sforza La Stampa, 26 settembre 2025 Con tutti i loro evidenti limiti, gli equipaggi sono uno schiaffo all’immobilismo della politica. Visti dal basso del tempo presente sembrano un’eccentrica pattuglia di spostati, un po’ estremisti, ideologici, tendenzialmente settari, piuttosto litigiosi: hanno buttato fuori una giornalista non allineata, un islamico si è seccato per la presenza di persone della comunità Lgbtq+, e anche dal profilo ufficiale Instagram si capisce che quelli deputati a parlare non sono tutti, ma solo quelli più inquadrati nel ruolo. E però, i componenti dell’equipaggio della Sumud Flotilla - coi loro modi da centro sociale globalizzato, con i loro slogan triti e ritriti - hanno dato uno schiaffo alla diplomazia internazionale talmente forte che si preferisce non parlarne. Per imbarazzo, certamente, ma anche perché le conclusioni da trarre sono quanto mai amare per gli Stati, per i governi e per ogni leader che aspiri a un ruolo nel negoziato mediorientale. Per mesi e mesi e mesi la comunità internazionale e le opinioni pubbliche hanno assistito a una devastazione di Gaza che ha lasciato tramortiti persino una gran parte di israeliani e ebrei della diaspora. Non un’idea, non uno scatto, non uno slancio creativo è venuto da nessuno, sia esso governo, Stato, Nazioni Unite o altra entità politica (fa eccezione Gaza Riviera, che però è sembrata più una battuta, e comunque tale è rimasta). E sì che la storia della diplomazia è piena di buoni esempi: senza arrivare al ping-pong di Henry Kissinger o alla soluzione della crisi cubana escogitata da Kennedy e Krusciov basta ricordare la più recente idea di Emma Bonino di tirare fuori i marò attraverso l’arbitrato internazionale anziché infognarsi in un perdente bilaterale con l’India. Niente, per Gaza solo soluzioni rimasticate evocate al solo fine di prendere tempo (sperando in cosa, che Israele si ravvedesse o si sbrigasse?). Dall’inanità della grande politica si è venuta così formando la Flotilla, un piccolo esercito di volontari che sembra uscito da una sceneggiatura hollywoodiana: 50 imbarcazioni in rappresentanza di 140 paesi (quasi come le Nazioni Unite, che ne contano 193), partite contemporaneamente dalla Spagna, da Tunisi, dalla Malesia, da Genova e Catania con destinazione Gaza per portare aiuti alla popolazione (a bordo ci sono anche dottori). Ce la faranno? Non si sa, e i finali vanno dallo sbarco sgangherato ma trionfale all’attacco militare contro gli attivisti, fino al mesto ritorno a casa con le stive cariche di mosche. Ma qualcosa hanno già fatto: si sono infilati come sabbia nelle ruote dei governi, costringendoli a immaginare scenari da battaglia navale, e nelle agende delle opposizioni, vuote fino a un momento prima e oggi ribollenti di entusiasmo e sostegno nei loro confronti. Persino la proposta della Meloni - che pure contiene qualche elemento d’interesse - è suonata tragicamente fuori tempo rispetto al procedere della piccola flotta in acque che si fanno sempre più pericolose. E nelle ricerche su ChatGpt tutto ciò che riguarda la spedizione è diventato di tendenza: cosa succede se Israele colpisce la Flotilla in acque internazionali? “Potrebbe essere qualificato come atto di guerra o comunque violazione del diritto internazionale”. Cosa può succedere alla Flotilla se riesce a sbarcare a Gaza? “Dopo lo sbarco, i partecipanti potrebbero diventare bersagli di rappresaglie o essere arrestati se cercassero di lasciare Gaza via terra”. Ci sono anche altri scenari, stando agli algoritmi, ma nessuno a lieto fine (né per Israele, né per i gagliardi navigatori). Ogni giorno che passa, in definitiva, la situazione per un verso si complica - aumentano i rischi, le divisioni tra chi sarà costretto a intervenire, le spaccature nei governi, e mettiamoci pure le aziende che hanno interessi economici nelle acque coperte dalla navigazione - e per un verso si mostra in tutta la sua semplicità: a fronte di un disastro umanitario, qualcuno si muove per dare una mano. E quando si tratterà di sollevarsi un poco dalla linea del tempo - lo ricordava anche ieri Flavia Perina su questo giornale: chi vorrà mai affondare nel girone delle anime indifferenti? - l’impresa della Flotilla sarà ricordata come un momento di riscatto, di ribellione e di creatività politica. Ma anche di sconfitta della politica vera, di incapacità di dar vita a una leadership coraggiosa (e a un’opposizione che non sia a perenne ricasco della società civile, mai una volta che si metta lei a capitanare qualche cosa). Forse è vero che sono degli irresponsabili, come dice la premier Meloni, ma dov’erano i responsabili mentre questi ragazzini (si fa per dire, ci sono un sacco di cinquantenni a bordo) armavano le vele? Turchia. Serkan e gli altri in fondo al pozzo di Murat Cinar Il Manifesto, 26 settembre 2025 Detenuto dal 2010 per un crimine mai commesso, Serkan Yilmaz è in sciopero della fame da 300 giorni contro il sistema di isolamento che ingoia i detenuti in un buco nero. Serkan Onur Y?lmaz è in sciopero della fame da più di trecento giorni. È un prigioniero politico, detenuto in un carcere turco di massima sicurezza e ha smesso di mangiare per protestare contro il brutale sistema di isolamento a cui è sottoposto da quasi un anno. Lo chiamano il “pozzo” perché è come un buco nero. E Serkan Onur Yilmaz non è il solo: insieme a lui, altri otto detenuti sono in sciopero della fame per lo stesso motivo. Yilmaz è stato condannato all’ergastolo nel 2010 con l’accusa di aver partecipato, l’anno precedente, al fallito attentato contro l’ex ministro della giustizia, Hikmet Sami Türk. Y?lmaz era stato associato alla figura di Didem Akman, che effettivamente prese parte al tentato omicidio. Tuttavia, durante il processo, gli avvocati di Y?lmaz dimostrarono con svariate prove che l’imputato quel giorno non era a Istanbul. Fino all’anno scorso, Serkan Onur Y?lmaz si trovava nel carcere stile S della città di Antalya, ma è stato poi trasferito - insieme ad altri otto detenuti - nel carcere stile F di Bolu, una prigione costruito nello stile di isolamento noto come il “pozzo”. Prima del trasferimento, Y?lmaz ha iniziato il suo sciopero della fame contro la decisione; successivamente si sono aggiunti gli altri otto compagni. Oggi Y?lmaz si trova nel carcere di Bolu, ha superato il limite dei trecento giorni di digiuno e il suo corpo ha subito danni permanenti. Ömer Faruk Gergerlioglu, il parlamentare nazionale del partito d’opposizione Dem, ha visitato Y?lmaz diverse volte negli ultimi mesi, l’ultima il 16 agosto scorso. Qualche giorno dopo, il deputato ha tenuto una conferenza stampa presso il parlamento nazionale: “Aveva le braccia coperte di croste e la pelle secca. Era esausto e aveva perso molti chili. Mi ha riferito che non riesce più a dormire di notte a causa dei dolori muscolari. Mi ha detto che sentiva di stare morendo”. Le condizioni di salute di Y?lmaz sono state rese pubbliche anche durante l’incontro organizzato dall’Associazione dei Giuristi Progressisti (Çhd) il 12 agosto. L’avvocata Bal?m Idil Deniz ha illustrato così la situazione: “Sappiamo da altri scioperi della fame che Y?lmaz è attualmente sull’orlo della morte. La sua vita è in pericolo. I danni causati dal non mangiare sono evidenti. Anche se sopravvivesse, avrebbe molti problemi di salute”. Le carceri di tipo “pozzo” fanno parte dei sistemi penitenziari di isolamento stile F, S e Y, da anni oggetto di dibattito in Turchia. Sono spesso indicate dal pubblico come “pozzo” perché i detenuti sono rinchiusi in celle da tre persone o in celle singole strette e alte che dispongono solo di una piccola feritoia per luce e la ventilazione, lasciando i prigionieri quasi senza contatto con l’esterno. Silenzio, solitudine e immobilità dominano la vita quotidiana dei reclusi e li costringono a vivere come in un profondo pozzo. Lo scopo è chiaro: isolare completamente il detenuto, aumentare la pressione psicologica e controllarne la volontà, spesso presentando la misura come “riabilitazione”. L’Unione dei Medici Turchi (Ttb), nella sua relazione preparata nel 2024, specifica che queste nuove tipologie di carceri, progettate con obiettivi di isolamento sociale, disumanizzazione e solitudine, violano i diritti umani e sono dannose per la salute, causando ai prigionieri non solo disturbi psichiatrici, ma anche gravi problemi di salute a breve, medio e lungo termine. Secondo le associazioni per i diritti umani, le carceri turche in cui esiste il sistema di isolamento “pozzo” sono almeno 43. Secondo i dati ufficiali del ministero della Giustizia, dal 2020 al 2023 sono state costruite circa cento nuove strutture penitenziarie. Tuttavia, dal 2021 il ministero non risponde a nessuna richiesta in merito alla presenza delle strutture dove sono presenti tali sistemi di isolamento. Secondo il giornalista Mustafa Bildircin del quotidiano nazionale BirGun, dal 2025 entro la fine del 2027 il governo spenderà più di seicento milioni di euro per la costruzione di undici nuovi carceri. Alcuni di questi saranno destinati a applicare i sistemi di isolamento “pozzo”. In merito alle richieste di Serkan Onur Y?lmaz, finora il ministero della giustizia non si è pronunciato. Nel frattempo, il 24 settembre la Chd ha comunicato che Y?lmaz è stato ricoverato in ospedale contro la sua volontà e si teme che sarà intrapresa la strada dell’alimentazione forzata. Il deputato Ömer Faruk Gergerlioglu ha concluso così la sua conferenza stampa dopo la visita a Y?lmaz: “Il vostro silenzio è più importante della vita di una persona?”.