Carcere uguale cimitero di Tommaso Romeo* Ristretti Orizzonti, 25 settembre 2025 Dove mi trovo io perfino le poche visite dei politici, come quelle di ferragosto, mi ricordano in qualche modo il 2 novembre, la giornata dei defunti. Le carceri assomigliano sempre di più a dei cimiteri. Tutti i nuovi istituti di pena sono stati costruiti lontano dai centri abitati, come i cimiteri e le discariche. Io sono ristretto nel carcere di Oristano, che è situato in aperta campagna. La stazione ferroviaria è distante un bel po’ di chilometri, l’aeroporto più vicino si trova a 100 chilometri, per cui fare il colloquio con i propri familiari comporta molte spese e giorni interi lontani da casa, ma anche lo stesso tribunale di Sorveglianza si trova lontano 100 chilometri, una distanza che influisce tanto anche sull’entrata in questo carcere dei magistrati di Sorveglianza, che infatti si vedono di rado. Io sono qui da due anni e non ho mai incontrato il mio magistrato di riferimento, eppure i colloqui tra detenuti e magistrato sono molto importanti. Per rispondere alla parola “sicurezza” le pene sono diventate più alte, sono stati creati dei nuovi reati, e il pensiero che va per la maggiore è chiaro: “Teneteli dentro fino all’ultimo giorno, meglio ancora se li fate pure soffrire”. Di fatto l’accesso ai benefici penitenziari è diventato quasi impossibile, la parola reinserimento è stata sostituita dalla parola “contenimento”, infatti le carceri si sono trasformate in contenitori di carne umana, dove i detenuti vivono la maggior parte della loro detenzione chiusi in cella. Così si nutrono di ozio e rabbia, perché le attività lavorative e culturali, sono ridotte al minimo, oppure si svolgono con poca continuità e alla fine servono a poco. In alcune carceri, come ad Oristano dove mi trovo io, la società civile non entra. Non entra molto nemmeno il volontariato, che invece ritengo fondamentale, e quindi manca qualsiasi confronto con la società civile. Non entrano gli studenti, né tantomeno le vittime di reato, ma neanche le istituzioni, e allora come fanno i detenuti a reinserirsi? Con la sola funzione punitiva, le carceri in poco tempo trasformano degli esseri viventi in morti viventi, ma tanto non indignano più nemmeno i molti suicidi, che vengono visti come un danno collaterale, sono diventati la normalità. Le carceri sono diventate silenziose come i cimiteri, perché con il nuovo decreto sicurezza anche la protesta pacifica - come può esserlo la famosa “battitura” di oggetti sulle sbarre - è diventata un reato punibile con pene fino ad 8 anni, perciò i detenuti sono costretti a subire passivamente tutte le problematiche del carcere. Anche le poche visite dei politici, in particolare quelle fatte nel giorno di ferragosto, per come sono svolte ricordano in qualche modo il 2 novembre, la giornata dei defunti. Tutti i detenuti sono chiusi nelle loro celle, i visitatori sfilano nel lungo corridoio, qualcuno di loro si ferma davanti a qualche cella e fa sempre la stessa domanda che sento da 30 anni: “Qui come state?”. Ma non c’è mai nessuna parola di speranza, che è invece quello che ci servirebbe. La società dovrebbe capire che il recupero delle persone detenute rappresenta la vittoria dello Stato e dell’intera comunità, perché quando i detenuti fanno un buon percorso escono dal carcere senza rabbia, ma con pensieri costruttivi e possono essere di buon esempio per tutti quei giovani difficili e affascinati dal mondo criminale. *Detenuto nel carcere di Oristano Un intervento a favore dell’accoglienza e il reinserimento dei detenuti. Sarà davvero una svolta? di Desi Bruno* Ristretti Orizzonti, 25 settembre 2025 Come è noto è sempre più pressante il tema del sovraffollamento in carcere (63.160 reclusi per 46.545 posti secondo il dato Uil-Pa Polizia Penitenziaria) e del numero dei suicidi (62 ad oggi dopo la morte di una detenuta nel carcere di Perugia oltre a quello di 3 operatori). A fronte della richiesta, avanzata da più parti, di porre mano ad un provvedimento di clemenza che porti ad una riduzione delle presenze di qualche migliaio (provvedimento di indulto o di liberazione anticipata speciale) il governo, ad oggi, non ha ritenuto di provvedere in tal senso, nonostante l’intervento autorevole del presidente del Senato La Russa che aveva dato segni di apertura, ma di predisporre un piano volto a collocare il maggior numero di detenuti tossicodipendenti presso strutture comunitarie e predisponendo soluzione abitative per i detenuti a fine pena. A giorni entrerà in vigore il D.M. 24 luglio 2025, n. 128, attuativo della Legge 8 agosto 2024, n. 112, nota come “legge Nordio”. Con l’art. 8 legge cit. infatti era prevista la predisposizione di un elenco delle strutture per il reinserimento delle persone detenute e anche la destinazione di fondi per incrementare la disponibilità di posti e servizi presso gli istituti penitenziari a custodia attenuata per tossicodipendenti. La formazione di un elenco di strutture residenziali - Con decreto del Ministero di Giustizia 24 luglio 2025 n. 128 è stato così emanato il regolamento recante le disposizioni in materia di strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale dei detenuti per affrontare il problema di persone detenute prive di reddito o con reddito modesto che, in assenza di una abitazione, rimanevano prive di opportunità di reinserimento. Con riferimento a quest’ultimo tema è previsto la formazione di un elenco di strutture pubbliche (enti pubblici, enti locali, enti del servizio sanitario) e di enti del terzo settore che svolgono per statuto o atto costitutivo attività di accoglienza sociale, alloggio sociale, reinserimento socio-lavorativo, riqualificazione professionale, provvisti dei requisiti di cui all’art. 8 del D.M. e in grado tutte assicurare idonea accoglienza residenziale, formazione e lavoro, assistenza alla persona (art. 7). I beneficiari delle strutture - Le persone detenute che possono accedere a queste strutture, con pagamento della reta a carico dell’Amministrazione per otto mesi, devono essere persone che non hanno idoneo domicilio, devono avere i requisiti per accedere alle misure penali di comunità (il riferimento sembra essere per di più alla misura dell’affidamento in prova al servizio sociale ma anche alla detenzione domiciliare e semilibertà), non possono essere persone raggiunte da provvedimento penale o amministrativo di espulsione dal territorio nazionale e devono avere un reddito non superiore a quello previsto per l’ammissione al beneficio a spese dello Stato (pari ad Euro 13.659,64 come da D.M. 22.04.2025) (art. 11). Ogni direzione carceraria avrà un elenco delle persone che potrebbero beneficiare di questo inserimento, finalizzato all’inserimento lavorativo e sociale e a reperire idoneo domicilio. Il singolo detenuto deve avere una relazione favorevole dell’equipe penitenziaria, che deve dare atto dell’assenza di profili disciplinari, delle eventuali competenze lavorative e in sostanza una prognosi favorevole sulla futura condotta e sul rispetto degli impegni da assumere con l’ingresso in struttura. Il regolamento si occupa poi della spesa e dell’eventuale recupero della stessa, ma è evidente che il tema dovrà fare i conti con il numero reale dei richiedenti e aventi diritto. La prospettiva - Non è dato comprendere in quali tempi potrà andare a regime questa normativa (e non saranno con ogni probabilità brevi), che potrebbe, se davvero utilizzata, avere un effetto deflattivo sulle presenze in carcere e, dall’altra, in ossequio agli art. 3 e 27 Cost., agevolare il rientro in società di chi ha dimostrato di essere meritevole di benefici, ma al contempo di non avere le condizioni materiali per accedervi. La rimozione degli ostacoli volti a garantire l’effettiva uguaglianza delle persone nel caso di specie renderebbe più concreta la finalità rieducativa della pena. Intanto tutto resta inalterato, in attesa di un effettivo cambiamento ma, ancor prima, di un provvedimento di clemenza che alleggerisca il peso, ormai insopportabile, della detenzione attuale nelle carceri italiane. *Avvocato, già Garante delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna e della Regione Emilia Romagna Morabito ancora al 41 bis, ignorata la condanna di Strasburgo: il caso al Consiglio d’Europa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 settembre 2025 L’Ufficio per l’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiesto all’avvocata Giovanna Beatrice Araniti un aggiornamento puntuale sul caso di Giuseppe Morabito: lo storico boss ‘ndranghetista che è tuttora al 41bis nonostante la condanna di Strasburgo e il peggioramento del suo stato di salute. La richiesta formale - e la risposta immediata della difesa, che ha trasmesso una relazione dettagliata con sedici documenti allegati - segnano l’innesco di un controllo europeo che potrebbe portare l’Italia davanti al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa per omissione di ottemperanza. Come è noto la Corte Edu ha ritenuto che il rinnovo del 41bis nei confronti dell’ultranovantenne Morabito, affetto da grave decadimento cognitivo, abbia configurato un trattamento incompatibile con l’articolo 3 della Convenzione. Nonostante la sentenza sia divenuta irrevocabile (perché il governo non ha chiesto il rinvio alla Grande Camera entro i termini), il regime differenziato è rimasto in vigore. La difesa ha quindi sollevato la questione dell’omessa esecuzione e ha chiesto che il caso venga portato all’attenzione del Comitato dei Ministri e pubblicato sul sito del Dipartimento per l’esecuzione delle sentenze. Dal dossier trasmesso dallo studio Araniti emerge una sequenza di atti giudiziari e amministrativi che descrive un’Italia in difficoltà tra obblighi internazionali e resistenze interne. Dopo la sentenza di Strasburgo, la difesa ha inviato due diffide formali al ministro della Giustizia (14 aprile 2025 e 22 luglio 2025) chiedendo l’immediata ottemperanza: nessuna risposta è pervenuta. In parallelo, la via giudiziaria interna ha mutato la scena. Il Tribunale di Sorveglianza di Roma aveva confermato la proroga del 41-bis fondandosi, tra l’altro, su brevi lucidità osservate nei colloqui e sull’idea di una “posizione apicale” ancora mantenuta; la difesa ha impugnato e la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha annullato l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza, con rinvio per un nuovo esame. Il giudizio di rinvio fissato davanti al Tribunale di Sorveglianza di Roma. Nel frattempo, altri procedimenti - compreso il rifiuto della detenzione domiciliare da parte del Tribunale di Milano - sono stati impugnati. Il quadro processuale, dunque, resta aperto, ma la pressione internazionale aumenta: la sentenza Cedu copre i fatti fino al 24 maggio 2023 ed è stato accertato il trattamento inumano, visto che il 41 bis si protrae nonostante il grave decadimento cognitivo del detenuto. La relazione difensiva non si limita a raccogliere atti: ricostruisce il quadro clinico valutato da più perizie. La consulenza del dottor Cirillo (2024, con integrazione del gennaio 2025) parla di “declino cognitivo moderatamente grave” e conclude che la capacità di intendere e di volere è “notevolmente ridotta se non azzerata”, con necessità di assistenza continua. Altri accertamenti - tra cui perizie disposte nei procedimenti a Milano - convergono sulla diagnosi di demenza senile in evoluzione. La difesa contesta la scelta dei giudici che hanno dato rilievo a brevi frasi pronunciate dal detenuto nei colloqui con i familiari, interpretandole come prova di lucidità sufficiente a giustificare il 41-bis. L’argomento della difesa è netto: la capacità di articolare singole frasi non vale come prova di capacità di dirigere o impartire ordini criminali. Ancora più significativo, durante il periodo tra giugno e novembre 2023, quando il regime era temporaneamente sospeso per ragioni di salute, non si sono registrati segnali che potessero indicare una ripresa dell’attività criminale. Per la Cassazione questo episodio di sei mesi senza condotte pericolose è un indice probatorio da prendere sul serio. La relazione insiste su un punto essenziale: la sentenza Cedu non è una raccomandazione di poco conto. Secondo la difesa, e secondo orientamenti consolidati della Corte Costituzionale e della Cassazione richiamati nel dossier, la decisione europea impone uno sforzo concreto di adeguamento dell’ordinamento interno. Se la norma interna conduce a un trattamento incompatibile con la Convenzione, i giudici nazionali hanno l’obbligo di disapplicarla o di motivare in termini convincenti la diversa scelta. In presenza di un decadimento cognitivo documentato e reiteratamente confermato, la proroga meccanica del 41 bis perde la sua giustificazione. Ora la palla passa anche al livello europeo: il Dipartimento per l’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiesto e ottenuto informazioni aggiornate. Se il Comitato dei Ministri constaterà inadempienza, l’Italia può ricevere richiami formali, osservazioni pubbliche ed essere condannata al risarcimento e al pagamento di interessi di mora. La procedura di supervisione può quindi trasformarsi da semplice nota di biasimo in pressione politica concreta. Perché il ministro della Giustizia non ha risposto alle diffide formali del legale? Per quale ragione non ha dato seguito immediato a una sentenza europea irrevocabile? La magistratura di merito saprà tradurre le indicazioni della Cassazione in una decisione coerente con la Convenzione? E, sul piano politico, il governo accetterà che una procedura europea si trasformi in un dossier contro la mancata esecuzione di una sentenza dello stesso Consiglio d’Europa? Nel frattempo, Giuseppe Morabito continua a scontare la sua pena in un regime che la stessa Corte europea a ha giudicato incompatibile con la persona. Una vicenda che interroga non solo il nostro sistema penitenziario, ma la stessa capacità dello Stato di rispettare i propri obblighi internazionali e i principi fondamentali dello stato di diritto. La risposta arriverà tra i corridoi del Tribunale di Sorveglianza, nelle stanze del Ministero e nelle sedute del Comitato dei Ministri. Fino ad allora, resterà aperto il sospetto che la perseveranza nel 41 bis, di fronte a una demenza accertata, consista più in un’abitudine istituzionale che in una scelta sorretta da motivazioni solide per il quale, questo regime speciale, è stato concepito. Dl giustizia, primo sì alla Camera ma restano irrisolte tutte le criticità di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 25 settembre 2025 Il testo ora al Senato, ma per le opposizioni si tratta di norme inutili. Poca attrattiva per le applicazioni da remoto. Più tempo in Corte d’appello. Passa alla Camera, e ora il testo approderà in Senato per un voto che dovrà arrivare entro il 7 ottobre, il decreto legge con il pacchetto di misure per provare ad avvicinare l’obiettivo della riduzione della durata delle cause nella misura del 40% nei tre gradi di giudizio. Obiettivo ambizioso, centrale anche negli ultimi accordi con la Commissione europea nel contesto del riconoscimento dei fondi del Pnrr, ma di arduo, se non impossibile, conseguimento, tenuto conto soprattutto del poco tempo a disposizione (giugno 2026). Già uno degli interventi cruciali del provvedimento, la possibilità di applicare da remoto sino a 500 giudici esperti nel settore civile, da incentivare sia sul piano economico (circa 12.000 euro lordi) sia di carriera, per definire almeno 50 procedimenti a testa, si è rivelato tutt’altro che un successo: se non una dichiarata ostilità, la proposta ha incontrato almeno un sostanziale disinteresse da parte della magistratura, tanto che solo in 212 hanno risposto all’interpello del Csm. Come pure a non essere stati coperti, ed è un’altra delle misure del decreto legge, sono stati quattro posti dei venti a disposizione per i trasferimenti in Corte d’appello, ma su questo fronte l’ultima versione del decreto prova a rimediare riaprendo i termini dell’interpello. Situazione critica che fa sostenere all’opposizione la tesi di una evidente inutilità del provvedimento, dalla responsabile Pd della Giustizia Deborah Serracchiani, “una toppa peggiore del buco”, a Roberto Giachetti di Italia Viva, “un decreto-sòla”. Nel testo in realtà trovano posto anche numerose norme di applicazione meno problematica. Dall’applicazione straordinaria dei consiglieri del massimario per la decisione dei ricorsi civili in Cassazione alla possibilità di utilizzare i giudici di pace in supplenza dei giudici professionali anche quando emergono vuoti nell’organico dei togati. Introdotta in commissione la possibilità di scelta per il regime in esclusiva per i magistrati onorari anche nell’anno di immissione in ruolo. Prevista anche la facoltà dei capi degli uffici individuati dal Csm in relazione al mancato raggiungimento dell’obiettivo di riduzione della durata dei processi imposto dal Pnrr, di realizzare interventi di riorganizzazione del lavoro all’interno dell’ufficio, attraverso una revisione dei criteri di assegnazione e anche interventi di riassegnazione, per i casi di ritardi dei singoli o di squilibri tra carichi di lavoro. Riviste anche le disposizioni sul tirocinio dei magistrati ordinari dichiarati idonei nel concorso bandito a ottobre 2023, per permettere un’operatività anticipata. Due slittamenti poi per due appuntamenti chiave della futura giurisdizione: passa al 18 ottobre 2026 il debutto del nuovo Tribunale per persone, minorenni e famiglie e partirà dal 31 ottobre 2026 il nuovo pacchetto di competenze dei giudici di pace, mentre a venire soppresse sono le nuove prerogative del giudice di pace in materia tavolare (per esempio, contratti stipulati da notaio che consentono il trasferimento di proprietà di un immobile per il quale una banca ha concesso finanziamento garantito da ipoteca). Task force per smaltire l’arretrato: criteri flessibili e incentivi economici per attrarre magistrati di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 25 settembre 2025 Dopo il flop del bando, il governo modifica il dl 117/2024: domande riaperte, requisiti meno stringenti e indennità più alte per raggiungere gli obiettivi Pnrr. Criteri meno “stringenti” per quanto riguarda i requisiti dei candidati e “migliore” trattamento economico. Dopo il flop del bando per i 500 posti della “task force” chiamata a smaltire, facendo udienza solo da remoto, i processi civili pronti per la decisione ed attualmente pendenti che rischiano di non far raggiungere gli obiettivi del Pnrr, il governo ha dunque deciso di correre ai ripari con alcuni aggiornamenti previsti al dl 117 dello scorso 8 agosto, “Misure urgenti in materia di giustizia”. Il bando, fanno sapere dal ministero della Giustizia, oltre ad essere riaperto sarà anche “aggiornato” per allargare la platea dei possibili aspiranti, prevedendo al contempo un diverso e più allettante - si spera - incentivo economico. Le domande pervenute al Consiglio superiore della magistratura giovedì scorso, giorno ultimo per presentare la domanda, erano state solo 212. La misura, contenuta come detto nel dl numero 117 dello scorso 8 agosto, “Misure urgenti in materia di giustizia”, era stata pensata proprio per consentire il raggiungimento degli obiettivi Pnrr nel settore giustizia entro giugno 2026. In particolare, la riduzione del “disposition time” civile del 40 percento, del penale del 25 percento e dell’abbattimento dell’arretrato civile fino al 90 percento. Per chi voleva far parte della task force da destinare ai 48 tribunali in sofferenza individuati dal Csm, era previsto un punteggio in più in caso di future domande di trasferimento o per un incarico direttivo, unito ad una indennità aggiuntiva da corrispondere in base al numero delle sentenze scritte. Rispetto ai parametri previsti, l’indennità poteva essere aumentata fino al 60 percento se il magistrato fosse riuscito a scrivere oltre 50 sentenze nel semestre, per un importo dai 10mila ai 14mila euro lordi. Incentivo economico che, evidentemente, non era stato sufficiente per convincere le toghe a presentare la domanda. Con le modifiche introdotte al dl, il cui voto finale in Senato per la conversione è previsto entro il prossimo 7 ottobre, si spera quindi di invertire la rotta e allargare la platea delle toghe. “In una situazione emergenziale come l’attuale, con il rischio quanto mai concreto di dover restituire a Bruxellesi soldi del Pnrr, si potrebbe pensare di far scrivere queste sentenze civili agli avvocati”, suggerisce l’avvocata milanese Daniela Muradore, esperta di digitalizzazione e processi di informatizzazione nel settore giustizia. “Ovviamente con determinate condizioni”, aggiunge l’avvocata, ricordando i tanti avvocati che già ora svolgono la funzione di giudice onorario di tribunale. Nel nuovo testo, va detto, sarà possibile utilizzare i giudici di pace in supplenza dei giudici professionali quando emergano vuoti di organico. Nulla da fare, invece, riguardo la proposta di bloccare fino al 30 giugno 2026 le autorizzazioni ad andare “fuori ruolo”. L’emendamento, presentato da Enrico Costa, deputato di Forza Italia e componente della Commissione giustizia di Montecitorio, era stato ritirato a seguito del parere contrario del governo. Stessa sorte aveva avuto l’emendamento, proposto a Palazzo Bachelet prima dell’estate del togato indipendente Andrea Mirenda e dal laico Michele Papa (M5S), affinché venissero eliminati, almeno sino al prossimo giugno, quando bisognerà rendicontare a Bruxelles l’attività svolta, gli sgravi che hanno molti magistrati e che vanno dal 50 percento fino al 100 percento dei carichi di lavoro. Referendum, la maggioranza pronta alle piazze di Valentina Stella Il Dubbio, 25 settembre 2025 Carriere separate, Forza Italia spinge per la raccolta firme e comitati per il Sì: “Non possiamo mica lasciare le piazze solo alle opposizioni”. Nella maggioranza si comincia a ragionare più seriamente su come affrontare la campagna politica e comunicativa in vista del referendum costituzionale sulla separazione delle carriere. I tre partiti che sorreggono il governo ancora non hanno fatto riunioni operative ma ovviamente si ragiona sulle varie opzioni in campo. E qualcuno, soprattutto dalle fila di Forza Italia - il main sponsor della modifica dell’ordinamento giudiziario -, vorrebbe porre sul tavolo la possibilità di richiedere la consultazione popolare della prossima primavera percorrendo tutte le strade che la Costituzione offre attraverso l’articolo 138. Quindi non solo tramite un quinto dei membri di una Camera, ma altresì attraverso le sottoscrizioni di cinquecentomila elettori e la richiesta di cinque Consigli regionali. Questo perché si vuole dare un’impronta forte all’iniziativa mettendo in campo tutte le risorse a disposizione. Quella sulla giustizia è la madre di tutte le battaglie, come ripete spesso anche il Guardasigilli, pertanto non si può lasciare nulla al caso, non si può dare nulla per scontato. A maggior ragione che il risultato al momento è incerto, anche a causa di sondaggi contrastanti, e in molti, anche tra i riformisti, temono il finale che toccò a Matteo Renzi. Non bisogna, dicono le nostre fonti, lasciar alcun minimo spazio alle minoranze che sicuramente si attrezzeranno affinché vinca il “no”. E quindi, ci spiegano, “non possiamo mica lasciare le piazze solo alle opposizioni”. “Qualora Pd, M5S e Avs decidessero di raccogliere le firme” contro la riforma Nordio “dovremmo evitare che i cittadini vedano nelle piazze solo i banchetti” dei partiti che osteggiano la riforma. “Pertanto dobbiamo anche noi marcare il territorio”, ci dice un esponente azzurro. Anche perché “se ci fermassimo alla richiesta dei parlamentari comunque dovremmo attendere tre mesi prima che la legge di modifica costituzionale possa essere sottoposta al voto plebiscitario da quando è stata pubblicata”. “E perché dovremmo lasciare tutto questo tempo ai partiti di opposizione e consentire loro di propagandare il “no”?”, si chiede un altro parlamentare. Contemporaneamente si sta ragionando sui comitati per il “sì”. L’idea sarebbe quella certamente di costituirli, ma senza farli coincidere con i partiti. “Potremmo mettere a disposizione dei comitati le nostre strutture per dare una mano dal punto di vista organizzativo ma vorremmo non politicizzare eccessivamente le iniziative”, ci racconta un altro parlamentare. Dunque porte aperte in primis a giuristi, costituzionalisti e personaggi del mondo della cultura a cui verrà chiesto di impegnarsi per spiegare agli elettori le ragioni tecniche del “sì”. In questo momento da tutti i fronti si tiene a ribadire che non bisogna trasformare il voto in un indice di gradimento pro o contro Meloni, pro o contro magistratura. Lo ha ribadito lo stesso presidente dell’Anm Cesare Parodi: sul referendum “ci sono stati dei sondaggi che vedono la partita ancora aperta. Ritengo siano dei sondaggi attendibili perché fatti da persone serie e il risultato non sembra conveniente in un senso o nell’altro. Il Paese discute e mi fa piacere se il Paese si interroga. Mi fa meno piacere se questa è una forma di divisione, perché le divisioni non giovano mai a nessuno. Se è solamente un dibattito invece è un qualcosa di positivo, senz’altro”. Per ora queste sembrano essere le regole di ingaggio. Ma è molto probabile che nei prossimi mesi il dibattito diverrà sempre più aspro. Intanto ieri il presidente della Fondazione Einaudi, Giuseppe Benedetto, durante il convegno “Ri-Costituente: meglio l’assemblea”, ha rilanciato il disegno di legge depositato questa estate al Senato per istituire un’Assemblea con l’obiettivo di riformare la Costituzione. “Un testo che, con il passare dei mesi, diventa sempre più attuale, visto che ormai mi pare non ci siano più molti dubbi sul fatto che l’unica riforma costituzionale che si farà in questa legislatura sarà quella della separazione delle carriere dei magistrati. Non ce ne saranno altre. Inutile parlare di ennesima occasione sprecata, ormai da tempo la Fondazione Einaudi è convinta che solo attraverso un’Assemblea, a regole condivise e composta dalle più illustri personalità del Paese, sia possibile procedere a riforme strutturali”, ha concluso Benedetto. Assurdo che lo scontro metta in ombra il senso epocale del divorzio giudici-pm di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 25 settembre 2025 Il via libera in terza lettura alla separazione delle carriere, deliberato esattamente una settimana fa dalla Camera dei deputati, segna una tappa cruciale per la giustizia italiana. Si tratta di un passaggio politico e istituzionale di grande rilievo che spinge la riforma verso l’ultimo esame in Senato e, se confermata, verso il referendum popolare. La riforma - fortemente voluta dal ministro della Giustizia Carlo Nordio e sostenuta con compattezza dalla maggioranza di centrodestra - mira a distinguere in maniera netta i percorsi professionali dei magistrati inquirenti e di quelli giudicanti. Non sarà più possibile il passaggio da una funzione all’altra, eliminando così un tratto tipico dell’ordinamento italiano che per decenni aveva suscitato critiche e difese. Secondo i promotori, l’obiettivo è rafforzare l’efficienza e la trasparenza, costruendo un sistema giudiziario più equilibrato, in cui accusa e giudice siano pienamente separati, come già avviene in diversi ordinamenti stranieri. La votazione, pur ampiamente prevista, non è stata una semplice formalità. Al momento dell’annuncio del risultato, i membri del Governo si sono alzati in piedi applaudendo. Dai banchi di Forza Italia si è levato il grido “Viva Silvio”, in omaggio a Berlusconi, storico sostenitore della riforma. L’opposizione ha reagito duramente. Deputati del Pd, del M5S e di Alleanza Verdi Sinistra hanno contestato il clima di festa, sottolineando come si stesse celebrando una riforma mentre il governo non dava risposte adeguate su altre questioni drammatiche, in particolare la crisi umanitaria di Gaza. ù La capogruppo dem Chiara Braga ha chiesto che l’esecutivo riferisse in Aula sulla “tragedia immane” in corso in Medio Oriente. Le proteste si sono rapidamente trasformate in bagarre: alcuni deputati di opposizione si sono avvicinati ai banchi del governo, costringendo i commessi a intervenire per proteggere i ministri, tra cui Antonio Tajani. Il clima rovente ha portato alla sospensione della seduta, in un’immagine che testimonia la forte polarizzazione attorno a una riforma che tocca corde profonde dell’equilibrio costituzionale. Sul piano politico, l’approvazione rappresenta una vittoria per la maggioranza, che ha mantenuto la compattezza e ha potuto presentare alla propria base un risultato simbolico, descritto dalla premier Giorgia Meloni come una “riforma storica”. Ma le divisioni emerse in Aula mostrano come il tema non sia soltanto tecnico- giuridico: la separazione delle carriere si inserisce in un conflitto più ampio sul rapporto tra poteri dello Stato, sull’indipendenza della magistratura e sul ruolo delle istituzioni rappresentative. Le critiche non mancano. Secondo la gran parte della magistratura associata, la riforma rischia di accentuare la politicizzazione dei pubblici ministeri, rendendoli più esposti a influenze del potere esecutivo. Altri osservatori hanno sottolineato che la modalità con cui si è arrivati al voto - con applausi, cori e celebrazioni - non ha favorito un clima di confronto sereno e istituzionalmente adeguato a una revisione costituzionale. Ora la parola passa al Senato che dovrà approvare in quarta lettura il testo. Con ogni probabilità, si arriverà all’ultimo sì previsto dalla procedura ex articolo 138 entro il mese di ottobre, Ed è a partire dalla data, immediatamente successiva, della pubblicazione, che decorreranno i 90 giorni lasciati dalla Carta a disposizione dei soggetti titolati a chiedere che la riforma sia sottoposta a referendum. Già la necessità di passare per l’espressione diretta della volontà popolare dovrebbe agire da richiamo rispetto al clima troppo contrappositivo, e alle polemiche in parte strumentali che accompagnano questa modifica: siamo di fronte a un passaggio davvero rilevante nell’evoluzione dell’assetto istituzionale. Se davvero la separazione delle carriere sarà convalidata dalla consultazione, cambieranno gli equilibri, in senso migliorativo, fra i poteri dello Stato, e soprattutto saremo di fronte a una giustizia penale disegnata in modo più coerente con l’articolo 111. Lo scontro politico non può mettere in ombra tutto questo. Certo, la sfida dell’urna referendaria si annuncia intensa, e non se ne può dare assolutamente per scontato l’esito. Sono in gioco temi sensibili come la fiducia nei magistrati, la tutela dei diritti di difesa e l’equilibrio tra accusa e difesa. Da una parte chi presenterà la riforma come necessaria per modernizzare la giustizia e renderla più equa, dall’altra chi la dipingerà come un pericolo per l’autonomia della magistratura e un passo verso un controllo politico più marcato. La riforma delle carriere dei magistrati, titolo della tesi di laurea proprio in diritto costituzionale di chi scrive, ormai datata più di un ventennio fa, non è più un’idea dottrinale e accademica: è un tema reale, destinato a entrare nel dibattito pubblico e a suscitare comunque, doverosamente, opinioni opposte. Saranno i cittadini a scegliere se l’Italia debba allinearsi ad altri modelli europei e anglosassoni o se mantenere l’attuale sistema misto, nel quale i magistrati condividono una comune appartenenza. In ogni caso, la riforma dimostra che la giustizia non è mai solo una questione tecnica, ma una materia che tocca equilibri politici, sensibilità sociali e l’identità costituzionale di un Paese. *Avvocato, Direttore Ispeg La vera finalità del “separazionismo” di Gian Carlo Caselli e Vittorio Barosio La Stampa, 25 settembre 2025 C’era una volta, 40/50 anni fa, una sostanziale omogeneità (consapevole o meno) di molta parte della magistratura con il sistema politico. Per lustri ciò ha prodotto omissioni, insabbiamenti, avocazioni, competenze sottratte, connessioni ardite e molti altri artifici, pur di non turbare gli assetti di potere esistenti. Una stagione di “politicità” massiccia a senso unico, incompatibile con un indipendente esercizio della giurisdizione, falsamente contrabbandata come neutralità. Una stagione dalla quale la magistratura ha cercato di affrancarsi con una lunga marcia verso una reale indipendenza. A questa stagione si rischia ora di regredire con la riforma costituzionale della separazione delle carriere fra pm e giudici, fortemente voluta dal governo Meloni. Chi si batte per la separazione sostiene che i giudici non controllano con sufficiente rigore l’operato dei pm perché sono colleghi, tant’è vero che prendono insieme il caffè al bar! Questo “connubio incestuoso” consentirebbe all’accusa di condizionare i giudici: solo una separazione li affrancherebbe, arginando lo strapotere dei pm. Affermazione carica di suggestioni, ma ingiustificata: se nel processo fosse necessaria una eterogeneità di estrazione di carriera tra controllori e controllati, a essere separate dovrebbero essere anche le carriere dei giudici dei diversi gradi: di cassazione, di appello e di primo grado. E ciò perché i rapporti tra i giudici dei vari gradi di giudizio sono ben più forti di quelli fra pm e giudici. Per coerenza di “separazionismo” si dovrebbero dunque prevedere, alla fine, ben 4 diversi concorsi, 4 diversi Csm, 4 diverse carriere per pm, giudici di Tribunale, magistrati di appello e cassazionisti! Un’assurdità, che però inficia in radice la “filosofia” stessa della separazione delle carriere e ne tradisce la vera finalità. Siamo convinti che separare le carriere comporterebbe lo sganciamento del pm dalla cultura della giurisdizione, facendone inesorabilmente un funzionario del governo tenuto ad adempierne le direttive. Perché una cosa è certa: ovunque vi sia una qualche declinazione della separazione delle carriere le cose funzionano così. Eppure (si osserva) la separazione vi è anche in Paesi di indiscutibile caratura democratica. E allora onestamente diciamolo: del problema separazione delle carriere potremo eventualmente parlare, senza temere che si risolva in una tagliola per i pm scomodi perché indipendenti, quando la nostra politica saprà bonificarsi da quelle componenti ancora oggi compromesse con fatti di corruzione o di malaffare. E soprattutto quando vi saranno adeguate garanzie per impedire che la politica influenzi i pm. Altrimenti mettere il pm, di fatto, alle dipendenze del potere politico del momento (non interessa di che colore) sarebbe come spalancare l’ovile al lupo. Conviene al nostro Paese? Se poi tornassimo indietro nel tempo, ricorderemmo che nel 1982 venne sequestrata una valigetta con dentro il “Piano di rinascita democratica P2” redatto da Licio Gelli, gran maestro appunto della loggia massonica P2. In questo piano, lungo e dettagliato, è inserito “l’obiettivo a medio e lungo termine” di “separare le carriere requirente e giudicante”. Un marchio d’infamia, una ragione in più per respingere la riforma. Per concludere, sgombriamo il campo da un equivoco ancora diffuso: la separazione delle carriere è cosa ben diversa dalla separazione delle funzioni, che nel nostro sistema esiste già da tempo. È chiaro a tutti infatti che si devono evitare commistioni improprie. È intuitiva l’inopportunità che chi è stato pm compaia il giorno dopo come giudice nello stesso tribunale davanti al quale ha esercitato per anni funzioni requirenti (o viceversa). E infatti per transitare da una funzione all’altra è oggi previsto un articolato sistema di controlli di professionalità e di incompatibilità territoriali, che di fatto hanno reso il fenomeno pressoché numericamente inesistente. Cosa non torna nella relazione di Gianassi (Pd) sul caso Almasri di Ermes Antonucci Il Foglio, 25 settembre 2025 Per l’esponente dem, che ha chiesto di accogliere la richiesta di mandare a processo Nordio, Piantedosi e Mantovano, il governo non difese un interesse pubblico. Ma fu Caravelli, direttore dei servizi segreti per l’estero, a segnalare il pericolo di ritorsioni ai danni degli italiani in Libia. Ci si aspettava (e il centrodestra temeva) una relazione scottante, piena di dettagli compromettenti nei confronti di Nordio, Piantedosi e Mantovano, provenienti dalle migliaia di atti di indagine segretati e depositati dal Tribunale dei ministri. E invece, alla fine, la relazione sul caso Almasri presentata ieri dal relatore di minoranza Federico Gianassi (Pd) alla Giunta per le autorizzazioni della Camera si limita a cristallizzare le critiche delle opposizioni rispetto all’operato degli esponenti governativi, dicendo “sì” all’autorizzazione a procedere per tutti loro. Più che un atto di “fair play”, nota qualcuno dalla maggioranza, la conferma dell’inesistenza di fantomatici dettagli imbarazzanti. La relazione Gianassi, destinata a essere bocciata dalla Giunta a maggioranza centrodestra e a essere sostituita da una relazione contraria alla richiesta di autorizzazione a procedere per i tre membri del governo, si limita a far proprie la ricostruzione delle fasi del caso Almasri e le conclusioni del Tribunale dei ministri. Per Gianassi, a dispetto di quanto sostenuto da Nordio, Piantedosi e Mantovano in una memoria difensiva congiunta, il rimpatrio del generale libico non è avvenuto né per tutelare un interesse dello stato costituzionalmente rilevante né per perseguire un preminente interesse pubblico, gli unici due casi in cui - secondo la legge costituzionale n. 1 del 1989 - il Parlamento può negare l’autorizzazione a mandare a processo i ministri e le figure “laiche” a loro connesse (come il sottosegretario Mantovano). “Alla luce di quanto emerso - si legge nella relazione - deve affermarsi che i ministri Nordio, Piantedosi e il sottosegretario Mantovano non abbiano perseguito né un interesse costituzionalmente rilevante né un preminente interesse pubblico, ma abbiano compiuto una scelta di mero opportunismo politico, fondata su timori generici e non suffragati da evidenze concrete, che mostrano la debolezza del governo italiano dinanzi a bande armate che operano all’estero e che violano i diritti umani commettendo crimini internazionali”. Nella loro memoria, come si ricorderà, i ministri avevano spiegato che tutte le decisioni prese in quei giorni furono atti frutto di “scelte politiche”, assunte per proteggere cittadini italiani e interessi strategici dello stato. In particolare, a guidare le decisioni del governo furono le prospettazioni provenienti dal direttore dell’Aise (i servizi segreti per l’estero), Giovanni Caravelli, sulle ritorsioni che l’arresto di Almasri avrebbe potuto generare ai danni degli italiani in Libia e delle aziende italiane. Nelle sue interlocuzioni col governo, Caravelli aveva sottolineato che Almasri era un elemento di vertice di vertice della forza di deterrenza speciale denominata Rada Force, che operava in quartieri nevralgici della capitale, controllando anche l’aeroporto di Mitiga di Tripoli. Il numero uno dei servizi segreti per l’estero aveva poi aggiunto che, pur non avendo ricevuto notizia di specifiche minacce di attentati o atti di rappresaglia nei confronti di cittadini italiani, “c’era molta agitazione e indicatori di possibili manifestazioni o possibili ritorsioni nei confronti dei circa cinquecento cittadini italiani che in qualche maniera vivono a Tripoli o arrivano a Tripoli o in Libia, nonché nei confronti degli interessi italiani”. Difficile, dunque, negare l’esistenza di un interesse pubblico alla base delle scelte del governo. Di diverso avviso la conclusione di Gianassi, che però risulta caratterizzata da un errore di fondo, condiviso col Tribunale dei ministri, che consiste nella sovrapposizione di disposizioni del nostro codice penale a norme internazionali, secondo la solita tendenza a far trionfare la logica penalistica. Per Gianassi (e il Tribunale dei ministri), nella vicenda non sarebbe emersa la sussistenza di un “pericolo concreto e imminente per cittadini italiani in Libia, trattandosi di timori generici e non di minacce specifiche e attuali”. Ma i requisiti dell’attualità e della concretezza del pericolo vengono ricavati dall’articolo 54 del nostro codice penale, che disciplina lo stato di necessità rispetto alle singole persone, mentre è un atto del 2001 delle Nazioni unite a costituire la norma internazionale di riferimento in tema di stato di necessità degli stati. Un errore che sarà spazzato via dal voto contrario della Giunta e poi dell’Aula della Camera. Anche perché, se non è sufficiente l’allarme dei servizi segreti che lavorano all’estero, non si comprende cosa servirebbe ancora a un governo per adottare le sue scelte per la sicurezza del paese. Alla fine del silenzio, Aldro di Checchino Antonini Il Manifesto, 25 settembre 2025 Vent’anni fa, all’alba del 25 settembre, Ferrara si accorgeva della “malapolizia”: crimini apparentemente non politici spesso contro persone fragili, pratiche devianti dai principi di legalità, trasparenza, equità e rispetto dei diritti fondamentali. Tutto molto politico. In realtà, la città se ne sarebbe accorta solo tre mesi dopo. Quel giorno se ne resero conto solo Lino Aldrovandi e Patrizia Moretti, i genitori di Federico. Vent’anni dopo non sappiamo perché quattro agenti - Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri - uccisero un diciottenne che tornava a casa dopo un sabato sera con gli amici. Ma dicono tutto le cinquantaquattro lesioni dovute a calci, pugni, le fratture al torace e alla testa, due manganelli riportati rotti in questura, il suo cuore spezzato sotto il peso della violenza su un corpo ammanettato e provato da uno stato di agitazione. E lo ha confermato Anne Marie Tsegue, una donna camerunense col permesso di soggiorno in scadenza, che tuttavia dimostrò più coraggio degli indigeni. Nel 2009 i quattro furono condannati a 3 anni e 6 mesi per “eccesso colposo in omicidio colposo”, pena confermata in tutti i gradi di giudizio. Sappiamo che Aldro fu scambiato per uno dei ragazzi stranieri ospiti di don Bedin in una vicina comunità di accoglienza. Non era così ma sarebbe stato proprio quel prete di frontiera a intercettare la testimonianza decisiva. Non aveva documenti ma indossava una felpa con il cappuccio. “Come uno dei centri sociali”. Per dargli un nome venne svegliato il capo della digos di Ferrara. L’ispettore Nicola Solito lo riconobbe ma solo perché lo aveva visto crescere. E quando comunicò la notizia ai genitori suggerì anche il nome di un avvocato. Era Fabio Anselmo che da allora non ha smesso di rappresentare i familiari di vittime di malapolizia. Dietro i cancelli del galoppatoio un cartello avvertiva: “zona del silenzio”. Ora non c’è più. Il silenzio e le menzogne giocheranno un ruolo. Un secondo filone di indagini avrebbe portato alla luce omissioni, insabbiamenti e depistaggi scattati immediatamente dopo l’omicidio. Quella mattina nessun magistrato si recò sul posto - in fin dei conti era solo un drogato morto - e gli agenti suonarono i citofoni delle case vicine per intimidire i possibili testimoni. Così per mesi la stampa locale, in una città intossicata dalle narrative emergenziali, si fece bastare i mattinali della questura. Poi, alla fine dell’anno, Patrizia Moretti aprì un blog. La sua denuncia varcò le mura estensi, finì sulla newswire di Indymedia, sulle pagine di Liberazione e il manifesto (che inviò Cinzia Gubbini), poi Chi l’ha visto?, Radio Città Fujiko di Bologna, estense.com… In una sera di metà gennaio, nella saletta riservata di un bar del centro, gli amici di Federico e qualche militante del Prc e dell’Arci decisero di formare un comitato “Perché non succeda mai più”. L’Italia, d’altronde, è il paese dei comitati che si battono per verità e giustizia, ha detto spesso Manlio Milani, marito di una delle vittime della strage di Brescia. Controinformazione e mobilitazione sono stati un pezzo della differenza assieme ai legali (vanno ricordati anche Riccardo Venturi, Alessandro Gamberini, Beniamino Del Mercato), ai genitori, al prete di frontiera, hanno intercettato le energie e i saperi necessari per invertire il corso degli eventi. Le indagini sarebbero ripartite, il Viminale avrebbe tentato un’operazione simpatia inviando un nuovo questore, ci sono stati magistrati con la schiena dritta, a partire dal pm, Nicola Proto, e dal giudice di primo grado, Francesco Maria Caruso. Il caso Aldrovandi è una storia che ne contiene molte altre. Il successo di Rumore, podcast di Francesca Zanni, 17 anni dopo, dimostra come sia viva quella memoria. Scriverà un ispettore di polizia: “Dietro l’azione violenta c’è spesso un’ideologia, una visione del mondo, una cultura non in sintonia con la Costituzione che determina l’atteggiamento violento, a prescindere, verso il dissidente, il diverso, il pericoloso. È parte di una certa subcultura di polizia” (Alessandro Chiarelli, Il caso Aldrovandi. 2005-2015, Faust Edizioni). I quattro condannati furono accolti al congresso del Sap del 2014 da alcuni minuti di standing ovation e altri sindacati si schierarono con i condannati fiancheggiati da politici di destra più o meno estrema, da Giovanardi a Salvini. Vent’anni dopo il governo Meloni progetta uno scudo protettivo per gli agenti più coprente delle norme del dl sicurezza, vorrebbe manomettere perfino la blanda legge contro la tortura e la riforma della giustizia - per cui il pm è alle dipendenze della polizia giudiziaria - potrebbe neutralizzare le indagini per malapolizia. “Le cose stanno peggiorando, ci sono leggi più restrittive, i quattro poliziotti dopo sei mesi hanno ripreso servizio, non vedo nulla che abbia fatto lo Stato perché queste tragedie non si ripetessero. Non vedo nulla che possa prevenire se non l’informazione”, ha detto Patrizia Moretti parlando a una formazione del sindacato dei giornalisti (tra gli altri c’erano il giudice Caruso e il prefetto Savina - il questore spedito da Manganelli a provare la ricucitura con la città). La stampa, ferrarese e no, ha dovuto imparare a “superare alcune commistioni che a volte sono inevitabili soprattutto in una piccola comunità”, ha ammesso Alberto Faustini, direttore de La Nuova Ferrara. Lino, il papà di Federico, guarda lontano, a “un mondo sempre più violento e assurdo, quasi che ci stessimo abituando a ogni tipo di ingiustizia”, dice alla medesima platea riferendosi al “massacro di bambini e innocenti non molto lontano da noi”. Proprio stasera quel parchetto all’ippodromo verrà intitolato a Federico. Alan Fabbri, il sindaco leghista, non ha potuto fare altrimenti. Lo stadio è un prezioso bacino di voti e il bandierone con il viso di Aldro non ha mai smesso di connotare la curva della Spal. L’uccisione di Ramy Elgaml, 19 anni, a Milano, ha riacceso l’urgenza degli amici di Federico che stanno dando vita a decine di iniziative per costruire alleanze e resistenze: dibattiti, mostre, presentazioni di libri, un convegno di parlamentari il 26 e il tradizionale concerto, il 27 (il programma sui social del comitato). “Non si poteva restare in silenzio - spiega al manifesto Andrea Boldrini (Boldro) che era con Aldro l’ultima sera - con il caso di Rami ho rivissuto le stesse cose, io e Parme (Matteo Parmeggiani, anche lui c’è da sempre) ci siamo guardati e abbiamo deciso di ricominciare”. All’epoca aveva 19 anni, ora è operaio Eni, dirigente Filctem-Cgil, presidente del rinato comitato e padre. Il primo figlio l’ha chiamato Federico, ora ha 16 anni e Boldro ha il terrore che si imbatta nelle volanti. Di quei giorni non può dimenticare nulla, il senso di colpa per non aver accompagnato l’amico fino a casa, gli interrogatori in questura e i titoli dei giornali (“Torchiati gli amici del morto”, “Scaricato da un’auto in corsa”). Sopravvivere è una forma di tortura. “Senza Federico non ci sarebbe stato un caso Cucchi - ricorda al manifesto Ilaria, senatrice Avs - ora non sembra esserci la percezione della pericolosità della fase e i tentativi di ricucitura di allora (ad esempio la commissione d’inchiesta) oggi sarebbero impraticabili”. “Le stragi mai viste a Gaza e in Ucraina hanno anestetizzato qualsiasi forma di indignazione - le fa eco Fabio Anselmo, oggi leader dell’opposizione di centrosinistra in consiglio comunale - perché i governi fanno leva su presunte situazioni di emergenza e sulla paura si accetta tutto: dai Cpr in Albania ai morti per taser”. Anche a Ferrara il contesto sociale è più chiuso, distratto e ostile. “È una città mafiosa - dice Anselmo citando dati della Dna - i reati spia la collocano ai vertici delle classifiche: 484 imprese a infiltrazione mafiose in una economia povera, fanalino di cosa dell’Emilia ma prima nei reati del ciclo del cemento. Una città anestetizzata dalla paura e dai grandi eventi”. Aldrovandi per sempre. Perché è un simbolo della giustizia possibile di Fabio Anselmo* Il Domani, 25 settembre 2025 Vent’anni fa moriva “Aldro”, un ragazzo appena maggiorenne, incensurato, disarmato, che non aveva commesso alcun reato. I poliziotti imputati per la vicenda sono stati condannati a tre anni e sei mesi fino in Cassazione. Cosa racconta questa morte avvenuta nella città di Ferrara. Erano le primissime ore di quella domenica in cui il silenzio pressoché assoluto che regnava in via Ippodromo venne improvvisamente squarciato da “urla disumane”, rumori gutturali, voci per lo più non intellegibili e rumori sordi di colpi. Così veniva ucciso Aldro, un ragazzo appena maggiorenne, incensurato, disarmato, che non aveva commesso alcun reato. Non stava facendo nulla di male. Era figlio di un’impiegata comunale, Patrizia, e di un ispettore della Polizia municipale, Lino. Nipote di un maresciallo dei carabinieri. Una tragedia che investì tutta la città, che si divise tra chi empatizzava fortemente con quella famiglia, improvvisamente travolta e devastata da un dolore insopportabile che non li avrebbe mai più abbandonati, e chiedeva a gran voce verità e giustizia per la morte del loro giovane figlio e chi, viceversa, difendeva l’operato degli agenti intervenuti sul posto. La Questura non fece nulla per ridurre quello strappo con i famigliari di Federico che a sua volta produsse una frattura sempre più profonda con tanti cittadini ed anche qualche istituzione, sindaco in testa. Per giustificare la scomparsa di quel ragazzo, vennero evocati la droga, l’autolesionismo, la pazzia, un improvviso malore e così via. Venne in un primo tempo negato l’uso della violenza poi giustificato da un comportamento particolarmente aggressivo del ragazzo verso gli agenti. Venne colpevolizzata la sua stessa famiglia per la droga. Non mancarono i depistaggi nelle prime indagini fatte dai colleghi degli agenti coinvolti. Mentre la nebbia fitta era scesa sulla causa di morte durante le operazioni autoptiche, non mancarono durissime prese di posizione da parte di alcune sigle sindacali con le quali veniva attaccata Ferrara, “città che non ci merita”. Non meritava, cioè, tutti gli agenti che vi prestavano servizio e che, compatti, si dichiaravano sicuri dell’innocenza dei colleghi sotto indagine non esitando a definire calunniatori coloro che per caso avessero l’ardire di sostenere di aver visto qualcosa di diverso. I volti del Sap (una delle sigle più attive) furono quelli di Gianni Tonelli e Stefano Paoloni che poi avremmo presto ritrovato nelle file della Lega. Non è bastata la “confessione” telefonica registrata in una conversazione di uno degli operanti intervenuti con la centrale operativa, dove ammetteva che quel povero ragazzo, prima di morire, era stato pestato di brutto per mezz’ora. Non è bastato il rinvenimento di ben due manganelli che erano stati rotti sul suo povero corpo. Non sono bastate le testimonianze raccolte che riferivano di un ragazzo pestato e schiacciato a terra che diceva disperatamente “Basta, aiuto!” mentre veniva preso pure a calci. Non è bastato il conteggio fatto dal giudice delle 54 lesioni riscontrate sul cadavere. Non bastato l’accertamento tossicologico di Torino che ha concluso per l’assenza di qualsiasi traccia di droga nel corpo di Federico. Non sono bastate le condanne a tre anni e sei mesi inflitte ai poliziotti imputati confermate fino in Cassazione. Quella frattura non si è mai ricomposta. L’atteggiamento del Sap, cui si è unito anche il Coisp, non è cambiato: all’assemblea del primo, a Rimini, sono stati portati ed applauditi i poliziotti condannati. Esponenti del secondo, poi, si sono distinti in un itinerante forma di protesta per esprimere loro solidarietà per tutta la città di Ferrara, con sosta obbligata del loro camper proprio sotto il Comune dove lavorava Patrizia Moretti. Passano gli anni e Tonelli (che fu segretario del Sap all’epoca) fa pure carriera politica venendo eletto nelle file della Lega. La stessa Lega che conquista il comune di Ferrara eleggendo a sindaco Alan Fabbri. Normale che, compagni di partito, partecipino insieme e concordi ad eventi elettorali. Alan Fabbri, proprio al ventennale dalla scomparsa di Federico Aldrovandi, ha patrocinato una bellissima serie di eventi per ricordare Federico al fianco di Patrizia e Lino pronunciando parole inequivocabili di partecipazione e condivisione alla memoria del loro figlio ucciso dalla Polizia. Possiamo parlare quindi di una ferita finalmente rimarginata? Questo non lo so viste le posizioni politiche espresse e propagandate dalla Lega in tutto il Paese in tema di diritti umani. Una cosa, però, è certa: nessuno della Lega potrà qui dire qualcosa di diverso rispetto a quanto nobilmente espresso dal Sindaco Fabbri. Sembra la fine di un percorso di vita personale e professionale particolarmente travagliato. Patrizia e Lino mi hanno restituito motivazioni che avevo smarrito ad esito di una difficilissima vicenda famigliare. La loro ribellione civile alle mistificazioni e falsità hanno cambiato il mio modo di concepire la professione di avvocato e di vedere però il volto di uno stato che avrei preferito non conoscere. Ho imparato che in tragedie come questa la memoria è tutto. È la vita residua. Ed in un’epoca dove si riesce a dimenticare l’indimenticabile, il fatto che tutti, ma proprio tutti oggi ricordino il volto di Federico Aldrovandi vuol dire che è esistito non solo per i suoi genitori ma per tutti noi. *Avvocato Baby Gang e Vallanzasca, “educazione criminale” parallela a Milano di Andrea Galli Corriere della Sera, 25 settembre 2025 I furti di figurine e biscotti da bambini, il carcere Beccaria, la caccia ai riflettori. Il trapper è stato arrestato la prima volta a 17 anni nel 2008, il bandito della Comasina a 15 anni nel 1965. La voglia di stare al centro dell’attenzione e quella difesa a oltranza dei complici: “Tradire mai”. L’uno smilzo e svelto, l’altro smilzo e svelto. Quantomeno a quindici e diciassette anni, l’età del primo accesso nel carcere minorile Beccaria che allora come oggi, ovvero l’anno 1965 per Renato Vallanzasca e l’anno 2018 per Zaccaria Mouhib alias Baby Gang, versava in condizioni pessime, posto sempre ai margini non soltanto geografici di Milano, una volta i “terroncelli” come ospiti (di quello che era il riformatorio e non l’attuale struttura, ma di fatto poco cambia) e adesso i “maranza”, una volta, quale provenienza, le periferie cittadine e adesso la sorta di grande geografia suburbana essa includendo le terre dei pendolari prossime alla metropoli fra treni, passanti, metrò, tangenziali, bretelle, pedemontane, autostrade; una volta l’emigrazione e adesso pure. Ma si parlava del Beccaria, ed ecco, la storia dei quarantadue indagati cominciando dai trenta agenti della polizia penitenziaria per pestaggi e torture proprio contro i giovani detenuti, da par loro autori di ripetute rivolte ed evasioni nonché di quotidiane provocazioni anche servendosi delle proprie feci come armi di lancio, certo non risale a quella stagione là: essa è inquietante racconto di questi ultimi mesi. Renato Vallanzasca è stato il bandito fra i banditi e insieme anche un assassino ferale e seriale; oggi è ricoverato in una residenza per anziani a causa d’una malattia neuro-degenerativa che procede veloce, molto veloce; classe 1950 e pertanto 75enne, ha posseduto un’indubbia attrattiva esercitata nolente anzi più spesso volente sulla stampa e di conseguenza è stato eletto a simbolo, con quello stonato soprannome amato dalla medesima stampa, pigra e non creativa, di bel René, che difatti noialtri non utilizzeremo; eletto a figura di moda, Vallanzasca, a strumento per spingere le carriere. Suvvia i reati son reati, senza dubbio e ci mancherebbe il contrario, le condotte recidive innescano per forza punizioni maggiori rispetto alle condotte degli incensurati, nel suo caso specifico di assassino poi figurarsi, stiamo enunciando concetti banali, avete ragione, e però, epperò come avvenuto con Vallanzasca e come sta avvenendo con Baby Gang, l’arresto ha avuto e ha il titolo assicurato sui giornali e in televisione, la pubblicità garantita, insomma i benefici professionali per ampie e trasversali categorie sono stati (e sono) pressoché scontati. Dinamiche classiche dell’essere umano ed esercizio stolto financo offensivo quello di stupirsene fingendosi poveri ingenui; dopodiché conversando con carabinieri e poliziotti in seguito a quest’ennesima cattura di Zaccaria, legata a vicende di armi, dello stesso ragazzo, classe 2001 e pertanto 24enne, bisogna registrare, senza che per carità possa apparire un’equivalenza - se non altro il ragazzo non ha mai ucciso -, comunque una serie non scontata di punti in comune con Vallanzasca nella stagione, dei due, di debutto e crescita criminale, che è il centro di quest’articolo; nessuna intenzione di speculare, d’esagerare, di forzare. L’infanzia, l’adolescenza. Renato & Zaccaria. Progressione della devianza. Da via Porpora alla favela di Casablanca - Allontanarsi da scuola - la scuola elementare - e presto finire per non frequentarla; non rientrare a casa la sera; andarsene anche lontano e mettersi a dormire dove capita, con chi capita: sono alcuni degli elementi del disturbo della condotta, una delle prime manifestazioni d’un comportamento sovente anticipatore di successive esistenze da delinquenti. Ebbene Vallanzasca s’allontanava dal palazzo di via Porpora, residenza della madre Marie Vallanzasca, unitasi a Osvaldo Pistoia (il padre di Renato) che aveva una famiglia, la prima famiglia, nella periferia opposta di Milano, al Giambellino, e vagava per la città sui tram e a piedi, vagava per l’hinterland in sella alle motorette, e altresì Baby Gang, figlio d’una coppia di marocchini emigrati in Lombardia, a Lecco e nella provincia di Sondrio, quando era anch’egli alle elementari preferiva disertare. E sparire. Vallanzasca smisero presto di cercarlo sia Marie sia, ancor di più, Osvaldo, uomo non baciato dalla voglia di lavorare, mezzo truffatore, per nulla affidabile; quanto a Zaccaria, suo papà se n’era già andato via da anni, tornando in Marocco per avviare nuove relazioni e avere nuovi figli, e la madre, rimasta in Italia, una volta, stanca, spedì il figlio da quell’altro, in Nordafrica, manco fosse un pacco, e quell’altro, che tutto voleva tranne che star dietro a Zaccaria, in sostanza fare il genitore, lo lasciò per i fatti suoi nella favela di Casablanca, all’epoca vero fortino brutto e pericoloso, sconcio e conciato, fin quando il piccolo implorò la mamma di venirlo a prendere, e soprattutto ella si scosse a pietà, vivaddio, miracolo. Cattive compagnie - Han detto gli psichiatri e gli assistenti sociali che nel tempo hanno incontrato e osservato Baby Gang in carcere e nelle comunità, pareti relativi, non vincolanti, ma pareti di esperti: “Zaccaria è prigioniero del proprio personaggio”. Al che sovviene per forza una delle frasi culto di Vallanzasca, “io sono nato ladro”, mica un mestiere qualunque, macché, ladro, ladro, ladro, ladro per investitura divina, disegno universale, ladro per decisione della natura. Baggianate, chiaro; c’era in lui una tendenza alla ricerca della ribalta, della smargiassata, delle bravate, delle spacconerie, degli atti illeciti, forse più con l’obiettivo d’esser notato dai grandi, e insieme, poiché nelle scorribande non agiva da solo bensì con gli amichetti di quartiere, sempre teso a cogliere il consenso dei suoi pari. Se c’era da prendersi un rischio per una spedizione ideata per rubare, come successe, a bordo d’una macchina parcheggiata, il giovane Vallanzasca si sceglieva da solo, andava per primo, felice che quei coetanei fungessero, oltreché da pali, da pubblico. E quand’anche le cose mal finivano, per Vallanzasca e soci, con l’arrivo di carabinieri e poliziotti, le indagini, l’individuazione, l’accompagnamento in caserme e commissariati, il bandito che fu ebbe fin dai primordi un atteggiamento a suo modo virtuoso oppure di nuovo criminale, dipende dai punti di vista, dal considerare o meno l’“etica” di un delinquente: egli non menzionava mai i complici, convinto di dover aderire, a oltranza, al tacito giuramento di non tradire, o meglio di non collaborare con le guardie. E Zaccaria Mouhib Baby Gang? Leale. Leale col suo clan (come da vocabolario, “clan deriva dal gaelico antico clann, cioè famiglia, discendenza, figli”). Leale, così almeno dicono. Ma forse è un prigioniero. Dello stesso clan(n). Le parole di un prete - In quel suo debutto nel carcere minorile del Beccaria, Baby Gang era una figura non ignota: arrivava da dieci comunità dicasi dieci, così giovane e così già vagabondo, pellegrino, fuggiasco, inquieto, i primi furti al supermercato di prodotti da mangiare, panini, pietanze, biscotti (il debutto di Vallanzasca era avvenuto nelle edicole, che all’epoca ancora esistevano, tempi gloriosi e belli, gli italiani leggevano: rubava le figurine e i giornalini di fumetti). Chi gli vuol bene - ma bene sul serio, e son pochi, pochissimi, pressoché in estinzione -, come don Claudio Burgio, il cappellano dello stesso penitenziario e fondatore di una delle comunità dove ha sostato Zaccaria, di recente ha detto al Corriere cose interessanti. Eccole: Baby Gang non si sente posseduto dalla sacra arte della musica, casomai è finito dentro al sistema quando ne avrebbe fatto volentieri a meno, Baby Gang nient’affatto ambisce a essere un divo acclamato dai fan per le sue canzoni, Baby Gang si porta addosso fin da quand’era bimbo tanta rabbia e tanti temi mai sputati fuori, tanti nodi non sciolti, tanta sofferenza subìta, Baby Gang si crede paladino dell’intera generazione delle ragazze e dei ragazzi di seconda e terza generazione figli di migranti, la vera aspirazione di Baby Gang è quella di fare il regista di film e documentari raccontando la gente, facendola parlare, spiegando quanto siano ancora discriminati, quanti i pregiudizi. Ma poi, comunque, c’è dell’altro. Per Zaccaria come per Vallanzasca. Entrambi bambini trascurati e poveri, d’accordo, ma né più né meno di cento, mille altri che al contrario non hanno sconfinato nell’illegalità e per Vallanzasca nello scegliere di toglier la vita al prossimo; entrambi adolescenti in sofferenza e ribelli, anti-sistema, ma grazie, quale adolescente non lo è? Il verdetto dei giudici - Non si esageri con le giustificazioni, ripetono carabinieri e poliziotti e magistrati parlando di Baby Gang e quelli come lui, e sono le stesse parole, ci riferiscono colleghi anziani, veicolate quando Vallanzasca iniziava a fare il fenomeno. “Non si è ravveduto” han detto nel tempo sul bandito i giudici chiamati a decidere se concedere o meno benefici vari alternativi alla detenzione pura e perenne. Sfida sempre, una sfida continua. Facendosi del male. Scegliendo sé stessi un’aggiuntiva formula, parallela alla stessa ripetuta e prolungata detenzione, per pagare dazio. Per espiare? Per sentirsi ancor più personaggi? Per permanere, nonostante tutto, come rivalsa, al centro dell’attenzione? Prendete Baby Gang. Quest’ultimo suo arresto. Il passaggio era stretto ma comunque c’era, per evitare d’approdare a San Vittore (domicilio per anni di Vallanzasca che organizzò pure una clamorosa evasione in combutta coi brigatisti). Attesa dunque per la convalida e la difesa di Zaccaria in merito a quella pistola trovata dalla polizia. Di versioni, siamo sinceri, potevano essercene in abbondanza. Un minimo di strategia, un tentativo per intavolare un colloquio con il giudice. Macché. Alla domanda sul perché di quell’arma portata sempre appresso, la risposta: “Per difendermi in caso di rapine avendo al collo una collana da duecentomila euro”. Di conseguenza: galera e tanti saluti. Non esistono cause perse, mai, ci ripete un’operatrice di quelle vere perché cresciute nella sofferenza piena, piena per davvero, disgraziata, straziante. Mattarella grazia il ragazzo che ammazzò il padre e l’uomo che sparò al ladro di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 25 settembre 2025 Il provvedimento di clemenza concesso anche a due donne. Il ragazzo che ammazzò a colpi di martello il padre violento, la guardia giurata che sparò al ladro in fuga e due donne, condannate per reati minori. Sono le quattro persone graziate da Sergio Mattarella, che ha firmato ieri altrettanti decreti. L’articolo 87 della Costituzione assegna al capo dello Stato la possibilità di “concedere grazia e commutare le pene”. E certo non si tratta di una decisione calata dall’alto come fosse un editto, perché l’iter prevede la richiesta dell’interessato, l’istruttoria del ministero della Giustizia e il via libera (non vincolante) del ministro. Quattro firme, quattro drammatiche storie. Il più giovane dei graziati è Gabriele Finotello, che nel 2021 aveva 29 anni, lavorava come operatore socio-sanitario e viveva con il padre, alcolista e violento. La mamma e il fratello minore se n’erano andati di casa per fuggire alle urla e alle botte quotidiane e lui era rimasto, anche per aiutare il genitore a disintossicarsi. È il 22 febbraio di quattro anni fa. Gabriele sfida il padre Giovanni, 56 anni, completamente ubriaco e attaccato alla bottiglia, lo sprona a smetterla di bere e i due arrivano alle mani: “Lasciami o ti picchio, come picchiavo tua madre”. Il giovane afferra un martello e colpisce a morte l’uomo, poi chiama il 118 e si consegna. In primo grado gli viene riconosciuta la seminfermità mentale, in appello la condanna a 14 anni viene ridotta a 9 anni e quattro mesi. La grazia del Colle, che ha tenuto conto dei pareri del procuratore generale e del magistrato di sorveglianza sulle condizioni di salute di Gabriele e sul contesto in cui è maturato il delitto, estingue l’intera pena residua, quattro anni e tre mesi. Altrettanto clamore suscitò la storia di Massimo Zen. L’ex guardia giurata di 54 anni era nel carcere Montorio di Verona da oltre due anni per aver ucciso con un colpo di pistola, il 22 aprile 2017, il giostraio di 36 anni Manuele Major, che fuggiva in auto con i complici dopo una rapina a un bancomat a Barcon di Vedelago. La vicenda era stata cavalcata politicamente dalla Lega. Matteo Salvini sui social si era schierato: “Io sto con chi ci difende, io sto con Massimo Zen”. La tragedia aveva acceso un dibattito sulla legittima difesa, la Lega aveva avviato una raccolta di firme e consegnato al Quirinale la richiesta di grazia. Nel 2024 l’istanza era stata respinta, anche dal ministro Carlo Nordio. Ma poi l’omicida ha concordato con la famiglia della vittima il risarcimento del danno, tanti cittadini hanno sottoscritto appelli per la scarcerazione di Zen e ministero di Giustizia e Quirinale, viste anche le condizioni di salute del condannato, hanno accolto la nuova istanza di grazia. A Zen è stata concessa la grazia parziale, che ha estinto tre anni e tre mesi della pena complessiva. E poiché gli restano da scontare non più di quattro anni, potrebbe essere affidato in prova ai servizi sociali. “Non voleva fare quello che ha fatto, penso abbia pagato - dice la moglie. Sono felice”. La politica non c’entra, è la lettura del costituzionalista Stefano Ceccanti: “Si tratta di tipici casi umanitari, che non si prestano ad alcuna polemica”. Perché la grazia sia concessa il condannato non deve essere in attesa di altre sentenze, deve aver tenuto una buona condotta e ottenuto una sentenza definitiva. Il capo dello Stato ha graziato anche due donne. Patrizia Attinà, classe 1972, era stata condannata a due anni e otto mesi per furto ed estorsione, reati commessi nel 2012 e nel 2016. Nel concedere l’atto di clemenza, che azzera i due anni di prigione residui, Mattarella ha tra l’altro tenuto conto del perdono concesso da una delle persone offese e dalle condizioni di vita e salute della condannata. Grazia parziale infine, con sconto di un anno e sei mesi di detenzione, per Ancuta Strimbu. Nata nel 1986, era stata condannata a nove anni e sette mesi per estorsione e violazione della disciplina sulle droghe. Modena. Detenuto suicida in carcere, aveva 24 anni: è il quinto caso da inizio anno Gazzetta di Modena, 25 settembre 2025 Un detenuto tunisino di 24 anni si è tolto la vita ieri sera - 24 settembre - nella casa circondariale di Modena. Si tratta del 62esimo recluso suicida dall’inizio dell’anno in Italia, il quinto a Modena. “Tunisino, 25 anni non ancora compiuti, si è impiccato ieri sera nella sua cella della sezione accoglienza, dov’era stato allocato da poco, della casa circondariale di Modena. Mentre al ministero della Giustizia e al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria si esercitano nel pestare l’acqua nel mortaio, nelle carceri si continua a soffrire, più del necessario, e a morire. Siamo a 62esimo recluso che si toglie la vita nel corso dell’anno, cui bisogna aggiungere un internato in una Rems e 3 operatori. Perché a soffrire e a morire, insieme ai ristretti, sono anche i servitori di uno Stato che per mano del dicastero della giustizia continua mostrarsi patrigno e “caporale”. Se i detenuti subiscono una carcerazione non rispettosa di elementari principi di civiltà, gli appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria espiano le pene dell’inferno per la sola “colpa” di essere al servizio del Paese. Carichi di lavoro sovrumani e turni di servizio che si protraggono fino a 26 ore continuative hanno ormai stremato gli agenti, i quali da gennaio a oggi hanno subito anche 2.500 aggressioni”. Lo afferma Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria. “A Modena sono ammassati 580 detenuti in 371 posti regolamentari, mentre gli agenti in servizio sono solo 225, quando ne servirebbero almeno 296. Una situazione insostenibile che si inserisce nel contesto nazionale di 63.136 reclusi stipati in 46.560 posti mentre alla Polizia penitenziaria effettivamente impiegata nelle carceri mancano oltre 20.000 unità, attesi anche gli esuberi negli uffici ministeriali e nelle sedi extra penitenziarie. Servono immediate misure deflattive del sovraffollamento detentivo, per potenziare gli organici della Polizia penitenziaria, assicurare l’assistenza sanitaria, ristrutturare gli edifici, implementare gli equipaggiamenti e avviare riforme complessive. In sintesi, va rifondato il sistema detentivo”, conclude De Fazio. “Il suicidio del giovane detenuto a Modena, il quinto in un anno nello stesso penitenziario, rispecchia la tendenza generale che interessa 63 suicidi dall’inizio dell’anno per un totale di 178 morti di cui 115 per “altre cause”, di cui almeno una trentina con circostanze e cause che sono vicine al suicidio”. Ad affermarlo è Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato polizia penitenziaria Spp, che aggiunge: “Sono sempre più giovani, con poco tempo di detenzione ed extracomunitari i suicidi nelle carceri italiane. Una situazione che richiede particolari interventi sia di supporto psicologico che di assistenza con mediatori culturali, figure professionali che mancano quasi del tutto. Come sindacato polizia penitenziaria non vogliamo fermarci alla conta delle vittime, per altro controversa nel numero, anche questo a riprova della scarsa attenzione da parte dell’Amministrazione Penitenziaria. E se non fosse per i continui interventi degli agenti i morti sarebbero ancora di più. Servono azioni concrete ed immediate e non più annunci. Il piano del Ministro Nordio per la prevenzione si è rivelato un flop. È anche questo uno dei problemi prioritari dell’emergenza carcere che la sempre più grottesca “vicenda preservativi” nel carcere di Pavia non può distogliere”. Torino. Carcere, chieste condanne per i pestaggi di Simona Lorenzetti Corriere Torino, 25 settembre 2025 Pene fino a 6 anni e mezzo. A sette poliziotti contestato il reato di tortura. “Stiamo parlando di violenze commesse da persone che indossano la divisa, persone che rappresentano lo Stato e agiscono contro detenuti che stanno scontando la loro pena. Se un agente dà uno schiaffo a un detenuto, è lo Stato che gli sta dando uno schiaffo. Il fatto che in Italia avvengano episodi di questo tipo ci dice che nel nostro Paese abbiamo un problema con i diritti umani. Il modo in cui lo Stato tratta le persone private della libertà è indice di civiltà”. È la riflessione che il pm Francesco Pelosi offre ai giudici della terza sezione del Tribunale di Torino poco prima di chiedere la condanna per 14 agenti della polizia penitenziaria accusati - a vario titolo - di tortura, violenza privata, abuso di potere e favoreggiamento. Il processo è quello che racconta le presunte violenze e umiliazioni subite, tra il 2017 e il 2019, da alcuni detenuti rinchiusi nel blocco C del carcere Lorusso e Cutugno, quello dedicato ai sex offender. “Un luogo dove si perdeva la dignità”, ha spiegato il pm. Delle quattordici condanne chieste dalla Procura la più alta è a sei anni e sei mesi di reclusione, la più bassa a un anno. Pene che tengono conto dei reati contestati - solo a sette agenti è rimproverato quello di tortura - e anche del ruolo che ciascuno ha avuto nei pestaggi e nelle vessazioni riservati ai reclusi. Il magistrato ricostruisce gli episodi e le responsabilità che - al termine del dibattimento - secondo lui sono state provate. E allora eccolo raccontare la storia di un uomo accompagnato in una stanzetta, colpito a calci e pugni e minacciato: “Ti renderemo la vita molto dura, te la faremo pagare”. O quella di un altro detenuto preso a pedate nel sedere e al quale è stato detto: “Ti ammazzerei e invece ti devo tutelare”. E ancora, di un altro recluso che mentre veniva colpito a pugni sulla schiena da alcuni agenti ne sentiva altri ridere divertiti. Episodi che, inanellati uno dopo l’altro, disegnano il clima di vessazione e timore che serpeggiava tra i corridoi del penitenziario torinese, dove i detenuti appena giunti nel padiglione erano costretti a sottostare al “battesimo”. “Le botte avvenivano in punti in cui non c’erano telecamere - ha spiegato il pm -, gli agenti usavano i guanti e qualcuno la cinghia. I detenuti avevano paura e sono rimasti in silenzio perché minacciati. Alcuni pestaggi emergono dalle intercettazioni e non dalle denunce”. Come quello, non contestato, che ha avuto per protagonista un uomo straniero accompagnato in una stanza e malmenato, colpito alla pancia benché avesse subito un intervento chirurgico: “Pezzo di m… devi morire qui”. Una storia che la vittima non ha potuto raccontare. “Questo detenuto quando è uscito dal carcere è andato in Puglia. E a volte se uno nasce sfortunato, la sfortuna si accanisce: è morto in un campo mentre lavorava come bracciante. Questa è la bella immagine del nostro Paese. Nessuno ha fatto nulla per lui”, chiosa il pm. Che sottolinea che “ciò che avveniva nel padiglione C era evidente. Chi nega che ci siano state violenze, mente e basta. Le vittime hanno raccontato senza acredine e rivalsa che in quel padiglione si perdeva la dignità”. Infine, il pm sottolinea: “Questo non è un processo alla polizia penitenziaria, è un processo a persone che indossano quella divisa e che l’hanno infangata”. Monza. “Situazione esplosiva, sovraffollamento e cimici”. Il dramma del carcere di Dario Crippa Il Giorno, 25 settembre 2025 Numeri impietosi emergono dall’ispezione effettuata dal segretario generale di Uilpa Polizia Penitenziaria, Gennarino De Fazio. Arrivato appositamente da Roma e accompagnato dal segretario regionale Domenico Benemia. Una situazione esplosiva, un sovraffollamento insostenibile e “una infestazione da cimici endemica”. Benvenuti alla casa circondariale di via Sanquirico a Monza. Ieri l’ispezione è stata effettuata dal segretario generale di Uilpa Polizia Penitenziaria, Gennarino De Fazio. Arrivato appositamente da Roma e accompagnato dal segretario regionale Domenico Benemia, che proprio a Monza lavora. I numeri sono impietosi: “736 detenuti, di cui 250 affetti da patologie mentali, allocati in 411 posti disponibili, infestazione endemica da cimici da letto impossibile da debellare anche per la promiscuità delle brande da campeggio aggiunte in molte celle per ricavare il 3° posto letto, 279 agenti in servizio di cui oltre 110 impiegati in compiti diversi dalla sorveglianza dei detenuti, quando ne sarebbero necessari almeno 450, assistenza sanitaria e psichiatrica carente e, quest’ultima, addirittura assente per 3 giorni a settimana. Questa la drammaticità della situazione carceraria che si è presentata davanti ai nostri occhi durante il sopralluogo che ho condotto nel primo pomeriggio, unitamente a una delegazione di dirigenti nazionali e regionali della UILPA Polizia penitenziaria, presso la Casa Circondariale di Monza”. De Fazio non fa sconti. E aggiunge: “Con il 38% di agenti in meno, il 79% di reclusi in più, malati psichiatrici non adeguatamente curati e le cimici da letto a farla da padrone a rimetterci sono i detenuti, ma anche gli operatori che giocoforza subiscono l’insicurezza e l’insalubrità dei luoghi di lavoro, le aggressioni da parte dei ristretti, spesso neppure imputabili proprio perché malati di mente, e carichi di lavoro esorbitanti con turnazioni di servizio che non di rado raggiungono e superano le 9 ore consecutive. Basti pensare che nel solo mese di agosto c’è chi ha lavorato, senza fruire del riposo settimanale, 30 giorni su 31”. In questo quadro, “se la situazione in qualche modo e misura ancora regge, lo si deve solo al sacrificio, alla competenza e alla professionalità di ciascun operatore, dal più giovane agente alla Direttrice, cui pure si chiederebbe qualche ulteriore sforzo organizzativo per recuperare almeno qualche unità dagli uffici al servizio in sezione detentiva. Dal provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria, invece, ci si aspetterebbe una migliore gestione nell’ambito della circoscrizione dei detenuti più problematici”, aggiunge il Segretario della UILPA PP. “Del resto, non possiamo non considerare le difficoltà di una regione in cui i detenuti hanno raggiunto le 8.978 presenze a fronte di 5.777 posti, mentre al fabbisogno della Polizia penitenziaria mancano 2.366 agenti rispetto ai 3.682 assegnati. Servono subito provvedimenti deflattivi della densità detentiva, per assicurare l’assistenza sanitaria e psichiatrica, e per potenziare gli organici della Polizia penitenziaria anche arrestandone l’emorragia verso gli uffici e le sedi extra penitenziarie”, conclude De Fazio. Pavia. Distribuiti in carcere profilattici per i detenuti: è polemica La Provincia Pavese, 25 settembre 2025 Misura a carattere “terapeutico”, il sindacato: “Certifica fallimento sistema”. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: “Non siamo stati messi a conoscenza”. Il carcere di Pavia, con un provvedimento della direttrice Stefania Musso, ha disposto l’acquisto e la consegna di 720 preservativi ai detenuti, un ordine di servizio motivato come misura a carattere “terapeutico”. I sindacati di polizia penitenziaria protestano: “La finalità non è chiara, ma ci sono altre priorità, tra aggressioni e sovraffollamento”. “Da oggi pomeriggio circola su alcune chat di messaggistica istantanea un ordine di servizio della direzione della Casa Circondariale di Pavia, datato 19 febbraio 2025, con il quale, dopo aver dato atto di un primo acquisto di 720 profilattici, se ne dispone la distribuzione ai detenuti per motivi terapeutici. All’inizio abbiamo pensato a una fake news e abbiamo cercato di interpellare informalmente i vari livelli dell’Amministrazione penitenziaria, non ricevendo nessuna smentita, ma tanti ‘non so’ e mezze ammissioni. Pensavamo di averle viste tutte, ma evidentemente ancora molte ne dovremo vedere” ha detto Gennarino De Fazio, Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria. “Sia chiaro che la nostra non è una valutazione di carattere morale, né si vuole entrare nell’autodeterminazione sessuale di chicchessia, ma l’ammissione di rapporti promiscui i cui effetti sono da arginare attraverso la distribuzione di profilattici per ‘motivi terapeutici’ certifica, se mai ve ne fosse bisogno, il fallimento complessivo del sistema carceri. Mentre si discute della disciplina del diritto all’affettività dei detenuti, riconosciuto dalla Corte Costituzionale, l’Amministrazione penitenziaria sembra avallare un esercizio fai da te della sessualità, indipendentemente da qualsiasi requisito, invece richiesto a coloro che vorrebbero fruirne regolarmente - spiega il sindacalista -. Se l’ordine di servizio fosse autentico, come ormai temiamo, si porrebbero peraltro problemi ulteriori anche in considerazione del pesante sovraffollamento della Casa Circondariale di Pavia, dove sono allocati 704 detenuti in 515 posti, sorvegliati da 237 agenti quando ne servirebbero 456. I ristretti sono sempre consenzienti? L’amministrazione penitenziaria è nelle condizioni di esserne certa? Soprattutto, atteso pure che i preservativi vengono (o sono stati) distribuiti per finalità terapeutiche, è stata fatta la valutazione del rischio per gli operatori? Sono stati informati? Sono state adottate le opportune misure per la salvaguardia della salute, della sicurezza e della salubrità dei luoghi di lavoro? Domani mi recherò personalmente in Lombardia e cercheremo di dare una risposta a questi e ad altri interrogativi, ma naturalmente auspichiamo immediati chiarimenti ufficiali dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e dal Ministero della Giustizia”, conclude De Fazio. “Con riferimento all’ordine di servizio della casa circondariale di Pavia relativo alla distribuzione dei profilattici alla popolazione detenuta, l’iniziativa risulta essere stata adottata senza alcuna preventiva interlocuzione con i superiori uffici. Tale circostanza appare di particolare rilievo, dal momento che incide su profili che attengono direttamente all’ordine e alla sicurezza penitenziaria” afferma una nota del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap). “Il provvedimento, per come formulato, non appare idoneo a strutturare in modo adeguato la gestione complessiva dell’iniziativa sotto il versante sanitario, della prevenzione e della sicurezza - continua - Restano infatti inevase valutazioni essenziali: dalle modalità di controllo, alla prevenzione di condotte violente tra i detenuti, fino ai possibili usi distorti dei profilattici, che potrebbero essere impiegati per occultare sostanze stupefacenti, anche tramite ingestione, eludendo così i normali controlli”. “Va altresì evidenziato - conclude la nota - che l’assenza di una interlocuzione preliminare non ha consentito alla Direzione di contemperare le esigenze di prevenzione sanitaria con quelle, imprescindibili, di ordine e sicurezza, secondo le migliori prassi già in essere”. Antigone: “Basta ignorare il sesso in carcere, politica sanitaria ragionevole” - “Il sesso in carcere è trattato come se fosse un tabù. Ignorarlo, ignorare che fa parte della vita ordinaria delle persone, significa essere omertosi e ciechi. In una comunità monosessuata è importante prevenire forme di sessualità forzata e violenta, così come è importante prevenire malattie che possano derivare da rapporti non protetti. Per questo, contro ogni pregiudizio, la distribuzione dei preservativi fa parte di una politica sociale e sanitaria ragionevole” spiega presidente di Antigone. Purché si sottragga a stigmatizzazioni o violazioni di privacy. Al contempo va data massima, dico massima, attuazione alla sentenza della Corte Costituzionale sulla sessualità e l’affettività in carcere, ancora poco applicata purtroppo”. Pavia. La direttrice: preservativi ai detenuti. Scontro col Dap. “Sicurezza a rischio” di Manuela Marziani Il Giorno, 25 settembre 2025 Il Dipartimento penitenziario interviene sull’ordine di servizio: non c’è stato comunicato nulla. La motivazione della dirigente: misura terapeutica. Insorgono anche i sindacati: non sono queste le priorità. La direttrice del carcere di Pavia, Stefania Mussio, ha deciso di fare acquistare e distribuire ai detenuti 720 preservativi. Una scelta motivata come misura a carattere “terapeutico”. Lo scopo di prevenzione sanitaria, però, non convince il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e i sindacati che bocciano la svolta del penitenziario lombardo. Secondo il Dap, il provvedimento è stato adottato “senza alcuna preventiva interlocuzione con gli uffici”. Insomma, nessuno l’ha autorizzato. E, si sottolinea, ci sono rischi “che attengono direttamente all’ordine e alla sicurezza delle carceri. Il provvedimento, per come formulato, non appare idoneo a strutturare in modo adeguato la gestione complessiva dell’iniziativa sotto il versante sanitario, della prevenzione e della sicurezza”. L’ordine di servizio che soltanto ieri ha cominciato a girare su alcune chat risale al mese di febbraio e dispone che il dirigente sanitario della struttura gestisca e distribuisca i profilattici con l’obbligo di registrare ogni consegna. In estate, invece, in alcuni istituti di pena sono state introdotte le cosiddette stanze dell’amore, spazi nei quali i detenuti possono intrattenersi con i loro partner. Ma l’iniziativa a carattere sperimentale, al momento non riguarderebbe Torre del Gallo a Pavia. Per questo i sindacati insorgono: “Se l’ordine di servizio fosse autentico, come temiamo, si porrebbero peraltro problemi a causa del pesante sovraffollamento della Casa circondariale di Pavia, dove ci sono 704 detenuti in 515 posti, sorvegliati da 237 agenti quando ne servirebbero 456 - ha commentato Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria -. Pensavamo di averle viste tutte, ma evidentemente ancora molte ne dovremo vedere. Mentre si discute della disciplina del diritto all’affettività dei detenuti, riconosciuto dalla Corte Costituzionale, l’amministrazione penitenziaria sembra avallare un esercizio fai da te della sessualità”. Il carcere di Torre del Gallo è maschile e, secondo i sindacati il provvedimento è “l’ammissione di rapporti promiscui i cui effetti sono da arginare attraverso la distribuzione di profilattici per motivi terapeutici”. “Non sono queste le priorità nel carcere di Torre del Gallo - ha aggiunto Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria. Tra maggio e agosto ci sono stati a Pavia 18 poliziotti aggrediti, 74 detenuti denunciati per minacce, ingiurie, oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale e una manifestazione collettiva di protesta con il rifiuto di molti detenuti di rientrare in cella, se non dopo una lunga opera di mediazione. Perché con questi soldi non realizzano progetti e strutture per il benessere dei poliziotti utili a superare il costante stress lavorativo?”. Dal carcere nessuno rilascia dichiarazioni, ma l’associazione Antigone, che segue i detenuti, ribatte: “È importante prevenire forme di sessualità forzata e violenta e prevenire malattie che possano derivare da rapporti non protetti. Contro ogni pregiudizio, la distribuzione dei preservativi fa parte di una politica sociale e sanitaria ragionevole”. Milano. Dal carcere di Bollate alle scuole di Oggiono: gli studenti incontrano i detenuti di Patrizia Zucchi laprovinciaunicatv.it, 25 settembre 2025 Grazie al progetto “Armonia senza confini” un percorso di scambio e crescita in classe nel segno dell’arte per gli studenti delle medie. Rientra nei percorsi istituzionali “Ponte scuola carcere” il progetto presentato nell’istituto comprensivo Marco D’Oggiono: è fondato sull’arte, che diventa terapia, in collaborazione con l’associazione “Armonia senza confini”, dedita a recupero e reinserimento. Alcuni detenuti del carcere di Bollate raggiungeranno la scuola secondaria di primo grado di Oggiono, per integrare con le proprie esperienze il percorso destinato a durare per l’intero anno scolastico. Ha riferito l’arteterapeuta Luisa Colombo: “L’attività che i detenuti svolgono nel carcere di Bollate nel gruppo di arteterapia prevede un percorso di formazione consistente, che prepara i detenuti non solo a lavorare su se stessi sul piano emotivo, ma anche con gli studenti che poi incontrano con noi sia nelle scuole, sia nel carcere stesso. Quindi, l’impronta che lasciano nella vita degli studenti va nella direzione della prevenzione rispetto agli errori che loro stessi hanno commesso ed elaborato, mettendoli a disposizione degli studenti. È, dunque, un percorso di interazione, di confronto, di coinvolgimento sull’intelligenza emotiva attraverso attività per conoscere se stessi e così evitare di incorrere in errori che possono portare anche a commettere reati veri e propri”. La pedagogista Cristina Centamore sottolinea che “il percorso si sviluppa su due versanti: della scuola del carcere. I detenuti formati in carcere utilizzano esperienze negative a sostegno delle fragilità dei ragazzi, che oggigiorno incontrano tante difficoltà durante la crescita”. Per la dirigente scolastica di Oggiono, Pierina Lucia Montella, “la nostra scuola continua a essere aperta al territorio e a dedicare attenzione alla centralità dell’alunno: non guarda soltanto all’istruzione e alla formazione, ma soprattutto allo sviluppo umano e mira alla coesione sociale, alla ricerca dei valori: guardare gli altri è guardare meglio dentro noi stessi”. Per il sindaco Chiara Narciso “il progetto è molto particolare e abbiamo ritenuto appunto di presentarlo con una serata pubblica, dedicata ai genitori, ma aperta a tutta la città. La collaborazione con la scuola è costante e prevede tantissimi progetti, ma questo lo riteniamo particolarmente importante perché è basato sull’arteterapia e consente ai ragazzi di entrare in contatto con le proprie emozioni. Personalmente, ne sono orgogliosa”. Come è noto, la Colombo è artista ed esperta di attività esperienziali, che da alcuni anni sta portando anche nelle scuole della provincia di Lecco, dopo l’esito ottenuto nell’hinterland milanese. Inoltre, tra le sue attività principali c’è proprio la collaborazione con le carceri, in particolare di Bollate. È altresì scrittrice e pittrice. Ha pubblicato il libro “I colori della libertà” edito dalla Camera dei deputati e presentato nel 40esimo dell’approvazione della riforma penitenziaria a Montecitorio; è seguito “Emozioni tra le righe”, edito da Chiado Editore, una raccolta di immagini e testi “nata dal connubio tra pittura e scrittura creativa”. Il suo ultimo libro è “Tutte le lacrime sono trasparenti”, Cornacchione Editore, “per tutte le donne, e per gli uomini che le rispettano”. Cremona. Il tennistavolo in carcere coinvolge 100 detenuti centrosportivoitaliano.it, 25 settembre 2025 Ad un anno e mezzo dall’inizio del progetto, il traguardo raggiunto è di 100 detenuti che hanno partecipato, almeno una volta agli allenamenti. Il progetto non si è mai fermato, nemmeno d’estate né a Natale. Da aprile 2024, nel carcere di Cremona, ogni settimana due ore di tennistavolo hanno cambiato il volto dei pomeriggi dietro le sbarre. E oggi, a un anno e mezzo dall’inizio, il traguardo è di quelli che fanno rumore: 100 detenuti hanno partecipato almeno una volta agli allenamenti, con numeri che crescono di settimana in settimana. All’inizio erano una ventina, ora arrivano anche in 26 contemporaneamente, pur avendo a disposizione soltanto due tavoli. Segno che la voglia di giocare, di imparare e soprattutto di condividere è sempre più forte. Ogni mese il progetto entra nel vivo con un torneo ufficiale che decreta i migliori otto, garantendo l’accesso alla squadra stabile del carcere: i Fly High, oggi composti da una quindicina di giocatori. E non si tratta di un titolo simbolico: una volta al mese la formazione scende davvero in campo, ospitando squadre del circuito CSI di Cremona per amichevoli che sanno di sport e di integrazione. Dietro questo successo c’è l’impegno instancabile del CSI di Cremona, che ha promosso e gestisce l’attività grazie a cinque volontari-istruttori che si alternano con passione. Ma un ruolo decisivo lo gioca anche la Polizia Penitenziaria: senza la disponibilità e il supporto degli assistenti dell’area trattamentale Stefano, Antonio ed Edoardo, nulla di tutto questo sarebbe possibile. E poi ci sono loro, i detenuti. Ragazzi che si presentano agli allenamenti con il desiderio non solo di vincere, ma di sentirsi vivi, di imparare davvero uno sport, di sorridere e di raccontarsi. Spesso il ringraziamento non è solo una stretta di mano, ma un abbraccio, un gesto che restituisce umanità a chi vive una quotidianità difficile. Lo sport in carcere, qui a Cremona, è diventato molto più di un passatempo: è energia, rinascita, libertà interiore. Con una pallina che rimbalza da un lato all’altro del tavolo, i Fly High dimostrano che si può davvero imparare a “volare alto”, anche dentro quattro mura. Ciao Beppe, amico e compagno del sogno radicale di Rita Bernardini L’Unità, 25 settembre 2025 È morto il professore Giuseppe Di Federico. Per Pannella e i radicali una risorsa inestimabile. Falcone lo incaricò di monitorare l’applicazione del nuovo codice di procedura penale. Ogni anno e per oltre 30 anni, puntuale come un orologio svizzero, il Prof. Giuseppe Di Federico, varcava la soglia della sede di via di Torre Argentina a Roma e mi veniva a cercare per consegnarmi l’assegno (davvero sostanzioso) per l’iscrizione a tutti i soggetti dell’area Radicale. Compilava e firmava l’assegno davanti a me in modo solenne. Era amico di Marco Pannella; insieme condividevano l’abruzzesità e, quando s’incontravano facevano lunghe chiacchierate in dialetto ognuno per testare nell’altro quanto dell’origine culturale territoriale resistesse al tempo della vita che continuava a scorrere inesorabile. Presumo molto, considerato che dei loro discorsi riuscivo a capire ben poco, sembrava litigassero ma il tutto era smentito dalle loro ampie risate. Da una parte il mulo abruzzese e dall’altra l’orso marsicano o il lupo appenninico? Ambedue amavano i riferimenti animaleschi vestendo a seconda delle situazioni il pelo, i pregi e i vizi dell’uno o dell’altro animale. Nello sterminato archivio di Radio Radicale (giacimento politico culturale di valore inestimabile, come amava definirlo Pannella) troviamo oltre cinquecento interventi di Giuseppe Di Federico nelle più diversificata sedi: convegni, congressi (soprattutto radicali e dell’UCPI), Consiglio Superiore della Magistratura (di cui è stato membro a lungo), commissioni ministeriali… Il primo suo intervento che troviamo in archivio in ordine di tempo risale al 31 ottobre 1985 in occasione del XXXI Congresso del Partito Radicale a Firenze. Eravamo nel pieno dell’incredibile vicenda giudiziaria di Enzo Tortora e a Pannella non era sicuramente sfuggito quel formidabile intervento nel corso del quale il professore ordinario di Ordinamento Giudiziario disegnava con singolare efficacia il quadro delle “riforme” necessarie all’Italia per rendere efficiente, giusta e soprattutto “democratica” l’amministrazione della Giustizia. Forte dell’esperienza maturata negli Stati Uniti (fine anni ‘50, inizio anni ‘60) fu il primo in Italia ad occuparsi dell’uso delle apparecchiature elettroniche negli uffici giudiziari a fini organizzativi. Metteva però in guardia i radicali che giustamente chiedevano l’innalzamento del budget di bilancio destinato alla giustizia: attenti che l’apparato burocratico rischia di passare con molta facilità dalla “banca dei dati” alla “banda dei dati”. Giuseppe Di Federico voleva il Ministero della Giustizia indipendente dalla magistratura e su questo ha condotto fino agli ultimi suoi giorni battaglie epiche contro i “fuori ruolo” e voleva che la magistratura fosse sottoposta ad un controllo di qualità. Soprattutto non sopportava il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, sosteneva che si trattasse di un errore madornale dei padri costituenti, errore che finiva con il conferire a dipendenti dello Stato (che avevano solo vinto un concorso) un potere enorme: quello di scegliere quali processi celebrare e quali far cadere in prescrizione; con la “politica” che se ne lavava le mani fino ad essere colpita a morte. Per Pannella e per i radicali “Beppe” è stata una risorsa inestimabile. Non solo veniva interpellato quando si dovevano stilare i quesiti referendari, ma anche quando si dovevano redigere documenti parlamentari capaci di offrire ampie prospettive di riforma; insieme a Giuseppe Rossodivita nel 2009 Di Federico contribuì a preparare il testo di una risoluzione depositata e discussa dalla delegazione radicale all’interno del PD. Una risoluzione di integrale e sistematica riforma della Giustizia che dall’opposizione riuscimmo a far approvare con il consenso pieno di Silvio Berlusconi, il quale però non riuscì -io credo per l’opposizione interna nel centro-destra- a portare a termine nel conseguente articolato di leggi. Per me il Prof. Di Federico è stato un amico con il quale ho avuto la fortuna di condividere il sogno politico radicale e pannelliano; adoravo ascoltarlo, stavamo al telefono per delle ore. Mi divertiva quando mi raccontava i retroscena di quel che accadeva al CSM e quando mi induceva a riflettere parlando dei suoi rapporti con Francesco Cossiga, Claudio Martelli e Giovanni Falcone. Quest’ultimo, prima di essere brutalmente assassinato, lo incaricò di monitorare l’applicazione del nuovo codice di procedura penale nei diversi uffici giudiziari. Rispondevo sempre sì a qualsiasi richiesta mi facesse Beppe per reperire, soprattutto negli ultimi tempi, documentazione parlamentare e rassegne stampa riguardanti il tema della Giustizia. Da parte sua lui mi ha sostenuta con entusiasmo affinché io potessi essere nominata Garante delle persone detenute sia nel suo Abruzzo, sia a livello nazionale. Ciò che più mi ha consolato (in un momento di grande tristezza) è stato quando valorizzò dal punto di vista politico civile e umano le mie disobbedienze civili per la legalizzazione della cannabis, iniziative che mi avevano accomunato al suo grande amico Marco. Ciao Beppe, in questo momento così mesto per la tua dipartita, sono però felice che tu sia, e per me rimanga, Presidente d’Onore di Nessuno tocchi Caino. Ricordare Giancarlo Siani fa capire il senso del mestiere di giornalista di Aldo Grasso Corriere della Sera, 25 settembre 2025 Il documentario di Pietro Perone andrebbe adottato dalle scuole di giornalismo come libro di testo. Anche nella vita della televisione ci sono momenti di cui si ha bisogno: ricordare Giancarlo Siani non è solo un tributo ai 40 dalla scomparsa, è qualcosa di più. Qualcosa che riguarda il mestiere di chi scrive, i legami familiari e professionali, la lotta contro la criminalità organizzata, il dovere di ricordare un ragazzo stroncato nel pieno della vita e degli affetti. “Quaranta anni senza Giancarlo Siani” è un documentario firmato da Pietro Perone, giornalista del Mattino e testimone diretto di quegli anni, insieme a Filippo Soldi, regista (Rai3). Il racconto ripercorre la storia di Siani, assassinato la sera del 23 settembre 1985 nel quartiere Vomero di Napoli, e la straordinaria indagine che, anni dopo, ha permesso di fare luce sul suo omicidio. Per lungo tempo il caso rimase avvolto nel mistero, tra piste confuse e depistaggi. Ma nel 1993, grazie al coraggio e alla determinazione di un gruppo di giovani - magistrati, poliziotti e giornalisti - la verità iniziò ad affiorare. Siani era un giornalista “abusivo”, quando essere abusivo significava fare una dura e utile gavetta nel cuore della notizia, divenendone quasi parte. Raccontare di Torre Annunziata significava raccontare di camorra, di clan in guerra, di accordi, di “onore”, dei rapporti tra politica e criminalità organizzata. Si muoveva fra camorristi, politicanti corrotti, magistrati pavidi e carabinieri impotenti. Un articolo in particolare, pubblicato il 10 giugno 1985, fu la sua condanna a morte: scrisse che l’arresto del boss Valentino Gionta era stato reso possibile da una “soffiata” che esponenti del clan Nuvoletta fecero ai carabinieri. Suscitando le ire del clan affiliato alla mafia. Tre mesi dopo quell’articolo Siani - che nel frattempo era stato trasferito alla sede centrale di Napoli, in sostituzione estiva di un collega - fu ucciso. Aveva 26 anni, era sotto casa e gli spararono dieci colpi di pistola mentre era seduto nella sua macchina, una Citroen Mehari verde. Le molte scuole di giornalismo farebbero bene ad adottare questo documentario come libro di testo per capire il senso del mestiere. Peccati e peccatori di Don Antonio Mazzi Oggi, 25 settembre 2025 Venti giovani della Carovana di Exodus sono andati a Ventotene. Per chiedere ai vertici del Parlamento europeo una politica più attenta a chi cade nelle dipendenze. “Siamo venti giovani che stanno vivendo un cammino di rinascita dopo esperienze di dipendenze, carcere, fragilità, isolamento”. Inizia così la lettera-appello inviata alla presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, e alla sua vice, Pina Picierno, dai miei ragazzi in occasione della prima Conferenza Europea su Libertà e Democrazia che si è tenuta nei giorni scorsi a Ventotene”. “Da tre mesi”, continua la lettera, “stiamo attraversando l’Italia in bicicletta, dalla Lombardia alla Sicilia, e oggi siamo giunti sull’isola dove Altiero Spinelli scrisse il Manifesto per un’Europa libera e unita. Questo luogo è per noi memoria, ma anche sorgente per il futuro... Da questa esperienza e dai quarant’anni di lavoro educativo della Fondazione è nato il desiderio di scrivervi. Non come “esperti di politica”, ma come testimoni della vita, della sofferenza e anche della speranza. Sofferenza che portiamo davanti a voi, sapendo che non sono solo questioni italiane, ma ferite europee e globali. Cresce tra i giovani l’uso di cannabis e stimolanti, si diffondono nuove sostanze, aumenta il consumo problematico di cocaina, mentre salute mentale e fragilità educative diventano emergenze sempre più visibili che mostrano un’urgenza: i giovani europei vivono un tempo di vulnerabilità profonda, che non può essere ignorata. La nostra richiesta è semplice e, crediamo, umile: non voltate lo sguardo altrove. Fate sì che le vostre decisioni politiche non rimangano astratte o lontane, ma si traducano in scelte concrete e coraggiose che mettano al centro le persone più fragili. Chiediamo che l’Europa diventi davvero una comunità educante investendo nell’educazione e nella formazione permanente, garantendo alternative alla detenzione fondate sul reinserimento, sostenendo politiche contro la povertà educativa, offrendo spazi di prevenzione e cura per le dipendenze vecchie e nuove, accompagnando le famiglie, non dimenticando chi arriva da lontano cercando solo vita e dignità”. Arrivati sull’isola laziale su tre barche, i ragazzi di Exodus portano un sogno, una Carovana Europea nel 2026: “Immaginiamo un viaggio che attraversi più Paesi per incontrare altri giovani, con le stesse speranze e lo stesso desiderio di pace.... Da ragazzi spesso considerati “scarti della società”, oggi ci sentiamo testimoni di un rinnova mento possibile. Non siamo arrivati: siamo in cammino, letteralmente. E proprio dal nostro cammino, fatto di fatica, di sudore e di speranza, nasce questo appello”. Voglio aggiungere a questa lettera portata a Ventotene dai ragazzi della Carovana40 di Exodus, la proposta educativa ideata quarant’anni fa per affrontare il dramma della droga e oggi più attuale che mai, le parole del messaggio del presidente Mattarella inviato per l’occasione: “Fare l’Europa per superare la logica del conflitto e delle guerre, per evitare la oppressione dell’uomo sull’uomo, per ribadire la dignità di ogni essere umano, di ogni persona”. E concludo con le parole dei miei ragazzi, che rappresentano il futuro: “L’Europa si occupi di noi”. Quelle ragazze in bilico tra infelicità e violenza di Annalena Benini Grazia, 25 settembre 2025 Le chiamano “maranzine”, sono le adolescenti delle baby gang che rubano, si drogano e dipendono dai coetanei maschi. Spesso finiscono in carcere, mentre invece sono giovani che avrebbero bisogno d’aiuto. “Giovani che si avvicinano l’uno all’altro perché motivati da un’intensa infelicità: tante infelicità messe insieme e condivise si trasformano in una piccola felicità. Come pezzi di un mosaico frantumato, provano a costruirsi un’identità. Anime confuse, spezzate, accomunate da dolori silenziosi che, aggregandosi, sperano di trovare un senso di appartenenza”. Ho letto sul Corriere della Sera queste parole allarmanti e profonde di Domenica Belrosso, guida l’Ufficio dei Servizi sociali per minorenni del ministero della Giustizia, è stata a lungo vicedirettrice del carcere Beccaria di Milano e poi direttrice dell’Istituto penale femminile per minorenni più noto d’Italia, quello di Pontremoli. Domenica Belrosso, che è anche educatrice carceraria, parla di quelle che impropriamente e in modo stereotipato vengono definite “baby gang”, ma parla soprattutto delle ragazze, che a Milano vengono chiamate “maranzine”. Rubano cellulari, delinquono, si muovono in gruppo, si mostrano spavalde, arroganti, violente: sono fragilissime e disperate. Hanno 16 anni e hanno i denti mangiati dall’eroina, credono di esercitare un femminismo estremo ma applicano gli stessi codici dei maschi: rubano per loro, con loro, meglio di loro. Fanno paura come loro. Perché muoiono loro stesse di paura: si sentono sbagliate, non amate, emarginate, diverse. Reagiscono così, urlando per esistere, rubando per dimostrare coraggio. Fanno la faccia cattiva e poi dormono con l’orsacchiotto. Si definiscono come “la donna di”. Vogliono disperatamente appartenere a qualcosa, a qualcuno, sono subalterne nonostante questa esibizione di estrema libertà. Alcune arrivano in carcere, al minorile, e dicono: meno male che mi avete arrestato, così vi ho incontrato. Una ha detto: non ho mai visto il mare. Bisogna star loro addosso, scovare i loro talenti, aggrapparsi a qualcosa di buono, non mollare. Bisogna infilarsi là dentro, cambiare le cose prima che sia troppo tardi. Per le maranzine, per i maranza, per noi che non abbiamo visto niente, e che quando abbiamo visto abbiamo solo condannato. Tagli ai sussidi per i poveri e aumento della spesa militare di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 25 settembre 2025 Manovra finanziaria. L’analisi e le proposte dell’Alleanza contro le povertà: “Disinvestiti complessivamente 3,2 miliardi, con il riarmo si rischia di eliminare altre risorse al sociale”. Giorgetti rivendica la stabilità e chiede alle banche un “sollievo fiscale”. Meloni: “Con gli istituti di credito di vuole il dialogo”. Quello che manca con le questioni sociali. Tra riduzione degli stanziamenti e i risparmi sulla spesa sociale, il governo Meloni ha ridotto le risorse per finanziare le misure per il contrasto alla povertà di circa 3,2 miliardi di euro. Nella prospettiva di un aumento progressivo della spesa militare, sottoscritto dal governo Meloni con la Nato (fino al 5% del Pil entro 10 anni), e Bruxelles (il piano “RiarmUe”), altre risorse possono essere dirottate da un Welfare disastrato. Lo ha sostenuto l’Alleanza contro la povertà, un network costituito tra gli altri da Acli, Caritas, Cgil, Cisl e Uil, ieri a Roma in un rapporto sulla povertà in Italia, discusso con le opposizioni (Furfaro, Pd; Del Barba, Italia Viva); Barzotti, M5S, Piccolotti (Avs) e della maggioranza Morgante (FdI). L’incontro è avvenuto in coincidenza con l’inizio del percorso parlamentare della legge di bilancio. Ieri il Senato ha approvato la risoluzione sul Documento programmatico di finanza pubblica che impegna il governo a presentare il testo in aula entro il 2 ottobre. “Nel passaggio dalle vecchie alle nuove misure di contrasto alla povertà si è pressoché dimezzata la platea dei beneficiari - ha detto Antonio Russo, portavoce di Alleanza contro la povertà - Centinaia di migliaia di famiglie in condizione di gravi difficoltà si è trovata senza un sostegno economico su cui, fino a qualche tempo prima, aveva potuto contare. In questo modo, si è investito ogni anno per i poveri 1 miliardo di euro in meno”. In tre anni fanno all’incirca 3,2 miliardi. Il dato è stato analizzato nel dettaglio dallo studio presentato ieri, nonostante la scelta, da parte governativa, di rendere opachi i dati e di centellinarli ogni semestre per rendere difficile una valutazione delle politiche pubbliche. Secondo l’Alleanza contro le povertà solo il 60% dei nuclei familiari che percepivano il cosiddetto “reddito di cittadinanza” ha avuto accesso agli attuali “assegno di inclusione” e “supporto formazione lavoro”. Nel primo semestre 2024 i nuclei beneficiari erano 695 mila, mentre chi prendeva il “reddito di cittadinanza” erano 1.324 milioni di nuclei. Sulla pelle dei poveri è stato dunque realizzato un taglio di 1,7 miliardi. Il fondo complessivo è passato da 8,8 miliardi a 7,1 miliardi. Quest’ultimo è in diminuzione, considerata la temporaneità di un sussidio come quello dello per la formazione e il lavoro. La significativa diminuzione è stata praticata attraverso l’uso di criteri restrittivi, definiti “categoriali”. Si accede a un sussidio più cospicuo del precedente (in media 620 euro, contro i 560 del “reddito di cittadinanza”), a condizione di avere in famiglia minori, disabili, over 60 o situazioni di “svantaggio certificato”. Solo la stretta sul contributo agli affitti, che di recente si è cercato di correggere, avrebbe provocato l’espulsione dal sistema di 220 mila nuclei familiari. La spesa effettiva per l’”assegno di inclusione” è pari a circa 4,5 miliardi di euro; per il supporto di formazione e lavoro la spesa sarebbe di 250 milioni. La minore spesa darebbe pari a circa 1,1 miliardi sull’assegno di inclusione e altrettanti sul “supporto”. Stando alle stime in Italia oggi una persona su 10 è in povertà assoluta, 5,7 milioni di persone, mentre cresce considerevolmente il lavoro povero causato da bassi salari, tutele sociali inesistenti e scarsi e inefficienti servizi pubblici. Le più colpite sono le famiglie numerose, e i nuclei con cittadini stranieri. “L’Italia ha promesso un aumento vertiginoso della spesa militare - ha osservato Russo dell’Alleanza contro la povertà - Per onorare l’impegno di alzare prima al 2 per cento poi al 5% il Prodotto interno lordo destinato alle spese militari entro il 2035, l’Italia dovrà spendere, secondo l’Osservatorio Milex, ogni anno molti miliardi in più rispetto a oggi”. Da dove saranno tolti questi soldi? “La prossima legge di bilancio ce lo svelerà - ha risposto Russo - ma un’idea noi già ce l’abbiamo: le spese per il sociale e quelle destinate a sostenere i più fragili saranno le prime a essere colpite. Sarebbe gravissimo se, a pagare il prezzo di questa situazione drammatica, fossero sempre gli stessi”. L’alleanza ha chiesto misure straordinarie, misura di contrasto universalistica e un tavolo tecnico-politico permanente. Problemi che sembrano lontani dal dibattito economico sulla manovra. Ieri nel suo intervento al Senato il ministro dell’Economia Giorgetti ha rivendicato la stabilità finanziaria del paese e aumenti contrattuali che però hanno recuperato solo un terzo dell’inflazione cumulata. Il suo ministero ha confermato l’intenzione di rientrare dalla procedura Ue per deficit eccessivo sotto il 3% del Pil. Si pensa sia un modo da liberare le risorse da dare alle lobby armate. Giorgetti ha insistito nel chiedere alle banche un contributo per il “sollievo fiscale”. Meloni, da New York, ha promesso di aprire con loro “un confronto aperto e costruttivo”. Quello che manca per le questioni sociali. La Ue, Gaza e il futuro di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 25 settembre 2025 Palestina tra azioni e intenzioni. Rischia di essere un pio desiderio degli europei l’idea di creare un domani migliore per i due popoli in conflitto. La causa palestinese pare esercitare sui giovani occidentali un fascino simile a quello del Vietnam sulla generazione dei nonni. E sarebbe sbagliato ridurre le motivazioni di tanti idealisti alla vergognosa stupidità di chi l’altro giorno ha messo a ferro e fuoco Milano, devastandone la stazione Centrale nel nome di Gaza. Del resto nella Striscia martoriata si trascina da due anni la più classica delle guerre asimmetriche, come insegna Michael Walzer. In questo tipo di conflitto si affrontano un combattente iper tecnologizzato, spesso indifferente ai danni collaterali, e uno che usa quale arma ibrida la propria stessa popolazione, nascondendosi fra le donne e i bambini e facendo così ricadere sul nemico l’onta della loro morte. È automatica, quasi naturale, l’opzione di molti, segnatamente europei, cresciuti nella cultura dei diritti umani. E soprattutto lo è la scelta di campo dei ragazzi, tali e tanto vistose sono le sofferenze inflitte ai civili palestinesi. Si sta col più debole: dominatore sul terreno militare, nel tribunale delle coscienze il gigante perde sempre; fu così anche per l’America della “sporca guerra” contro i tunnel di Ho Chi Minh. Meno naturale è lo slancio, in questo caso verrebbe da dire giovanile, di numerosi governanti occidentali, e nello specifico di grandi nazioni europee, verso il riconoscimento dello Stato di Palestina. Un atteggiamento molto impegnativo sul piano delle alleanze e dei rapporti internazionali. Perché in definitiva è la posizione di alcuni importanti Paesi dell’Unione a cambiare a fondo in queste ore i confini geopolitici tra l’Occidente e il cosiddetto Sud globale. Una parte assai rilevante della Ue, integrata dal Regno Unito, ha deciso di rompere gli indugi e di attribuire una dimensione statuale a quei territori frammentati e insanguinati. In Palestina mancano molte delle caratteristiche minime per individuare uno Stato. Ma anche noi fummo un tempo mera “espressione geografica”, benché dimora d’una civiltà che aveva forgiato il mondo. Anche il focolare nazionale degli ebrei nella dichiarazione di Balfour del 1917 fu un’idea, per quanto radicata in una vicenda millenaria. Dunque, ha senz’altro ragione Paolo Giordano quando, su queste colonne, spiega che la direzione storica è segnata. La direzione, appunto. Non la distanza: che in questo caso appare davvero immensa. Non l’effettività: senza la quale un’azione diventa soltanto una buona intenzione. E di buone intenzioni è lastricata la via dell’Europa almeno dagli inizi del Duemila in poi. Da quando nel 2005 abbiamo fallito nel darci una Costituzione voluta dai nostri popoli accontentandoci poi di un Trattato negoziato dai nostri governi, la Ue ha imboccato la strada della paralisi. Un liberale ironico come il belga Guy Verhofstadt ha battezzato le sue pietrificanti contraddizioni con “la politica dell’annuncio”: che consiste nella “costante promozione di grandi obiettivi e progetti senza i mezzi necessari per realizzarli”. Ora, la svolta sulla Palestina sembra purtroppo attagliarsi proprio a questa spietata definizione. Di fronte alle disumane immagini della carestia tra i piccoli gazawi, della distruzione di Gaza City pietra su pietra e dell’esodo coatto degli abitanti, ci diciamo: bisogna fare qualcosa! Ahinoi, l’Europa, che resta un colosso economico ma un nano politico per la sua ritrosia a dotarsi di una decente difesa comune e d’una sola strategia diplomatica, non può fare un bel nulla. Dunque? Bisogna compiere un gesto! Che rappresenti, appunto, un’intenzione. E ci mondi dal peccato dell’immobilismo. I gesti, specie quelli poco meditati, possono incorrere purtroppo nell’eterogenesi dei fini. Non è necessario essere trumpiani per vedere che Hamas, già esultante, si presenterà agli occhi dei suoi connazionali come l’unico soggetto che sia riuscito a conseguire un risultato politico così clamoroso tenendo peraltro ancora in cattività un buon numero di ostaggi catturati nel pogrom del 7 ottobre. Ciò non cambierà di una virgola la condizione dei gazawi e neppure dei palestinesi di West Bank: bombardati senza tregua i primi e sottoposti ad occupazione militare i secondi. Fomenterà aspettative, certo: che la corrente elettrica arrivi a Hebron e che un permesso di lavoro serva davvero a lavorare; che una clinica di Betlemme abbia medicine e attrezzature; che un diploma preso a Nablus valga qualcosa oltre i checkpoint di Tsahal. È probabile che queste aspettative verranno deluse, generando nuova rabbia, e la definitiva scomparsa dell’Anp di Abu Mazen. Dalla parte israeliana è già evidente come i falchi messianici del gabinetto Netanyahu stiano cavalcando l’onda. Itamar Ben-Gvir, un ministro della Sicurezza con alle spalle una cinquantina di denunce per estremismo, invoca per ritorsione l’immediata annessione di West Bank. Ma persino un centrista come Naftali Bennett riassume in una battuta l’indifferenza israeliana all’isolamento internazionale: “Tra vedere i miei figli vivi ed essere impopolare e vederli morti ed essere amato dal mondo, preferisco l’impopolarità”. Chi non coglie questa decisione, drammatica ma trasversale alla società israeliana, rischia di non capire il problema. Certo, gli europei colpiranno sempre più Israele sul piano economico ma questo getterà gli israeliani sempre più nelle braccia del trumpismo radicale. Non è così incomprensibile dunque l’estrema cautela del governo italiano e di quello tedesco davanti all’idea di riconoscere una statualità nella quale non si ravvisano né un’autorità condivisa né una giurisdizione uniforme, né un territorio definito né un’economia indipendente: null’altro che caos. Le conseguenze di questo processo sono tutt’altro che imprevedibili. Il riconoscimento della Palestina oggi può farci dormire sonni più tranquilli, non c’è dubbio. Ma che aiuti palestinesi e israeliani a svegliarsi in un domani migliore è forse un pio desiderio. Meloni: “Da irresponsabili quella missione della Flotilla a Gaza” di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 25 settembre 2025 La premier negli Usa torna a parlare di odio: c’è chi mi chiama assassina, qualcuno che ha le rotelle fuori posto potrebbe risolvere il problema. “Stiamo facendo le nostre indagini per avere certezze sulle responsabilità, il ministro Crosetto ha autorizzato l’invio di una nave militare per proteggere e assistere, anche se non è autorizzato l’uso delle forza, chiaramente la mia condanna è totale”. In una sala privata dell’hotel Peninsula, nel cuore di Manhattan, Meloni si ferma un attimo, per un secondo sembra prendere fiato, ma lo fa per cambiare rotta e puntare l’indice contro gli organizzatori della Flotilla. La premier è netta: “Detto questo, voglio ribadire quello che penso, tutto questo è gratuito e irresponsabile, non c’è bisogno di rischiare la propria incolumità per consegnare degli aiuti a Gaza, aiuti che il governo italiano potrebbe consegnare in poche ore, quindi credo che vada fatto un richiamo a tutti alla propria responsabilità, particolarmente quando si tratta di parlamentari delle Repubblica italiana, pagati per lavorare con le istituzioni non per costringere le istituzioni a lavorare per loro”. Meloni rivela che c’è una mediazione in corso, con diversi attori, il governo israeliano, la sede di Cipro del patriarcato di Gerusalemme, una mediazione che punta ad un compromesso che vada bene a tutti, ma senza rompere il blocco navale: Tel Aviv aveva proposto il porto di Ashkelon, ma è stato rifiutato, ora si “sta lavorando per consegnare questi aiuti a Cipro, al patriarcato di Gerusalemme, proposta di mediazione che al momento ha il consenso di Tel Aviv, nostra, di Cipro e del Patriarcato”. Per questo motivo, aggiunge, “faccio un appello: non si può rischiare la vita delle persone, non si possono fare azioni che sembrano fatte apposta per mettere in difficoltà il governo italiano, perché vorrei capire qual è l’alternativa, cosa facciamo? Forziamo il blocco navale, mandiamo le navi della Marina, dichiariamo guerra a Israele? Vorrei una risposta seria dai partiti di opposizione, visto che parliamo di una guerra e non di un partita di bocce, per questo faccio un appello a tutte le forze politiche, bisogna proteggere queste persone e lavorare ad una mediazione”. La segretaria del Pd, Elly Schlein, non è d’accordo sul giudizio dato da Meloni sulla Flotilla: “Lei resta un’irresponsabile, per aver trascinato l’Italia sulla posizioni di Netanyahu”. Dopo una domanda su Gaza, Meloni rivela di aver parlato diverse volte con Tony Blair, l’ex ministro britannico che sta lavorando con americani e Paesi arabi per costruire un dopoguerra che preveda un progetto di ricostruzione e due Stati. E sulle violenze durante le proteste in piazza che ci sono state in Italia “non sono stupita, non vogliono alleviare le sofferenze di Gaza ma solo attaccare il governo, visto che l’opposizione non ha grandi argomenti li va a cercare in Palestina”. E aggiunge che “sono rimasta colpita dalla reazione dell’opposizione contro la nostra proposta che porteremo in Parlamento”. Si discute anche dei droni che in questi giorni hanno sorvolato gli aeroporti del Nord Europa, di quelle che vengono giudicate come provocazioni di Mosca: “Dobbiamo fare tutto quello che possiamo fare per non cadere nelle provocazioni, poi se un aereo sconfina, ovviamente, si abbatte ma dobbiamo far di tutto per evitare un’escalation che conviene solo alla Russia, che sta aumentando queste azioni da un lato per distogliere attenzione dal fallimento dell’offensiva estiva e poi per far sentire minacciati gli europei e in questo modo magari troncare l’invio di aiuti a Kiev”. Sono passati esattamente tre anni da quando il governo ha vinto le elezioni: “Vado fiera di essere ancora viva”, scherza Meloni, ma “c’è ancora tanto lavoro, sono contenta dell’economia, stiamo lavorando sui prezzi dell’energia, e abbiamo ancora due anni per costruire un puzzle più ampio”. Il tema di un possibile prelievo sulle banche in vista della Finanziaria? “Ci confronteremo con gli alleati ma io credo che possiamo lavorare insieme alle banche per un progetto comune”. Si torna alle polemiche sull’omicidio di Charlie Kirk, anche perché ieri a Torino manifestanti in sostegno della Flotilla hanno lasciato scritte come “Meloni come Kirk” o graffiti con un mirino e il nome della premier al centro: “Non strumentalizzo, in piazza bruciano i miei manichini, in tv rappresentanti dell’altra parte politica invitano la gente a venire sotto casa mia, non voglio fare nomi, vengo definita come complice di Gaza, o assassina, il rischio che qualcuno che non ha tutte le rotelle a posto domani decida di risolvere questo problema, viene in mente o no? Bisogna denunciare un clima che si sta deteriorando. Ho il dovere di fare un appello ad abbassare i toni e alla responsabilità”. Il grido dei vescovi italiani per Gaza: “Si fermi ogni violenza” di Giacomo Gambassi Avvenire, 25 settembre 2025 Nella Nota approvata dal Consiglio permanente la Cei ribadisce anche la necessità che “siano liberati gli ostaggi” e appoggia la soluzione dei due Stati. Baturi andrà a Gerusalemme. “Violenza inaccettabile contro un intero popolo”. “Esilio forzato della popolazione palestinese”. “Inutile strage”. Sono parole inequivocabili quelle che arrivano dai vescovi italiani sulla tragedia di Gaza. Contenute nella Nota approvata dal Consiglio permanente che per tre giorni si è riunito a Gorizia, la terra che racconta una riconciliazione possibile oltre gli scontri, le guerre, i nazionalismi e le ideologie. Una Nota targata Cei che è prima di tutto una “denuncia”, come si legge nel testo diffuso oggi. “Perché la vicinanza della Chiesa all’uomo di ogni tempo comporta anche la denuncia di situazioni incompatibili con la sua dignità”, spiega il segretario generale della Conferenza episcopale italiana, l’arcivescovo Giuseppe Baturi, nella conferenza stampa in cui presenta il documento. “Sia pace in Terra Santa!”, il titolo. “Vogliamo essere desti di fronte agli eventi della storia e critici di fronte a scelte che provocano morte e distruzione”, dicono i vescovi. Da qui il grido: “Chiediamo con forza che a Gaza cessi ogni forma di violenza”. L’arcivescovo Baturi cita il cardinale presidente Matteo Zuppi che aveva già puntato l’indice contro le “sofferenze ingiustificabili, intollerabili, inconcepibili” che si vivono nella Striscia. Nel documento l’episcopato italiano parla di una popolazione “aggredita dall’offensiva dell’esercito israeliano e pressata da Hamas”. Ribadisce la necessità che “siano liberati gli ostaggi”. E reclama che “si rispetti il diritto umanitario internazionale”. Aggiunge il segretario generale della Cei: “Nei giorni scorsi alcune delle realtà che assicurano l’assistenza alla gente anche attraverso il sostegno di Caritas Italiana e dei fondi dell’8xmile sono state bloccate per l’impossibilità di lavorare a causa dei bombardamenti in corso”. I vescovi della Penisola fanno propria la “prospettiva di “due popoli, due Stati” che “resta la via per un futuro possibile”. In quest’ottica, prosegue la Nota, “sollecitiamo il Governo italiano e le Istituzioni europee a fare tutto il possibile perché terminino le ostilità e ci uniamo agli appelli della società civile”. Davanti alla stampa l’arcivescovo Baturi sottolinea che “rispetto a un dramma di queste proporzioni, nessuno può dire di aver fatto tutto il possibile. Quindi occorrono ulteriori sforzi. L’orizzonte che la Santa Sede auspica è quello di riconoscere che due popoli possono convivere in sicurezza in due Stati. Però ciò sarà possibile dentro un coinvolgimento della comunità internazionale e un ripristino del diritto internazionale”. Non c’è la parola “genocidio” nel documento, osservano i giornalisti davanti al segretario generale della Cei. “Come Consiglio permanente - chiarisce l’arcivescovo - non abbiamo affrontato la questione di Gaza secondo una definizione tecnico-giuridica, ma considerando la sofferenza di un popolo che deve terminare al più presto”. Certo, non basta alzare la voce. “Ci impegniamo a dare sostegno concreto a quanti pagano pesantemente le conseguenze” della guerra, spiega la Nota. Sulla scia di quanto già fatto “in più di trent’anni con i 145 progetti finanziati dalla Chiesa italiana e con il piano di aiuti per far fronte all’emergenza in corso”. “La nostra mobilitazione è già in atto”, prosegue Baturi che volerà a Gerusalemme “per esprimere solidarietà alla Chiesa di Terra Santa, verificare la possibilità di incrementare l’aiuto umanitario e realizzare, come già avvenuto con alcune Conferenze episcopali regionali, una prossima visita fraterna da parte di rappresentanti dell’episcopato italiano”. “Andrò - aggiunge l’arcivescovo alla stampa - sapendo quanto è larga la volontà della comunità cristiana e del popolo italiano di essere accanto alla gente di Gaza”. Poi c’è l’urgenza di “pregare per la pace”, evidenzia il documento. E i vescovi italiani accolgono l’invito lanciato ieri da Leone XIV, durante l’udienza generale in piazza San Pietro, di pregare, ogni giorno a ottobre, “il Rosario per la pace, personalmente, in famiglia e in comunità”. “Lo faremo, in particolare, l’11 ottobre, alle ore 18, con quanti si recheranno in piazza San Pietro, per la Veglia del Giubileo della spiritualità mariana, ricordando anche l’anniversario dell’apertura del Concilio”, comunicano i presuli. Altro ambito è l’esigenza di “gesti eloquenti di prossimità con chi soffre e di riconciliazione tra le parti”. Uno è l’accoglienza, come via di pace, aveva detto Zuppi nell’Introduzione di lunedì ai lavori del Consiglio permanente. “Tante violenze e umiliazioni nascono dall’assolutizzazione di sé e dalla contrapposizione tra il “nostro” e il “loro”. Invece serve riconoscersi in un “noi” che per il cristiano è l’essere tutti figli di Dio”, afferma Baturi. E anticipa che sarà redatto un documento di educazione alla pace che presenterà anche alcuni “profeti di fraternità” e conterrà proposte concrete. Così la Cei fa propria l’indicazione di papa Leone che durante la prima udienza all’episcopato italiano, lo scorso giugno, aveva chiesto una pastorale specifica e di fare di ogni comunità una “casa della pace”. La sfida, continua la Nota arrivata da Gorizia, è di diventare “costruttori di ponti, secondo l’Appello firmato” dalla Cei con le Conferenze episcopali di Slovenia e Croazia. Il riferimento è al testo che martedì sera è stato sottoscritto lungo il confine che ancora attraversa Gorizia e che è stato linea di terrore e dolore. “In questa terra ferita e oggi risorta, abbiamo portato a tutte le ferite del mondo, ben sapendo che è possibile un cambiamento”, riferisce Baturi per raccontare sia l’origine della Nota sulla Striscia, sia l’Appello alla pace nel mondo. “Non possiamo rimanere in silenzio di fronte alla drammatica escalation di violenza, al moltiplicarsi di atti di disumanità, all’annientamento di città e di popoli”, hanno scritto i vescovi dei tre Paesi. E la risposta italiana è stata subito la presa di posizione su Gaza. Anche se, conclude il segretario generale della Cei, “quello della Chiesa italiana è un atteggiamento per la pace globale, non motivato da una situazione geopolitica: dove la gente è oppressa, noi siamo al loro fianco”. Venezuela. Prima visita dell’ambasciatore italiano a Trentini: “Sta bene, ma è dimagrito” di Roberta Polese Corriere del Veneto, 25 settembre 2025 Consegnate le lettere dei genitori. Oggi sono 313 giorni che il cooperante veneziano Alberto Trentini è detenuto a Caracas, ma nelle ultime ore è arrivata una notizia che apre un varco di speranza. Dopo oltre 10 mesi di silenzio, l’ambasciatore italiano in Venezuela, Giovanni Umberto De Vito, ha incontrato Alberto per la prima volta. La visita, autorizzata il 23 settembre, è stata confermata dal ministro degli Esteri Antonio Tajani all’Onu a New York. Insieme a Trentini, l’ambasciatore ha incontrato anche Mario Burlò, imprenditore italiano anche lui detenuto in Venezuela, sotto processo a Torino per reati fiscali, arrestato senza accuse il 10 novembre scorso, 5 giorni prima di Alberto e con lui nello stesso carcere El Rodeo I, nello stato di Miranda, a circa 30 chilometri da Caracas. Si tratta delle strutture penitenziarie più dure del Paese, spesso al centro di denunce da parte di organizzazioni umanitarie. Entrambi sono apparsi in discrete condizioni, pur visibilmente dimagriti, e hanno riferito di ricevere regolarmente pasti, ora d’aria e di essere trattati correttamente dal personale carcerario. L’ambasciatore ha potuto consegnare loro le lettere delle famiglie e beni di prima necessità. I due sono stati presentati all’autorità giudiziaria venezuelana insieme ad altri detenuti, con accuse vaghe di terrorismo e cospirazione. Per Trentini e Burlò, come conferma il suo avvocato, non risultano tuttora capi d’accusa ufficiali né atti di un eventuale processo. Alberto Trentini, 46 anni, originario del Lido di Venezia, si trovava in Venezuela per la ong internazionale Humanity & Inclusion, impegnata nel sostegno a persone con disabilità. Era entrato nel Paese nell’ottobre 2024 e il 15 novembre è stato arrestato all’aeroporto di Caracas, mentre si recava per lavoro a Guasdualito. Da quel momento, è rimasto irreperibile per mesi. La sua avvocata, Alessandra Ballerini, ha definito il caso una “sparizione forzata”, denunciando l’assenza di qualsiasi atto formale, la mancanza di difesa legale e l’impossibilità per la famiglia di avere notizie certe. I soli contatti diretti sono stati due brevi telefonate, una a maggio e una a luglio. Non è ancora chiaro se la visita dell’ambasciatore rappresenti un vero segnale di apertura da parte del governo di Nicolás Maduro, accusato di utilizzare la detenzione di stranieri come leva diplomatica per ottenere riconoscimento internazionale. Due settimane fa, per la prima volta, il ministro degli Esteri venezuelano Yván Gil ha parlato del caso in un’intervista alla Cnn, sostenendo che i diritti umani di Trentini non sono violati e che sarebbe sotto processo, ma senza fornire prove o documenti. Perù. Un filo di libertà di Gloria Ghiara Elle, 25 settembre 2025 Valery Zevallos non si limita a creare abiti, ma con il suo brand “Estrafalario” ricuce storie e vite delle donne in carcere che, grazie alla moda, possono riscrivere il proprio futuro. La prima idea di libertà è racchiusa in una cucitura. È così che, tra le alte mura di un carcere femminile di Lima, in Perù, dove le ore sono scandite da chiavi, sbarre e corridoi e dove il tempo scorre pesante, un nuovo ritmo prende il sopravvento: è scandito dal sussurro dell’ago e del filo che attraversano i tessuti, dal rumore metallico di forbici che indovinano la loro linea, dal ronzio delle macchine per cucire. È qui che Estrafalario ha trasformato un laboratorio dentro una fortezza di cemento in un atelier, collaborando con le donne in carcere per creare capi che portano con sé la prova della pazienza e delle possibilità. Ogni punto, ogni cucitura, ogni taglio, ogni ricamo è un atto di resistenza all’idea che una persona possa essere ridotta unicamente al suo passato; ogni capo è un manifesto silenzioso di ciò che scegliamo di costruire per il futuro. Valery Zevallos non si limita a creare abiti, ma ricuce storie e vite. È lei il cuore pulsante, la fondatrice e la designer di Estrafalario (estrafalario.pe), brand peruviano che fonde l’artigianato locale con l’estetica urbana contemporanea, nato dalla convinzione che la moda debba lasciare il mondo migliore di come lo ha trovato. Creando senza distruggere. Rigenerando vite e ambiente. Trasformando le seconde opportunità in arte da indossare. Valery stessa, nell’elenco 2025 delle 50 donne più potenti del Perù stilato da Forbes, è la prova che il proprio destino si può riscrivere. “Sono nata ad Arequipa, una città peruviana stretta tra le Ande e la costa, e amo la moda da che ho memoria”, racconta a Elle. “Da ragazzina, nei primi anni Duemila, frequentavo un collegio tedesco-peruviano dove a differenza degli altri non era prevista una divisa. Per i miei genitori, lo sforzo era quello di pagarmi l’istruzione, non di comprarmi vestiti diversi ogni giorno. Ma per me il vestire era un modo di esprimermi: volevo che ogni giorno fosse come sfilare su una passerella. È stato allora che ho scoperto la mia creatività. Il mio primo contatto con il fashion design è nato dall’upcycling: modificavo i vestiti di mia madre e delle mie zie che venivano dalla Svizzera, tagliandoli, cucendoli e personalizzandoli secondo il mio stile. Così i miei vestiti sono diventati diversi da quelli degli altri e io mi sentivo unica, stravagante, eccentrica. Da quell’esperienza è nato il nome del mio marchio, Estrafalario”. Il tempo passa, Valery vorrebbe studiare design di moda, ma suo padre rimane fermo e la orienta verso studi di ingegneria: “Questo è solo un tuo hobby, mi diceva. Ma io volevo solo disegnare e creare, così ho comprato i miei primi tessuti, mi sono alleata con la sarta di fiducia di mia madre, le ho portato i miei primi modelli di camicette, lei li ha confezionati e io ho iniziato a venderli”. Quella sua prima proposta da stilista riscuote un certo successo ad Arequipa e finalmente nel 2013 Valery riesce a iniziare gli studi in Fashion Design a Lima. È grazie ad alcuni concorsi durante l’ultimo anno che approda alla COP21 a Parigi: è qui che un’industria, quella della moda, che aveva sempre e solo identificato con il glamour e la bellezza, le si rivela anche nei suoi aspetti negativi, nei suoi lati oscuri. È uno shock, ma anche una svolta. “Ho iniziato a indagare su questo argomento e non solo”, racconta la designer, “scoprendo i risvolti dello sfruttamento e i numeri allarmanti della violenza contro le donne anche nel mio Paese. È solo in quel momento che ho capito in modo profondo e genuino che l’aver intrapreso la strada dell’imprenditorialità quando ero molto giovane in qualche modo mi aveva protetta. Mi ha permesso di riconoscere i privilegi e le opportunità che avevo avuto e ho sentito il bisogno di restituirli alla mia società. È stato scioccante rendersi conto che oltre il 60% delle donne peruviane che hanno subito violenza dipendono economicamente ed emotivamente dal loro aguzzino. Dalla mia posizione di sicurezza e indipendenza economica ho capito che per lavorare sulla sostenibilità non bastava occuparsi dell’ambiente e dei materiali: bisognava anche abbattere queste differenze sociali”. Nasce così, dalla consapevolezza, il programma Social de Empoderamiento y Empleabilidad di Estrafalario, che inizialmente coinvolge alcune artigiane del nord del Paese nella co-creazione di borse tradizionali, ma la vera sliding door di Valery si apre un giorno qualsiasi, quando, mentre cammina per il centro di Lima in cerca di nuovi materiali, l’universo fa sì che le cose si allineino e la designer si imbatte in una vetrina molto bella di oggetti fatti a mano. “Mi sono soffermata, ma il negozio era chiuso: in quel momento si è avvicinato un guardiano che mi ha spiegato che si trattava di cose fatte in carcere e che mi avrebbe dato il numero di telefono di una venditrice. Il giorno dopo l’ho chiamata e, con mia grande sorpresa, era la responsabile di Cárceles Productivas, un programma appena avviato, e mi ha invitata a partecipare e a visitare il carcere. Era la mia prima volta e nella parte maschile mi sono sentita a disagio. Ho avvertito invece un’energia e una connessione del tutto diverse nella sezione femminile e ho deciso che volevo lavorare solo con le donne, che avevano minime nozioni di manualità e artigianato, ma tanta voglia di imparare”. All’inizio, però, non è stato facile: Valery è accolta da diffidenza e indifferenza e solo grazie a Patt, una donna tailandese condannata per traffico di droga, riesce a rompere il ghiaccio con le altre detenute. “La prima persona che si è interessata al mio programma sociale è stata Patt, che fino ad allora sopravviveva in carcere nel silenzio e nella solitudine: oggi proprio Patt rappresenta il nostro caso di maggior successo, è il simbolo del progetto. Ha compreso la mia visione ed è stata lei a spiegare alle altre donne che poteva essere interessante e utile provare a prendere un ago in mano. Abbiamo iniziato con sei detenute nel 2016, poi il brand è cresciuto molto e siamo arrivati a coinvolgerne 158. Oggi lavorano per noi 72 donne e abbiamo anche attivato laboratori e iniziative all’interno delle carceri: quindi, non solo lavoriamo con le interne sui capi di Estrafalario ma offriamo loro una serie di servizi di empowerment femminile, corsi di formazione e sostegno psicologico. Io vado due volte la settimana in carcere, l’atelier è il mio laboratorio creativo: non posso entrare con il telefonino e questo mi aiuta a concentrarmi sul lavoro e a creare senza distrazioni a stretto contatto con le altre donne”. Introdotto in diversi centri commerciali peruviani, Estrafalario dal 2018 ha iniziato a crescere come brand ma ha vissuto una vera esplosione con la pandemia, grazie alle mascherine fashion con tecnologia viroblock, lavabili e riutilizzabili, nate per un’esigenza vitale: “Nel periodo del Covid le carceri peruviane sono state uno degli ultimi luoghi a ricevere aiuti per proteggersi dal virus”, spiega la designer. “Le detenute mi raccontavano che stavano morendo e che c’erano proteste in corso. Per proteggerle abbiamo creato insieme queste mascherine che poi abbiamo pensato di vendere, ed è stato un successo: la Conscious Mask ci ha permesso di crescere in pandemia dell’879 per cento, aumentando il lavoro per le donne in carcere e finanziando con il 10 per cento dei ricavi il programma a favore delle detenute”. Valery ha una relazione molto stretta e molto forte con le donne che ha conosciuto in penitenziario e vede la moda come un ponte per dare a chi non ha avuto le sue stesse opportunità nella vita gli strumenti per andare avanti e per riscrivere la propria storia, per essere finalmente “viste”: “Ci sono casi meravigliosi come quello di Patt”, racconta, “che oggi è libera, ha deciso di restare a vivere in Perù, ha una casa ed è stata assunta da Estrafalario, ma anche di altre come Flor o Leonor, che una volta scontata la pena grazie al nostro programma di reinserimento sociale hanno continuato a collaborare con noi. Molte non sapevano cucire ed escono dal carcere qualificate per lavorare come sarte. Le detenute ricevono un salario equo, che sono riuscita a far crescere del 125 per cento. Tutto questo ha un impatto non solo sulle vite delle donne ma anche sui nostri clienti, che vedono i nostri capi non come semplici abiti ma come vere e proprie storie da indossare. Si crea un legame che dà un senso profondo a quello che facciamo. Non a caso abbiamo ricevuto tanti riconoscimenti e anche io mi rendo conto di aver avuto una grande opportunità: quella di trasformarmi, reinventarmi, utilizzare l’imprenditorialità e la moda per crescere anche come donna”. Oltre gli abiti, la moda per Valery è il punto fermo attorno al quale creare veri e propri ecosistemi, per stabilire nuove alleanze a favore delle persone e dell’ambiente: “Estrafalario è un marchio che mi piace definire olistico. Ho capito che da sola non potevo andare molto lontano, così ho deciso di andare oltre e costruire ponti: partecipare a concorsi governativi per accedere a fondi che rafforzassero il nostro programma sociale, renderlo più solido e replicarlo insieme ad altre aziende; e creare alleanze con grandi aziende private e Ong che amplificassero il nostro impatto. In questo modo siamo riusciti a piantare più di 9.000 alberi a Pucallpa e Cusco e a lavorare con scorte inutilizzate ed eccedenze di tessuti di alta qualità provenienti da alcune delle principali aziende del Paese. La mia visione è sempre stata quella di mettere la passione al servizio degli altri, intendendo la moda non solo come design, ma come uno strumento di trasformazione che ci umanizza. Attraverso Estrafalario, cerco di ispirare più marchi, istituzioni e persone a unirsi a questa missione: dimostrare che la moda può essere un ponte tra creatività, sostenibilità e giustizia sociale”. Credere fermamente nel potere trasformativo delle seconde opportunità guida il cammino internazionale del brand di Valery che il 15 settembre ha segnato un nuovo capitolo della sua storia con l’ingresso ufficiale nel prestigioso concept store DOORS di New York dopo le recenti aperture del mercato in Medio Oriente e in Asia. Ma non è tutto: fino al 24 settembre, nei primi giorni della Fashion Week, Estrafalario insieme a Promperú (@promperu_italia) presenta a Milano in esclusiva la sua collezione Primavera-estate 2026. Dal 3 al 6 ottobre sarà invece alla Fiera internazionale Première Classe a Parigi, consolidando così il posizionamento globale come punto di riferimento per la moda non solo sostenibile, ma anche di impatto sociale. Perché nella visione di Valery, il “potere” che le attribuisce Forbes è soprattutto responsabilità, quella di usare la sua voce e la sua visibilità per aiutare le donne “invisibili”, come Patt e tutte le altre: “Perché è con loro, a cui sono profondamente grata così come al mio staff e alla mia famiglia, che mi ha aiutata a non arrendermi, che posso continuare a creare un brand che è anche un movimento, e che spero davvero sia da esempio per altre realtà simili del Sudamerica”.