Carcere e comunità. Buone intenzioni e rischi di Caterina Pozzi* Il Manifesto, 24 settembre 2025 Pochi giorni fa è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Regolamento recante le disposizioni in materia di strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale di detenuti (decreto 24 luglio 2025, n.128) che disciplina l’art. 8 del cosiddetto “decreto svuota carceri” uscito a luglio 2024 e che già aveva destato forti preoccupazioni. Premesso che qualunque misura di comunità alternativa al carcere è da sostenere con forza, questo regolamento porta con sé alcuni rischi e zone grigie: chi potrà accedere alle misure alternative, quali strutture potranno accogliere, per quanto tempo e con quali risorse? I detenuti che potranno beneficiare di queste misure sono persone senza domicilio, povere e con “problematiche derivanti da dipendenza e disagio psichico, che non richiedono il trattamento in apposite strutture riabilitative”. Quali persone hanno in mente gli estensori del regolamento, cioè chi sono le persone che pur avendo una dipendenza e problematiche di salute mentale, non hanno bisogno di cure? Quali strutture accoglieranno questo persone? Si parla di un nuovo elenco di strutture residenziali per l’accoglienza ed il reinserimento sociale dei detenuti, elenco parallelo a quello già esistente costituito da comunità residenziali accreditate e normate a livello regionale con standard di qualità e professionalità consolidati da tempo all’interno del sistema sanitario nazionale. Le comunità terapeutiche accolgono già persone dal carcere con dipendenza o con disagio psichico costruendo percorsi riabilitativi e di inserimento socio lavorativo assieme agli ospiti. L’iscrizione a questo nuovo elenco può essere richiesta da enti del terzo settore purché iscritti al registro unico nazionale del terzo settore (Runts). Il fatto che ci sia un’ampia gamma di organizzazioni che costruisca percorsi residenziali alternativi al carcere non è necessariamente un male, ovviamente evitando di costruire delle micro-carceri private, con sbarre alle finestre, cancelli chiusi e senza legami strutturati con il territorio. Visti i requisiti generali richiesti probabilmente non accadrà, e questo è un bene; queste nuove strutture potranno accogliere le stesse persone destinatarie oggi di percorsi terapeutici ma senza quelle competenze e pratiche che ne tutelano la salute garantite da SSN, costruendo due “elenchi” paralleli? A detta dell’on. Mantovano no, ma se all’art. 9 del presente decreto, si dice che le comunità terapeutiche accreditate si considerano idonee ai fini dell’iscrizione al nuovo elenco, probabilmente sì. L’ultima considerazione riguarda i tempi ed i costi: gli oneri a carico dell’Amministrazione, saranno garantite alle strutture residenziali per un periodo massimo di 8 mesi. Il detenuto che probabilmente ha passato diversi anni in carcere, con fragilità e senza domicilio, si dovrà formare, ottenere un lavoro, trovare un alloggio in un tempo limitato. Se ciò non accadrà sarà rimandato in carcere? Si tratterebbe di una vera beffa. Conosciamo la situazione drammatica del diritto alla casa nelle nostre città, la presenza di lavoro povero, carenza di progetti di housing proposti dagli Enti locali, fondi per il sostegno agli affitti tagliati. A persone già provate si chiede di essere migliori di altri nel diventare autonomi. Ogni anno saranno stanziati 7 milioni di euro e prendendo come riferimento le rette per le comunità terapeutiche i destinatari saranno meno di 300. Una goccia nel mare. Non sarebbe meglio investire nel welfare prima che le persone commettano dei reati, depenalizzare i consumi, riutilizzare provvedimenti di clemenza per risolvere il sovraffollamento sempre più drammatico? Quello a cui stiamo assistendo invece è un aumento della tipologia dei reati ed un aumento della lunghezza delle pene. Un penale che ha sconfinato nel sociale. Serve un cambio di passo. *Presidente CNCA Formare i magistrati in carcere: la proposta Sciascia-Tortora di Pino Corrias Vanity Fair, 24 settembre 2025 Due riforme gioverebbero alla magistratura. Non la separazione delle carriere che servirà solo a metterla sotto controllo politico, ma per prima la più ovvia: soldi, uomini, computer, semplificazione dei codici, per dimezzare il tempo infinito dei processi. In realtà strada scomoda per chi i tribunali li teme. La seconda, utile quanto gli alfabeti giudiziari, riguarda la «formazione dei magistrati in materia di esecuzione delle pene». La proposta risale al 2006, ma nasce addirittura vent’anni prima, da due galantuomini, Leonardo Sciascia ed Enzo Tortora, e prevede «un tirocinio in carcere» di quindici giorni (e quindici notti) obbligatori per ogni giovane magistrato prima di andare a sedersi sulle alte sedie dell’accusa e del giudizio nell’aula del processo, dove transiteranno i destini degli imputati e quelli delle vittime. E in quei quindici giorni sperimentare in prima persona il carcere: cosa significa respirarlo, sentirne i rumori, la puzza, la solitudine, la clausura delle sbarre e delle serrature. Quando l’idea nacque, sembrava una provocazione. Enzo Tortora, protagonista di uno dei più fragorosi errori giudiziari della nostra storia recente, era stato accusato, da falsi pentiti di camorra, di spacciare cocaina. Era il 17 giugno del 1983. Senza riscontri, uno degli uomini più popolari d’Italia era stato arrestato all’alba, ore 4.15, prelevato dalla sua stanza all’hotel Plaza di Roma, esibito in manette davanti a telecamere e fotografi avvertiti per tempo, fucilato il giorno dopo da cento titoli di giornale, sepolto dai falsi resoconti delle indagini, trasformato in un mostro talmente clamoroso da sorreggere per intero le quinte teatrali di quella maxi inchiesta che con 856 arresti eseguiti in una notte mischiava il vero e il falso, buoni indizi per alcuni, pessime calunnie per tanti altri. In pochissimi si schierarono dalla parte di Tortora sfidando l’opinione pubblica, denunciando l’inverosimiglianza delle accuse. Tra i pochi Leonardo Sciascia, che in un memorabile articolo sul Corriere della Sera, prese le difese del presentatore, spiegò quanto può essere violenta l’ingiustizia di un arresto arbitrario, preso per leggerezza o peggio per accendere i fari del clamore sull’inchiesta. «Passare dei giorni in mezzo ai comuni detenuti», scrisse Sciascia, «sarebbe indelebile esperienza» utile per «suscitare acuta riflessione e doloroso rovello» ogni volta «che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza». Tortora uscì dall’incubo tre anni dopo, assolto da tutte le accuse, ammalato, ma anche fermamente determinato a riprendersi la vita e l’onore con l’avventura parlamentare nelle file del Partito Radicale. L’idea di Sciascia fu ripresa. Divenne un progetto di legge. Finì nel tritacarne delle legislature e della dimenticanza. Torna a galla oggi, in Commissione Giustizia, ai bordi di una guerra all’indipendenza della magistratura che ci porterà in primavera al referendum di una falsa riforma, speriamo bilanciata dalla «Sciascia-tortora» che diventa vera. I veri ritardi del governo sulla giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 24 settembre 2025 Gli obiettivi del Pnrr sono lontani: meno venti punti percentuali. La giustizia italiana inciampa sempre nell'ordinario: organizzazione fragile, personale amministrativo insufficiente, digitalizzazione a metà. Dossier da studiare. Il governo e il Parlamento discutono di riforme costituzionali della giustizia. Bene, benissimo: separazione delle carriere, ruolo del Csm, nuove architetture. Ma intanto, mentre le bandiere sventolano, il terreno dell’ordinario resta accidentato. E lì si annida il vero ritardo. Basta guardare il dossier appena depositato due giorni fa alle Camere sul decreto legge giustizia. A fine 2024 gli arretrati civili erano stati ridotti, ma per rispettare i target Pnrr bisogna ancora definire 200 mila procedimenti pendenti nei tribunali e 35 mila nelle corti d’appello entro giugno 2026. Un anno e mezzo per svuotare interi magazzini giudiziari. E la riduzione della durata media dei processi civili, il famoso disposition time, si è fermata al -20,1 per cento rispetto al 2019: l’Europa ci chiede il -40 per cento. Mancano venti punti percentuali in diciotto mesi, roba da record mondiale. Che cosa si fa allora? Si inventano misure straordinarie. Il Csm individua le corti d’appello più in difficoltà - Palermo, Reggio Calabria, Catanzaro, Taranto - e avvia trasferimenti forzati di magistrati con incentivi economici. Il decreto prevede l’applicazione “a distanza” di 500 magistrati ordinari, ciascuno obbligato a chiudere almeno 50 fascicoli da remoto. Si usano in supplenza i giudici onorari di pace, in deroga ai limiti di legge. Ai capi degli uffici giudiziari vengono dati poteri eccezionali di riassegnazione per bypassare criteri e carichi di lavoro. Ma il malato resta cronico. Perché la giustizia italiana inciampa sempre nell’ordinario: organizzazione fragile, personale amministrativo insufficiente, digitalizzazione a metà. E il paradosso è che, per non compromettere i target, si rinvia l’entrata in vigore del nuovo tribunale per le persone, i minorenni e le famiglie al 2026: la riforma che dovrebbe rendere il sistema più efficiente viene posticipata per non disturbare la rincorsa ai numeri. Morale: viva le riforme straordinarie, ma se non si mette mano all’ordinario ogni sforzo rischia di restare una toppa. Con l’Europa che guarda, e che a giugno 2026 non vorrà più deroghe. Raccogliere firme per il referendum? L’Anm è divisa di Valentina Stella Il Dubbio, 24 settembre 2025 Carriere separate, correnti spaccate tra è chi è pronto a esporsi in piazza e chi dice: “Non possiamo allestire banchetti col Pd”. «Non vogliamo trovarci mica a fare un banchetto accanto a quelli del Partito democratico». All’interno dell’Associazione nazionale magistrati si è aperto informalmente il dibattito sulle prossime iniziative da intraprendere in vista del referendum costituzionale sulla separazione delle carriere. E le posizioni dei gruppi associativi, per il momento, non sembrano allineate. Si dividono, come in passato su altre questioni, tra interventisti e moderati. La domanda che si pongono ora è la seguente: è opportuno e proficuo promuovere una raccolta firme attraverso il neonato comitato “A difesa della Costituzione e per il No al referendum”? Com’è noto, esso è nato in seno al “parlamentino” dell’Anm, ma sarà aperto a esponenti della società civile per spiegare le ragioni della contrarietà alla riforma targata Carlo Nordio. Tuttavia non è stata ancora ben definita una road map, tanto è vero che solo entro due mesi si conoscerà, ad esempio, il nome del presidente onorario. Quindi al momento, ufficialmente, non si sa ancora se il comitato sarà impegnato nel raggiungimento del mezzo milione di firme di cittadini italiani necessario per chiedere di indire il referendum. È ovvio che la consultazione si farà, perché saranno i partiti a richiederlo nella modalità previste dalla legge (un quinto dei membri di una Camera o cinque Consigli regionali o, appunto, mezzo milione di elettori), ma la decisione che l’Anm prenderà nei prossimi mesi assumerà un alto valore simbolico. Quello che sappiamo al momento è che il presidente del Comitato Antonio Diella, la vicepresidente vicaria Marinella Graziano, il vicepresidente e segretario Gerardo Giuliano e la tesoriera Giulia Locati non ne hanno ancora discusso. Appare chiaro, però, che ogni singola corrente ne sta dibattendo al proprio interno. E i posizionamenti non sono così ben definiti, anche se ci sarebbe una prevalenza di quelli che, per vari motivi, sembrano non vogliano intraprendere una simile iniziativa. Intanto venerdì scorso era apparsa sul Corriere della Sera un’intervista a Stefano Celli, vicesegretario dell’Anm ed esponente di Magistratura democratica, che ha detto: «Promuoveremo una nostra raccolta firme, senza rinunciare al confronto pacato già avuto con tutti i gruppi parlamentari». In realtà Celli, interpellato dal Dubbio in proposito, chiarisce che, rispetto all’intervista al Corsera «la decisione non è stata ancora presa e si stanno facendo valutazioni». Non una marcia indietro, ma la consapevolezza che per dare per certa una scelta simile occorre un sostegno corale da parte di tutti, all’interno dell’Anm e del Comitato. L’impegno sarebbe onerosissimo. Nel gruppo di Area convivono al momento visioni diverse. C’è chi ne fa, tra l’altro, una questione economica. La legge 157 del 1999 riconosce, infatti, il rimborso anche in favore delle richieste di referendum effettuate ai sensi dell’articolo 138 Costituzione, quello appunto di riforma della Carta. Il rimborso è uguale a quello disposto per i referendum abrogativi, ossia un euro per ogni firma valida raccolta. In questo caso, tuttavia, non essendo previsto alcun quorum partecipativo per la validità della consultazione referendaria, il rimborso è subordinato alla sola declaratoria di legittimità della richiesta referendaria da parte dell’Ufficio centrale della Cassazione. Pertanto c’è chi si preoccupa che se «non si riusciranno a raccogliere le 500mila firme, perderemo migliaia e migliaia di euro, considerato pure che il tetto massimo di spesa per la campagna referendaria che abbiamo deciso di mettere a bilancio è di 500mila euro», ci spiegano. Poi c’è chi invece sostiene, sempre all’interno di Area, che al contrario bisognerebbe scendere in campo senza problemi: «Abbiamo iniziato un percorso in difesa della Costituzione, ci siamo schierati sul fronte del No, raccogliere le firme dei cittadini sarebbe in linea con il percorso già intrapreso. E se qualcuno ci accuserà di una sovraesposizione ricorderemo che l’aggettivo “politicizzato” non deve essere considerato in maniera negativa perché fare politica significa fare attività pubblica, parlare con i cittadini». Di avviso diverso Unicost e Magistratura indipendente, che sono molto più fredde in merito a questa possibilità benché ancora debbano raggiungere una posizione ufficiale. Comunque, fonti di entrambi i gruppi ci dicono che «il nostro obiettivo è sempre stato quello di spiegare le ragioni tecniche come operatori della giustizia. Raccogliere le firme per strada non è il nostro mestiere». Mentre qualcun altro si spinge a dire: «Non vogliamo trovarci mica a fare un banchetto accanto a quelli del Partito democratico!». E i dem, sul punto, ancora non hanno deciso che fare. Tuttavia, all’interno dell’Anm c’è invece qualcuno che ha le idee già chiare: «Se è vero che le firme possono adesso essere raccolte anche online, farci promotori in prima persona di una iniziativa di questo tipo acquisirebbe un valore simbolico importante. E sarebbe facile criticarci perché schiacciati sulle posizioni dei partiti. Figuriamoci se per puro caso ci trovassimo in una piazza con due stand, uno Anm e uno di un partito, a chiedere sottoscrizioni», ci spiega sempre il magistrato di una corrente moderata. Contrario anche Andrea Reale, del gruppo Art. Centouno: scendere nell’arena in questa maniera sarebbe sintomo «di un attivismo esasperato che non condividiamo affatto. Il nostro compito è solo quello di spiegare quello che non va nella riforma e anche quello che va, come il sorteggio per il Csm». Insomma l’Anm è chiamata a prendere una decisione importante ma è in buona compagnia, in quanto anche i partiti al momento non hanno deciso come muoversi. Tutto sarà definito molto probabilmente solo dopo il quarto e ultimo voto al Senato che dovrebbe arrivare entro la fine di ottobre. L’Antimafia tra intercettazioni e gravi conflitti di interesse di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 settembre 2025 C’è un filo sottile che separa l’inchiesta dalla manipolazione, la verità dalla rappresentazione teatrale. Quando questo confine si sfuma all’interno delle istituzioni preposte alla lotta alla mafia, il rischio è che un organo politico come la Commissione antimafia diventi un luogo privatistico, piegato a interessi personali. È quanto emergerebbe dalle intercettazioni che hanno coinvolto il senatore pentastellato Roberto Scarpinato e l’ex magistrato Gioacchino Natoli, indagato dalla Procura di Caltanissetta per aver presumibilmente insabbiato indagini scaturite da una segnalazione dell’allora procuratore Augusto Lama di Massa Carrara sui rapporti tra i mafiosi Salvatore e Antonino Buscemi e la Ferruzzi-Gardini, una delle tante multinazionali in affari con Cosa nostra. Parliamo degli stessi nomi già citati nel rapporto “mafia-appalti” redatto dai Ros su impulso di Giovanni Falcone. «Ho intenzione di seppellire la Colosimo sotto una montagna di documenti». Non sono parole pronunciate da personaggi oscuri, ma dal senatore Scarpinato, componente della Commissione antimafia, intercettato mentre parlava con Natoli in vista della sua audizione. Il riferimento è alla presidente della Commissione, Chiara Colosimo. Se una frase del genere fosse stata pronunciata dall’ex generale Mario Mori in veste da commissario per preparare un collega a un’audizione, si sarebbe scatenato un putiferio. Lo stesso Scarpinato, che lo processò invano più volte, avrebbe parlato di “atto eversivo”, di tentativo di condizionare i lavori parlamentari. Ma quando a usare quel linguaggio è lui, in un comunicato sostiene che non c’è nulla di male e rivendica di aver agito così: inviando memorie per spingere la Commissione verso altre tesi ritenute da lui valide. Anche se, oggettivamente, risultano prive di dignità processuale. Non è solo questione di parole, già di per sé gravi. È il metodo che colpisce: l’idea di “seppellire” un’inchiesta sotto una montagna di documenti richiama tecniche già viste. Carte su carte: prima la trattativa Stato- mafia come causa delle stragi, poi la pista nera, prima ancora Berlusconi, ora un ex parlamentare come Guido Lo Porto, all’epoca nel Movimento Sociale Italiano. Un meccanismo che offusca il quadro generale e rischia di far perdere il filo delle indagini più serie. Scarpinato, nel suo comunicato, arriva perfino a definire la causale “mafia- appalti” dell’accelerazione della strage di via D’Amelio come una tesi di Mori e della destra parlamentare. Una falsità. Non è una tesi, ma un fatto confermato da tutte le sentenze sulle stragi, sia di Capaci che di via D’Amelio. Lo stesso presidente del tribunale di Palermo, Angelo Pellino, è stato costretto a scriverlo nero su bianco nella sentenza di secondo grado sulla (non) trattativa Stato- mafia. Ma c’è dell’altro. Scarpinato non è un osservatore esterno di ciò che la Commissione antimafia sta esaminando. Insieme a Guido Lo Forte, è stato il magistrato titolare del procedimento “mafia- appalti”. Furono proprio loro a chiederne l’archiviazione. Un fascicolo che Borsellino considerava decisivo e collegava direttamente alla strage di Capaci. Non sono suggestioni, ma documenti, testimonianze e azioni investigative. Altro che archiviazione di personaggi marginali. Furono archiviate le posizioni dei vertici delle grandi imprese coinvolte e di mafiosi come i fratelli Buscemi o Pino Lipari, quest’ultimi con poche righe di motivazione. È vero che in seguito furono riaperte inchieste e procedimenti che portarono a condanne, ma attraverso passaggi dilatati negli anni, tanto che gli strascichi sono proseguiti fino agli anni Duemila. Come scrissero i magistrati nisseni in “Mandanti occulti bis”, l’archiviazione del ’ 92 provocò uno “scompenso”. Basti pensare ai Buscemi, processati e condannati solo grazie al procedimento confluito nell’ordinanza del 1997: Giuseppe D’Avanzo, in una sua inchiesta a puntate, denunciò che così i mafiosi ebbero “anni di vantaggio”. Un altro nodo porta alle indagini di Massa Carrara. In quell’ordinanza del ’ 97 comparve finalmente tutto l’incartamento del procuratore Lama e dell’investigatore Franco Angeloni. Borsellino, già nell’aprile 1992, aveva consegnato la seconda informativa di Lama non a Natoli, ma a Lo Forte e Pignatone. Come può un senatore che è stato titolare del dossier “mafia- appalti” - e che ha lavorato per screditare la ricostruzione scrupolosa dell’avvocato Fabio Trizzino, portavoce dei figli di Borsellino - sedere in una Commissione chiamata a valutare proprio quegli eventi? Il conflitto di interessi è evidente, ma resta la sua abilità nel presentarsi come vittima. Poi c’è la riunione del 14 luglio 1992, l’ultima di Borsellino. Perché Scarpinato insiste tanto perché Natoli la racconti? Perché lì si giocava la partita sul dossier “mafia-appalti”, di cui era titolare con Lo Forte. Nelle audizioni del 1992 non emerge che Borsellino fosse stato informato dell’archiviazione. Scarpinato, dal mio processo in poi, ha rivelato per la prima volta di averglielo comunicato un mese prima. Oggi scopriamo che in realtà lo apprese il 14 luglio. Un dettaglio che non torna, visto che lo stesso Borsellino chiese una nuova riunione per approfondire il tema alla luce delle dichiarazioni di un nuovo pentito. Le intercettazioni mostrano anche altro: la preparazione coordinata delle audizioni. Natoli chiede a Scarpinato suggerimenti prima di comparire in Commissione. Non un semplice scambio tra colleghi, ma una scaletta, con consigli su come non sembrare troppo affiatati. Con un dettaglio surreale: a dare dritte è lo stesso avvocato che assiste entrambi. Lo stesso legale che rappresentò Scarpinato e Lo Forte nel processo per diffamazione contro il sottoscritto, sfociato in una condanna in primo grado per la mia inchiesta a puntate del 2018 proprio su “mafia-appalti”. Non siamo davanti solo a conflitti d’interesse macroscopici, ma a una trama che somiglia a una sceneggiatura: ruoli assegnati, azioni concordate, battute preparate. E tra una frase e l’altra spunta persino uno sberleffo ai deputati del Pd: al nome di Walter Verini scoppiano in una risata. C’è un aspetto quasi grottesco: come già scritto su Il Dubbio, l’audizione di Natoli si è rivelata un disastro. Dalla genesi di “mafia- appalti” a Falcone, fino alla riunione del 14 luglio. Nel ricostruirla, Natoli descrive Borsellino vicino a una porta aperta, intento a fumare ed entrare e uscire. Eppure, rileggendo le audizioni al Csm a pochi giorni dalla strage di via D’Amelio, le versioni sono diverse. Domenico Gozzo afferma: «Borsellino era seduto due sedie dopo di me». Vincenza Sabatino dichiara: «Ero accanto a Borsellino per tutta l’assemblea». Dettagli che potrebbero sembrare marginali, ma che dimostrano l’inattendibilità della memoria. E forse anche il limite di affidarsi a “consigli” interni. Non sono mancati scivoloni pesanti. Natoli, nelle conversazioni intercettate, ha usato espressioni offensive verso la famiglia Borsellino. Parole sgradevoli, pronunciate in privato con la moglie, ma rivelatrici di un atteggiamento inquietante. Come si può dire che Borsellino derideva sua moglie Agnese davanti ai colleghi? O insinuare che i figli avessero “pochi neuroni”? Certo, erano conversazioni private, ma il linguaggio che si usa, anche nell’intimità, rivela molto. E quando chi parla è chiamato a ricostruire pagine tragiche della storia italiana, ogni parola pesa. Dal Messaggero si apprende che lo stesso Natoli, parlando di Agnese, le contestava di essersi ricordata dopo 15 anni della telefonata del procuratore Giammanco, la mattina del 19 luglio. Eppure, Agnese lo aveva detto fin da subito: basta rileggere la sua deposizione al processo Borsellino del 1995. Forse non è Lucia Borsellino ad avere problemi con i neuroni. A trent’anni di distanza si continua a giocare una strana partita. Le indagini di Caltanissetta, per ora, sembrano concentrarsi soprattutto su Pignatone, con il rischio che diventi l’unico capro espiatorio. Il dossier “mafia- appalti” resta sullo sfondo. E intanto, sul piano politico, i protagonisti del biennio 1991-92 si muovono ancora dentro giochi di palazzo che nulla hanno a che vedere con la verità sulle stragi di mafia. Il giudice e l’indignazione a senso unico di Giuseppe Belcastro Il Riformista, 24 settembre 2025 Viviamo in un Paese che si indigna a senso unico, solamente quando cioè un giudice assolve; giammai quando condanna: è una stortura. Il caso che stimola queste poche riflessioni è la sentenza di Torino che, condannato l’imputato per lesioni nei confronti della moglie e di alcuni suoi familiari, lo ha invece assolto dal più grave reato di maltrattamenti in famiglia contestatogli dalla procura. Facciamo prima la tara. In un tempo in cui criptiche alchimie giuridiche hanno determinato l’introduzione di figure di reato come il femminicidio e collazionato pene e procedure speciali in raccolte dal vivido colore carminio, non è da stupirsi che tutti i giuristi nostrani (secondo le ultime stime degli istituti statistici più accreditati quasi 60 milioni, come sempre del resto) insorgano per lo scempio, additando variamente il giudice autore del misfatto e censurando, invero da prospettive ignote, una sentenza che, impudicamente, nemmeno nascondono di non aver letto. Ma questa è una tara appunto e, come tale, non la contiamo nella pesata della questione. Poi però c’è la sostanza, il peso netto; e qui la cosa si complica perché l’obiettivo che ci siamo posti, oltre che di capire, è anche quello di provare a comunicare a chi non naviga questi mari ciò che è realmente accaduto. Per fare questo, la sentenza invece è stata necessario leggerla. E quello che la sentenza racconta - foss’anche con le indulgenze linguistiche di cui vi dice Benevieri da queste colonne - è che un collegio, nell’esercizio della giurisdizione, ha acquisito delle prove in un articolato contraddittorio e le ha raccontate ordinatamente e che, siccome queste prove hanno restituito una ricostruzione dei fatti non conforme al quadro dipinto dall’accusa in merito al reato di maltrattamenti, come la legge impone, quel collegio ha assolto l’imputato per quel reato. Non spetta a nessuno commentare il contenuto decisorio della sentenza di un processo pendente e men che mai a chi, nemmeno avendone le competenze, non abbia contezza perfetta degli atti processuali; e poiché anche noi difettiamo di almeno uno dei due requisiti, non la commentiamo, ché finiremmo col fare il gioco del nemico. Ma gli eventi che hanno ruotato attorno alla decisione invece vogliamo commentarli almeno un poco, perché raccontano molto dell’umore del discorso pubblico sulle cose della giustizia. Raccontano, ad esempio, che viviamo in un paese che si indigna a senso unico, solo quando cioè un giudice assolve; giammai quando condanna, salvo, in questo caso, per la ritenuta scarsezza della pena. E di questa stortura non possiamo che trovare una radice (almeno una) nella narrazione distorta che della giustizia si è offerta e si continua imperterriti ad offrire alla collettività, una narrazione fatta di colpevoli che l’han fatta franca, di anni di galera come di pause sabbatiche di riflessione, di avvocati prezzolati il cui unico scopo è buttare la palla in tribuna, di pubblici ministeri paladini della giustizia e di giudici, appunto, che se non concordano con l’accusa meritano aspra censura. Raccontano pure, per dirne un’altra, che la maturità politica sul tema della giustizia è da noi all’anno zero, ibernata dal senso comune corrente (il buon senso, passato dalla paura al terrore, è scappato proprio), il quale, radicalizzati sociologicamente i ruoli della vittima e del carnefice, ha poi preteso di proiettarli così come sono anche nel processo penale, prima ancora che i fatti siano accertati. È dunque quasi naturale che se una sentenza vìola quel canone acquisito si arrivi a immaginare la convocazione in Parlamento del giudice che la ha emessa perché ne renda conto. Non stupiamoci però, perché nell’anno zero appunto, è normale che non si percepisca il baratro nel quale si rischia di cadere perdendo l’equilibrio sul sottilissimo crinale che separa due poteri dello Stato. Raccontano - infine, ma solo per ragioni di spazio - che la tutela della giurisdizione può diventare un concetto vago, declinabile alla bisogna con robustezza varia: dal calcestruzzo della barricata contro la separazione delle carriere, al muro a secco, basso e traballante, eretto con qualche titubanza dalla giunta sezionale Piemonte e Valle D’Aosta di ANM - quella nazionale non è proprio pervenuta - in un tiepido comunicato che presagisce addirittura gradi successivi del giudizio, poi puntualmente confermati da Cesare Parodi, coordinatore del dipartimento della procura di Torino che ha investigato sul caso, in diretta televisiva. Che sia pure il presidente dell’ANM pare non conti. E così, a difendere, non la sentenza - che, ripetiamo, non si commenta negli approdi - ma la giurisdizione in sé come caposaldo della convivenza civile e, con essa, la piena autonomia di chi la esercita, resta - guarda tu a volte le cose della vita! - la Camera penale di Torino e l’Unione delle Camere Penali italiane; insomma, gli avvocati. Quegli stessi strani figuri che prospettano la necessità delle carriere separate, anche per garantire che il presidente di ANM, un pubblico ministero, possa dire ciò che vuole e quando vuole mentre il giudice che ascolta, nello stesso momento, possa infischiarsene. D’altro canto, messa così, hai voglia a girare video e mandarli sui canali social, le barricate ideali di ANM di fronte alla separazione delle carriere acquistano un sapore artificiale, come i coloranti nelle caramelle di quando eravamo ragazzini, che ci sembravano buonissime, ma facevano male, anche se nessuno l’aveva ancora capito. La sentenza oltre i titoli che gridano allo scandalo. Dal clamore mediatico alla realtà processuale di Marianna Caiazza* Il Riformista, 24 settembre 2025 Non un’assoluzione totale, ma una condanna per lesioni e al risarcimento: il Tribunale ha escluso i maltrattamenti per mancanza di prove, ritenendo inattendibile il racconto della parte civile. “Aggredì la ex: assolto per i maltrattamenti”. “Torino: niente carcere per l’uomo che ha sfigurato l’ex moglie”. “Massacrata di botte dall’ex, assolto perché ‘andava compreso’”. Ecco il tenore delle notizie di stampa da una settimana a questa parte sulla sentenza pronunciata dal Tribunale di Torino in composizione collegiale lo scorso 4 giugno. Ma cosa c’è scritto davvero nelle 18 pagine del provvedimento che avrebbe consentito - stando ai quotidiani, alla politica e alla vox populi - ad un criminale di farla franca? Per i non addetti ai lavori, qualche premessa è doverosa. Il reato di maltrattamenti (art. 572 c.p.) sanziona con una pena gravosa (da 3 a 7 anni di reclusione, quella base) chi compie una serie di atti lesivi dell’integrità fisica o della libertà o del decoro di un familiare. Si tratta, quindi, di un comportamento abituale, motivo per cui un singolo episodio non costituisce maltrattamento (potrà avere, eventualmente, rilievo penale autonomo sotto diversa fattispecie). Ogni fatto denunciato, poi, deve essere provato, e non basta la parola della presunta vittima, soprattutto quando questa - ce lo dice una giurisprudenza granitica - si è per scelta costituita parte civile nel processo penale, perché da quel momento è portatrice di una pretesa economica (quasi 100mila euro la richiesta fatta nel caso che ci occupa). Con queste premesse, quel che è accaduto nel processo di cui si discute è che per il Tribunale la verifica di credibilità della versione della parte civile ha dato esito negativo, e poiché questa non era sorretta da riscontri esterni, è mancata la prova dei maltrattamenti. Sia chiaro, l’imputato non è stato assolto da ogni accusa: 1 anno e 6 mesi di reclusione più il risarcimento della parte civile (ridimensionato rispetto ai 100mila euro, certo, ma sempre con 20mila euro solo di condanna provvisionale) per le lesioni; quanto ai maltrattamenti, invece, il fatto non sussiste. Non regge l’imputazione formulata dalla Pubblica Accusa secondo cui, da quando la moglie aveva comunicato all’imputato la volontà di separarsi, questi avrebbe “scatenato l’inferno” (sono le parole della parte civile): insulti irripetibili, minacce di morte (per lei e per i due figli minori), aggressioni fisiche continue durante le discussioni ormai quotidiane. Non regge perché per i giudici troppe cose non tornano. Per stessa ammissione dell’ex moglie, il rapporto con l’imputato è stato ineccepibile per oltre 16 anni; “poi siamo arrivati durante il Covid e praticamente diciamo che in quel periodo io mi sono disinnamorata di lui dopo tutte queste cose qui che non sopportavo più”. Secondo la donna, la scelta di separarsi dal marito avrebbe fatto aumentare le discussioni; circostanza che appare però al Tribunale tutt’altro che singolare: “La parola scelta dalla parte civile è infatti ‘discussione’, e la discussione, all’interno di un nucleo familiare che si sta sfaldando, non è nulla di anomalo o penalmente illecito, ma costituisce l’ovvia normalità”. Gli episodi di maltrattamenti denunciati dall’ex moglie vengono puntualmente smentiti. L’aggressione al figlio maschio (“avrebbe quasi strozzato il figlio afferrandolo per il collo in un momento di pura follia”) è ridimensionata non solo dall’imputato (“Stava purtroppo prendendo a calci tutta la casa… e allora per fermarlo e per calmarlo l’ho preso per la maglietta”), ma dalla stessa donna nella sua prima deposizione dinanzi alla Polizia (“Ha poi immobilizzato F. contro il muro tenendolo per il petto dicendogli che doveva calmarsi perché era un videogioco e non la realtà”). Quelle che vengono descritte come periodiche umiliazioni inflitte dal padre al figlio (costretto a qualificarsi con l’epiteto di “coglione” secondo la moglie) sono invece, per l’imputato, un gioco goliardico di reciproche canzonature, e tutt’altro che un maltrattamento. Tanto che, osserva il Tribunale, non v’è mai stato risentimento del figlio nei confronti del padre, e solo e sempre un forte legame, come ammesso dalla stessa parte civile e dalla figlia. E allora per i giudici “risulta evidente la tendenza della donna a trasfigurare episodi che fanno parte dei consueti rapporti familiari in insopportabili soprusi di elevata frequenza”. Le aggressioni fisiche alla moglie, poi, vengono ridotte per ammissione della donna ad un unico episodio: “Mi è successo di prendere uno schiaffo con una spinta, in volto”. Anche la deposizione di R.P., madre della persona offesa e dirimpettaia di quest’ultima, appare al Tribunale contraddittoria e vaga: “Non ha mai detto di aver udito urla minacciose del P. o di aver percepito gli esiti di qualche gesto violento (rumori, danni visibili a persone o cose, ecc.). Il famoso ‘inferno’, che a detta della R. si era scatenato dopo agosto 2021, la P. non lo avvertì mai”. La conclusione, quindi: il resoconto della moglie è “largamente inattendibile”, con la conseguenza che non c’è prova di maltrattamenti abituali a danno della persona offesa o dei suoi familiari. Arriva invece la condanna per l’unico episodio di rilevo penale, ma ancora una volta non si accoglie la ricostruzione della moglie, che lo inquadra in un gesto di pura ed incomprensibile follia. Questi i fatti, secondo il Tribunale: la donna aveva una nuova relazione, forse nata già durante il matrimonio. C.P. aveva lasciato la casa familiare, ma il figlio gli aveva un giorno confidato “di aver assistito dentro casa ad atti sessuali della madre con il nuovo compagno” (con parziale ammissione del minore anche alla psicologa della ASL); di qui l’inizio di un litigio via via più concitato ed infine, al culmine dell’ira, un violento pugno sferrato dall’imputato al volto della parte offesa. Il Tribunale dedica qualche pagina a questo episodio, ma non per giustificare il gesto: la condanna c’è, e non è lieve. Lo fa per riportare ancora una volta il centro su quello che è il vaglio penale: la solidità dell’accusa, la sussistenza o meno di tutti gli elementi del reato, la gravità dello stesso e tutte le circostanze che possono essere utili a quantificare la pena e a riconoscere o meno alcuni benefici nell’eventualità di una condanna. È con questo fine che va letta la ricostruzione dei giudici: “Se si descrive l’accesso d’ira dell’imputato in data 28.7.2022 come un qualcosa di immotivato e inspiegabile (ciò che la parte civile ha fatto nel corso del suo esame), ecco che il P. finirà per apparire come un pericoloso squilibrato, capace di ripetere indefinitamente e imprevedibilmente gesti violenti”. Ritenuto, invece, che si tratti di un episodio isolato, il reato sussiste, ma la pena può essere sospesa; sospensione condizionata, beninteso, al pagamento della provvisionale di 20mila euro ed allo svolgimento di specifici corsi di recupero presso Enti o Associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per simili reati. *Avvocato penalista Immunità Ilaria Salis, una boccata d’ossigeno nel clima di anti-politica di Tiziana Maiolo Il Riformista, 24 settembre 2025 La destra grida all’inciucio: è il festival dell’ipocrisia. Ilaria Salis è salva. La Commissione Affari giuridici del Parlamento europeo ha agito nel pieno rispetto dei doveri garantisti, che vanno applicati sempre e comunque. Persino per l’esponente di Avs, imputata per un’aggressione. L’immunità non è un affronto alla magistratura ungherese o una zona d’impunità per la casta, ma una boccata d’ossigeno nel clima di anti-politica: i princìpi dello Stato di diritto valgono anche per gli avversari. È stata una votazione politica, a scrutinio segreto, frutto di un accordo che, con l’aiuto del Partito popolare europeo, ha portato a quel risultato di 13 voti contro 12 che è diventato simbolo di libertà. E che, immaginiamo, sarà confermato il prossimo 7 ottobre nell’assemblea plenaria, che difficilmente sconfessa le decisioni “tecniche” delle commissioni. Se pure sappiamo che in Europa l’immunità parlamentare è sacra, e non è un privilegio personale dei deputati, ma una garanzia di indipendenza e integrità del Parlamento nel suo complesso, nelle prime dichiarazioni di ieri, fin dal mattino e soprattutto da parte dei politici italiani, si manifesta più lo scontro politico che non la difesa di princìpi e garanzie. Soddisfatta Ilaria Salis, ovviamente, cui nessuno poteva chiedere di recitare la parte di Enzo Tortora, e che non ha celato la propria fragilità di ragazza più abituata alle lotte sociali e illegali sulla casa che non agli scranni istituzionali. Salis non è Tortora e l’Ungheria non è l’Italia. Lui ha voluto, insieme a Marco Pannella, trasformare il proprio caso - un liberale per bene trasformato in spacciatore ed esposto al ludibrio della diretta sulle manette - in una denuncia del sistema giudiziario. Lei voleva solo salvarsi. Probabilmente ci è riuscita. Anche se il relatore in Commissione, lo spagnolo Lazara del Ppe, che aveva inutilmente proposto un’immunità parziale, ha messo in guardia da quel che potrebbe succedere alla Corte di giustizia dell’Unione europea, che potrebbe revocare l’immunità votata dal Parlamento. È stato il suo l’unico intervento tecnico-giuridico, e anche sensato. Per il resto, soprattutto nel settore di lingua italiana, abbiamo assistito a un vero festival dell’ipocrisia. Nel nome, naturalmente, della difesa dello Stato di diritto. Da una parte gli esponenti dei due partiti più securitari del centrodestra, Lega e Fratelli d’Italia, hanno dato giudizi taglienti sull’“inciucio” tra socialisti e popolari. Questi ultimi, accusati di tradimento, rappresentati anche da un collega ungherese dissidente di Orbán e a sua volta imputato di regime. Matteo Salvini ha liquidato la faccenda come “eurovergogna”, grandi strilli su privilegi e ingiustizie per la diseguaglianza tra deputati e cittadini. Non di maggiore nobiltà le ipocrisie a sinistra. Soprattutto da parte di coloro, come gli sponsor diretti di Salis, Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, che mai avrebbero concesso il proprio voto per salvare un antagonista politico. È uno spreco di vocaboli come “garantismo” e “difesa dello Stato di diritto”. Naturalmente, contro un nemico politico come Orbán non è difficile. Soprattutto dopo aver visto le immagini della prigioniera che veniva mandata nell’aula processuale con le catene alle mani e ai piedi. Come non ricordare la vera sollevazione popolare che in Italia si scatenò per molto meno negli anni di Tangentopoli in difesa del portavoce della Dc, Enzo Carra, fotografato con gli schiavettoni ai polsi? Perlomeno lui aveva i piedi liberi di camminare. Ma si parlava soprattutto di politica, come nel comunicato del gruppo La Sinistra, che invitava a “non cedere alle minacce del leader autoritario Orbán”. E l’autonomia della magistratura? E il principio europeo che stabilisce come i membri del Parlamento non possano “essere ricercati, detenuti o perseguiti per le proprie opinioni o per i voti espressi nella loro veste di deputati”? Che nella decisione della Commissione Affari giuridici del Parlamento europeo ci sia stata una forzatura è abbastanza ovvio. Ma coloro che credono nei princìpi dovrebbero trovare in sé la forza di credere davvero che il principio dell’immunità serva non a tutelare il singolo, ma a difendere la sacralità e l’integrità dell’istituzione stessa. C’è un modo di verificarlo da subito, qui in Italia. Sarebbe sufficiente approvare la proposta di legge presentata dalla Fondazione Einaudi e dai Radicali Italiani per ripristinare il principio dell’immunità nell’ordinamento italiano. È stata abolita da un Parlamento impaurito dall’attività di quattro giovanotti che avevano vinto un concorso ma che avevano creato uno squilibrio politico tra i poteri dello Stato. Quanti sarebbero oggi disponibili, a destra e a sinistra, nel nome del voto per Ilaria Salis, a votare perché anche il Parlamento italiano sia difeso nella propria integrità dalle incursioni dei procuratori? Almasri, l’atto d’accusa: “Il Governo ha violato gli obblighi internazionali per opportunismo” di Irene Famà La Stampa, 24 settembre 2025 Il relatore: via libera a procedere contro i vertici dell’esecutivo. Niente immunità per il caso Almasri. Il Guardasigilli Carlo Nordio, il titolare del Viminale Matteo Piantedosi e il sottosegretario di Palazzo Chigi con delega ai servizi segreti Alfredo Mantovano devono andare a processo. Lo ha detto, al termine del suo intervento, il relatore della Giunta per le autorizzazioni a procedere Federico Gianassi (Pd). «Alla luce di quanto emerso, bisogna affermare che i tre esponenti dell’esecutivo non hanno perseguito né un interesse costituzionalmente rilevante né un preminente interesse pubblico, ma hanno compiuto una scelta di mero opportunismo politico, fondata su timori generici e non suffragati da evidenze concrete, che mostrano la debolezza del governo italiano davanti a bande armate che operano all’estero e che violano i diritti umani commettendo crimini internazionali». Secondo il relatore, che nelle scorse riunioni della Giunta ha ripercorso le tappe della faccenda del generale libico, arrestato in Italia su mandato di cattura internazionale e poi liberato e rimpatriato in fretta e furia, «la debolezza del Governo rispetto a potenziali ricatti di milizie armate e a ritorsioni generiche non sono sufficienti per consentire alla Giunta di concedere ai ministri accusati di avere violato la legge l’immunità dal processo penale». Nella memoria difensiva, i ministri e il sottosegretario hanno spiegato di aver agito per «tutelare gli interessi nazionali». Il generale Almasri è volto noto della Rada Force, una delle milizie più potenti in Tripolitania che «opera in quartieri nevralgici della capitale libica, compreso quello dove erano dislocate l’ambasciata italiana». E, durante alcune riunioni riservatissime in quei giorni concitati, l’intelligence aveva ipotizzato il pericolo di rappresaglie nei confronti dei circa cinquecento italiani a Tripoli o nei confronti degli interessi italiani, «in particolare dello stabilimento gestito in comproprietà da Eni e dalla National Oil libica sito a Mellitah, vicino al confine con la Tunisia». Valutazione, secondo i giudici del tribunale dei ministri, che non ha trovato riscontro nei fatti. E così, continua il deputato Federico Gianassi, la condotta dei ministri Nordio e Piantedosi e del sottosegretario Mantovano, «ha determinato una grave violazione degli obblighi internazionali dell’Italia e ha compromesso l’interesse superiore della comunità internazionale a vedere perseguiti i responsabili di crimini di guerra e contro l’umanità». Un accenno anche alla «responsabilità politica di avere nascosto la natura reale delle decisioni assunte, presentandole al Parlamento come inevitabili conseguenze giuridiche, quando in realtà sono state il frutto di un calcolo politico censurabile e di un cedimento a pressioni esterne. Una condotta che ha minato la credibilità internazionale dell’Italia e la trasparenza interna del rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento». In un primo momento, dopo il rimpatrio del generale, accompagnato in Libia su un volo di Stato e accolto in patria come un eroe, il governo, aspramente criticato dalle opposizioni, aveva puntato il dito contro i magistrati della Corte d’appello di Roma, competenti sulle questioni di questo tipo. E proprio la premier Giorgia Meloni aveva dichiarato: «L’espulsione di Almasri è avvenuta per ragioni di sicurezza nazionale», dopo che la magistratura ne ha disposto la scarcerazione. Il ministro della Giustizia è accusato di omissione d’atti d’ufficio e favoreggiamento, mentre il ministro dell’Interno e il sottosegretario Mantovano di peculato e favoreggiamento. Secondo i giudici del Tribunale dei ministri, il Guardasigilli è rimasto «inerte». Pur avendo «ricevuto le richieste di cooperazione giudiziaria della Corte penale internazionale, pur sapendo che il ricercato era stato arrestato» per crimini di guerra e contro l’umanità e che le comunicazioni diplomatiche avevano seguito il giusto corso, «pur supportato dagli uffici tecnici che avevano tempestivamente predisposto una bozza di provvedimento per tenere in carcere il generale», non «ha fatto alcunché». Al centro delle accuse mosse al ministro Piantedosi e al sottosegretario Mantovano, invece, c’è la scelta di rimpatriare il generale e utilizzare un aereo di Stato. Secondo i giudici «è verosimile» che la decisione fosse dovuta alle «preoccupazioni» palesate dal direttore dei servizi segreti esterni Giovanni Caravelli su «possibili ritorsioni per i cittadini e gli interessi italiani in Libia». Preoccupazioni che, si legge negli atti, non seguivano «minacce» concrete. E il risultato è stato «paradossale», quello di aiutarlo nella fuga. Il voto della Giunta per le autorizzazioni è previsto il 30 settembre. Chico Forti, no alla libertà condizionale: nessun ravvedimento di Marzia Zamattio Corriere della Sera, 24 settembre 2025 Lo zio: «Lo vogliono far morire in carcere». Il Tribunale di sorveglianza rigetta la richiesta. La famiglia: «Assurdo». Gli amici: «Delusi e tristi». I legali preparano il ricorso. Chico Forti resta in carcere. Dopo sei giorni dalla richiesta della libertà condizionale, il Tribunale di sorveglianza di Venezia ha respinto l’istanza presentata il 17 settembre dai legali del produttore televisivo trentino, da 26 anni in carcere per un omicidio per il quale si è sempre professato innocente. Secondo i giudici mancano i requisiti - «I giudici hanno ritenuto che non vi fossero due dei tre requisiti richiesti: il sicuro ravvedimento e l’avvenuto risarcimento», spiega l’avvocato Carlo Dalla Vedova. «Abbiamo dato prova del suo sicuro ravvedimento, che non si basa solo sull’ammissione del reato ma anche su altri aspetti così come richiesto dal disciplinare italiano», come il suo corretto comportamento in carcere. Ma il Tribunale ha rigettato l’istanza. Sul risarcimento, che in Florida non esiste il corrispettivo delle parti civili italiane «il padre di Dale, Anthony, è morto e il fratello Bradley si è schierato pubblicamente a favore di Forti». Dichiarazione incompatibile per i legali «con un’eventuale richiesta risarcitoria». La sentenza è arrivata ieri, 23 settembre, alle 12.30. Una batosta per la famiglia. Lo zio Gianni: «Qualcuno lo vuole vedere morire in carcere». La delusione di amici e parenti - Una delusione soprattutto per Chico, informato dell’ordinanza dal suo legale di Verona, Alessandro Favazza, che si è recato da lui in carcere. Una notizia inattesa per i legali Favazza e il collega di Roma l’avvocato Carlo Dalla Vedova, dopo l’ottimismo che si respirava negli ultimi mesi. Anche a fronte di una recente concessione della liberazione anticipata (ex art 54 dell’ordinamento penitenziario) di 6 anni e 3 mesi, che ha riconosciuto il comportamento detentivo corretto di Forti, non solo nel carcere Montorio di Verona dove si trova da quasi 16 mesi, ma anche in Florida, dove si era distinto per il suo comportamento e premiato per i corsi di alfabetizzazioni tenuti per gli ergastolani. Uno sconto di pena possibile grazie alla documentazione americana recuperata dai legali del trentino e messa a disposizione del Tribunale di sorveglianza, che dimostrerebbe come Forti abbia scontato quasi 5 anni di carcere in più rispetto alla pena prevista in Italia per lo stesso reato. Avrebbe insomma già guadagnato la libertà. Pronto il ricorso - «Amareggiati» i legali, che annunciano il ricorso e sottolineano: «Leggeremo con attenzione le motivazioni dell’ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Venezia: l’istanza è stata presentata in quanto supportata da evidenze documentali tali da ritenere a nostro avviso sussistenti i presupposti per la concessione della libertà condizionale, funzionale a un reinserimento nella società di Enrico Forti, che ha sempre dimostrato un corretto comportamento carcerario». «Motivazioni assurde e inesistenti» - Delusione e tristezza in casa Forti. «Purtroppo la richiesta di libertà condizionale di Chico è stata rigettata con una serie di motivazioni assurde e inesistenti - dichiara lo zio Gianni Forti - dobbiamo ricorrere in Cassazione e ci vorrà ancora molto tempo». E aggiunge, scosso: «Non sappiamo più che cosa fare, i tempi massimi sono stati superati da anni, qualcuno lo odia al punto di volerlo vedere morire in carcere». Certo, «dopo 27 tanti anni ci speravamo», confida amareggiato, riferendosi a tutta la vicenda giudiziaria, dal primo arresto del 20 febbraio 1998, per essere poi liberato su cauzione, fino all’arresto definitivo l’11 ottobre 1999. E c’è la preoccupazione per la mamma di Chico, Maria Loner di 97 anni, che ha potuto rivedere il figlio il 22 maggio 2024 dopo 16 anni dall’ultimo incontro nel 2008. Sconcerto tra gli amici dell’ex filmmaker: «Tutti pensavamo a un esito positivo, mi spiace per lui, ci teneva molto» commenta l’amico Lorenzo Moggio a nome del comitato Una chance per Chico. Dopo quasi 9.500 giorni di prigionia, 24 anni scontati nel Florida city di Miami e gli altri a Verona, da quando è rientrato in Italia grazie a un accordo diplomatico tra l’ex presidente Usa Joe Biden e la premier Giorgia Meloni che gli ha consentito grazie ai benefici della Convenzione di Strasburgo di scontare la pena in Patria, Chico Forti deve ancora attendere. E sperare in una rapida soluzione. Niente permesso "per ragioni familiari" ai detenuti impegnati a teatro di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2025 A chi non può godere di permessi premio non può essere esteso quello di «necessità», limitato a esigenze familiari, per spettacoli fuori dal carcere. Il magistrato di sorveglianza non può concedere il cosiddetto permesso di necessità ai detenuti che fanno parte di una compagnia teatrale, per partecipare a uno spettacolo nell’ambito di un progetto di risocializzazione. La Cassazione, con una serie di sentenze, ha accolto i ricorsi della procura, contro il via libera, dato dal magistrato di sorveglianza e avallato dal Tribunale, ad alcuni detenuti chiamati a esibirsi in un teatro all’esterno dell’istituto di pena. Un ok che era arrivato malgrado il parere negativo della Direzione distrettuale antimafia, che aveva fatto pesare il mancato ravvedimento di alcuni, con pene già scontate, per reati ostativi. La possibilità di estendere il permesso - Per i giudici che avevano detto sì alla recita fuori dalle mura, non c’erano, infatti, rischi per la sicurezza grazie alla presenza della scorta della polizia penitenziaria. Sia il magistrato di sorveglianza sia il Tribunale avevano affermato la possibilità di estendere il permesso, previsto dall’articolo 30 dell’ordinamento penitenziario, concesso per esigenze familiari, anche a quelle specifiche trattamentali. Una decisione, ad avviso dei giudici, in linea con la finalità di umanizzazione della pena. Perché l’attività teatrale, seguita con passione nel carcere, è tale da incidere in maniera rilevante nella rieducazione e risocializzazione. Ma per la Suprema corte è solo una forzatura. Concedere alle persone, che non sono nella condizione di fruire dei permessi-premio, la possibilità di avvalersi di quelli limitati a motivi familiari, vuol dire disapplicare una norma, disegnata per tutelare le esigenze del nucleo affettivo. La conclusione, rigorosa, è che non può essere applicata al di fuori dei casi specificamente descritti dal legislatore. «La concessione del permesso motivata solo affermando che la partecipazione ad uno spettacolo teatrale da svolgersi fuori dal carcere - si legge nella sentenza - è rilevante per il graduale reinserimento del detenuto nella società stravolge la funzione del permesso di necessità, che non è finalizzato al recupero sociale e alla rieducazione del detenuto, funzione svolta invece dal permesso-premio di cui all’articolo 30-ter dell’Ordinamento penitenziario». Sardegna. Regione in ansia per l'arrivo di 90 capimafia al carcere duro entro il 2026 di Marco Birolini Avvenire, 24 settembre 2025 La sezione speciale di Uta è pronta, ma si sta pensando anche a Nuoro. E il rischio infiltrazioni sale alle stelle. Il conto alla rovescia è già iniziato. “L’apertura della sezione 41 bis (il regime di carcere duro, ndr) a Cagliari farà della Sardegna la regione che ospita in assoluto il maggior numero di detenuti al 41 bis, pari a 180: nessuno dei quali sardo”. Firmato Maria Cristina Ornano, presidente del Tribunale di sorveglianza di Cagliari, che il 31 luglio scorso ha suonato l’allarme davanti ai preoccupati consiglieri regionali. Oltre ai 92 boss già presenti nelle carceri dell’Isola, ne arriveranno altri 90 nel nuovo braccio in fase di completamento a Uta, vicino al capoluogo. Il 16 settembre la governatrice Alessandra Todde è volata a Roma per chiedere al ministro della Giustizia Carlo Nordio di ripensarci. Nordio ha preso tempo, assicurando che nessuna decisione definitiva è stata presa. Ma secondo quanto risulta ad Avvenire lo sbarco dei capimafia è inevitabile. I lavori a Uta sono in corso da anni, la scelta risale a diversi governi fa. Nordio l’ha semplicemente ereditata e fermare l’ingranaggio è complicato, anche solo per il denaro pubblico speso. Siamo ormai alla scelta degli arredi, la sezione verrà aperta a breve. Probabilmente non a novembre, come si era paventato, ma quasi certamente nella prima metà del 2026. Il dado è tratto, e quel che è peggio è che potrebbe non essere finita qui. Perché alcuni sopralluoghi sono stati effettuati anche a Nuoro, dove al momento c’è solo una manciata di 41 bis: ne potrebbero arrivare altri. Spedire i boss in Sardegna ha però pesanti effetti collaterali, in primis le infiltrazioni criminali. Luigi Patronaggio, procuratore di Cagliari, siciliano doc con robusta esperienza antimafia, non ha usato mezzi termini: «I familiari e gli accoliti dei detenuti di lungo corso, per stare vicino ai reclusi, si insediano nel territorio comprando immobili ed investendo in attività imprenditoriali nei settori del turismo e della ristorazione». Un paradosso: si allontanano i boss dai loro territori per isolarli, ma poi la “famiglia” li segue. La “malapianta” così non si estirpa, finisce solo per mettere radici altrove. In luoghi come la Sardegna, esposti al “contagio” perché ancora sprovvisti dei necessari anticorpi sociali ed economici. Una scelta bollata che qualche addetto ai lavori sentito da Avvenire non esita a definire “scellerata”. Anche perché l’invasione non è certo iniziata ieri. «Io denuncio il fenomeno da almeno 15 anni» sottolinea Mauro Pili, ex governatore sardo, che in estate con alcuni post ha acceso i riflettori su un pestaggio in puro stile camorristico ai danni di un povero cameriere di un hotel di Alghero. Nel Nord Sardegna le mafie - camorra soprattutto, ma anche Cosa nostra - sono presenti da un pezzo. «Oltre ai 41 bis reclusi a Bancali, vicino a Sassari, ci sono anche 400 mafiosi sottoposti al regime di alta sicurezza 1, ovvero gli ex 41 bis, “declassati” ma ancora pericolosi, dislocati tra le carceri di Tempio Pausania e Oristano - evidenza Pili. Il loro entourage ha iniziato a rastrellare attività commerciali: ti mettono in condizioni di vendere, diciamo così. Se non lo fai ti esponi a conseguenze. I numerosi incendi sono la spia di quanto accade, eppure nessuno unisce i puntini per avere un quadro della situazione. L’approccio è sempre quello di non parlarne». Parole impietose, confermate però dalle fonti qualificate interrogate da Avvenire. Nel Nord Sardegna ci sono «evidenze precise di queste presenze, coincidenti con l’arrivo dei primi 41 bis». Gente che fa visita al parente recluso, «poi dorme nel B&b e magari se lo compra pure». Esponenti di gruppi criminali «con liquidità spaventose», che vedono nella Sardegna una sistemazione redditizia e perché no, anche confortevole. Una situazione che ora rischia di allargarsi anche al Sud dell’Isola. Il 41 bis prevede che i boss vengano inviati in “aree insulari”, ma lo spirito della norma è stato tradito. Il legislatore si riferiva infatti a isole piccole, come l’Asinara, dove poter sorvegliare meglio i capimafia. Oggi queste carceri non ci sono più, così li si manda in Sardegna. Con gravi implicazioni sanitarie, visto che si tratta di detenuti anziani che necessitano di cure prolungate. Ogni ospedale dovrebbe avere un reparto dedicato, ma purtroppo così non è: ci si sta attrezzando per rimediare, ma ci vorrà tempo (e denaro). Secondo la relazione del Tribunale di sorveglianza, "la spesa per la sanità penitenziaria di un detenuto in Sardegna è sostenuta da 680 residenti, in Friuli da 3.325, il che significa che la spesa sanitaria per un detenuto costa a un sardo 5 volte di più che a un friulano”. Ma c'è anche un (grave) problema di sicurezza. I 41 bis arrivano in aereo, la polizia penitenziaria va a prelevarli in pista, in mezzo ai normali passeggeri. Poi li deve scortare a destinazione lungo percorsi obbligati. Tra Alghero e Bancali c’è una sola arteria adatta ai convogli, cambiare percorso significa perdersi tra tortuose stradine di campagna. Il pericolo di un agguato insomma è alto. La Sardegna è in ansia e non lo nasconde. «Stiamo preparando un ordine del giorno per esprimere i nostri timori - spiega Carla Fundoni (Pd), presidente della commissione regionale Sanità - Sappiamo che questi detenuti arriveranno, ma non sono chiari né i tempi né le modalità. I costi non saranno solo pubblici, ma anche sociali: c’è il forte rischio di infiltrazioni, peraltro già presenti». Un esempio viene dal traffico di droga, un business che sembra stia esplodendo proprio grazie all’alleanza tra criminalità locale e mafia “immigrata” da Campania, Sicilia e Calabria. «In carcere si creano i rapporti che poi si riflettono all’esterno, il narcotraffico è un esempio di queste dinamiche» aggiunge Pili. È il fallimento di un modello ormai superato. «C’è ancora l’idea di chiudere le criticità dentro contenitori stagni - chiosa una fonte riservata -. Che però non si rivelano mai tali». Salerno. Carenza di psicologi al carcere, mancano anche le docce per i detenuti di Viviana De Vita Il Mattino, 24 settembre 2025 L’ispezione del garante Ciambriello riaccende i fari sulla situazione alla Casa circondariale. Trecento cinquantadue detenuti costretti a vivere senza docce in cella. Per lavarsi devono attendere il proprio turno e raggiungere quelle comuni, spesso poche per tutti, in spazi angusti e affollati. È questa la fotografia restituita ieri dal garante dei detenuti della Regione Campania, Samuele Ciambriello, durante la visita al penitenziario di Fuorni. Un dato che pesa come un macigno e che diventa ancora più grave all’indomani del decesso di Domenico Petrozzi, 57 anni, originario di Nocera Inferiore, stroncato da un infarto nella sezione destinata ai tossicodipendenti. «Privare degli esseri umani di un diritto fondamentale come quello di lavarsi - ha dichiarato Ciambriello - significa negare loro la dignità». Il quadro che emerge dalla visita non si ferma alla sola carenza igienica. Le criticità sono strutturali e diffuse: «Mancano psicologi - ha denunciato Ciambriello - mancano figure di ascolto e strumenti per prevenire fragilità e devianze. Nella provincia di Salerno, la sanità penitenziaria dovrebbe contare almeno quindici professionisti, ma in servizio ce ne sono appena quattro. Troppo pochi per seguire i detenuti di Fuorni, Eboli, Vallo della Lucania, i minori e le comunità». E poi c’è il sovraffollamento: «570 detenuti stipati in uno spazio che ne potrebbe ospitare 432». Un dato che tradotto nella vita quotidiana significa convivenza forzata tra persone appartenenti a circuiti diversi, assenza di percorsi rieducativi, spazi ridotti al minimo, tensioni che montano e che spesso sfociano in episodi critici. In questo contesto, parlare di rieducazione appare quasi una sfida. Eppure, qualche segnale positivo resiste. «Nel reparto femminile - ha spiegato il Garante - è stato attivato un corso per parrucchiere, mentre per i tossicodipendenti - oggi circa cinquanta - sono stati avviati percorsi alternativi: da gennaio a oggi, 19 sono stati trasferiti nel carcere a custodia attenuata di Eboli e 13 hanno avuto accesso a comunità di recupero. Un sistema di aiuto c’è - ha proseguito Ciambriello - e va rafforzato». C’è anche un dato incoraggiante sul fronte sanitario: «la collaborazione tra il nucleo di scorta e le strutture mediche ha consentito, solo ieri, l’effettuazione di cinque ricoveri programmati. Un piccolo segnale che, in un contesto dominato dalle emergenze, lascia intravedere spiragli di funzionamento». Ma resta la fotografia scattata dal garante: celle sovraffollate, diritti negati, mancanza di ascolto. È l’altra faccia di Fuorni, quella che non finisce nei numeri ufficiali ma che emerge tra le mura di un carcere che non riesce a essere né luogo di pena né spazio di rinascita. La visita del Garante è stata anche l’occasione per riportare sotto i riflettori le gravi emergenze che continuano ad affliggere il penitenziario di via del Tonnazzo. Al sovraffollamento cronico si somma la carenza di agenti di polizia penitenziaria, costretti a turni massacranti, con arretrati di ferie e straordinari non retribuiti. Una situazione che si innesta in uno scenario già compromesso da gravi problemi di sicurezza, legati soprattutto all’ingresso clandestino di telefoni cellulari: strumenti che, nonostante i sequestri costanti, restano nelle mani della criminalità organizzata per gestire dall’interno traffici illeciti. Gli episodi drammatici, del resto, non mancano. Il decesso di venerdì - nello stesso giorno in cui si è registrato un tentativo di suicidio - è solo l’ultimo di una lunga serie. Lo scorso marzo, a perdere la vita dietro le sbarre di Fuorni è stato il 38enne di Mariconda, Renato Castagno, morto per cause tuttora al vaglio della Procura. Solo un anno fa, invece, il carcere di Salerno è stato teatro di un omicidio maturato in seguito a una violenta colluttazione tra detenuti. Roma. Il Comune va a Rebibbia: “Le carceri diventino il sedicesimo municipio” di Marina de Ghantuz Cubbe La Repubblica, 24 settembre 2025 Assemblea capitolina straordinaria con il sindaco Gualtieri. Il detenuto Alemanno: “Anche noi siamo cittadini romani”. “Abbiamo bisogno della tessera sanitaria, ci serve per acquistare prodotti per celiaci. Io lo sono e in carcere posso mangiare solo riso in bianco o cibi sbagliati che ci fanno ammalare”. Giuseppe parla sul piccolo palco del teatro di Rebibbia durante l’Assemblea capitolina straordinaria che ieri si è svolta nel penitenziario e chiede che il diritto alla salute valga per tutti perché invece chi è in carcere salta circa il 50% delle visite mediche per l’assenza di personale penitenziario che può accompagnare i detenuti. Sono tante, tutte concrete ed urgenti le richieste che la popolazione carceraria ha avanzato ieri in una sala dove il caldo e l’assenza di condizionatori lasciava solo immaginare cosa può accadere in un carcere sovraffollato. Ad ascoltare c’erano il sindaco Roberto Gualtieri, la presidente dell’Assemblea Svetlana Celli, la Garante dei detenuti Valentina Calderone, tutti i consiglieri, gli assessori Massimiliano Smeriglio e Claudia Pratelli. Dopo vent’anni, l’Assemblea capitolina è tornata in carcere e ieri ha approvato sei ordini del giorno frutto di un percorso di ascolto delle persone in carcere fortemente voluto dalla consigliera dem Cristina Michetelli, avvocata penalista che ha dedicato la vita al tema della detenzione. Ieri, parlando ai carcerati non ha trattenuto le lacrime per l’emozione di essere lì per loro. Nei mesi scorsi hanno incontrato i detenuti anche i consiglieri Sandro Petrolati (Demos), Flavia De Gregorio (Azione), l’ex sindaca Virginia Raggi del M5s, Elisabetta Lancillotti (civica Gualtieri), Nella Converti (Pd), Valerio Casini (Italia Viva), Marco Di Stefano (Noi Moderati), Francesco Carpano di Forza Italia, Giovanni Quarzo (FdI) e Nando Bonessio (Avs). Da qui nascono i sei ordini del giorno (approvati all’unanimità) sul potenziamento dei trasporti per far arrivare più facilmente i cari dei detenuti ai colloqui, la salute, il lavoro e la formazione, lo sport, gli orti urbani. Un altro istituisce simbolicamente il XVI municipio della città, costituito proprio dagli istituti penitenziari, sei in tutto. In questo modo, quando l’Assemblea capitolina e la giunta emaneranno delibere e altri atti con all’interno progetti, bandi, protocolli, questi riguarderanno anche le carceri romane. Per le quali, giovedì in giunta, verrà votata una Memoria che prevede di inserire fondi specifici. Tra i detenuti che ieri sono intervenuti e che hanno lavorato all’elaborazione degli ordini del giorno in questo periodo, c’è anche l’ex sindaco Gianni Alemanno che sta scontando la sua pena nel braccio G8 di Rebibbia e che regolarmente denuncia le condizioni in cui vivono i detenuti. Prima ancora che inizi l’Assemblea, i giornalisti presenti si avvicinano ad Alemanno, ma l’ex sindaco non può farsi intervistare, spiegano gli agenti presenti, così come nessun altro detenuto. Sono le regole. Poi, come da programma, sale sul palco: camicia blu, capelli bianchi e ordinati. Quella di ieri non era una giornata qualunque. "Gli orti urbani in carcere sembrano un tema di nicchia, ma non è così, lo dico anche da ex ministro dell’Agricoltura, è un’esperienza che permette di riconnettere le persone al cibo e a loro stesse”. Parla di “rieducazione in carcere per abbattere il problema della recidiva e garantire la sicurezza”, ringrazia il Comune “perché ci avete fatto sentire riammessi nella comunità cittadina e sento di poter dire etiam nos cives romani sumus, anche noi siamo cittadini romani”. Un altro detenuto noto presente in sala è Giuliano Castellino già leader di Forza Nuova che non interviene. A parlare, invece, ci sono Tiziana e Crizia che chiedono rispettivamente “la pet terapy per aiutare chi ha disturbi psichiatrici e dipendenze” e “l’apertura delle carceri nei giorni della festa della mamma e della nonna, perché i bambini quando vengono qui sono spaesati e invece bisognerebbe che venissero accolti, perché il peso dei nostri errori non gravi su chi amiamo di più al mondo”. Anche Manuel parla di salute, fisica e mentale e per questo chiede "impianti sportivi e campi: ogni palla calciata è un atto di resistenza, lo sport è uno spazio di regole non imposte ma apprese che insegna a gestire le proprie emozioni”. Anche per le donne è così: “Lo sport ci aiuta a recuperare fiducia in noi stesse”, aggiunge Elena e per sconfiggere il sovraffollamento viene proposto anche il co-housing. "Il governo deve fare tanto, perché l’emergenza è insostenibile - ha commentato Gualtieri alla fine dell’Assemblea capitolina - Per migliorare le condizioni delle carceri servono interventi urgenti, non nuovi reati”. Roma. “La soluzione sono le misure alternative e la riduzione degli ingressi” di Luca Monaco La Repubblica, 24 settembre 2025 La Garante dei detenuti di Roma, Valentina Calderone, torna a denunciare le criticità delle condizioni di vita degli istituti di pena. Incluso Casal del Marmo. “Un anno fa è stata votata all’unanimità in Aula Giulio Cesare una mozione per la chiusura del carcere di Regina Coeli: io sono contraria alla chiusura a fronte della costruzione di un nuovo carcere. Abbiamo bisogno di contenere i numeri dei detenuti innescando un buon sistema di misure alternative, evitando gli ingressi indiscriminati”. La garante dei detenuti di Roma Valentina Calderone ieri ha partecipato alla seduta straordinaria del Consiglio comunale che si è svolta nel carcere di Rebibbia. Torna a denunciare la criticità delle condizioni di vita negli istituti romani, da Rebibbia a Regina Coeli, passando per il minorile di Casal Del Marmo. Nelle sezioni di Regina Coeli la situazione è tragica e non accenna a migliorare... "Molti si continuano a interrogare sull’adeguatezza della struttura, soprattutto perché dovrebbe essere destinata agli arrestati e alle persone con pene brevi, ma quando c’è un sovraffollamento come in questi anni il circuito penale salta”. L’approvazione della mozione in Aula Giulio Cesare porterà secondo lei a qualcosa di concreto? “Chiudere Regina Coeli non è semplice. Punterei sul fatto che possa diventare un istituto con molti meno posti e dedicati alle persone che lavorano all’esterno in articolo 21: potrebbero trovare un collocamento nelle attività di ristorazione o turistiche della zona”. Una delle ipotesi era quella di convertire il carcere in un museo... “Le sezioni dove erano detenuti Pertini e Saragat, vincolate dalla Soprintendenza, potrebbero diventare un polo museale sulla storia del carcere e della pena in Italia. Con delle visite guidate gestite dalle stesse persone detenute formate e assunte per questo Ci vuole coraggio e impegno ma il processo non è più rinviabile”. Ieri però c’erano 1129 detenuti a fronte di 572 posti disponibili... “Ci sono le persone che c’erano un anno e mezzo fa, ma con una sezione in meno. Ciò vuol dire che il sovraffollamento è arrivato al 200 per cento”. Uno scenario del genere non fa che aumentare il rischio suicidi... “La sofferenza e la condizioni di chiusura di molte persone che si trovano a vivere per 22 ore nelle celle è ancora più problematica. Secondo me Regina Coeli è la manifestazione su Roma del collasso totale che sta avvenendo nel sistema penitenziario”. Cosa fare? «Si parla tanto di emergenza carceri. A Roma il sovraffollamento riguarda anche l’istituto minorile di Casal Del Marmo. Io ritengo per uscire dall’emergenza servano dei provvedimenti urgenti e deflattivi». A Rebibbia quali sono le criticità più preoccupanti? “A Rebibbia femminile oggi (ieri, ndr) c’erano sette bambini con le loro madri detenute in cella. Rispetto alle donne detenute il decreto sicurezza ha abrogato il differimento obbligatorio della pena per le donne incinte e per le madri con i figli sotto un anno”. C’è anche il decreto Caivano... “L’arresto in flagranza per spaccio di lieve entità sta portando i minorenni a essere arrestati perché trovati con due grammi di droga e 20 euro in tasca, tutto questo provoca a cascata l’affollamento nei tribunali e la detenzione per reati non gravi”. Sta dicendo che in carcere si va di più e per reati meno gravi? "La stretta securitaria e repressiva provoca più carcere nei confronti delle categorie più deboli e vulnerabili”. Viterbo. Andrea Di Nino, morto in carcere: protesta della famiglia davanti al tribunale di Beatrice Masci Corriere di Viterbo, 24 settembre 2025 La famiglia di Andrea Di Nino, il detenuto romano di 36 anni trovato impiccato il 21 maggio 2018 nella sua cella di isolamento a Mammagialla, protesta contro la richiesta di archiviazione del fascicolo per omicidio volontario a carico di ignoti presentata dalla procura. Per martedì 30 settembre hanno organizzato una manifestazione di fronte al Palazzo di giustizia, che andrà avanti dalle 9 alle 13. “Al presidio - riportano i parenti di Andrea Di Nino in un comunicato - parteciperanno anche i familiari di altri detenuti che hanno subìto vessazioni e pestaggi nel carcere di Viterbo”. Intanto entro la fine della settimana l’avvocato Nicola Trisciuoglio, legale della famiglia, presenterà opposizione alla richiesta di archiviazione del fascicolo per omicidio volontario che era stato aperto dopo la denuncia presentata il 22 ottobre 2024 dai familiari del 36enne romano, con allegata la deposizione di un supertestimone, Roberto Toselli, all’epoca dei fatti vicino di cella di Di Nino, che avrebbe visto il detenuto trascinato in cella e poi picchiato da un gruppo di agenti, la cosiddetta “squadretta della morte”. Milano. Presidio fuori dal Beccaria: "Ora liberate i compagni" di Marianna Vazzana Il Giorno, 24 settembre 2025 Nel carcere minorile sono rinchiusi due studenti 17enne del Liceo Carducci, devono rispondere di danneggiamento e resistenza. Bandiere della Palestina sventolate oltre le sbarre. Un drappo incendiato. Urla mescolate ai cori dei manifestanti in strada. Così i detenuti del carcere minorile Beccaria dalle finestre hanno mostrato solidarietà ai partecipanti al presidio non preannunciato andato in scena ieri sera davanti al penitenziario di via Calchi Taeggi "per chiedere la liberazione di compagni e compagne" arrestati lunedì per gli scontri al termine del corteo Pro Pal con assalto alla stazione Centrale. Ad animarlo, 400 giovani tra cui esponenti dei centri sociali Lambretta e Cantiere e di collettivi studenteschi e universitari. "Liberi tutti, Palestina libera", la scritta sullo striscione di punta. I due minori arrestati hanno entrambi 17 anni: sono una ragazza e un ragazzo, studenti del liceo Carducci. Dovranno rispondere di danneggiamento e resistenza aggravata. Mentre i tre arrestati maggiorenni sono due ragazze di 21 anni, studentesse universitarie che frequentano il Lambretta, e un uomo di 36 anni. Tutti italiani. Così come i due denunciati, di 24 e 15 anni. Accompagnato in Questura per l’identificazione anche un ventottenne, non denunciato. Alle due studentesse ventunenni, che hanno precedenti per violenza privata, danneggiamento e imbrattamenti, è stata contestata dal pm Elio Ramondini la resistenza aggravata, in concorso anche coi due diciassettenni finiti al Beccaria. Le due giovani, scrive il pm, per "opporsi allo sbarramento effettuato per motivi di pubblica sicurezza dalle Forze dell’ordine nei pressi dell’atrio della stazione Milano Centrale" e "sfondare il cordone di contenimento, trovandosi nelle prime file dei manifestanti, usavano violenza nei confronti di personale di polizia". Avrebbero, per l’accusa, sferrato "calci e pugni" e una volta bloccate, si legge ancora, avrebbero continuato a scalciare per "divincolarsi". Ieri la giudice delle direttissime ha convalidato l’arresto disponendo come misura cautelare l’obbligo di firma. Il trentaseienne dovrà essere interrogato dal gip per la convalida dell’arresto e la decisione sulla misura cautelare. L’uomo, residente nel Milanese, che ha precedenti per stupefacenti, oltre che di resistenza a pubblico ufficiale aggravata, è accusato anche di lesioni con la nuova aggravante introdotta dal decreto sicurezza per aver causato a un agente ferite "guaribili in cinque giorni", mentre "scalciava e si divincolava con violenza" provocandone "anche la caduta", durante la "colluttazione". Nella richiesta al gip, il pm evidenzia la "marcata pericolosità sociale" dell’arrestato e la sua "spregiudicatezza". Aggiungendo che "ha uno "spiccato profilo criminale, tanto più pericoloso", perché "non ha esitato a sfondare il cordone di contenimento" e ha "persistito nell’azione violenta pur di perseguire il proprio fine e non abbandonare il proposito collettivo criminoso", ossia "il raggiungimento dei binari della stazione ferroviaria", non "riuscendovi per il pronto intervento delle forze dell’ordine". Su Instagram, intanto, il gruppo dei Giovani palestinesi Milano e quello nazionale scrivono in un post che "la repressione in Italia oggi non ha mancato di colpire il movimento: dopo il corteo spontaneo che ha tentato di entrare in stazione Centrale al termine del presidio conclusivo, le forze dell’ordine hanno effettuato cariche e usato lacrimogeni per in modo indiscriminato per disperdere i manifestanti, che sono comunque rimasti in piazza per ore bloccando via Vittor Pisani". Nessuna presa di distanza dall’assalto alla stazione, anzi ritenuto - da quel che trapela - doveroso per arrivare all’obiettivo. "Facciamo appello a tutta la cittadinanza a sostenere tutti i manifestanti colpiti dalla brutalità repressiva, e rifiutare ogni tentativo di delegittimazione della protesta di chi qui agisce per fermare il progetto genocida sionista. Sarà fondamentale anche lo sciopero del 3 ottobre, che precede la manifestazione nazionale a Roma". Pavia. Profilattici distribuiti ai detenuti, scoppia il caso sulla sessualità in carcere ansa.it, 24 settembre 2025 La direzione dell’istituto ha disposto l’acquisto di 720 preservativi per "motivi terapeutici". La decisione apre il dibattito sulla salute in carcere e sui rapporti tra detenuti. Il carcere di Pavia è al centro delle cronache per un provvedimento inedito: la distribuzione di profilattici ai detenuti. La direttrice Stefania Musso ha firmato un ordine di servizio che prevede l'acquisto e la consegna di 720 preservativi, motivando l'iniziativa come misura a carattere "terapeutico". La gestione della distribuzione è affidata al personale sanitario interno, guidato dal dirigente Davide Broglia, con l'obbligo per i medici di annotare ogni consegna. La decisione ha sollevato interrogativi non solo sulle finalità mediche, ma anche sul tema della sessualità dietro le sbarre e sulla prevenzione dei rischi sanitari. L'ordine di servizio e la gestione sanitaria - Secondo quanto riportato da organi di stampa, l'ordine di servizio firmato dalla direzione del carcere è stato indirizzato all'area sanitaria, al comandante della Polizia penitenziaria e all'ufficio ragioneria. Il documento specifica che i 720 profilattici acquistati sono stati consegnati al dirigente sanitario, che dovrà definire le modalità operative con le dottoresse Paola Tana e Gabriella Davide. Saranno loro a occuparsi della distribuzione ai detenuti, con l'obbligo di registrare ogni consegna. La direzione ha inoltre precisato che il fabbisogno potrebbe richiedere ulteriori forniture, da gestire sempre tramite l'area sanitaria. Cosa significa "motivi terapeutici" - L'espressione utilizzata nella circolare - "motivi terapeutici" - non è stata accompagnata da ulteriori spiegazioni ufficiali. Nel contesto della sanità penitenziaria, tuttavia, l'uso dei preservativi può essere legato alla prevenzione di malattie sessualmente trasmissibili come HIV, epatiti o sifilide, più diffuse nella popolazione detenuta rispetto alla media. In ambito medico, il profilattico può dunque essere considerato un presidio sanitario, al pari di altri strumenti preventivi, soprattutto quando prescritto dal personale sanitario per tutelare la salute individuale e collettiva. La formulazione resta comunque generica e lascia spazio a interpretazioni, alimentando il dibattito pubblico. Sessualità e rischi sanitari dietro le sbarre - Il provvedimento riporta al centro una questione da tempo sottolineata da associazioni e osservatori: la sessualità nelle carceri italiane, spesso ignorata nelle normative ufficiali. La possibilità di rapporti tra detenuti non è formalmente regolata, ma la realtà quotidiana impone al sistema penitenziario di confrontarsi con i rischi legati alle malattie sessualmente trasmissibili. Diversi studi segnalano che la prevalenza di infezioni come HIV e sifilide risulta più alta tra le persone detenute. In questo scenario, la distribuzione di preservativi potrebbe rappresentare una misura di prevenzione, seppur limitata e non accompagnata da un quadro normativo chiaro. Le condizioni del carcere di Pavia - La vicenda si inserisce in un contesto già complesso per l'istituto penitenziario pavese. Secondo la Camera penale locale, il carcere è interessato da sovraffollamento, celle sovraccariche e carenza di spazi trattamentali. L'associazione Antigone, in una recente ispezione, ha denunciato la presenza di cimici da letto, docce non funzionanti e scarsità di acqua calda, descrivendo una situazione igienica "oltre ogni limite". Le criticità strutturali e organizzative sollevano quindi interrogativi sulla coerenza tra misure come la distribuzione dei preservativi e la difficoltà di garantire condizioni sanitarie di base. Il provvedimento della direttrice Musso ha diviso opinione pubblica e operatori. Da un lato, viene letto come un atto di responsabilità sanitaria, utile a ridurre il rischio di malattie trasmissibili tra i detenuti. Dall'altro, suscita dubbi sulla reale applicazione pratica e sul messaggio che può trasmettere in un ambiente già segnato da carenze strutturali. Per il sindacato UILPA Polizia Penitenziaria, si tratta di un passo che apre il tema dell'affettività "fai da te" dietro le sbarre, mentre altri osservatori sottolineano la necessità di inserire la questione in un quadro più ampio di riforme sul diritto all'affettività in carcere. Vicenza. Masolo (Verdi): «Servono alloggi fuori dal carcere per le pene alternative» Corriere del Veneto, 24 settembre 2025 «Quanto avvenuto presso la casa circondariale di Vicenza negli ultimi giorni è l’ennesima conferma di una situazione esplosiva. Il governo volta le spalle non solo ai detenuti, ma anche al personale penitenziario che non viene esposto nelle condizioni di poter svolgere il proprio lavoro». Un atto di accusa quello del consigliere regionale dei Verdi Renzo Masolo, che ha voluto intervenire su quanto successo al carcere di San Pio X negli scorsi giorni. Domenica pomeriggio, un detenuto di difficile adattamento è salito sui tetti del carcere per motivi personali, ponendo in essere una protesta pacifica, che si è però protratta per svariate ore. Nel primo pomeriggio di lunedì, invece, i detenuti del nuovo padiglione hanno perpetrato una protesta di barricamento, mentre qualche ora più tardi un altro detenuto, anch’egli di difficile adattamento e ristretto nella terza sezione del vecchio padiglione, avrebbe causato un ulteriore evento critico. Per garantire l’ordine e la sicurezza, il personale del carcere Del Papa di San Pio X ha svolto turni di 12 ore continuative. «Il carcere di Vicenza è sovraffollato a tal punto da non consentire una gestione efficiente e civile - le parole di Masolo -. Ma la situazione non è destinata a migliorare fino a quando il governo non destinerà risorse sufficienti agli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe), in quanto il carcere dovrebbe costituire l’estrema ratio e non un contenitore generico per qualsiasi tipo di pena. I percorsi alternativi al carcere sono utili a tutta la comunità; invece, non si tiene conto dell’importanza di un reinserimento appropriato dei detenuti». Nel suo intervento, il consigliere non ha chiamato in causa solo il governo nazionale. «Anche la Regione può fare la sua parte - prosegue Masolo - mettendo a disposizione alloggi, anche a uso foresteria, per coloro che potranno accedere ai percorsi di pena alternativi. Il mio impegno a sostegno dei detenuti e di tutto il personale che presta servizio all’interno delle carceri rimarrà costante». Nel 2024, nel carcere di Vicenza si sono registrate 362 situazioni critiche commesse da 222 detenuti, tra cui 200 atti di autolesionismo, 16 tentati suicidi e un suicidio. A fronte di una capienza di 276 posti ci sono di 324 detenuti, di cui 177 condannati in via definitiva. Gli italiani sono sempre più insofferenti verso la comunicazione politica di Diego Motta Avvenire, 24 settembre 2025 Il 73,6% non sopporta inciviltà e toni da bar usati dai leader. I rischi di strumentalizzazione delle piazze, da Gaza alle campagne elettorali, e la spinta a cambiare registro da giovani e donne. Nell’era delle tribù social, la politica urlata rischia di diventare cattiva maestra veicolando discorsi d’odio e di inciviltà. La novità che emerge da una ricerca presentata ieri all’Università Cattolica di Milano è che cresce l’insofferenza dei cittadini per i leader che insultano, gridano e offendono, quasi si fosse a un punto di rottura. È una presa di distanza che anche il sistema dell’informazione farebbe bene a tenere in considerazione, perché ciò che domanda l’opinione pubblica in tempi come questi sembra essere il dare conto della complessità del discorso pubblico, senza farsi trascinare da logiche di parte, studiate a tavolino dagli stessi esponenti di partito. Politica e giornalismo possono infatti fornire gli strumenti giusti per capire le cose o rappresentare al contrario una miscela impazzita, secondo gli esperti, destinata ad allontanare ancora di più la comprensione dei fenomeni sociali da parte dei cittadini. «È accaduto lunedì anche con la mobilitazione per Gaza e l’ultimo sciopero generale, a cui hanno partecipato decine di migliaia di persone, soprattutto giovani - sottolinea Giovanna Mascheroni, ordinaria di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università Cattolica, una delle curatrici della ricerca -. Mi domando perché, ad esempio, diversi tg e giornali hanno preferito parlare solo di scontri e guerriglia, quando in piazza era sceso invece un popolo in gran parte pacifico che chiedeva semplicemente pace e riconoscimento della Palestina». Lo studio fotografa la pervasività di un linguaggio politico alla ricerca permanente degli effetti speciali, dell’audience a tutti i costi, della battuta spesso greve e squalificante e insieme analizza gli effetti sulla platea degli ascoltatori. Siamo soffocati dal turpiloquio dei politici o aspettiamo con ansia il prossimo show, magari a uso e consumo di fedelissimi follower? Osserviamo il clima da saloon che talvolta invade il Palazzo con spirito critico o ne assorbiamo la parte morbosa, facendoci lentamente contagiare dal virus del sarcasmo, dell’invettiva contro l’avversario, addirittura dell’odio? A questi interrogativi hanno provato a rispondere alcuni ricercatori della Cattolica, della Sapienza di Roma e dell’Università degli studi di Urbino, attraverso un questionario rivolto a un campione rappresentativo di 1.500 cittadini italiani e 53 interviste individuali a politici e giornalisti. Il risultato emerso alla fine non è affatto scontato. Si sostiene infatti che più di tre italiani su quattro (il 76,6%) percepiscono un netto peggioramento dello stato delle cose per quanto riguarda l’inciviltà della politica, mentre il 73,6% è fortemente infastidito dal contesto da bar in cui si muove la comunicazione. È un fastidio che si registra a più livelli: per i disvalori che si trasmettono (con l’ostentata mancanza di rispetto per i principi democratici e il frequente uso della propaganda e della menzogna) per l’assenza del rispetto dell’altro (ridicolizzato e insultato) per lo scarso contegno istituzionale. Sono donne e over 65 a lamentare in particolare tutto questo, ma è merito soprattutto delle nuove generazioni aver scoperto la trama che unisce lo scadimento del dibattito pubblico alla ricerca del consenso facile. «In America la chiamano fan politics, la politica da tifoseria, per cui si finisce per essere sostenitori a prescindere di un leader, qualunque cosa egli dica, piuttosto che interrogarsi sui valori che veicola» spiega Mascheroni. Arriva prima il legame di fiducia, frutto della personalizzazione mediatica, piuttosto che il confronto sui temi. Anzi, l’obiettivo di chi vuole mandare un messaggio politico è proprio quello di semplificare al massimo, con argomenti facili da comprendere. Così si creano le tifoserie, che sono minoranze forti e molto organizzate, dove prevale la lettura estrema rispetto alla mediazione, le bufale e le fake news piuttosto della verifica delle fonti. Attenzione: tutto questo, di fatto, è già diventato egemonia culturale, nel decennio populista, dove resiste una forte avversità per discorsi alternativi. Non a caso, chi punta a polarizzare l’elettorato nel dibattito pubblico cattura un sacco di voti. Divido e guadagno consenso, motivando chi mi supporta ed evitando di andare a convincere chi non la pensa come me: è questo ormai lo schema-base dell’aspirante leader politico. «Tutti sono intrappolati in questa logica, perché vince chi grida di più. E non da oggi». A essere particolarmente attratto da questo linguaggio è la componente degli uomini in giovane età, con forti sentimenti antipolitici, spiega la ricerca. Tutta colpa dei social, con il loro effetto moltiplicatore? Non più così tanto. A sorpresa, l’assuefazione all’uso dei social media e l’esposizione ad ambienti comunicativi digitali conta meno della scarsa fiducia nelle istituzioni e dell’ostentata voglia di antipolitica. Per il 16,7% degli italiani, infatti, l’inciviltà politica va giustificata quando è «comunicativamente efficace». Sulla capacità di determinati leader, in particolare a destra, di arrivare con grande successo alla “pancia” dell’elettorato, nessun esperto nutre dei dubbi: funziona sia la spettacolarizzazione del discorso, sia l’ipersemplificazione dei messaggi, sia (come detto) il ricorso a falsificazioni utili ad assecondare il comune sentire della gente. «La normalizzazione dell’inciviltà nel discorso pubblico si correla a quel processo di erosione dei valori democratici che molte democrazie liberali stanno vivendo in questi anni» riflette Sara Bentivegna, professoressa ordinaria di Comunicazione politica alla Sapienza, che ha partecipato al convegno in largo Gemelli. «Si tratta di un processo che non si traduce in un collasso improvviso della democrazia ma in un deterioramento progressivo delle norme che l’hanno tradizionalmente sostenuta». Il fantasma della violenza politica, evocato anche in Italia, resta lontano, mentre negli Stati Uniti rimane di drammatica attualità. «Lo avvertono anche i nostri studenti, italiani e stranieri - continua Mascheroni -: nelle tesi che ci propongono vogliono riflettere su questi temi e sul ruolo dei media, dal conflitto israelo-palestinese alla radicalizzazione del movimento Maga in America». Ciò che ancora non avviene, in questo cambiamento di percezione, è il passaggio dalla protesta una tantum alla partecipazione tout court. Vale ancora in questo caso il cliché “piazze piene, urne vuote”, almeno sui giovanissimi, che non a caso hanno riempito negli ultimi tempi sia le strade dei cortei che il serbatoio dell’astensione. Gino Cecchettin agli studenti: «L'amore non è tossico, può esserlo una relazione» di Chiara Galletti Corriere della Sera, 24 settembre 2025 «Vi parlerò come un genitore, come un papà che ama i suoi figli». Ha esordito così Gino Cecchettin durante il primo seminario di educazione ai sentimenti del progetto CampBus, che si è tenuto lunedì 22 settembre al Liceo Classico Mario Cutelli di Catania. Fuori dalla scuola, telecamere e microfoni delle emittenti locali, all’interno un’aula magna gremita di studenti e studentesse. Sul palco accanto a Cecchettin, la psicologa psicoterapeuta Lara Pelagotti, che ha parlato ai ragazzi di emozioni e dell’importanza di imparare a capirle e a gestirle. L’incontro è parte integrante di CampBus, il progetto itinerante del Corriere delle Sera che porta nelle scuole italiane formazione digitale, giornalismo ed educazione ai sentimenti. Ogni settimana, per quattro settimane, il workshop di educazione ai sentimenti si terrà in una scuola diversa d’Italia: dopo Catania sarà la volta di Roma, poi Milano (trasmesso in diretta su corriere.it) e infine Verona. Ha affermato Cecchettin durante l'evento: «L’amore non è mai tossico, solo una relazione può esserlo. Di fronte alle emozioni sta a noi decidere quali azioni compiere: alcune fanno bene, altre possono fare molto male». Tra i momenti più intensi, il racconto del compleanno di Giulia: «Per il suo ventiduesimo compleanno non sapevo cosa regalarle - racconta Cecchettin agli studenti -. Come tanti ragazzi della sua età aveva già tutto. Così le ho detto: ti regalo un sabato intero da passare insieme. Ho messo a disposizione anche la carta di credito, che lei ha usato in libreria. È stato il più bel sabato della mia vita. A un certo punto scopri che quei sabati lì non ci saranno più, e impari una lezione: il tempo che avete a disposizione, godetevelo». Cecchettin ha poi raccontato ai ragazzi di come la scoperta dell’amore sia nata insieme alla scoperta della malattia della moglie. «Anch’io da giovane ho frainteso cosa fosse l’amore - afferma -. Nelle pubblicità le donne venivano rappresentate come oggetti e i «veri maschi» come quelli che non mostrano emozioni. Ma un uomo può piangere, soffrire, sentirsi solo. Capisci davvero cos’è l’amore vero quando incontri qualcuno che ti conosce dal di dentro». Ed ecco l’incontro con la moglie e la scoperta della malattia, il cancro che l’ha portata via tre anni fa. «Io non sono credente, ma quando mia moglie si è ammalata mi sono messo a pregare e ho chiesto: prendi la mia vita e donala a lei, che la merita molto di più di me - continua -. Qualche giorno dopo ho capito che questo è l'amore, dare la propria vita per qualcun altro. Mi hanno detto che amare è un verbo transitivo: parte da te e va verso l’altro. È da lì che inizia tutto». Gino Cecchettin incontra gli studenti: «L'amore non è tossico, può esserlo una relazione. Di fronte alle emozioni decidiamo noi come agire». Le attività della Fondazione Giulia Cecchettin si articolano intorno a tre pilastri fondamentali. Il primo è l’attività di formazione, promossa da un Comitato scientifico e uno divulgativo, attivi in diverse regioni d’Italia per operare in modo capillare nel Paese. Ma il principale è forse il secondo pilastro, ossia il sostegno alle vittime di violenza. Infine la Fondazione collabora con altre realtà del territorio, come i centri antiviolenza, per costruire una rete efficace di intervento. «Da pochi giorni è nato anche il Comitato giovanile della Fondazione - racconta Cecchettin -. Questo perché ragazzi e ragazze spesso parlano più facilmente tra loro piuttosto che con gli adulti». La psicologa psicoterapeuta Lara Pelagotti ha spiegato ai ragazzi che ogni emozione ha la propria funzione. Non possiamo controllare pensieri molto negativi o emozioni scomode, ma possiamo scegliere come comportarci. Spiega: «Le emozioni hanno tre componenti. Una è quella fisiologica, per esempio il cuore che batte forte prima di un’interrogazione. C’è poi una componente cognitiva, legata al modo in cui l’emozione si manifesta nel pensiero: per esempio quando ci chiediamo cosa diranno a casa dopo l’interrogazione. Infine una comportamentale, ovvero il modo in cui ci poniamo di fronte alle emozioni. L’importante è comprendere che ogni emozione ha la propria funzione e capire come incanalarle». Pelagotti ha poi sottolineato come i giovani di oggi siano molto più aperti nell’espressione delle emozioni rispetto alle generazioni precedenti: «I ragazzi di vent'anni oggi si mostrano più vulnerabili di quelli di sessanta. Sanno che piangere non vuol dire essere fragili, ma esprimere ciò che si ha dentro». Migranti. «Complici della Libia», i Radicali denunciano il governo di Albertina Sanchioni Il Manifesto, 24 settembre 2025 L'azione promossa presso la Corte Penale Internazionale. «Vogliamo accertare le responsabilità politiche e giuridiche del governo italiano nell’attacco alla Ocean Viking dello scorso agosto»: Bianca Piscolla, giurista e membro della giunta nazionale dei Radicali italiani, motiva così la denuncia che il suo partito presenterà oggi alla Corte penale internazionale (Cpi). L’obiettivo è spingere il tribunale dell’Aia a indagare sulle violazioni dei diritti umani che sarebbero state commesse indirettamente dalla presidente del Consiglio Meloni e dai ministri Piantedosi, Nordio, Tajani e Salvini, avendo fornito mezzi, fondi e motovedette alla cosiddetta Guardia costiera libica. Che si macchia di gravi crimini contro migranti e rifugiati in territorio libico e in acque internazionali. Proprio una motovedetta classe Corrubia, consegnata da Roma a Tripoli nel 2023 nell’ambito del programma di «gestione integrata delle frontiere», è quella da cui sono partiti oltre cento colpi di arma da fuoco contro la nave di Sos Mediterranée, mettendo in pericolo l’equipaggio e gli 87 migranti a bordo, tra cui donne e minori. L’Ocean Viking, inoltre, batte bandiera norvegese: per questo viene recriminato un attacco di fatto contro la Norvegia stessa. La complicità italiana, secondo i Radicali, si estende anche al caso Almasri: nonostante un mandato di arresto della stessa Cpi, il cittadino libico è stato rimpatriato con un volo di Stato lo scorso 21 gennaio. «Per noi questa denuncia è fondamentale - continua Piscolla - sia dal punto di vista legale che politico: vogliamo un’assunzione di responsabilità da parte del governo italiano. E vogliamo ridare credibilità e importanza agli organi internazionali che la stanno perdendo. In primis la Corte penale internazionale». Il reato ipotizzato è quello di crimini contro l’umanità, secondo quanto previsto dallo Statuto di Roma. Fornendo motovedette e finanziamenti alla Libia, il governo italiano avrebbe agito in dolo eventuale: accettando cioè il rischio che con quei mezzi venissero commesse violazioni dei diritti umani contro chi cerca di raggiungere l’Europa via terra e via mare. I fondi inviati dalla Farnesina contribuiscono anche a mantenere in funzione i centri di detenzione libici. Luoghi di torture, violenze, stupri e sfruttamento: lo dicono le testimonianze di chi è riuscito a uscire vivo da quei centri, come molti attivisti di Refugees in Libya, e lo ha dichiarato a più riprese anche l’Unsmil, la missione delle Nazioni unite nel paese. «È ora di superare la logica populista e xenofoba delle destre europee, che criminalizza chi migra e chi salva vite in mare. L’obiettivo principale è riaprire il dibattito pubblico: accettiamo veramente che vengano commessi crimini contro l’umanità a patto che non vengano fatte partire persone disperate verso l’Europa?» ha concluso Piscolla. Sarà ora il procuratore della Corte, il britannico Karim Ahmad Khan, a valutare se sussistono gli elementi necessari a giustificare l’inizio delle indagini. Il governo italiano ha tempo fino al 2 novembre per chiedere modifiche o abrogazioni del Memorandum Italia-Libia, firmato nel 2017 dal governo Gentiloni. In caso di inazione, il patto si rinnoverà in automatico per altri tre anni. Refugees in Libya ha convocato una manifestazione il prossimo 18 ottobre a Roma, dalle 14 in Piazza Santi Apostoli, per chiedere lo stop all’accordo che ha contribuito a rendere il Mediterraneo un luogo di morte. Nella Ue 142 persone rischiano il carcere perché hanno aiutato i migranti di Daniela Fassini Avvenire, 24 settembre 2025 Sette organizzazioni, tra cui Ismu, hanno elaborato una mappa per capire chi viene criminalizzato per il "reato" di solidarietà nei confronti dei profughi: censiti casi e storie in Europa. Dal 2014 all’ottobre 2024, oltre 30mila migranti hanno perso la vita o risultano dispersi nel tentativo di attraversare il Mar Mediterraneo per raggiungere l’Europa. Queste persone cercavano di fuggire da guerre o persecuzioni, oppure di costruirsi una vita migliore. Attraverso le operazioni di ricerca e soccorso (Sar) in mare, le organizzazioni della società civile svolgono un ruolo fondamentale nel salvare vite umane e nell’alleviare le difficoltà affrontate da migranti e richiedenti asilo. Ma dal 2018 tutto questo è molto più difficile e complicato: le autorità nazionali infatti hanno avviato procedimenti amministrativi e penali contro membri degli equipaggi o imbarcazioni coinvolti in operazioni di soccorso in mare. Secondo i rapporti di Picum, la rete di organizzazioni che aiuta le persone irregolari e prive di documenti che ha sede a Bruxelles, almeno 142 persone sono state criminalizzate nell’Unione europea nel 2024 per aver aiutato migranti, 117 nel 2023 e 102 nel 2022. Il progetto “Wing Empowering Actors” (finanziato dalla Commissione europea) nasce con l’obiettivo di mappare la criminalizzazione della solidarietà in Europa. Sette fondazioni di cinque Paesi europei - fra cui l’Italia - si sono riunite per documentare, raccogliere e raccontare tutti i casi e le situazioni in cui la solidarietà verso i migranti e i più fragili viene considerata un reato. Questo tipo di accuse non colpiscono solo attivisti e volontari, ma anche medici o semplici cittadini. Nel nuovo progetto sono coinvolte sette organizzazioni della società civile di cinque Paesi fra cui Italia, Francia, Grecia, Ungheria e Polonia. Sono Ocalenie Foundation per la Polonia, Hungarian Helsinki Committee per l’Ungheria, Greek Council for Refugees per la Grecia, Gisti per la Francia e Oxfam Italia. A queste si aggiungono Fondazione Ismu capofila del progetto e, appunto, Picum. «Chi aiuta le persone in difficoltà, migranti o rifugiati bloccati che magari hanno solo bisogno di cibo, di un letto e semplicemente di vestiti si trovano ad essere criminalizzati» racconta Gaia Gilardoni, responsabile del progetto di Fondazione Ismu. Basta un piccolo aiuto per finire nel mirino dei provvedimenti giudiziari. Non ci sono solo le Ong che in Italia vengono “dissuase” dal salvare i migranti in mare con porti lontani e decreti anti-salvataggio, nel mirino ad esempio finiscono anche i medici che aiutano le donne a partorire, come in Polonia, sul confine con la Bielorussia, o molti altri casi dove spesso chi aiuta non ha nessun tornaconto e lo fa in maniera disinteressata, rischiando allo stesso modo di essere criminalizzato. «Il fenomeno è molto sottostimato» aggiunge Gaia. «E con questo progetto cerchiamo di supportare il lavoro di Picum che è in grado di raccogliere informazioni solo dalle notizie che escono sui media». Nel 2024, ad esempio, secondo i dati raccolti da Picum, sono almeno 142 i difensori dei diritti umani, le persone che sono state cioè criminalizzate per aver aiutato i migranti e altre 91 per aver fatto loro oltrepassare la frontiera in modo irregolare. Questi numeri si riferiscono a casi riscontrati in 8 Paesi monitorati (Grecia, Italia, Polonia, Francia, Bulgaria, Spagna, Lettonia e Cipro). «I numeri indicati si riferiscono a casi in cui più dell’80% delle persone incriminate sono considerate trafficanti di essere umani, e vengono sottoposti a procedimenti formali, giudiziari e amministrativi - spiega Silvia Carta di Picum - ma ci sono anche molti altri casi che raccontano di intimidazioni, sanzioni amministrative e molestie». La criminalizzazione della solidarietà con i migranti è strettamente legata con la criminalizzazione del migrante stesso, come il risultato di politiche migratorie restrittive che rende insicuro e pericoloso attraversare la frontiera e crea un ambiente ostile. Tra le azioni che vengono criminalizzate, ci sono: salvare persone in pericolo o allertare le autorità di persone in pericolo di vita; offrire loro assistenza come un riparo, del cibo e dei vestiti; ma anche la disobbedienza civile (protestare davanti a centri di detenzione per migranti). In Polonia, ad esempio cinque persone sono state incriminate per “appropriazione indebita” e per aver “ottenuto un profitto” solo per il fatto di aver aiutato i migranti. Avevano commesso cioè un reato reato per “profitto personale”. Cinque persone che fornivano aiuti umanitari al confine tra Polonia e Bielorussia che ora devono affrontare un procedimento giudiziario, con il rischio di finire in carcere per cinque anni. Sono accusati di aver aiutato i migranti ad attraversare la frontiera in modo irregolare, in territorio polacco. Nonostante la legge consideri reato il favoreggiamento dell’ingresso irregolare solo se avviene per guadagno personale o economico, il pubblico ministero sostiene che il semplice fatto di aver aiutato i migranti sia sufficiente a criminalizzare chi fornisce assistenza. In Bulgaria, poi, sette volontari sono stati arrestati a ottobre 2024 per aver aiutato alcune persone in pericolo al confine con la Turchia. «In alcuni casi addirittura le autorità hanno fatto ostruzione nei confronti di chi si sforzava di aiutare, ed è a tutti noto il caso dei tre minori egiziani a cui la polizia bulgara ha bloccato l’accesso al confine e poi dopo alcuni giorni i tre ragazzi furono trovati morti di freddo. È successo tra il 27 e il 30 dicembre 2024; le autorità bulgare ignorarono le richieste di soccorso di tre giovani migranti egiziani, condannandoli a una tragica fine». Per l’Italia, infine, l’agenzia di Bruxelles cita il caso della Ong Jugend Rettet, la cui nave Iuventa fu sequestrata nel 2017 con l’accusa di traffico di essere umani. Il caso giudiziario italiano durò sette anni, furono tutti assolti nel 2024. «Nelle maggior parte dei casi tutti questi processi finiscono nel nulla - conclude Gilardoni - e solo pochi vengono alla fine sanzionati; ma anche solo il fatto di affrontare la lunga battaglia legale con le relative spese e l’esborso di multe ingenti alla fine funzionano come elemento di dissuasione». Il ruolo dell'Onu. Manca un arbitro nella partita del mondo di Pasquale Ferrara* Avvenire, 24 settembre 2025 Le Nazioni Unite rispondono all'esigenza di porre limiti alla sovranità statale. A giudicare dalla cronaca di questi ultimi anni, invece delle carte dei diritti, abbiamo solo diritti sulla carta. In fisica, la freccia del tempo non può volgersi al passato. In politica internazionale, invece, la regressione può essere una realtà. Ottant’anni orsono, al termine di un Secondo conflitto mondiale devastante, in cui per la seconda volta l’Europa e il mondo commisero un immane fratricidio, le Nazioni Unite furono create su alcuni pilastri. Anzitutto, la pace, la risoluzione pacifica delle contese. In secondo luogo, come corollario pratico, la sicurezza collettiva, per impedire che ogni Stato continuasse a farsi giustizia da sé. Infine, una rappresentatività universale per i membri dell’organizzazione. Le Nazioni Unite rispondevano ad un’esigenza fondamentale, quella di porre limiti esterni alla sovranità statale, in un mondo in cui vigeva ancora il principio del non-riconoscimento di autorità sovraordinate agli stati nazionali. In un contesto internazionale ancora dominato dall’anarchia (non c’è un governo mondiale, ed è meglio così) gli Stati hanno cercato quanto meno di uscire dall’anomia, dall’assenza di norme. Tuttavia, se dobbiamo giudicare dalla cronaca di questi ultimi anni, invece delle carte dei diritti, abbiamo solo diritti sulla carta, come nel caso diritto internazionale umanitario calpestato ovunque, in modo scandaloso a Gaza. L’Onu rappresentava la realizzazione di una società internazionale di Stati, dotata di regole, istituzioni comuni, convinzioni minime condivise. Oggi l’impressione è che si ritorni invece alla cruda realtà del sistema internazionale, cioè un ambiente pericoloso, in cui conta la potenza, se non la prepotenza. Stati potenti, o iper-potenti, rendono necessariamente le Nazioni Unite impotenti. È questo il senso ultimo, se vogliamo, del detto di nuovo conio, ma già vecchio di secoli, “pace attraverso al forza”. Le Nazioni Unite, peraltro, sono state fin dall’inizio un sistema intrinsecamente contradditorio, che ha tentato di declinare la democrazia tra gli Stati (con l’Assemblea Generale, dove ogni membro ha un voto, indipendentemente dalla sua stazza) con l’oligarchia del Consiglio di Sicurezza, dove siedono cinque membri permanenti (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna) per giunta con diritto di veto. Un sistema che oggi è contestato dai Paesi emergenti, e che rischia di perdere ogni legittimità per la sua scarsa rappresentatività, demografica, economica, culturale e persino religiosa. Molte ipotesi sono state messe in pista, tra cui quella che suggerisce di trasformare il Consiglio di Sicurezza in un consesso un cui siano rappresentati i continenti (i grandi gruppi delle regioni del mondo) piuttosto che gli Stati tradizionali ancora fondati sul dogma di Vestfalia, che consente loro di auto-accreditarsi come unici rappresentanti dei popoli. Ma non è tempo di ingegnerie istituzionali, la questione è essenzialmente politica. Il rischio maggiore, per le Nazioni Unite, è quello della crescente irrilevanza. In nessuno dei due grandi conflitti in corso (in Ucraina e a Gaza) le Nazioni Unite hanno potuto svolgere alcun ruolo realmente significativo. D’altra parte, per usare una metafora tratta dal mondo delle imprese, nessuna società può funzionare con un consiglio di amministrazione spaccato e profondamente diviso sugli scopi aziendali. Ed è quindi paradossale che - come ha fatto Trump nel discorso di ieri alle Nazioni Unite - proprio coloro che minano alle radici le fondamenta della cooperazione internazionale - con iniziative unilaterali, come ad esempio i dazi - siano quelli che accusano l’Onu di inefficacia. Putin ha fatto lo stesso con la sua “operazione militare speciale”, nella neo-lingua orwelliana oggi in auge in campo internazionale. Nello scenario più ampio, siamo dinanzi al deterioramento del multilateralismo (le organizzazioni internazionali) a favore del multipolarismo (il confronto tra le grandi potenze). Ci si potrebbe rallegrare di un mondo più plurale, ma se il confronto si svolge al di fuori delle istituzioni comuni, come l’Onu, è prima o poi destinato a diventare competizione sregolata, se non conflitto. Al di fuori del mito, cos’è davvero il multilateralismo del sistema delle Nazioni Unite? Detto in poche parole, è un sistema che favorisce la socializzazione degli Stati, e, in ultima analisi, la democratizzazione della politica mondiale. Da questo punto di vista, il multilateralismo è già un fine in sé stesso, perché crea le condizioni per la fiducia reciproca, che deriva dall’appartenenza ad uno stesso “club”. Naturalmente, ciò non basta. Per parafrasare Jean Monnet, «nulla è durevole senza le istituzioni, ma nulla è possibile senza gli uomini». Sono le scelte politiche a dare vitalità alle istituzioni o a renderle inerti. Nessuna riforma dell’Onu, per quanto perfetta, potrà funzionare se la politica internazionale continuerà ad essere intesa come un gioco a somma zero, con vincitori e perdenti. Alla fine, perderemo tutti. *Docente di Diplomazia e negoziato LUISS Solo una nuova alleanza può fermare la deriva bellica di Maurizio Delli Santi Il Domani, 24 settembre 2025 Un blocco di potenze regionali unite all’Europa può spingere ad un rinnovato ruolo dell’Onu per riaffermare i principi universali della Carta delle Nazioni: si può fermare chi intende riportare indietro le lancette dell’orologio del mondo. Meglio insieme: oltre 80 anni per la pace, lo sviluppo e i diritti umani»: è il tema ambizioso con cui si è aperta la sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, proprio in concomitanza dell’ottantesimo anniversario della loro costituzione. Lo scetticismo e le perplessità su quanto possa dirsi realistica questa prospettiva sono scontati: la provocazione dei droni russi - per gli analisti si tratterebbe di uno stress test volto a sondare le capacità di resilienza, anche politica, dell’Europa - la ripresa degli attacchi terroristici di Hamas o dei suoi emuli, l’attacco di Israele a Gaza e l’attentato omicida del giovane ideologo trumpiano Charlie Kirk sono solo le ultime pericolose derive del caos che non fa più destare perplessità nemmeno a fronte delle ultime intemerate di Donald Trump. Certo, sono dunque più che ragionevoli le riserve sul fatto che dal Palazzo di vetro possa iniziare un nuovo corso. Da decenni si attende una radicale riforma dell’Onu che ne riaffermi il ruolo di organismo preposto a mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ma manca la spinta di un blocco di Stati che la promuova con forza per superare le logiche del potere di veto al Consiglio di sicurezza e garantire una maggiore rappresentatività degli Stati. Eppure la comunità internazionale non dovrebbe sottrarsi proprio ora alla sfida che è chiamata ad affrontare: porre rimedio al nuovo clima di accettazione delle guerre, che è il vero vulnus del sistema delle relazioni internazionali. Fermi restando i disegni egemonici e neo-imperiali di Russia e Cina, e pure considerando l’ipocrisia delle varie amministrazioni Usa, è proprio Trump ad avere pericolosamente intrapreso la deriva da quei principi dell’addio alle guerre: sta facendo ridiventare normale tollerare e minacciare ancora la guerra, intraprendere conquiste territoriali e costringere gli Stati a fare concessioni agli aggressori. Per questo Trump non si pronuncia sull’illegittimità delle pretese di Putin, e di quelle di Netanyahu sui territori palestinesi: la forza prevale sul diritto. Così, oltre a minacciare proprie conquiste (Panama, Groenlandia, Canada, persino Gaza...), il tycoon rifiuta ora di difendere il diritto degli Stati a non essere conquistati: l’esempio dell’Ucraina è emblematico. Lo scenario è delineato: se crolla il divieto sull’uso della forza, Putin, Trump e Xi Jinping si divideranno il mondo in sfere di influenza, con tutto ciò che ne consegue per la libertà e il progresso negli Stati vassalli. Rimedi? C’è la strada intrapresa nel 2022, quando 142 paesi si sono uniti nel sostenere la Risoluzione dell’Assemblea generale Onu che ha condannato l’intento di annettere territori ucraini da parte della Russia. E oggi possiamo anche sottolineare la straordinarietà dell’ultima Risoluzione su Gaza che sempre con 142 voti ha ribadito la soluzione dei “due Stati” spingendosi fino a reclamare la nascita dello Stato di Palestina. In sostanza, Nazioni responsabili possono unire le forze per riaffermare il divieto di conquista e il diritto internazionale, anche senza fare affidamento sugli Stati Uniti. L’Europa non può prendere il posto degli Usa come gendarme del mondo, ma può puntare - purché sia coesa - sui suoi valori, sulla sua geopolitica basata sulla cooperazione e sul libero scambio, e ricercare quindi alleanze nel Global South. Un blocco di potenze regionali unite all’Europa può spingere ad un rinnovato ruolo dell’Onu e riaffermare i principi universali della Carta delle Nazioni e del diritto internazionale. Indugiare sulle critiche al modello europeo non basta: meglio dibattere nei parlamenti, nelle università e sui media - su come l’ Unione nata dai trattati di Roma rappresenti ancora una conquista di civiltà contro gli orrori delle guerre. Sarebbe il caso che le diplomazie europee si adoperassero per iniziare a promuovere un dibattito compiuto su come fermare le guerre in questa 80esima Assemblea generale dell’Onu: una proposta immediata e ragionevole sta nel ricondurre in termini vincolanti il deferimento delle crisi internazionali ad un organismo dell’Onu strutturato e permanente per la mediazione e la risoluzione delle controversie con mezzi pacifici, la funzione essenziale delle Nazioni Unite. Si tratta niente altro che tornare ai fondamentali del diritto internazionale per renderli stavolta validi e operanti: altrimenti la catastrofe delle guerre sarà inesorabile per le sorti dell’umanità. Le barche della Global Sumud Flotilla sotto attacco di Ilaria Solaini Avvenire, 24 settembre 2025 Per la terza volta la Global Sumud Flotilla - il gruppo di imbarcazioni che naviga nel Mediterraneo verso Gaza - ha denunciato attacchi con «bombe sonore, droni e sostanze chimiche sospette». È avvenuto nelle prime ore di oggi, mercoledì 24 settembre, al largo dell'isola di Creta «a 600 miglia nautiche (1.100 chilometri) da Gaza». L’attivista tedesca Yasemin Acar ha riferito su Instagram che cinque imbarcazioni sono state attaccate: «Non abbiamo armi. Non siamo una minaccia per nessuno», ha ribadito, la flottiglia trasporta solo «aiuti umanitari». Secondo quanto riportato sui social dagli attivisti della Global Sumud Flotilla, nelle ultime 24 ore, più di 15 droni hanno sorvolato ogni dieci minuti a bassa quota la nave Alma. I partecipanti alla missione hanno riferito di oggetti lanciati da droni o aerei su almeno 10 imbarcazioni. Non ci sono stati feriti, ma «i danni saranno valutati pienamente alla luce del giorno». «A partire dall'una e fino alle quattro del mattino abbiamo ricevuto attacchi costanti, prima con materiale urticante e poi con bombe sonore, ossia esplosioni che possono anche fare danni materiali. La nostra imbarcazione ne ha ricevute tre e una ha colpito l'albero, rompendo la vela principale. Eravamo in acque internazionali, ci potevamo fare anche molto male se ci fossimo trovate fisicamente nel punto in cui questi dispositivi sono caduti» ha riferito l'eurodeputata Benedetta Scuderi a bordo di una delle imbarcazioni della flottiglia. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, in missione a New York per l’assemblea generale Onu, è stato informato dell'attacco. «A favore della loro incolumità, la Farnesina aveva fatto già segnalazioni alle autorità di Israele affinché qualsiasi operazione che possa essere affidata alle forze amate di Gerusalemme sia condotta rispettando il diritto internazionale e un principio di assoluta cautela. Il ministro Tajani ha chiesto all’ambasciata a Tel Aviv di assumere informazioni e di rinnovare la richiesta già fatta al Governo di Gerusalemme di garantire la assoluta tutela del personale imbarcato», si legge in una nota del ministero degli Esteri. «Stiamo assistendo in prima persona a queste operazioni psicologiche, proprio ora, ma non ci lasceremo intimidire», si legge sul profilo Instagram della Global Sumud Flotilla. «Gli estremi a cui Israele e i suoi alleati arriveranno per prolungare gli orrori della fame e del genocidio a Gaza sono disgustosi. Ma la nostra determinazione è più forte che mai», prosegue il messaggio. «Queste tattiche non ci impediranno di portare aiuti a Gaza e rompere l’assedio illegale. Ogni tentativo di intimidirci non fa che rafforzare il nostro impegno. Non ci lasceremo mettere a tacere. Continueremo a navigare», si legge ancora. Palestina, il popolo ebraico e la memoria di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 24 settembre 2025 A riconoscere lo Stato palestinese dovrebbe essere proprio un governo (quello guidato da Giorgia Meloni) al quale i suoi oppositori rimproverano ogni giorno le remote ascendenze con quel regime che varò le leggi razziali. Come fa presto a svanire la memoria storica. Come fa presto a svanire la memoria storica di un Paese, dei suoi rappresentanti politici e dei suoi cittadini, dei suoi intellettuali e dei suoi talk show televisivi. Per anni ed anni la promulgazione nel 1938 delle leggi razziali decretate dal fascismo, complice la monarchia sabauda e testimone silenziosa la Chiesa cattolica, è stata ricordata in tutti i modi e in tutte le occasioni dalla democrazia italiana. Naturalmente con la dovuta enfasi di deprecazione, di colpa e di vergogna per il silenzio pressoché unanime con cui quelle leggi furono allora accolte dalla nostra opinione pubblica. Eppure oggi nessuno sembra pensare che quanto accaduto ottanta anni fa ha forse acceso un debito dell’Italia verso qualunque cosa riguardi il popolo ebraico che non è giusto e possibile dimenticare né è facile estinguere. Eppure, qui ed ora nessuno, di fronte al fatto che oggi solo il nostro Paese e la Germania non partecipano all’attuale corsa generale al riconoscimento dello Stato di Palestina, nessuno sembra attraversato dall’idea che una ragione c’è - neppure consapevole, forse, ma una di quei moti dell’animo che misteriosamente trattengono gli uomini dall’irreparabile - una ragione non dicibile ma che ha un peso morale più vincolante, più ultimativo, di qualsivoglia convenienza politica. E tanto meno qualcuno si ferma un istante a riflettere che a compiere il tanto auspicato riconoscimento dovrebbe essere proprio un governo al quale i suoi oppositori rimproverano ogni giorno le remote ascendenze precisamente con quel regime che varò le leggi razziali di cui sopra. E proprio un tale governo dovrebbe compiere un gesto che certamente la comunità ebraica del nostro Paese avvertirebbe come un colpo durissimo ai suoi più intimi sentimenti? Non mi stupisco che la giovane donna che lo guida senta il peso che la storia sta mettendo sulle sue spalle e non immemore esiti, esiti giustamente, a dare il suo assenso.