Medicina penitenziaria, l’etnopsichiatria è l’anello mancante di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 settembre 2025 Il sistema penitenziario italiano si trova di fronte a una delle sue sfide più complesse e urgenti: la gestione della salute mentale di una popolazione carceraria sempre più eterogenea, in particolare quella composta da detenuti stranieri. In questo contesto, l’etnopsichiatria emerge come un campo di studio e di pratica fondamentale, sebbene ancora di nicchia, la cui mancata integrazione sistematica nel circuito detentivo si traduce in un fallimento sia sul piano rieducativo sia su quello umanitario. Dentro le carceri non c’è solo la pena formale. Ci sono storie che vengono da lontano: fughe, violenze, riti che non trovano equivalenti nel mondo occidentale. È in questo spazio che l’etnopsichiatria - la disciplina che intreccia psichiatria e antropologia - propone qualcosa di semplice e scomodo: per curare bisogna capire il senso della sofferenza, non solo il sintomo. Questa disciplina nasce per rispondere a tale realtà. Non è una moda teorica, ma una pratica clinica che unisce psichiatria e antropologia e che parte da un principio semplice e concreto: la sofferenza psichica si esprime con codici che cambiano da una cultura all’altra. Quello che in un contesto può essere letto come delirio, in un altro può avere valore rituale o sociale; ciò che appare come apatia può essere un modo di esprimere lutto o vergogna. Per questo esistono strumenti operativi - come la Cultural Formulation Interview (CFI) del DSM-5, un protocollo di 16 domande pensato per aiutare il clinico a ricostruire l’universo culturale del paziente - che vanno tradotti in pratica dentro le strutture di cura; nelle carceri, dove le differenze sono concentrate, la loro assenza pesa. L’esperienza carceraria si innesta su una condizione di vulnerabilità già elevata per molti detenuti stranieri. Numerosi studi evidenziano come la probabilità di sviluppare un Disturbo Post- Traumatico da Stress (PTSD) sia dieci volte superiore tra rifugiati e migranti rispetto alla popolazione autoctona, a causa delle violenze e delle esperienze traumatiche subite prima e durante il viaggio, come quelle nei campi libici. Per queste persone, la detenzione non è solo una privazione della libertà, ma un’ulteriore esperienza di sradicamento e isolamento che riattiva traumi profondi e alimenta una ‘sofferenza sociale’ che non può essere affrontata con un semplice modello clinico. I detenuti stranieri si scontrano con barriere enormi fin dall’ingresso in carcere. Il primo ostacolo è la lingua, che rende impossibile la comprensione di avvisi e la compilazione di istanze necessarie per accedere a colloqui e servizi. L’assenza, quasi totale, di mediatori culturali professionisti è un problema critico. Spesso la comunicazione si basa sull’aiuto di detenuti connazionali, che fungono da interpreti. Questo meccanismo, pur offrendo una soluzione immediata, solleva questioni etiche e di efficacia. Affidare un ruolo così delicato a persone non formate, potenzialmente portatrici di dinamiche di potere interne al carcere, non solo non garantisce la qualità dell’interpretazione, ma riduce il detenuto a uno strumento, sottolineando la mancanza di professionalità e l’inadeguatezza strutturale del sistema nel gestire bisogni così complessi. La medicina penitenziaria funziona su regole comuni a tutti i detenuti, ma la popolazione rinchiusa non è omogenea. Lingue diverse, storie di tortura, esperienze migratorie e riferimenti religiosi segnano il modo in cui un sintomo si manifesta e il rapporto con le cure. Senza mediazione culturale, molte valutazioni cliniche restano approssimative: si rischia l’etichettamento affrettato o la sottovalutazione di traumi complessi. In termini pratici, ciò si traduce in più eventi acuti, ricoveri e rapporti tesi con il personale. Le regole europee sul trattamento dei detenuti stranieri obbligano gli Stati a tenere conto delle necessità particolari di questa popolazione, ma in molti casi l’implementazione resta lontana. A Firenze, nel carcere di Sollicciano, l’idea ha assunto forma operativa. L’Azienda USL Toscana Centro ha affidato al Centro Studi Sagarà un progetto di etnopsichiatria ed etnoclinica: interventi strutturati nel tempo, con attività che comprendono formazione del personale, mediazione linguistica e consulenze cliniche per detenuti stranieri. I documenti ufficiali del progetto dettagliano le risorse previste: in uno degli anni di attività sono programmate 225 ore di consulenza etnopsichiatrica, 270 ore di mediazione linguistica e 162 ore di mediazione etnoclinica. Il finanziamento, contenuto ma dedicato, mostra che l’intervento è praticabile con risorse mirate; resta però un’esperienza a livello locale e temporanea. Nei fatti, si riduce a poche ore settimanali. Un secondo esempio italiano che mostra come la figura dell’etnopsichiatra stia lentamente entrando nelle carceri arriva dalla Sicilia. Nei mesi scorsi l’Azienda Sanitaria Provinciale (ASP) di Enna, la Casa Circondariale di Piazza Armerina e il Consorzio Umana Solidarietà hanno firmato un protocollo per l’istituzione di servizi di etnopsichiatria e assistenza psicologica rivolti in particolare ai migranti detenuti. L’accordo prevede il coinvolgimento di mediatori linguistici e culturali, consulenze cliniche specialistiche e percorsi di supporto tarati sulle vulnerabilità dei reclusi stranieri. Il progetto viene presentato come un primo passo verso servizi dedicati in una realtà carceraria con una quota elevata di persone straniere. Come nel caso di Sollicciano, la firma del protocollo a Piazza Armerina è un segnale politico e operativo: dimostra che le ASL, se sollecitate, possono mettere in campo accordi con il terzo settore per rispondere a bisogni culturali specifici. Anche qui si tratta di un avvio progettuale. La sfida sarà trasformare l’iniziativa in servizio stabile, con dati che ne misurino l’impatto clinico e organizzativo. I due esempi nostrani si inseriscono in un quadro più ampio. In Francia il Centre Georges Devereux è un punto di riferimento per l’etnopsichiatria clinica: non è una struttura carceraria, ma lavora da anni con migranti, richiedenti asilo e persone passate attraverso circuiti di detenzione amministrativa, offrendo formazione, consulenza e pratiche cliniche che integrano mediazione culturale. Il modello francese mostra come centri specialistici possano fare rete con le istituzioni che gestiscono migranti e con i servizi che afferiscono al mondo della giustizia. In Germania, gruppi universitari e reparti specialistici dedicati alla psichiatria transculturale nelle grandi aziende ospedaliere collaborano con servizi penitenziari: la letteratura tedesca segnala bisogni concreti nei detenuti stranieri e pratiche già avviate per l’integrazione di mediatori e interventi multilingue. Queste esperienze offrono percorsi diversi ma convergenti: centri specialistici che supportano le istituzioni (modello francese) o integrazione delle competenze transculturali nelle strutture ospedaliere che servono il carcere (modello tedesco). L’assenza strutturale dell’etnopsichiatria nel carcere è il sintomo di un problema più profondo: la disconnessione tra i principi costituzionali di rieducazione e dignità e la cruda realtà di un sistema penitenziario al collasso. L’analisi teorica dimostra che il disagio mentale dei detenuti stranieri non può essere compreso né curato con i modelli standard della psichiatria classica, poiché è intrinsecamente legato a esperienze di sofferenza sociale e sradicamento. I dati empirici confermano questo bisogno, mettendo in luce l’inadeguatezza del sistema, l’alta percentuale di detenuti stranieri e l’uso sproporzionato di psicofarmaci come strumento di gestione. Con una popolazione carceraria sempre più eterogenea e traumatizzata, l’etnopsichiatria non è un lusso, ma una necessità impellente. “Carcere, l’emergenza è adesso”. Intervista a Alessio Scandurra di Irene Perfetti onehealthfocus.it, 23 settembre 2025 Con circa 63mila detenuti e un tasso reale di sovraffollamento del 134,3%, che in otto istituti raggiunge il 200%, le carceri italiane sono una bomba sanitaria e sociale. Ne parla Alessio Scandurra, coordinatore dell’Osservatorio dell’Associazione Antigone. Il carcere è da sempre una comunità fragile, ma oggi la crisi ha raggiunto livelli mai visti. Secondo le Statistiche penali annuali del Consiglio d’Europa (Space I), un terzo delle amministrazioni penitenziarie del continente affronta ancora il problema del sovraffollamento: Slovenia, Cipro, Francia, Italia, Romania e Belgio sono maglia nera per tassi di riempimento. Un dato che va oltre il 113%, con l’Italia che conta 118 detenuti per 100 posti disponibili e un aumento del 7,8% in un solo anno. In tutto il continente, al 31 gennaio 2024 erano detenute oltre un milione di persone, con una media di 105 detenuti ogni 100.000 abitanti. La fotografia delle carceri italiane - Anche l’Associazione Antigone, che da oltre 30 anni monitora le carceri italiane e promuove trasparenza, riforme e rispetto dei diritti fondamentali di chi vi è detenuto, ha scattato una fotografia impietosa nel suo ultimo rapporto, intitolato - appunto - “L’emergenza è adesso”. Al 30 giugno 2025 i detenuti erano 62.728, a fronte di una capienza regolamentare di 51.276 posti, di cui oltre 4.500 indisponibili. Il tasso reale di affollamento è al 134,3%, con 62 istituti sopra il 150% e otto addirittura al 200%, tra cui San Vittore, Foggia, Lodi e Regina Coeli. In oltre un terzo delle carceri visitate non sono garantiti nemmeno 3 metri quadrati a persona. Salute mentale: un problema da non sottovalutare - Ma dietro i numeri ci sono corpi e vite: ore passate in celle bollenti, che d’estate raggiungono i 37 gradi, con ventilatori a pagamento e accessi all’acqua limitati. Mancano medici di notte in quasi trenta istituti, e anche se i concorsi sono stati banditi, il personale sanitario non basta. La conseguenza è una catena di sofferenze che si riflette in dati drammatici: il 14,2% delle persone detenute ha una diagnosi psichiatrica grave, più di un quinto assume stabilizzanti, antipsicotici o antidepressivi. Ogni 100 detenuti si contano 22,3 atti di autolesionismo e 3,2 tentativi di suicidio. I suicidi registrati da inizio anno sono 45, il dato più alto di sempre dopo il 2024. La crisi riguarda anche i minori. Dopo il Decreto Caivano, la popolazione negli IPM è aumentata del 50% in meno di tre anni. Più del 60% dei ragazzi è ancora in attesa di giudizio e non mancano casi di trasferimenti negli istituti per adulti. Si dorme su materassi a terra, le ore d’aria mancano, e il ricorso agli psicofarmaci cresce in modo preoccupante. Il carcere non è un mondo separato. La salute di chi sta dentro riguarda chi sta fuori: malattie infettive, disagio psichico, recidiva, reinserimento. Ogni ritardo, ogni mancanza, ha ripercussioni sulla comunità intera. Oggi le misure alternative esistono ma restano poco applicate: oltre 23.000 detenuti con pena residua inferiore a tre anni potrebbero già accedere a percorsi esterni, ma restano in cella. Il risultato è un sistema che non garantisce diritti fondamentali e che tradisce la finalità costituzionale della pena. Parlare di salute in carcere significa parlare di salute pubblica, e della necessità di costruire un ponte tra il dentro e il fuori: un ponte che oggi appare fragile, ma che è l’unica via per non lasciare indietro nessuno. Sul tema, One Health ha intervistato in esclusiva il dottor Alessio Scandurra, Coordinatore dell’Osservatorio di Antigone e curatore del report “L’emergenza è adesso”. Il vostro rapporto fotografa un affollamento medio del 134,3%, con punte fino al 190%. Quali sono gli effetti più immediati sulla salute dei detenuti? “La salute è il tema centrale: la maggior parte delle segnalazioni che riceviamo dai detenuti riguarda proprio questo. Il sovraffollamento peggiora ogni condizione materiale: meno spazio, meno movimento, meno aria. E poi ci sono le celle dove si fuma: più persone ci sono, peggiore diventa la qualità dell’ambiente. Ma c’è anche un aspetto meno visibile: tutte le risorse - non solo lo spazio - devono essere distribuite su un numero maggiore di persone. In carcere spesso c’è solo il medico di sezione, e questo significa meno attenzione per ciascun detenuto e meno tempo per accompagnarli alle visite specialistiche. Tutto si fa più complicato”. Quindi il carcere non riesce a garantire da solo un servizio sanitario adeguato? “In generale no. Alcuni istituti grandi hanno qualche specialista, quelli piccoli quasi nessuno. Macchinari per esami non ce ne sono, quindi molti accertamenti si fanno all’esterno. Ma spesso le visite saltano, soprattutto per carenza di personale o perché le traduzioni per i processi hanno la precedenza. Così si sprecano slot, con frustrazione per detenuti, medici interni e strutture esterne. E a questo si aggiunge il grande tema della salute mentale”. Nel rapporto citate celle sotto i 3 metri quadrati a persona, temperature fino a 40 gradi, ventilazione scarsa, accesso all’acqua limitato. Che conseguenze hanno queste condizioni? “Il carcere è da sempre una comunità fragile sul piano epidemiologico. Ci sono malattie come tubercolosi e scabbia, che fuori quasi non si vedono più. Con il Covid i tassi di contagio sono stati simili a quelli esterni: alcuni istituti hanno retto bene, altri hanno visto una diffusione più rapida una volta entrato il virus. Ma il carcere, nel bene e nel male, ha una certa familiarità con la prevenzione delle malattie infettive proprio perché queste patologie sono presenti”. Quali sono oggi le patologie più diffuse? “Le stesse dell’esterno, ma con caratteristiche particolari: la popolazione detenuta è più anziana rispetto al passato, ci sono molte dipendenze e tante persone che prima dell’ingresso non avevano rapporti col sistema sanitario. Tutto questo si traduce in una domanda di salute molto elevata, soprattutto mentale. Le carceri sono probabilmente le più grandi comunità psichiatriche dei territori in cui si trovano. Penso a San Gimignano, dove le risorse sanitarie locali sono limitate ma il carcere ospita centinaia di persone con bisogni altissimi”. Piccoli dettagli possono diventare micce di tensione? “Certamente. Ogni aspetto può generare conflitto. A Avezzano, ad esempio, un lato dell’istituto è esposto a ponente e l’altro a levante: d’estate chi sta a ponente soffre molto di più il caldo e chiede di cambiare cella. Ma quando i detenuti sono troppi, queste esigenze non possono essere accolte e i “no” accumulati fanno crescere la tensione”. Nel vostro report si parla di un forte ricorso agli psicofarmaci. Perché? “Non sempre si tratta di cure vere e proprie. Spesso gli psicofarmaci vengono utilizzati come sedativi, per mantenere la calma e l’ordine. I detenuti li chiedono per dormire o perché sono abituati a farne uso. I medici sono comprensibilmente cauti, perché non sempre il profilo clinico lo giustifica e perché queste sostanze possono avere effetti negativi nel lungo periodo. Un medico minorile ci raccontava che almeno metà delle risse scoppia quando il farmaco viene negato. Il consumo è enorme, ma non coincide con l’entità del disagio psichiatrico”. E poi ci sono i suicidi e gli atti di autolesionismo, che hanno raggiunto livelli mai visti... “Purtroppo sì. In carcere, quando si è arrabbiati e privi di strumenti, è frequente prendersela col proprio corpo. Tra gli stranieri incidono anche la barriera linguistica e la scarsa conoscenza delle regole del sistema. Il dato più inquietante è che oggi i suicidi sono a un picco storico pur non essendoci il sovraffollamento massimo di dieci anni fa, quando arrivammo a 69mila detenuti. Segno che ci troviamo davanti a una difficoltà più ampia, che va oltre la densità: bisogni nuovi, servizi - specie quelli di salute mentale - indeboliti dal Covid, e una capacità di risposta ridotta”. Sul fronte minorile che cosa sta accadendo? “Lì l’effetto del “decreto Caivano” è evidente: più ingressi e permanenze più lunghe. Gli operatori ci dicono che l’utenza è cambiata: è più difficile intercettare i ragazzi e proporre percorsi che loro stessi percepiscano come utili. I ragazzi cambiano, noi meno: continuiamo a proporre risposte che funzionano peggio di ieri. Pesano anche l’aumento dei minori stranieri non accompagnati e, parallelamente, il ridimensionamento dei servizi a loro dedicati. Così gli IPM si riempiono non dei ragazzi che hanno commesso i reati più gravi, ma di quelli più difficili da collocare. I numeri restano piccoli, ma sono quasi raddoppiati in pochi anni. E la sensazione è che non sia un effetto casuale, ma una scelta politica precisa”. Quindi anche il reinserimento è più difficile? “Proprio così. Se i numeri salgono, è più difficile conoscere i ragazzi e quindi trovare la risposta giusta per ciascuno (si parla, infatti, di “individualizzazione”). È un po’ il tema della certezza della pena: credo che il nostro stesso ordinamento sia nemico di questa idea. Le pene sono uguali per gli stessi reati, ma già dal giorno successivo alla condanna ciascuno deve scontare la “propria” pena, quella più utile per arrivare a un certo scopo. Le comunità minorili (che sono miste, per evitare i “ghetti penali”) sono meno attrezzate: a causa di rette ministeriali basse c’è meno personale e meno qualificato. Allora la comunità meno attrezzata cerca di evitare gli utenti più complessi. Il risultato è che gli IPM si riempiono non di chi ha commesso i reati più gravi (come si pensa comunemente), ma dei ragazzi più difficili da collocare”. Quali sono, per concludere, le emergenze vere e proprie? “La prima è fermare i numeri. Serve un provvedimento straordinario che blocchi la crescita e riduca le presenze. Poi bisogna ripensare il sistema, perché il sovraffollamento è alimentato soprattutto dalla recidiva: molti detenuti ci sono già stati più volte, alcuni (il 18%) anche cinque o più. È difficile spezzare questi percorsi, ma non impossibile. L’ordinamento penitenziario non prevede solo la detenzione, ma anche scuola, lavoro, formazione, percorsi individualizzati. Sono strumenti che oggi non vengono utilizzati abbastanza. Se dai qualcosa, le persone sono meno disperate e più collaborative. Ma con più di 60mila detenuti e istituti che arrivano al 200% della capienza, prima di tutto bisogna uscire dall’emergenza”. Come lavora Antigone per monitorare la situazione e garantire trasparenza? “Oltre all’Osservatorio, abbiamo il Difensore civico: un ufficio a Roma e una rete di volontari in tutta Italia che seguono i casi individuali. Cerchiamo sempre medici volontari, perché fanno la differenza. Una volta l’anno il Ministero della Giustizia autorizza una lista di nostri osservatori a visitare le carceri: concordiamo la visita col direttore, incontriamo il personale, giriamo l’istituto. L’obiettivo è garantire trasparenza. Oggi il sistema è più aperto di ieri e questo aiuta anche gli enti locali a capire il carcere sul proprio territorio. Durante le visite emergono problemi specifici, che segnaliamo alle autorità competenti o, se serve, alle procure”. In che modo provate a coniugare diritti, salute e condizioni di vita? “La qualità del carcere dipende molto dal rapporto con la comunità esterna: l’edificio conta relativamente, quello che cambia è la ricchezza delle relazioni con la città. L’Italia resta uno dei sistemi più trasparenti in Europa: ogni giorno entrano persone con competenze diverse e questo, almeno nei periodi non di crisi, contribuisce a ridurre la tensione. Accanto a questo, abbiamo sportelli informativi e progetti di ricerca. E c’è un lavoro costante di restituzione: tutte le informazioni raccolte devono circolare tra i nostri attivisti e diventare patrimonio comune, non di chi le ha raccolte. È faticoso, ma utile per la comunità esterna. Chi si occupa di carcere vede molte sconfitte e celebra poco le vittorie: è una “disgrazia del mestiere”. Ma continuiamo, perché l’emergenza è adesso e il primo dovere è fermare i numeri, poi fare davvero ciò che la legge già prevede”. Ansatasìa: “Bisogna avere il coraggio di votare l’indulto, come fecero Berlusconi e Prodi” garantedetenutilazio.it, 23 settembre 2025 Incontro alla manifestazione “Itaca”. Il viceministro Sisto: “Questo è un governo che sul pianeta carcere ha investito e continua a investire”. “Io continuo a essere dell’opinione già espressa in questa sede, esattamente un anno fa, che bisognerebbe avere il coraggio che ebbero Silvio Berlusconi e Romano Prodi, quando nel 2006 decisero entrambi un provvedimento d’indulto”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, nella parte conclusiva dell’incontro con il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto, che si è svolto sabato 20 settembre a Formello, nell’ambito della manifestazione Itaca. “Emergenza carceri, interventi urgenti e lungimiranti” era il tema del dibattito, moderato dal vicedirettore approfondimento Rai Giuseppe Malara, tra gli eventi della manifestazione promossa dal vicepresidente del Consiglio regionale del Lazio, Giuseppe Emanuele Cangemi. “I beneficiari dell’indulto del 2006, al contrario di quel che si crede e, purtroppo, si dice, hanno commesso nuovi reati nella misura della metà rispetto a quelli che scontano interamente la loro pena in carcere, fino all’ultimo giorno. Sono dati di una ricerca commissionata dal ministero della giustizia all’università di Torino. È vero che il lavoro è la migliore garanzia di reinserimento, ma il carcere riesce a offrire lavoro vero, alle dipendenze di soggetti terzi, solo al 6% delle persone condannate. Io credo - ha concluso Anastasìa - che intanto bisogna avere il coraggio di ridurre le presenze in carcere. Se non può essere l’indulto, sia la più ampia liberazione anticipata possibile, ma qualcosa che riduca le presenze in carcere è urgente”. “Statisticamente, ahimè, magari l’indulto potesse garantire una capacità di recidiva ridotta, ma è anche naturale. Se io esco dal carcere senza un perché, senza una ragione, semplicemente perché c’è un provvedimento clemenziale, non c’è più un legame fra il mio rientro nel tessuto connettivo e quello che il carcere doveva darmi sul piano rieducativo”. Questa invece la posizione espressa in proposito dal viceministro Francesco Paolo Sisto. “Allora - ha concluso Sisto - probabilmente gli sforzi vanno incrementati, probabilmente bisogna stare più sul pezzo, ma questo ovviamente ci sta, ma voglio che sia chiaro: questo è un governo che sul pianeta carcere ha investito e continua a investire, perché il carcere possa essere un luogo diverso, un luogo in qualche maniera che appartiene al comune vivere e in cui il soggetto possa poi avere molte chance di rientrare, non dico migliore, ma quantomeno non peggiore nella società”. “Carcere leggero”: una soluzione per dipendenze e disagio psichico? di Marco Cafiero* progettouomo.net, 23 settembre 2025 A giorni entrerà in vigore il D.M. 24 luglio 2025, n. 128, attuativo della Legge 8 agosto 2024, n. 112, nota come “legge Nordio”. A tal proposito, ritengo opportuno fare alcune riflessioni, non tanto come giurista, ma in qualità di neo-Garante dei diritti delle Persone Private della Libertà Personale del Comune di Genova. La mia attenzione si concentra sulle future strutture di comunità che il Ministro ha prospettato e che ora dovrebbero divenire realtà. Il mio pensiero va a queste strutture perché, al di là dei buoni intenti, che desidero riconoscere fino a prova contraria, vi intravedo delle ingenuità. L’attuale Governo dimostra di avere a cuore la situazione delle carceri, e non potrebbe essere altrimenti, data l’emergenza riconosciuta da tutte le parti politiche, ma le soluzioni semplicistiche che spostano il problema da un luogo all’altro mi lasciano perplesso. Si parla di strutture leggere, più simili alle Comunità Terapeutiche che a un carcere. Tuttavia, di simile vi è solo il contenitore, poiché sembrano sprovviste di quel valore educativo che il dettato costituzionale imporrebbe alla “pena”. A prima vista sembra dunque che tutti i fruitori della possibilità di approdare ad una struttura residenziale potrebbero avvalersi di un trampolino di lancio per la futura inclusione definitiva. In realtà si trovano nuovamente a condividere spazi con persone che provengono dallo stesso circuito, pur godendo di una maggiore libertà. In ogni caso, questa libertà non è così scontata. Tra i requisiti per l’ammissione al beneficio, non è infatti necessario avere già avviato un percorso di reinserimento sociale: questo, se mai, sarà una prerogativa della struttura stessa. Occorre avere i requisiti per l’ammissione a misure penali di comunità, il che fa presupporre l’ingresso di persone già in affidamento in prova; dunque, valutate meritevoli dalla Magistratura di Sorveglianza. Possono però accedervi anche persone in detenzione domiciliare con sole ipotesi lavorative, magari individuate tramite la profilazione realizzata all’interno dell’istituto penitenziario, dove potrebbe essere stato avviato il Progetto “Recidiva Zero”. Un ulteriore requisito è dato dal reddito, equiparato a quello per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. Ma che ne sarà di chi lo supera anche di poco, pur non avendo un domicilio? Nella mia veste di Garante, ritengo fondamentale sottolineare come il territorio, insieme agli enti preposti, sia chiamato ad ampliare le risorse. Quando si parla di percorsi di reinserimento sociale, non si esclude che anche l’opzione volontaria possa rappresentare una opportunità. Ecco che, a mio parere, il Terzo Settore interverrà validamente a riempire di contenuti una scatola che potrebbe apparire vuota. Tuttavia, mi sia consentito esprimere una certa diffidenza quando il decreto coinvolge in questa realtà penitenziaria alleggerita anche soggetti con problemi di dipendenza o disagio psichico che non richiedono un trattamento in apposite strutture riabilitative. Mi sembra un criterio residuale che sottovaluta la necessità di percorsi trattamentali di livello a fronte di situazione ritenute di non particolare allarme. È possibile ritenere la dipendenza o il disagio psichico di non particolare allarme confidando che un carcere alleggerito possa intervenire su fattori recidivanti e di potenziale allarme? È una domanda che mi pongo e che spero trovi risposta nella creazione di strutture con un alto livello di attenzione alla fase educativa di un percorso che preveda la “riparazione anche del sé”. Ritengo che le Comunità Terapeutiche, spesso in difficoltà per la mancanza di invii, rappresentino già la risposta per questi soggetti, senza dover creare una commistione di problematiche che potrebbe rappresentare la deriva di “buone intenzioni”. Basterebbe ridare slancio al sistema dei servizi accreditati per le dipendenze e per il disagio psichico per raggiungere obiettivi mirati di inclusione sociale. Riflettiamo. *Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del comune di Genova Biciclette di Maurizio Gazzoni dolcevitaonline.it, 23 settembre 2025 La metafora della bicicletta viene utilizzata in carcere per indicare il processo di creazione e diffusione di una notizia falsa che una volta “montata” inizia a “pedalare”, con risvolti spesso disastrosi. Anche in carcere si “montano biciclette”, ma quelli a cui sono destinate ne farebbero volentieri a meno, già, perché le biciclette che si montano in carcere non hanno lo scopo di aiutare la mobilità (oltretutto mancano gli spazi), ma sono “mezze infamità” che servono a screditare la reputazione di un detenuto. Le “biciclette” si montano anche fuori, ma “dietro il cancello” corrono più forte. Le dinamiche sono simili a quelle che si usano per generare e divulgare le fake news in rete, anche se nelle carceri l’uso è antecedente; si parte da una notizia che potrebbe essere plausibile, anche se non verificabile e ci si costruisce attorno una “canzone” da dar da cantare, in modo che coloro che, per una ragione qualunque, dovessero avere il dente avvelenato con il destinatario della “bici” possano magari arricchirla con dettagli piccoli, ma sempre plausibili, scegliendo di “confidarla” ad altre persone che poi la ripeteranno, e così via, sino a generare un “sospetto” avvallato da una sorta di vox populi che mette il bersaglio della storia in condizione di giustificare accuse spesso infondate (spesso, ma non sempre) di fatti non commessi. Se il destinatario della “bicicletta” non ha un passato cristallino sotto il profilo della “correttezza”, “smontare la bicicletta” sarà più difficile, poiché si era già guardati con sospetto prima che la “bicicletta” iniziasse a circolare. Alcune figure dalla “reputazione granitica” sono spesso al riparo da una pratica così meschina, che nasce dal basso e cresce alimentata dai peggiori sentimenti che la natura umana incarna e che in carcere, vista la condizione limite che vi si vive all’interno, spesso assume proporzioni anche maggiori e risvolti peggiori. Il principio non è molto diverso da quello che rende i “pregiudicati” meno credibili degli incensurati, di fronte alla legge. Sarebbe bello se si riuscissero a costruire in carcere le biciclette vere, quelle con i pedali ed il manubrio, credo che molti dei detenuti che sovraffollano le carceri nazionali sarebbero contenti di poter lavorare all’assemblaggio di un oggetto cosi comune ed allo stesso tempo cosi romantico nel nostro immaginario. Almeno una bici l’abbiamo avuta tutti e per tutti ha certamente rappresentato qualcosa e portato a spasso qualche sogno. La profonda revisione che il nostro sistema penitenziario non può rimandare, deve necessariamente passare dal lavoro e da un utilizzo più intelligente del tempo necessario ad emendare le proprie colpe, ma per un’inversione di tendenza serve un’inversione di pensiero e soprattutto la buona volontà di capire che la miseria genera inevitabilmente disobbedienza. Carriere separate, l’Anm ora ci crede: sarà lotta social di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 23 settembre 2025 La magistratura fiduciosa nella rimonta in vista del Referendum primaverile. E Parodi mobilita i suoi. “Il risultato non è affatto scontato e noi spiegheremo ai cittadini le ragioni del “no” a questa legge”, ha affermato Cesare Parodi a margine di un convegno sull’articolo 111 della Costituzione, organizzato lo scorso venerdì dall’Ordine degli avvocati di Vicenza nella sede di Palazzo Gualdi. Pare ostentare sicurezza, all’indomani del terzo voto in Parlamento sulla riforma che introduce la separazione delle carriere fra pm e giudici, creando così due distinti Csm, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, chiamato al compito di “ribaltare” tutte le previsioni della vigilia. Ed in effetti però, come già raccontato dal Dubbio l’altra settimana, gli ultimi sondaggi disponibili non darebbero così per scontato l’esito finale del referendum a favore del “si”. Pare esserci ancora molta incertezza, con il fronte del Sì e quello del No attestati entrambi sul 50 per cento, una perfetta parità che non mette tranquillità dalle parti di Palazzo Chigi. Molto importante sarà dunque l’ormai imminente campagna referendaria in vista del voto di primavera. Sul punto Parodi ha le idee chiare: grande spazio sarà dato ai social piuttosto che ai tradizionali mezzi di comunicazione, ad iniziare dai giornali. Sulle varie piattaforme social dovrà passare il messaggio, rivolto in particolare agli elettori più giovani, che la “terzietà del giudice” è già garantita dal sistema attuale, che questa riforma “non tocca minimamente l’efficienza del sistema giustizia” e che “i processi non saranno più rapidi di un giorno”. È “una riforma “sgangherata” e fatta in fretta”, gli ha fatto eco Claudio Galoppi, segretario generale di Magistratura indipendente, anch’egli fra i relatori del convegno vicentino. Va detto che l’Anm, a proposito della campagna referendaria, non ha perso tempo, inaugurando nei giorni scorsi il Comitato per il no, con Antonio Diella presidente esecutivo, Marinella Graziano vicepresidente vicaria, Gerardo Giuliano vicepresidente e segretario. Il Comitato, come recita lo statuto, avrà “come scopo immediato quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sui rischi derivanti dalla riforma costituzionale sulla separazione delle carriere e sull’importanza di preservare l’attuale sistema di garanzie dei diritti dei cittadini e quindi di promuovere la vittoria del no al referendum costituzionale”. Potrà inoltre decidere di partecipare ad ogni iniziativa culturale, mediatica e di informazione sul referendum. Il Comitato è aperto a tutti i cittadini ma non a esponenti di partito o a ex politici. La maggioranza, invece, sembrerebbe voler aspettare il quarto ed ultimo voto alla riforma, previsto entro il mese prossimo in Senato, prima di partire con la campagna referendaria. Non è passata inosservata l’assenza di qualsiasi accenno alla riforma sulla separazione delle carriere nei panel di “Fenix”, la festa organizzata da Gioventù nazionale l’ultimo fine settimana. Dal presidente dell’Anm è comunque arrivato anche un “assist” agli avvocati vicentini, presieduti da Alessandro Moscatelli, da sempre contro l’apertura del tribunale di Bassano. “A me risulta che il tribunale di Vicenza lavora molto bene: aprirne uno piccolo vuol dire correre il rischio di diseconomia organizzativa che pagheranno i cittadini”, è stato il commento di Parodi all’iniziativa governativa sulla riapertura del tribunale di Bassano. “No ad operazioni che frammentano la giustizia e spostano risorse da tribunali già sotto pressione”, ha puntualizzato l’avvocato Gaetano Crisafi, a capo dell’associazione “Per una giustizia di qualità a Vicenza”, a cui hanno aderito un centinaio di professionisti, nata proprio per protestare contro l’apertura del nuovo tribunale. Il pendolo del pm: troppo debole o troppo forte? di Tiziana Maiolo Il Dubbio, 23 settembre 2025 La separazione delle carriere riapre il dibattito sul ruolo del pubblico ministero, stretto tra accuse opposte. La figura del pubblico ministero nella riforma Nordio, tirata da una parte e dall’altra nei timori di chi, dal mondo del “campo largo” della politica fino al sindacato delle toghe, un giorno lo vede troppo debole e l’altro troppo forte. Nella stessa giornata di sabato 20 settembre hanno parlato, su tre diversi quotidiani, il ministro guardasigilli, la responsabile giustizia del pd e un autorevole ex magistrato, già presidente della Camera dei deputati. Colpisce il fatto che, mentre la riforma costituzionale procedeva in Parlamento fino a essere approvata in terza lettura e intanto la Anm costituiva il “Comitato per il no” al voto del probabile referendum, gli argomenti critici venissero via via affinati. Per settimane si è detta una colossale bugia: sganciando il pm dalla carriera unica e unita a quella dei “cugini” giudici, finirete con il sottoporlo al controllo del governo. Era l’immaginazione del rappresentante dell’accusa come improvvisamente reso debole e sottomesso al volere del ministro guardasigilli. Il ministro Nordio, e insieme a lui i riformatori parlamentari dei partiti di maggioranza, erano costretti sulla difensiva. Ma avevano, e hanno, una robusta freccia al loro arco, perché è sufficiente leggere la nuova formulazione dell’articolo 104 della Costituzione, per verificare l’imbroglio e la malafede. La sottoposizione del pm all’esecutivo non c’è. Il rappresentante della pubblica accusa rimane autonomo e indipendente. Ecco dunque il nuovo argomento, prodotto dai magistrati più accorti: volete rendere il pubblico ministero troppo forte. “Un superpoliziotto”, fa eco la responsabile giustizia del Pd, intervistata dal Sole 24 ore. Debora Serracchiani non è abituata a farsi sorprendere in imbarazzo, per il semplice motivo che, quando ha cambiato idea, dice che la questione è un’altra. Ma non può dimenticare quali sono state le tappe che, in seguito alla riforma Vassalli del 1989, hanno portato, passo dopo passo, fino alla modifica costituzionale in discussione oggi. Con il coinvolgimento della sinistra. Che era, sia pur timidamente e vagamente, ancora garantista. Ma solo quando era al governo. Siamo tra il 1999 e il 2001 quando viene approvato, con la modifica costituzionale dell’articolo 111, il “giusto processo” con al centro la terzietà del giudice. Il presupposto della separazione delle carriere. Ma se a proporlo è un ministro di centrodestra, allora lo scenario cambia, perché la logica del sospetto induce a ritenere che il vero obiettivo sia quello di “indebolire l’ordine giudiziario”. Ecco il pendolo tra pm- forte e pm- debole. Anche uno come Luciano Violante che, sia pur ex magistrato, intervistato dal Tempo, non lesina critiche ai suoi ex colleghi e a “qualche posizione eccessivamente aggressiva”, adotta la figura del “superpoliziotto”. Teme “che si costituisca una casta di pubblici ministeri separata dai giudici, autogovernata… senza vincoli gerarchici che si potranno muovere liberamente sullo scenario”. Sembra descrivere proprio la situazione come è oggi, e l’uso del termine “casta” non pare per niente inappropriato. Con l’aggravante dell’esistenza di una figura di magistrato, il giudice per le indagini preliminari, quello che non viene mai nominato ma che risulta agganciato troppo spesso, quasi per inerzia, alla figura del pubblico accusatore. Nel 2019, al congresso del Pd, anche Debora Serracchiani, che nella vita è anche avvocata, aveva firmato la mozione del segretario Martina, che prevedeva la separazione delle carriere. Pare quasi giustificare quella “pecca” nella sua carriera proprio Violante, lo stesso che usa parole severe rivolte a chi a sinistra, ha commentato in modo inappropriato l’omicidio di Charlie Kirk, che misura la febbre alle epoche politiche diverse. Dimenticando il fatto che il sindacato dei magistrati, a ogni passo verso le riforme, ha segnato il territorio con gli scioperi. “Trenta anni fa la separazione delle carriere poteva essere utile. C’era davvero integrazione tra giudici e pm”. Silvio Berlusconi aveva ragione, quindi. Anche se contro la timida “riforma Castelli” sulla divisione delle funzioni, il sindacato delle toghe proclamò due scioperi. E lo stesso fece nei confronti di quella della ministra Cartabia, che riuscì a realizzarla. Quella riforma delle funzioni cui tutti oggi si appellano per sostenere che la separatezza tra i due ruoli, quello requirente e quello giudicante, nei fatti c’è già. Perché non esistono più le porte girevoli, che confondevano le acque tra i due diversi compiti. Non solo. Si porta continuamente a esempio l’inchiesta sull’urbanistica di Milano, dopo che il Tribunale del riesame ha annullato i provvedimenti di custodia cautelare nei confronti di sei indagati. È proprio quello invece l’esempio più calzante di quanto sia urgente e indispensabile separare la sorte dei pm da quella dei giudici. Chi aveva infatti disposto quegli arresti, proprio in ottemperanza a quanto richiesto dalla procura? Il gip, cioè il giudice terzo che dovrebbe essere il controllore della pubblica accusa. Uno squilibrio che si riflette anche nel Consiglio superiore della magistratura, dove il soggetto forte è di nuovo il pm, in grado di condizionare attraverso il suo potere di voto sulle progressioni di carriera, anche i giudici più indipendenti. È l’enorme problema, come sottolineato dal ministro Nordio nell’intervista al Corriere della sera, di “una magistratura che si riunisce in partiti che si scambiano favori e nomine a pacchetto”. E il sorteggio non è forse il rimedio migliore. Ma questo aspetto della riforma deve essere un vero colpo al cuore, per la magistratura associata, dal momento che anche Debora Serracchiani fa proprio lo slogan delle toghe, secondo le quali “il vero bersaglio di questa maggioranza è il Csm”. “Emergenza giustizia civile, l’Italia rischia di ridare un miliardo all’Ue” di Ermes Antonucci Il Foglio, 23 settembre 2025 Il presidente dell’Unione nazionale delle camere civili Alberto Del Noce: “Difficile il raggiungimento dei target stabiliti dal Pnrr entro il 30 giugno 2026. Occorre superare la riforma Cartabia e una revisione organica del processo civile”. Non c’è solo il referendum sulla giustizia a turbare il calendario primaverile del governo. Entro il 30 giugno del prossimo anno, infatti, l’Italia è chiamata a raggiungere gli obiettivi fissati dal Pnrr sulla giustizia civile: riduzione del 90 per cento delle cause civili pendenti e riduzione del 40 per cento della durata media dei procedimenti. Se il primo obiettivo risulta fattibile, per il secondo appare necessario un miracolo, se si considera che al 30 giugno scorso il dato si attestava al -20,1 per cento rispetto al 2019, cioè la metà dell’obiettivo finale. L’emergenza della giustizia civile italiana, agli ultimi posti in Europa per efficienza, si è paradossalmente trasformata in emergenza Pnrr, tanto che il governo è intervenuto in agosto con un decreto d’urgenza che stabilisce misure straordinarie per raggiungere i target concordati con l’Unione europea. “Non rischiamo soltanto di non ricevere i soldi dall’Ue, ma anche di restituirli. L’Italia ha già avuto circa un miliardo di euro per investimenti nel settore giustizia e ne dovrà ricevere altri 1,2 miliardi. Se non raggiungiamo gli obiettivi rischiamo di dover restituire quello che abbiamo ricevuto”, dichiara Alberto Del Noce, presidente dell’Unione nazionale delle camere civili (Uncc), cioè l’associazione che riunisce gli avvocati civilisti. “Ci rendiamo conto degli sforzi che sta portando avanti il governo. Su questo ambito, inoltre, ci portiamo dietro un’eredità pesante - nota Del Noce - Quando l’Ue ci impone obiettivi a tempi brevi purtroppo è difficile provvedere a realizzare una riforma organica del sistema giustizia, e come spesso accade si arriva ai decreti d’urgenza, peraltro così snaturando il dettato della Costituzione, che per l’adozione dei decreti richiede l’esistenza di casi straordinari di necessità e urgenza”. Al ministero di Via Arenula da alcune settimane non si fa altro che ragionare su percentuali, statistiche, proiezioni. Con un grande interrogativo: riusciremo a smaltire abbastanza fascicoli entro il 30 giugno 2026? “Già l’uso del termine ‘smaltimento’ è molto brutto, se si considera che i rifiuti vengono smaltiti”, sottolinea il presidente dell’Uncc. “In questo momento stiamo guardando solo ai dati statistici e non alla giustizia sostanziale. Si procede con la fretta, seguendo il totem dell’efficienza, e quando si va così velocemente il sistema finisce per andare a scapito della qualità e della tutela delle garanzie dei cittadini”, evidenzia Del Noce. Che ci rivela una notizia: “Nelle ultime settimane ho interloquito sia col ministro Nordio sia con forze politiche di opposizione, e tutti concordano sul fatto che la riforma Cartabia non ha raggiunti i risultati prefissati, anzi ha creato molteplici problemi. Di conseguenza, finita la fase degli obiettivi del Pnrr, cioè oltrepassato giugno 2026, si cercherà di rimettere mano alla riforma della giustizia civile”. Per il presidente dei civilisti, non si riuscirà a risolvere il problema giustizia se non si interverrà su tre ambiti: “Primo, occorrono maggiori risorse. Nel nostro paese ci sono 12 magistrati ogni 100 mila abitanti, contro una media europea di 22, praticamente il doppio. Secondo i dati del Csm, la magistratura soffre al momento di 1.652 scoperture d’organico. Bisognerà almeno raddoppiare il reclutamento. Ci sono scoperture anche sul fronte del personale amministrativo. L’ufficio per il processo ha funzionato, l’importante è che queste persone non siano usate per redigere sentenze, come viene segnalato da alcuni fori”. Secondo intervento: riforma del processo civile, “risolvendo i problemi causati dalla riforma Cartabia e cercando di aumentare il ricorso alla giustizia alternativa (mediazione e negoziazione)”. Terzo: digitalizzazione. Per Del Noce “bisogna riflettere anche su come applicare l’intelligenza artificiale nella giurisdizione. Esclusa ovviamente la giustizia predittiva, ci può essere un’applicazione dell’AI per la gestione delle pratiche, che aiuterebbe molto il personale amministrativo con riduzione delle spese”. Ilaria Salis e il vizietto del garantismo a targhe alterne di Simona Musco Il Dubbio, 23 settembre 2025 Dietro la richiesta di revoca dell’immunità all’eurodeputata Avs si cela uno scontro tutto politico. E così un principio di giustizia viene piegato a logiche ideologiche. “La valutazione di una richiesta di revoca dell’immunità parlamentare deve basarsi esclusivamente sui criteri oggettivi stabiliti dal Parlamento europeo, e non su strategie o giochi politici”. Tuttavia, chi sperava in un voto davvero tecnico, come il relatore Adrian Vazquez Lazara, popolare e autore del rapporto sulla richiesta di revoca dell’immunità dell’eurodeputata di Avs Ilaria Salis, rischia di rimanere deluso. Ascoltando gli interventi che precedono la riunione della commissione Affari giuridici, la sensazione è chiara: nulla, in questa vicenda, sembra meno tecnico e più politico di questo voto. Ne è un esempio lampante la dichiarazione di Mario Mantovani, europarlamentare di Fratelli d’Italia: “Voterò per la revoca dell’immunità parlamentare. È giusto che a decidere siano i giudici”. Poco importa che Ilaria Salis sia stata detenuta per oltre un anno in condizioni degradanti in Ungheria, liberata solo dopo l’elezione a Strasburgo. Poco importa che la violenza subita fosse stata documentata dai media, con immagini che hanno suscitato indignazione in Italia e oltre. E poco importa che l’Ungheria stessa sia in procedura di infrazione per violazione dello Stato di diritto. Il garantismo nel processo, tanto declamato dalla destra di Fratelli d’Italia, sembra valere solo nel Belpaese, dove i diritti fondamentali - almeno per ora - non vengono messi a rischio per legge dello Stato. Non importa: si può ben votare - ed è legittimo - per l’immunità di Daniela Santanché, che pure affronterebbe il processo per truffa ai danni dello Stato da donna libera, ma non per quella di Salis, accusata di aver picchiato un neofascista che pure afferma di non averla riconosciuta tra gli aggressori. A rafforzare la posizione di FdI è intervenuto Giovanni Donzelli, secondo il quale “se Salis ha fatto le sue scelte con coraggio deve rinunciare all’immunità parlamentare. E se non lo fa, il Parlamento deve votare a favore della rinuncia”. Il tutto mentre il premier ungherese Viktor Orbán, sulla scorta delle dichiarazioni di Donald Trump, dichiara “Antifa” - qualunque cosa voglia significare - un’organizzazione terroristica. “Sono venuti anche in Ungheria, hanno picchiato persone per strada, poi sono diventati membri del Parlamento europeo e da lì ci danno lezioni sullo stato di diritto”, ha dichiarato il premier. Ecco quindi come l’argomento della legalità diventa strumento di vendetta politica: Salis, bersaglio designato, diventa emblema di un conflitto ideologico più che di una questione giudiziaria oggettiva. A sinistra, il Partito democratico non manca di ricordare le contraddizioni della destra, tirando fuori il caso Almasri, il torturatore libico rispedito a casa con aereo di Stato. Antonella Forattini, capogruppo in Giunta, ha chiesto: “Donzelli voterà contro l’immunità richiesta da Nordio, Piantedosi e Mantovano? Se non lo farà, avremo il classico doppiopesismo: feroce contro i nemici, indulgente verso gli amici”. Pina Picierno, vicepresidente del Parlamento europeo, ha ricordato che le accuse ungheresi - lievi lesioni e affiliazione a un’organizzazione antifascista - sono state aggravate dopo i fatti, a scopo punitivo. Orbán, osserva Picierno, segue metodi repressivi che ricordano quelli di Putin: colpisce dissidenti, stampa indipendente e società civile. Difendere l’immunità di Salis, dunque, non sarebbe solo un atto di solidarietà verso un eurodeputato, ma significherebbe tutelare l’autonomia delle istituzioni europee e riaffermare i principi fondamentali di un giusto processo, pene proporzionate e giustizia indipendente. Tuttavia, l’incoerenza regna sovrana. Quando toccò a Eva Kaili, eurodeputata socialista, subire un trattamento degradante in carcere senza garanzie difensive durante il Qatargate, la difesa dei diritti evaporò. Kaili era ormai “infetta”, dal momento che il Qatargate sembrava pronto ad abbattersi su ogni eurodeputato di sinistra. Così tutti si trasformarono in giustizialisti: via l’immunità, senza nemmeno ascoltare le sue ragioni. L’unico barlume di coerenza potrebbe offrirlo Forza Italia, almeno a voler interpretare con ottimismo le parole del segretario Antonio Tajani: “Non credo che la Salis sia una terrorista. Ha idee molto diverse dalle mie, c’è un processo che la riguarda, ma non mi risulta che sia una terrorista”, ha commentato. Aggiungendo però che non tocca a lui “fare commenti sulle scelte di altri Stati”. Parole che lasciano lo scenario apertissimo: Forza Italia sembra non aver preso una decisione definitiva, ma sarà proprio il Partito popolare europeo l’ago della bilancia, essendo anche il gruppo più grande. Idealmente, dovrebbe essere composto da parlamentari formati secondo principi liberali, ma Forza Italia, tradendo anche lo spirito di Silvio Berlusconi, potrebbe decidere di usare il caso non come una questione giudiziaria, ma come strumento politico. La partita politica si gioca quindi su più fronti. La commissione Juri deve decidere se esistono elementi sufficienti per revocare l’immunità, valutando il fumus persecutionis e la gravità dei reati contestati. Ma la partita politica si gioca su più tavoli: da un lato, la richiesta di Budapest di riportare Salis davanti alla giustizia ungherese; dall’altro, il rischio di legittimare un governo accusato di non rispettare lo Stato di diritto. In plenaria, il voto sarà presumibilmente per alzata di mano, senza appello nominale. Ma non è escluso il voto segreto, possibilità che consentirebbe agli eurodeputati di esprimersi liberamente, senza pressioni di gruppo. La revoca dell’immunità diventa così un banco di prova per l’ipocrisia politica: tutti declamano il garantismo, tutti invocano la legalità, ma pochi sono disposti a farne concreta applicazione quando si tratta di avversari politici. In definitiva, il caso Salis mostra con chiarezza che la retorica del diritto e della giustizia spesso si piega agli interessi dei partiti. La funzione dell’immunità parlamentare - non un privilegio personale, ma uno strumento di tutela della funzione politica - rischia di essere strumentalizzata, strappata via o concessa a seconda della convenienza del momento. Destra e sinistra, pur profondamente diversi per storia e identità, convergono in questo teatrino di ipocrisia, utilizzando il garantismo come un’etichetta da applicare a piacimento. Il voto di commissione di domani è solo un anticipo: la vera decisione spetterà alla plenaria di ottobre. E lì si vedrà se il Parlamento europeo saprà tutelare non solo Ilaria Salis, ma anche il principio fondamentale per cui la giustizia deve restare al di sopra dei giochi politici, evitando che l’Europa diventi complice delle vendette o dei doppi standard. Padova. “Il carcere che vorrei è fatto di umanità e di gioco di squadra” di Sabrina Tomè Il Mattino di Padova, 23 settembre 2025 Dal febbraio scorso Maria Gabriella Lusi, 56 anni, dirige la casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Originaria di Capua, in provincia di Caserta, è laureata in Giurisprudenza e lavora nell’amministrazione penitenziaria dal 1997. Come dirigente penitenziaria ha girato gran parte delle carceri del nord Italia: fino al 2007 è stata vicedirettrice a Bergamo, Bollate, Parma, poi direttrice a Brescia, Voghera, Cremona e Piacenza. Il suo approccio si è caratterizzato dalla promozione della dignità e della coralità all’interno delle strutture penitenziarie. Maria Gabriella Lusi quanto ha influenzato la sua scelta professionale l’ultima, indimenticabile, scena del film Brubaker, con l’illuminato direttore del carcere (Robert Redford) costretto ad andarsene, ma accompagnato dagli applausi dei detenuti? “Le narrazioni sul carcere mi hanno sempre incuriosita, stimolata e, da cittadina, a tratti anche preoccupata. Nel tempo, con l’esperienza professionale, ho maturato la convinzione che il direttore possa e debba essere un riferimento per la struttura anche sul piano delle relazioni e dell’umanità. Tutte le volte che ho percepito di aver raggiunto questo obiettivo, allora, la spinta emozionale che ne ho ricavato è stata davvero grande. Sono convinta che ogni direttore debba puntare al benessere dell’organizzazione nel suo complesso e che possa farlo agendo a un tempo sia sul personale che sui detenuti. Gli applausi degli uni favoriscono gli applausi degli altri. Quando si agisce sul benessere delle persone si favorisce quello dell’intero contesto umano e organizzativo. E il benessere non è mai scontato ma è sempre raggiungibile, costituendo il fil rouge delle nostre giornate di lavoro”. Ci racconti la prima emozione del primo giorno del primo carcere in cui è entrata…. “È accaduto a Parma, 28 anni fa, era settembre. La prima cosa che ho percepito è stata la curiosità che il contesto mi rivolgeva. Mi colpì l’attenzione con cui mi accolsero, in termini di garbo e di preoccupazione affinché l’impatto fosse positivo. E di questo ancora ringrazio il direttore dell’epoca. Ebbi la sensazione che mi sarei trovata di fronte a una sfida personale importante: restare me stessa in un contesto nuovo e complesso, per quanto quel contesto fosse molto più civile di quanto immaginassi. Capii subito che i miei sforzi professionali dovessero mirare a non lasciare che il contesto prevalesse sul mio modo di essere, ma che dovessi usare ogni energia affinché io potessi agire sullo stesso per orientarlo verso gli obiettivi dell’amministrazione”. Ancora Brubaker: “Si possono accettare i compromessi sulle strategie non sui principi”. A lei è capitato? “Certamente sì, ma parlo di compromesso in termini non negativi, intendendolo come possibilità di gestione, ovvero di “chiusura” ordinata, composta e pacifica di situazioni problematiche. Se è sostenuto da principi “sani” declinati in obiettivi di lavoro, il compromesso è utile se non necessario. D’altronde in un’organizzazione complessa occorre tenere in equilibrio le diverse esigenze; inoltre attraverso il compromesso si definisce la possibilità di nuove alleanze, individuando nelle stesse non già l’idea di “movimenti contro altri”, ma di relazioni che servono a fare squadra, a sviluppare intese, sinergie. Il compromesso inoltre significa spesso uso del buon senso”. La leadership femminile può portare cambiamenti nel sistema penitenziario? “Credo che in generale la donna sappia esprimere una forza che non è muscolare, autoritaria, ma capace di incidere sul sistema perché trova le sue “gambe” nella capacità di motivare, di essere coerente, resiliente, trasparente e soprattutto nella volontà di comunicare e di farlo con coraggio”. Nella relazione 2024 il Garante per i diritti della persona del Veneto indica nel circondariale di Padova un sovraffollamento del 126%, a Treviso del 183% a Verona del 179%. Un direttore non può risolvere problemi in capo ad altri. Però si deve misurare quotidianamente con essi. Come li gestisce? “Non saremmo dirigenti se non dovessimo affrontare problemi anche molto significativi. E un’organizzazione complessa come il carcere raramente prospetta assenza di problemi importanti come è appunto il sovraffollamento. Alla Reclusione di Padova i numeri sono ancora tollerabili, inoltre dietro a ciascun numero - ergo, detenuto - è possibile intravedere “vita”, seppur penitenziaria, grazie ad un importante investimento sulle attività del trattamento. La vita dei detenuti assume aspetti di qualità diversi - anche - in base a come si svolge la giornata, a come gli operatori lavorano, all’organizzazione e a come il territorio si esprime nei confronti del contesto penitenziario. La nostra è una realtà virtuosa, i numeri rispettano la tollerabilità e la maggior parte dei detenuti è impegnata in attività grazie allo sviluppo di sinergie territoriali davvero molto significative, nel solco di attive e propositive, ancorché “antiche”, collaborazioni e di forte attenzione da parte dell’Amministrazione Penitenziaria. Sono convinta che solo attraverso le condivisioni e il lavoro di squadra, le grosse difficoltà si possono affrontare e alleggerire. È ugualmente importante nell’applicazione delle norme la valutazione del contesto, nella misura in cui ciò è possibile. Con l’esperienza si capisce come declinarle sul piano operativo, posto che anche la nostra operatività risponde immancabilmente a due obiettivi: la rieducazione del condannato e l’ordine e la sicurezza penitenziaria”. Suicidi in carcere, una cinquantina, da inizio anno in Italia. Come prevenirli? “È un tema importante su cui l’amministrazione lavora da molto tempo. La prevenzione si può mettere in campo attraverso la conoscenza del detenuto, del suo percorso di vita, anche penitenziaria, nel tentativo di intercettare il disagio e le fragilità. Indispensabile in tal senso è la multidisciplinarietà degli interventi degli operatori, attraverso incontri, condivisioni e ponendo la persona al centro del nostro lavoro. Il tema è complesso, il suicidio è un trauma sia per gli affetti del detenuto che per gli operatori penitenziari e per l’organizzazione. È una sconfitta che mai vorremmo subire. La soluzione? Prenderci cura delle persone ancor più se versano in condizioni di difficoltà”. Come lo state facendo? “Con progetti di varia natura: formazione professionale, lavoro, istruzione, teatro, sport, religione e tanto altro. Si riproduce in questa realtà lo spirito di una vera e propria comunità che vive e respira anche grazie alle sinergie territoriali”. Tre giorni prima di morire Papa Francesco ha scelto di far visita ai detenuti di Regina Coeli. Messaggi così dirompenti possono far crescere una cultura di sensibilità verso i più fragili? “Papa Francesco ci ha insegnato che di fronte all’esempio, le parole perdono di importanza. E che comunque, anche quando si preferisce agire con le parole anziché con i fatti, ne devono essere usate poche, ma di peso. Gli esempi sono fondamentali, ancor più se provengono da chi ha una linea di pensiero coerente e profonda. Una gran parte del nostro compito educativo è assorbita nella nostra capacità di essere da esempio a chi ha sbagliato. Va detto che il carcere non contiene solo i più fragili, ma anche una fetta di umanità a cui comunque gli operatori sono abituati a guardare con rispetto e senza pregiudizio”. Il carcere ideale: come lo immagina? “L’organizzazione del carcere è troppo complessa per raggiungere l’idealità, è sempre perfettibile. Troppe diversità, imprevisti, sfide, con un’operatività h24. Più che a un modello di carcere preferisco pensare a giornate di lavoro “ideale” in cui il personale sia sereno e orgoglioso del lavoro che svolge in funzione della rieducazione e della sicurezza sociale; a giornate di lavoro che io possa sentire - come pure accade spesso - leggere, nonostante la fatica e l’impegno, perché motivate e motivanti in quanto ciascuno è pronto a riconoscere l’impegno dell’altro e il suo valore; a occasioni di tangibile ravvedimento delle persone detenute”. Quando è maturata l’idea di questa carriera? “Dopo la laurea in Giurisprudenza, anche se per sensibilità familiare sono sempre stata attenta alle persone e alle relazioni. Ciò non toglie che in famiglia si siano meravigliati della mia scelta e del mio impegno”. Lo confessi: ha simpatizzato in qualche momento per Papillon? “Simpatizzo per la giustizia, per l’amicizia, per i legami costruiti nelle difficoltà, per la lealtà”. Bologna. Giovani adulti alla Dozza. La sezione chiude martedì di Nicoletta Tempera Il Resto del Carlino, 23 settembre 2025 Lo annuncia Sangermano. I ragazzi ancora ospitati spostati in altri minorili. La sezione dei giovani adulti della Dozza chiuderà improrogabilmente il 30 settembre. Lo ha comunicato il capo del dipartimento della Giustizia minorile Antonio Sangermano, con una lettera indirizzata ai direttori degli istituti penali per minorenni. Una lettera che chiude le polemiche e le preoccupazioni relative alla durata, paventata da alcuni come a ‘tempo indeterminato’, della sezione minorile distaccata, realizzata nell’emergenza nell’area della casa circondariale che prima ospitava i detenuti del Penale. Lo scopo era alleggerire il sovraffollamento degli Ipm, in vista dell’apertura dei tre nuovi istituti a Rovigo, Lecce e L’Aquila. Ora, come spiega Sangermano, con le nuove strutture in funzione, gli spazi della Dozza torneranno nella disponibilità dell’amministrazione penitenziaria ordinaria. E, con tutta probabilità, torneranno anche al loro vecchio utilizzo. Intanto, i ragazzi (tutti maggiorenni) “che nei giorni immediatamente prossimi alla data di chiusura saranno ancora presenti nella sezione - si legge nella missiva di Sangermano - dovranno essere allocati presso altri Ipm. Si assicura che le valutazioni che saranno operate nel merito terranno conto sia della condizione personale e detentiva del giovane, sia della situazione di ogni singolo istituto”. La sezione dei ‘giovani adulti’ era stata inaugurata il 25 marzo scorso, con una capienza massima di cinquanta detenuti, tutti in arrivo da istituti minorili sovraffollati e tutti sopra i 18 anni. E, benché separata e indipendente (anche dal punto di vista del personale in servizio), si era inserita nella situazione già estremamente complessa della Rocco D’Amato, aumentandone le criticità. In questo contesto, l’annuncio della chiusura della sezione era atteso e auspicato da più parti, compresi gli stessi detenuti. Cuneo. Detenuto obeso, l’ospedale scrive al Dap: impropria la permanenza in pronto soccorso di Martino Villosio rainews.it, 23 settembre 2025 L’uomo pesa 260 kg e ha problemi di mobilità, il carcere di Cuneo non può accoglierlo ed è da un mese “parcheggiato” al Santa Croce piantonato h24. Osapp: situazione insostenibile. Chiesto il trasferimento in un centro diagnostico terapeutico. Doveva essere una soluzione provvisoria e di emergenza, davanti al caso di un detenuto con obesità patologica (260 chili di peso) e problemi di mobilità che il carcere di Cuneo non poteva accogliere né in cella né in altri reparti. Dopo un mese, però, ora l’ospedale Santa Croce chiede all’amministrazione penitenziaria di assumersi le proprie responsabilità. È il nuovo atto della vicenda che la TGR Piemonte aveva raccontato a inizio settembre. F. D. L., cinquantunenne pugliese con una detenzione da scontare fino al 2040 per plurime truffe, gravemente obeso e diabetico, era stato per questo assegnato da un giudice ai domiciliari a casa del fratello residente a Cuneo. Quindi il trasferimento in un RSA di Bra, misura sospesa dal Tribunale di Sorveglianza di Torino per “comportamenti inconciliabili” con la permanenza nella struttura il 22 agosto scorso. È a quel punto che il detenuto sarebbe dovuto tornare in carico all’amministrazione penitenziaria. Invece di entrare nel carcere di Cuneo, impossibilitato ad accoglierlo per le sue condizioni, è stato tuttavia ricoverato il 23 agosto in una stanza di medicina d’urgenza del Pronto Soccorso. “Impropriamente”, scrive ora nero su bianco il primario Giuseppe Lauria, in una lettera indirizzata all’Amministrazione di Giustizia dalla quale emerge tutta la delicatezza e insieme l’anomalia del caso. “Le intemperanze e le intolleranze alle regole della degenza ospedaliera”, spiega il direttore del Dipartimento d’Emergenza e Aree Critiche del Santa Croce, “prima fra tutte il divieto di fumo, recano disturbo ai pazienti affetti da patologie critiche”. La situazione clinica dell’uomo non richiede il ricovero in ospedale e lo stesso ricovero, aggiunge il dottor Lauria, espone il paziente a disagio. In sostanza, la permanenza prolungata (ormai da un mese esatto) in ospedale non giova allo stato psicofisico dell’uomo e insieme comporta “un utilizzo improprio di un letto tecnico di ospedale per acuti”. A completare (e in parte complicare) il quadro, anche la decisione di pochi giorni fa del Tribunale del Riesame di Torino che ha revocato il differimento pena al detenuto nelle forme della detenzione domiciliare, concessa inizialmente proprio per la condizione di grave obesità. Tradotto: deve andare in carcere, ovviamente non in cella, ma in una struttura idonea. Il direttore del penitenziario di Cuneo Domenico Minervini ha scritto al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria giovedì scorso, chiedendo il trasferimento presso un Centro Diagnostico Terapeutico. Il contesto idoneo ad accogliere in custodia un detenuto con grave obesità. “Ormai da un mese esatto”, rileva infine il sindacato di polizia penitenziaria Osapp, “dieci agenti del carcere di Cuneo vengono impegnati ogni giorno a rotazione nei turni di piantonamento in ospedale, sottraendo così risorse al personale già in affanno della casa circondariale Cerialdo”. Toccherà all’amministrazione penitenziaria affrontare il groviglio di una vicenda tanto drammatica quanto surreale. Al momento prigioniera dell’impasse. Perugia. Torna il progetto giustizia riparativa per l’inclusione lavorativa dei detenuti di Nicola Uras Corriere dell’Umbria, 23 settembre 2025 Appuntamento dal 25 al 29 settembre. l’idea è della Caritas della diocesi di Perugia-Città della Pieve. Torna - dopo essere stato avviato nel 2024 - il progetto Semi di carità della Caritas diocesana di Perugia-Città della Pieve. Finanziato dall’8xmille intende promuovere la giustizia riparativa e la giustizia di comunità sul territorio. La fase dei quartieri riparativi inizierà questa settimana, da giovedì 25 a lunedì 29 settembre, nei quartieri di Fontivegge e Monteluce. Il dottor Alfonso Dragone, responsabile dell’area progetti di Caritas diocesana, spiega: “Innanzitutto si tratta della promozione della giustizia riparativa sul territorio, nel suo approccio comunitario, oltre l’applicazione in ambito penale previsto dalla riforma Cartabia. Abbiamo lavorato alla realizzazione di un progetto pilota nei quartieri di Fontivegge e Monteluce così da promuovere e favorire la gestione e la prevenzione di conflitti e rafforzare il loro tessuto sociale, attraverso un approccio riparativo mediante i valori, i principi e le pratiche della stessa Giustizia riparativa”. I quartieri riparativi “sono un percorso di ascolto, dialogo e trasformazione partecipato, nato per costruire comunità più inclusive, solidali e consapevoli con il coinvolgimento di cittadini, istituzioni, associazioni, realtà commerciali”. Per Fontivegge gli incontri iniziano giovedì 25 settembre, ore 18, presso il Polo formativo Confcommercio, proseguendo il 2, 9, 16, 23, 30 ottobre e 7 novembre. Per Monteluce l’appuntamento è per lunedì 29 settembre, ore 18, presso le aule Adisu, continuando il 6, 13, 20, 24 ottobre e 3, 10 novembre. Il progetto punta a quattro obiettivi principali: inclusione sociale e lavorativa per detenuti ed ex detenuti; sensibilizzazione sui valori della giustizia riparativa; coinvolgimento della comunità scolastica; mitigazione conflitti e sviluppo della coesione sociale. Il direttore don Marco Briziarelli definisce la giustizia riparativa “paradigma innovativo per il nostro territorio, capace di attivare percorsi di comunità e di rigenerazione sociale nei quartieri in cui prende forma questo progetto pilota. Questa iniziativa è resa possibile grazie a una rete straordinaria di partner che credono nella forza del dialogo e della responsabilità condivisa. A loro va il nostro più sentito ringraziamento. Un pensiero di apprezzamento va anche alle istituzioni regionali, che con attenzione e sensibilità, stanno seguendo con interesse questo cammino condiviso”. Napoli. Mattarella a Nisida con Jovanotti: scuola e musica per scrivere il futuro di Francesco De Felice Il Dubbio, 23 settembre 2025 Nel carcere minorile di Napoli l’anno scolastico si apre all’insegna del connubio tra istituzioni e creatività. Dal carcere minorile di Nisida, luogo-simbolo di riscatto e speranza, l’anno scolastico 2025/2026 si è aperto oggi a Napoli con un dialogo inedito tra istituzioni e musica. Qui, tra i laboratori di teatro e rap che provano a trasformare il futuro dei ragazzi, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Jovanotti hanno scelto di lanciare insieme un messaggio di fiducia e di libertà: la scuola come strumento per scoprire se stessi, la creatività come via per superare i limiti. Un binomio che unisce la solennità del Quirinale e la leggerezza della musica, portando al centro la stessa convinzione: investire nei giovani significa investire nel futuro. “La scuola è lo strumento e anche il veicolo per il futuro” ha ricordato Mattarella all’inizio della cerimonia, trasmessa in diretta su Rai 1. “Quest’anno l’avvio delle lezioni avviene in tre luoghi: qui a Nisida, in ospedale e in città. Il futuro riguarda tutti, ecco perché questa triplice tappa. Nella scuola ci si scopre, si costruisce l’avvenire, si formano talenti e ci si mette alla prova”. Mattarella ha sottolineato l’importanza della musica come strumento di emancipazione: “La musica è libertà e consente di superare ogni ostacolo e ogni limite. Il rap, nato cinquant’anni fa, avevo già più di trent’anni, è stato un linguaggio di cambiamento e continua a orientare al futuro”. Accanto al presidente, Jovanotti ha portato la sua testimonianza personale: “Credo nella scuola, la scuola pubblica mi ha dato tanto da studente. Ho scoperto le mie potenzialità, ho messo a punto una passione e allargato i miei orizzonti. Essere qui oggi per inaugurare l’anno scolastico è un onore”. Dopo aver ascoltato insieme al cantautore un brano rap scritto dai ragazzi, Mattarella ha elogiato “la fusione straordinaria tra musica e parole” espressa dai giovani detenuti. E prima di lasciare Nisida ha consegnato loro un messaggio diretto: “Ciascuno di noi è unico al mondo, non ce n’è un altro uguale. Ma ognuno deve costruire la propria vita, come fate qui con la scuola, la musica e il teatro. Ognuno ha un programma di vita: vi auguro di essere protagonisti del vostro futuro”. Accompagnato dal ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, il capo dello Stato ha visitato i laboratori teatrali e musicali dell’istituto penale per minorenni, prima di spostarsi all’Ospedale pediatrico Santobono-Pausilipon per incontrare i giovani studenti ricoverati. La giornata ha visto anche la presentazione della seconda edizione di “La Costituzione in Shorts”, progetto ideato dalla Presidenza della Repubblica in collaborazione con YouTube: sette creator hanno raccontato, con video di massimo tre minuti, alcuni articoli della Carta fondamentale, pubblicati poi sul canale ufficiale del Quirinale. Un linguaggio immediato e vicino ai ragazzi per rendere più accessibili i valori costituzionali. La parte conclusiva della cerimonia si è svolta nel quartiere di Fuorigrotta, nel comprensorio scolastico di via Terracina che riunisce tre istituti. Roma. Università Lumsa e Amministrazione Penitenziaria insieme per la formazione dei dirigenti Il Messaggero, 23 settembre 2025 Stamattina, lunedì 22 settembre 2025, l’Università Lumsa e il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria (Prap) del Lazio, Abruzzo e Molise hanno sottoscritto un accordo di collaborazione (protocollo d’intesa) finalizzato allo sviluppo di progetti culturali di comune interesse nell’ambito della ricerca scientifica e formazione, con l’obiettivo di sensibilizzare e mettere in campo strategie di intervento sul rispetto dei diritti umani e della legalità; preparare persone impegnate e capaci di vivere e risolvere i problemi culturali e sociali; promuovere percorsi di consapevolezza e responsabilizzazione, di riflessione critica. L’accordo è stato firmato per l’Università Lumsa dal Rettore, prof. Francesco Bonini e per il Prap dal provveditore dott. Giacinto Siciliano. In virtù di questo protocollo l’Università Lumsa grazie alle competenze del centro di ricerca Das (Diritto Alla Speranza) diretto dal prof. Giordano (Ordinario di Economia aziendale), referente e responsabile per l’Università Lumsa dell’accordo, prenderà avvio nei prossimi giorni un percorso di formazione rivolto alla dirigenza degli istituti di pena, ai commissari di Polizia Penitenziaria e responsabili delle aree educative. Già in corso anche una ricerca sul benessere organizzativo in carcere coordinata alla prof.ssa Letizia Caso. Il PRAP collaborerà con l’Ateneo mettendo a disposizione competenze per la didattica nei corsi e favorendo lo svolgimento presso le proprie strutture di stage formativi, di elaborati e lavori di tesi, organizzazione di conferenze dibattiti e seminari. Francesco Bonini, rettore Università Lumsa: “Per l’Università Lumsa è molto importante l’investimento sulle tematiche del carcere e della condizione concreta dei detenuti, proprio perché grazie alla complessa e completa offerta formativa possiamo svolgere un servizio integrato e multidisciplinare, tenendo insieme tutti gli aspetti partendo e arrivando alle persone concrete, alle loro concrete situazioni. Così com’è nel nostro stile e nel nostro Dna di università cattolica impegnata per il bene comune”. Giacinto Siciliano, provveditore regionale amministrazione penitenziaria Lazio Abruzzo e Molise: “Per noi questo protocollo è molto importante perché oltre a suggellare un’ulteriore forma di collaborazione col mondo universitario ci dà la possibilità di portare anche il nostro mondo dentro l’università a far conoscere ai ragazzi e agli studenti quello che è un contesto sicuramente delicato ma per il quale abbiamo bisogno invece di attrarre forze e risorse nuove. Poi c’è anche la collaborazione sulla formazione dei tutti i nostri quadri dirigenziali, quindi direttori e comandanti, nell’ottica appunto di un rinnovamento e di una visione che è necessaria in questo momento per affrontare da una parte le criticità e dall’altra per raggiungere obiettivi sempre più alti”. Novara. Incontro in carcere tra detenuti e figli per festeggiare l’avvio dell’anno scolastico La Stampa, 23 settembre 2025 L’iniziativa “Back to school” è a cura della sezione locale del Telefono Azzurro: genitori e bambini insieme per una giornata. Il ritorno a scuola dei piccoli alunni figli di detenuti, è stato celebrato sabato all’interno del carcere novarese di via Sforzesca grazie a una iniziativa dei volontari della sezione locale del Telefono Azzurro, con il supporto del direttore, degli educatori e degli agenti di polizia penitenziaria. “Back to school” si è tenuto nell’area verde del carcere, dove ogni bambino ha potuto incontrare il proprio papà, condividendo con lui momenti di svago: il gioco della tombola a tema scuola, piccoli doni scolastici per ogni bambino e una pizza preparata dagli stessi detenuti. “La solidarietà ha unito persone e storie diverse - ha fatto sapere Telefono azzurro - un momento che ha abbattuto muri, non fisici, ma fatti di pregiudizi e distanze”. La festa rientra nell’ambito del progetto “Bambini & carcere” della fondazione Sos Il Telefono Azzurro Ets che da sempre si schiera dalla parte dei bambini e che già da diversi anni è portato avanti nel carcere di via Sforzesca dai volontari del gruppo di Novara. Il progetto si propone di tutelare i diritti dei bambini figli di detenuti e di mantenere con lui i contatti. A Novara, la sezione “Ludoteca” del progetto cerca di creare un ambiente accogliente e sereno per i bambini che visitano il genitore detenuto, con attività ludiche e laboratori. Criminologia critica, sguardo alla rovescia di Tamar Pitch Il Manifesto, 23 settembre 2025 Un’anticipazione dalla relazione della giurista che sarà al simposio di Bologna dedicato alle “Trasformazioni del controllo sociale. 50 anni di studi sulla questione criminale”. Siamo spettatori oggi di un genocidio e di una pulizia etnica, ambedue crimini contro l’umanità. C’è poi una guerra in Europa, un quasi dittatore negli Usa e uno spostamento verso le destre radicali in Italia e molti altri paesi, non solo europei. Quando cominciammo con La Questione Criminale c’era stato il golpe in Cile, c’era una feroce dittatura in Argentina, le stragi di stato e il terrorismo in Italia e Germania. Eppure, forse perché ero giovane, lo ricordo come un periodo di speranze e progetti di libertà e giustizia sociale. Dalle ricerche che si leggono, pare che non sia più così, anche se una rivoluzione l’abbiamo fatta e vinta: il femminismo. La crisi dell’egemonia neoliberale, durata quaranta anni, si presenta mettendo in piena luce la sua faccia oscura. In tutto questo periodo abbiamo spesso riflettuto su questa faccia oscura: lo slittamento dalla questione criminale alla questione sicurezza, dallo stato sociale allo stato penale. Nel 1973 i detenuti nelle nostre carceri erano 27mila, oggi sono più di 63mila. Senza contare quelli e quelle in detenzione amministrativa, nonché le persone in esecuzione penale esterna. Tutto questo, lo sappiamo bene, non riguarda solo l’Italia. Comunque declinata, la formula “questione criminale” metteva al centro il sistema di giustizia penale con annessi e connessi (magistrati, giuristi, forze di polizia varie, compresi i rapporti con gli altri sistemi di controllo sociale) e i suoi “utenti” (imputati, condannati, detenuti). Ciò che chiamiamo criminologia critica ha rovesciato lo sguardo fino allora prevalente: da perché e come si delinque a perché e come si viene selezionati come delinquenti, lasciando però intatta la cornice. In maniera davvero sintetica, potremmo dire che dentro questa cornice siamo passati da una lettura latu sensu socialdemocratica (la ricerca sulle cause della criminalità, da trovare nella povertà, la marginalità, ecc.) a una lettura “radicale” (la ricerca sulle cause e le conseguenze della criminalizzazione, da trovare nelle disuguaglianze di potere, di risorse economiche sociali e politiche). La questione sicurezza si declina invece in larga parte fuori da questo frame, anzi, lo rende osceno, fuori scena. Al centro della questione sicurezza ci sono le vittime, attuali e potenziali, ossia tutti e tutte noi, che devono essere difese dai possibili predatori. È, dunque, il paradigma della difesa sociale all’ennesima potenza che si impone a tutti i livelli. Da cui panpenalismo, sterilizzazione del territorio urbano, fortezza Europa, guerre. Questo paradigma può avere solo una declinazione, questa. Il tentativo di riformulare la sicurezza come sicurezza dei diritti di tutti/e non è che un ritorno alla versione prevalente di sicurezza durante i trenta gloriosi, ossia la sicurezza sociale. Si dice ancora oggi che la sicurezza non è un tema di destra o di sinistra. Dipende da che cosa intendiamo con sinistra, ma, in generale, la sicurezza come diminuzione del rischio di rimanere vittime di reati e inciviltà è, invece, squisitamente un tema di destra. E le destre ne hanno fatto e ne fanno un ottimo uso, vedere da ultimo il caso Kirk. Dicevo ai tempi, e ne sono convinta ancora, che la sicurezza così intesa non può che essere un byproduct di buone politiche sociali. E non può mai essere una delle cose di sinistra che Nanni Moretti avrebbe voluto si dicessero. Le politiche di sicurezza e le retoriche relative vanno di pari passo con l’erosione e la delegittimazione di diritto e diritti, le alimentano e ne sono alimentate. Del resto, il declino del terzo e della mediazione verticale è stato uno degli obbiettivi delle politiche neoliberali. Le quali hanno successo, anche perché ciò che siamo soliti invocare come la cultura dei diritti, magari associandola a una supposta, e immaginaria, cultura occidentale, è sempre stata una cultura minoritaria. I diritti umani, come sappiamo, nascono da un genocidio: che siano stati inventati da Las Casas a difesa dei nativi, o da De Vitoria per giustificarne il massacro, versione che preferisco, possiamo comunque considerarli un pharmakon, ossia insieme veleno e cura del loro stesso veleno. Ricordo qui la critica femminista che, prima ancora di quella post e decoloniale, decostruisce il soggetto dei diritti e del diritto della modernità europea, falsamente neutro e universale, e invece storicamente incarnato in un maschio bianco adulto e proprietario. Si dà il caso, però, come a suo tempo ha notato Amartya Sen, che sono precisamente i diritti umani a essere richiamati e invocati in giro per il mondo, contro le ingiustizie, i massacri, i soprusi, i genocidi, le guerre, e che, leggendo bene le diverse storie delle diverse società, questa idea può essere rintracciata in molte altre culture. Le quali, tutte, comprese quelle dei cosiddetti popoli originari, sono continuamente prodotti di intrecci e mescolamenti, percorse da conflitti, in una parola costitutivamente multiculturali. Il disconoscimento di questo fatto conduce ai muri, ai confini, alla ricerca di una purezza identitaria, ai genocidi, alle guerre. La società piatta della retorica neoliberale, e della retorica della sicurezza, in cui ci sono solo buoni e cattivi, vittime e carnefici, ha innescato una deriva identitaria sottesa per l’appunto all’assunzione dello statuto di vittima (meritevole), e una rincorsa a chi è più vittima. Ne viene una frammentazione che coinvolge anche molti movimenti. La moltiplicazione delle sigle, tutte disposte in orizzontale, non può venir superata semplicemente richiamandosi all’intersezionalità. Il problema è piuttosto quello di recuperare la dimensione verticale, sfidare la retorica dell’orizzontalità. E, da questo punto di vista, il diritto, anche quello penale, ha un ruolo da svolgere. La giustizia penale che conosciamo è classista, razzista, sessista. Ma quali sono le alternative? A parte l’abolizione della pena carceraria, che credo ci trovi tutti/e d’accordo, nelle nostre riflessioni, analisi e conflitti ne compaiono, fin dall’inizio della nostra avventura, soprattutto due: l’abolizionismo penale e il diritto penale minimo. Dico subito che ambedue sono, oggi in particolare, utopie. Disegnano tuttavia due diversi orizzonti politici. A me pare che l’abolizionismo penale (e con esso la cosiddetta giustizia trasformativa) condivida alcuni aspetti della razionalità neoliberale, e li coniughi con altri che invece ne sembrano una critica. Tra i primi: l’orizzontalizzazione, la moralizzazione e la privatizzazione del conflitto, tra i secondi: il sogno comunitarista e la romanticizzazione dei popoli “altri” (Maureen Cain). Una lettura non troppo diversa da questa l’aveva fatta Massimo Pavarini, nella sua introduzione all’edizione italiana di Limits to Pain di Nils Christie. L’abolizionismo penale, non a caso di derivazione anarchica, e la cosiddetta giustizia trasformativa, si basano sull’idea, o meglio sull’illusione, che fare a meno delle pene legali voglia dire eliminare le punizioni, come se abolire le norme penali equivalesse a eliminare le norme sociali. Ma vale ricordare che non c’è un fuori dalle istituzioni. Chiunque abbia studiato una qualche scienza sociale sa che viviamo immerse/i in un universo di norme, solo alcune delle quali sono giuridiche, accompagnate ovviamente da sanzioni, non necessariamente meno afflittive di quelle penali. Possiamo/dobbiamo abolire il carcere, diminuire drasticamente le fattispecie penali, lavorare per mutare l’attuale senso comune punitivista, tutte cose, in questa temperie culturale, già abbastanza utopistiche, ma abolire il diritto penale a me pare un ritorno a un passato senza garanzie, e ci stiamo già arrivando anche senza abolirlo, grazie anche, paradossalmente, all’inflazione delle leggi penali. Il diritto penale minimo è, se non altro, universalista, figlio di quell’illuminismo oggi sotto accusa da parte di molta letteratura decoloniale (la critica dell’illuminismo, naturalmente, è antica quanto l’illuminismo stesso) e rimanda, appunto, alla tutela di quei diritti fondamentali oggi sotto attacco da parte delle destre di tutto il mondo. Il diritto, anche quello penale, è Terzo, del Terzo c’è gran bisogno, e già è parecchio indebolito, dando luogo, come dice Supiot, a rapporti di tipo feudale. Non mi pare il caso di pensare di abolirlo. In conclusione, avremo un bel daffare negli anni a venire: ciò che chiamiamo questione criminale si sta allargando a dismisura, e così dovrà allargarsi anche il nostro orizzonte. Scheda - “Le trasformazioni del controllo sociale. 50 anni di studi sulla questione criminale”, questo il titolo della tre giorni di convegno a Bologna, promosso dalla rivista “Studi sulla questione criminale”, erede diretta delle storiche riviste della criminologia critica italiana, fondate e dirette da Alessandro Baratta, Franco Bricola, Massimo Pavarini, Dario Melossi e Tamar Pitch - sua la relazione di apertura, di cui pubblichiamo ampi stralci. A seguire, tre sessioni plenarie (cambiamento sociale e questione criminale, carcere e diritto penale tra garantismo e abolizionismo e quella finale, dedicata a Massimo Pavarini nel decennale della morte, su ordine pubblico e sicurezza urbana), 15 panel e due keynote speech su guerra e difesa sociale. Tra gli altri ospiti, Luigi Ferrajoli, Mauro Palma, Patrizio Gonnella, Alessandra Algostino. Info: https://studiquestionecriminale.wordpress.com Significati e conseguenze della deumanizzazione di Mohammed El-Kurd Il Manifesto, 23 settembre 2025 Pubblichiamo uno stralcio dello scrittore palestinese tratto dal suo saggio “Vittime perfette”, in libreria dal 26 settembre per Fandango. Due giorni dopo l’offensiva di Hamas del 7 ottobre contro le colonie israeliane che accerchiano Gaza, l’ambasciatore dell’Autorità nazionale palestinese nel Regno Unito (un opponente politico di Hamas) ha rilasciato un’intervista alla BBC a poche ore dall’uccisione di sei suoi parenti durante un’incursione aerea israeliana. “Li hanno bombardati. Hanno abbattuto l’intero palazzo”, ha detto all’intervistatore. I suoi familiari erano tra le migliaia (adesso decine di migliaia, se non centinaia di migliaia) di persone uccise nell’attacco genocidario in corso nella Striscia di Gaza, minuscola e densamente popolata, dove vivono assediati più di due milioni di palestinesi. “Mia cugina Ayah, i suoi due bambini, suo marito, sua suocera e altri due parenti sono morti immediatamente, uccisi all’istante, e due dei loro figli più piccoli, gemelli di due anni, sono in terapia intensiva”, ha detto. Il conduttore ha replicato: “Mi dispiace per la sua perdita. Però, mi permetta di essere franco, insomma, lei non può giustificare l’uccisione di civili in Israele, vero?”. Simili reazioni alle nostre terribili perdite, sia sul palcoscenico internazionale sia nei media, non sono semplicemente indelicate. Rivelano una verità molto più fastidiosa: in tutti i settori, deumanizzare il palestinese è la norma. Quando parlo di deumanizzazione, non mi riferisco soltanto ai film in cui gli attori si dipingono il volto di marrone e urlano Allahu Akbar o ai momenti di furia televisiva, quando i politici fanno delle brutte gaffe e ci chiamano “animali umani”. Né mi riferisco alla retorica inequivocabilmente razzista che ci animalizza, dicendo che abbiamo “sciamato” qua e “infestato” là, che siamo “orde” di selvaggi e di bestie. Dopo tutto, come poeta, anch’io sono colpevole di abbellire le mie opere con i bestiari. La deumanizzazione non è soltanto il sentimento - l’arroganza? L’ignoranza? La paura? - che costringe gli editorialisti e gli inviati, analfabeti in arabo, a scrivere reportage compiaciuti (invettive diffamatorie, in realtà) sulla “regione”. Quando parlo di deumanizzazione, mi sto riferendo a un fenomeno più implicito, eppure molto più pernicioso e istituzionalizzato, una pratica perfezionata dai nostri assassini più cortesi. Quando parlo di deumanizzazione, mi sto riferendo al rifiuto dell’Occidente di guardarci negli occhi. È la riluttanza o l’incapacità del mondo di considerare le nostre tragedie come tragedie e le nostre reazioni come reazioni, l’insistenza del mondo a categorizzare i nostri comportamenti normali come devianze. Gli istinti fondamentali - sopravvivenza e autodifesa - e la condotta essenziale intrinseca alla vita sulla Terra diventano lussi a cui soltanto loro possono indulgere. I deumanizzatori non sono soltanto i volgari esponenti di destra e i poliziotti brutali, ma anche gli assassini più politicamente corretti che ci negano persino il contatto visivo quando premono il grilletto, ci freddano in modo distaccato, impersonale, da centinaia di metri di distanza. Il cecchino, la figura nascosta con l’autorità di cancellare la nostra esistenza senza nemmeno doverci affrontare, sopravvive sia in senso letterale sulle sommità delle nostre colline e dei nostri tetti, sia in senso metaforico nei governi e nelle redazioni. In questa realtà, le mani del cecchino non sono sporche di sangue. E i cecchini sono ovunque: i giornalisti subdoli, i burocrati smidollati, i tirapiedi incospicui, i filantropi che setacciano le nostre tragedie in cerca di oro, i conduttori televisivi che offuscano quelle tragedie, i missionari che trovano la loro salvezza nella nostra morte, gli avvocati del diavolo, quelli che distraggono, quelli che insozzano le nostre strade con false piste, i consiglieri politici privi di scrupolo, gli attivisti che agiscono come burattinai, i conquistatori d’élite, gli elitari nei nostri ranghi che da noi esigono una certa danza, quelli che ci imprigionano nel loro sguardo panottico, gli intellettuali autoproclamati, il clero che sussurra quando dovrebbe urlare, i fabbricanti d’armi ben nutriti e gli amministratori dell’università che li nutrono, e gli accademici con il vizio dell’arroganza e degli errori di interpretazioni volontari, che mutilano Frantz Fanon e Walter Benjamin, negano la natura umana, e addirittura contestano le leggi della fisica per rendere patologica la nostra resistenza. In questa realtà, le mani del cecchino non sono sporche di sangue, ma il numero delle sue vittime è insuperabile. La deumanizzazione ci ha situato, addirittura ci ha espulso, al di fuori della condizione umana fino al punto che la reazione naturale e logica all’assoggettamento, nel nostro caso, è considerata un comportamento primitivo, incontrollato e incomprensibile. Ciò che rende gli altri eroi rende noi criminali. È quasi semplicistico affermare che siamo colpevoli alla nascita. La nostra esistenza è puramente meccanica; ci viene ricordato, attraverso la politica e la burocrazia, che sfortunatamente siamo nati per morire. E nella nostra marcia deterministica verso la tomba, ci incontriamo come stranieri sfortunati, raminghi e privi di futuro. I nostri contributi intellettuali e la nostra partecipazione istituzionale sono limitati. Per il popolo palestinese (“i palestinesi”, come ci chiamano) non si usano mai attributi, eccetto quelli che ci maledicono o la forma passiva. Non siamo esseri umani, siamo enigmi, enigmi che s’infuriano e spaventano, le cui azioni scatenano accuse e i cui sentimenti sono embrioni di minacce. Scheda. Qualche notizia sull’autore - Mohammed El-Kurd, autore di “Vittime perfette” (Fandango, traduzione di Clara Nubile, pp. 260, euro 18), è nato nel 1998 a Sheikh Jarrah, quartiere palestinese di Gerusalemme Est. Poeta e scrittore, attualmente è corrispondente dalla Palestina per “The Nation”. Nel 2021 è stato nominato dal “Time” tra le 100 persone più influenti al mondo. È noto anche per il suo ruolo di co-fondatore di #SaveSheikhJarrah. Le tre idee per governo e opposizione di Sabino Cassese Corriere della Sera, 23 settembre 2025 I nostri governi rappresentano solo un quarto del Paese reale; negli ultimi venti anni, il numero degli uomini che si informano e discutono di politica è diminuito di quasi il 13 per cento e si attesta intorno a poco più della metà; quello dei giovani tra 18 e 24 anni non supera un terzo. Lo stato attuale di belligeranza tra maggioranza e opposizioni logora la democrazia, non la arricchisce. Competizione politica non vuol dire farsi la guerra, ma cercare maggiore seguito nell’opinione pubblica. L’interlocutore delle forze politiche, il giudice di ultima istanza, è l’elettorato. Ma questo stato di belligeranza alimenta il rifiuto: solo poco più del 63 per cento degli aventi diritto al voto si reca alle urne, con la conseguenza che i nostri governi rappresentano solo un quarto del Paese reale; negli ultimi venti anni, il numero degli uomini che si informano e discutono di politica è diminuito di quasi il 13 per cento e si attesta intorno a poco più della metà; quello dei giovani tra 18 e 24 anni non supera un terzo. L’astensionismo elettorale non è dovuto ad apatia, se si confronta il numero degli iscritti ai partiti, non più del 2 per cento della popolazione, con quello delle persone impegnate nel volontariato, stimato nel 9 per cento. Questo distacco tra Paese legale e Paese reale non solo assottiglia fortemente le basi della democrazia, ma la rende molto instabile, perché un semplice aumento dei votanti da una elezione all’altra può rovesciare maggioranze e crearne di nuove. Tutto questo è accentuato dalla frequenza delle elezioni ai diversi livelli di governo, nelle quali le forze politiche cercano una conferma del proprio peso, con la conseguenza di “nazionalizzare” ogni votazione, da quelle europee, a quelle locali e regionali. In tal modo, tutte le votazioni diventano affari che coinvolgono le forze politiche nazionali. Si produce così anche un pessimo effetto di centralizzazione di una Repubblica che, secondo la Costituzione, “promuove le autonomie”. Leone XIV, qualche giorno fa, nella sua prima intervista, ha denunciato la polarizzazione, i suoi effetti e le sue cause: radicalizzazione delle opinioni, contrapposizione rigida dei gruppi per appartenenza ideologica, aumento delle divisioni, riduzione della capacità di ascolto e di comprensione. Gli ha fatto eco, in un articolo su Il Foglio del 20 settembre scorso, il capo della segreteria politica di Fratelli d’Italia, invitando a “superare la logica della contrapposizione ideologica” e auspicando il “confronto”. Ma come si potrebbero costruire ponti che consentano il dialogo, la sinodalità auspicata dal Papa, un terreno comune, una zona franca? Il percorso è difficile, ma potrebbe cominciare da iniziative “bipartisan”, trasversali, su cui vi sia consenso e sulle quali il consenso convenga a tutti. Faccio tre esempi. Il primo potrebbe consistere in un “ponte” che avvicini il corpo delle regole, che gli italiani debbono rispettare, ai loro destinatari, un’opera di codificazione e semplificazione delle leggi e dei regolamenti, che raccolga norme disperse, ne chiarisca il contenuto e ne metta in evidenza le lacune. La inintelligibilità delle leggi vigenti ha un costo, stimato, nell’agosto scorso, in 110 miliardi per anno, tanto che senza di esso il Prodotto interno lordo sarebbe più alto del 5 per cento, con grande beneficio per il Paese. Un’opera comune di questo tipo non avrebbe oppositori nel corpo politico e avrebbe un precedente - al quale ispirarsi - in Francia, dove dal 1989 sono stati redatti 60 codici, che raccolgono una quota stimata del 60 per cento di tutta la regolamentazione legislativa e secondaria. Una operazione di questo tipo, se su di essa si impegnasse, come in Francia, direttamente il vertice dell’esecutivo, potrebbe partire dalla ottima digitalizzazione fatta dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato con Normattiva, il portale della legislazione vigente, della Presidenza del Consiglio dei ministri, e potrebbe valersi della “Piattaforma per l’analisi interattiva della legislazione italiana” curata da Luigi Guiso e da Claudio Michelacci. Il secondo esempio potrebbe consistere nel ridefinire i ruoli reciproci di maggioranza e opposizioni e i compiti di esecutivo e legislativo, il cui equilibrio si è ormai allontanato da quello costituzionale. Il terzo esempio potrebbe consistere nel valersi della “Habermas Machine” messa a punto da Leonardo Becchetti e da Stefano Quintarelli e illustrata sul Corriere della Sera del 22 luglio scorso, che si vale dell’intelligenza artificiale per assicurare l’intelligenza relazionale e la costruzione del consenso, partendo da persone con visioni opposte. Esperimenti di questo tipo potrebbero assicurare un inizio di collaborazione perché non trovano oppositori dalle diverse parti, sono nell’interesse comune e convengono a tutti. Potrebbero favorire la diminuzione della polarizzazione, ora che il Paese si avvia ad avere governi di legislatura, con il vantaggio di una durata almeno quinquennale. “La guerra è incomprensibile”, Mattarella all’Ipm di Nisida con Lorenzo Jovanotti di Luca Marconi Corriere della Sera, 23 settembre 2025 A Napoli l’inaugurazione dell’anno scolastico: “L’Intelligenza Artificiale non diventi potere contro chi la adopera, occorre capacità critica”. A Mattarella le richieste degli abitanti dell’area flegrea per la messa in sicurezza delle case. “La guerra? Purtroppo c’è il male, la cattiveria e la prepotenza, se c’è in piccolo nella vita quotidiana, c’è in grande nella politica internazionale. Ed è incomprensibile perché danneggia tutti, nessuno vince. È priva di senso e ragionevolezza. Per questo voi bambini siete importanti per fare crescere la consapevolezza in tutti che occorre allontanare questo pericolo”. Lo ha detto il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, rispondendo ad una domanda di uno dei bambini ricoverati nell’ospedale pediatrico Santobono-Pausilipon di Napoli. “Questa consapevolezza che manifestate - ha aggiunto - è preziosa, perché in futuro la vostra generazione sarà in grado di fare più e meglio di quanto fatto dalla mia generazione”. Il Presidente si è accompagnato col ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara. I bambini hanno preparato diversi disegni che sono stati mostrati a Mattarella e al ministro e non potevano non avere per tema il genocidio perpetrato da Israele a Gaza e professato dalle sue massime autorità con dichiarazioni inequivocabili, a partire dal presidente Herzog. Il Presidente della Repubblica è stato invece all’Istituto professionale per i servizi dell’enogastronomia e dell’ospitalità alberghiera “Rossini” per la cerimonia di inaugurazione dell’anno scolastico 2025/26. All’evento, dal titolo “Tutti a scuola”, le delegazioni di numerosi istituti scolastici. Ad accoglierlo il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca e il sindaco Manfredi. Tra gli ospiti seduti in platea vari personaggi del mondo della cultura, dello sport e dello spettacolo. Qui Mattarella ha parlato invece di bullismo: “Talvolta la violenza si manifesta in modalità meno evidenti, almeno per noi adulti, e c’è anche la violenza gratuita della prepotenza e del bullismo. E poi ci sono i social come armi che colpiscono in profondità”. Il bullismo va “contrastato con tenacia”. Mentre la divergenza di opinioni, nel contraddittorio motivato, colto e onesto intellettualmente, per Mattarella è sempre una ricchezza: “La scuola è il luogo dell’apertura, ove si valorizzano i talenti di ciascuno e deve regnare la consapevolezza che le diversità delle opinioni sono una ricchezza da difendere. Una libertà conquistata a caro prezzo dal nostro Paese”. E poi: “La nostra Costituzione stabilisce che la scuola è aperta a tutti: è l’affermazione di un diritto” come è un dovere quello di “integrare tutti, tutti”, “sconfiggendo l’abbandono”. Pertanto “occorre l’impegno che la scuola sia ovunque” e “l’impegno per includere chi è svantaggiato”. Non a caso il Presidente è stato anche a Nisida, all’istituto penale minorile dove, a sorpresa, è apparso anche Lorenzo Jovanotti. “La scuola è lo strumento, il veicolo per il futuro. Il futuro riguarda tutti, ovunque ci si trovi: ci si scopre nella scuola, si costruisce l’avvenire”, ha detto Mattarella annunciando poi la visita al Santobono: “Ora vado in ospedale dove c’è una scuola per bambini degenti e quindi riguarda chi segue un percorso di recupero e rilancio proprio come voi. C’è una cosa a cui penso sempre: ciascuno di noi è una persona unica al mondo, non ce n’è un’altra uguale. Però c’è da costruire la vita come voi fate qui con la scuola, la musica e il teatro. Ognuno di noi ha un programma di vita, auguri per il futuro e per quello che fate qua. Vi auguro di essere protagonisti della vostra vita”. E Lorenzo Jovanotti: “Io credo nella scuola, a me ha dato moltissimo, ho scoperto a scuola le mie potenzialità, ho definito i miei orizzonti e li ho allargati. Avere l’occasione di inaugurare col Presidente l’anno scolastico è per me un onore”. E poi: “Umilmente mi unisco agli studenti che, pacificamente, stanno manifestando nelle piazze italiane per chiedere la fine delle uccisioni ingiustificate a Gaza”. Un gruppo di circa 100 giovani è partito da viale Kennedy a Napoli per una manifestazione in occasione dell’arrivo del presidente della Repubblica, con bandiere della Palestina. Il gruppo ha raggiunto l’ingresso della ex base Nato, molti manifestanti erano del quartiere di Bagnoli, che soffre per il bradisismo, ai quali si è aggiunta l’Unione degli Studenti con colori palestinesi. “Al Presidente Mattarella oggi portiamo una richiesta, affinché la filiera istituzionale dal governo faccia il possibile per gli abitanti di Bagnoli”, ha detto Walter, uno degli attivisti dell’Assemblea Popolare Flegrea, che alla fine della manifestazione alla ex base Nato è stato ammesso all’incontro con il Capo dello Stato per la consegna di un documento di richieste. “In questo momento - ha spiegato Walter - ci sono ancora sgomberati e persone a cui non è stato destinato alcun tipo di contributo per poter mettere a posto i danni che hanno subito dopo la scossa del 13 marzo. C’è quindi oggi un quartiere di Napoli che soffre, un territorio che non può capire come sopravvivere e nel frattempo si organizzano grandi eventi come la Coppa America. Abbiamo palazzi che cadono a pezzi con il bradisismo ancora in corso. Quello che chiediamo - conclude - è la messa in sicurezza del territorio e un miglioramento sismico dei palazzi vulnerabili”. Particolarmente interessante, infine, l’approccio del Capo dello Stato all’Intelligenza Artificiale, che è già strumento di controllo adoperato massicciamente nelle tecnologie cosiddette della sicurezza. Mattarella, sempre al Rossini, dice che “lo studio, i compiti a casa, le analisi, il pensiero stesso sono messi alla prova” dall’uso dell’intelligenza artificiale. “La tentazione della scorciatoia di affidarle la soluzione dei compiti scolastici porta alla povertà culturale, addormenta l’intelligenza di ciascun studente. Da strumento può trasformarsi in potere contro chi la adopera”. E poi, sull’inclusione e l’abuso dei social, che richiedono un raddoppio dell’attenzione nella scuola: “La persona, ogni persona, non può realizzare sé stessa se condannata alla solitudine in una dimensione soltanto virtuale. Anche a questo riguardo si riafferma un basilare valore della scuola: costruire una comunità. I giovani hanno bisogno di amicizie. Insieme, guardandosi negli occhi, nascono idee e sgorgano sentimenti, si sperimenta la vita. L’assenza di questi elementi fa crescere disagio ed emarginazione”. Dunque “l’uso della tecnologia digitale non può avvenire nel segno dell’incoscienza dei suoi potenziali effetti che possono portare all’appiattimento, alla omologazione. Occorre adoperarsi perché ogni ragazzo possa costruirsi una capacità critica, una struttura della conoscenza che gli consenta di scegliere, di avere autonomia”. Così l’Occidente dimentica la Storia di Massimo Cacciari La Stampa, 23 settembre 2025 Senza il passato, il nostro tempo è solo presente e questo è l’humus di ogni autoritarismo. Assistiamo impotenti alla più formidabile de-costruzione di ogni forma di Diritto che sia mai esplosa in epoche di grande crisi. Si ha un bel fare gli storici disincantati. Come potrebbero nella radicale trasformazione di equilibri politici ed economici, nella metamorfosi delle stesse culture conservarsi quei principi sui quali sembrava almeno orientarsi il mondo di ieri? Non sono sempre stati sventolati come virtù europea tali principi, a gara tra cristiani e illuministi? Sì - ironizza il nostro storico disincantato - ma alle parole quando mai sono seguiti i fatti? E allora perché continuare a chiamarci europei e non, che so, Sciti? Si ha un bel fare i realisti - sta di fatto che l’Occidente, e soprattutto l’Occidente europeo, unico colpevole dell’unica Grande Guerra della prima metà del Novecento, aveva giurato a sé stesso dopo il ‘45 che avrebbe lottato in tutti i modi e in tutte le sedi per costruire un Ordine internazionale fondato sul rispetto di quei “diritti umani” inalberati a Norimberga. Ciò che oggi impressiona, ed è segno del salto d’epoca avvenuto, non è tanto che di quel giuramento non si tenga alcun conto, quanto che esso appaia completamente e semplicemente dimenticato. Passato, come non fosse mai esistito. Anzi, peggio, usato strumentalmente soltanto per accusare il Nemico. Quei “diritti” valgono soltanto quando si tratta di demonizzare il Nemico, per noi contano nulla. Tra questi ve n’era uno che sembrava ormai impossibile dimenticare - o almeno si aveva il pudore di mascherare il nostro farne strame: un esercito non poteva far guerra alla popolazione civile. Si distruggevano città, si bombardavano campagne e villaggi, ma pure vi erano guerre tra eserciti in corso, vi era un Paese nemico di cui si reclamava la resa incondizionata. Non si sganciava l’atomica su Hiroshima per buttare a mare i giapponesi. Una prepotenza di questa immane dimensione, che prosegue senza alcuna sanzione di alcun tipo che tenti almeno di frenarla, non può alla fine che volgersi contro gli interessi ultimi, strategici di chi la commette. È regolarità storica. Certo essa, combinandosi a altre violazioni di ogni principio di diritto internazionale, può trascinarci tutti al disastro - anche in questo caso, insieme ai suoi complici, rumorosi e silenti, essa non resterebbe impunita. Qualunque sia il nuovo Ordine della Terra che uscirà dalle attuali tragedie esso non potrà fondarsi sul “diritto del più forte”. Qualsiasi Ordine, se è tale, comporta una visione, una strategia, capace di stringere in una rete di patti e compromessi la molteplicità delle nazioni. Esce sempre davvero vittorioso dalle grandi catastrofi chi, già nel loro mezzo, lavora in questa prospettiva, si sforza di creare le condizioni perché la fine di una guerra non coincida con la preparazione della prossima. Il vinto - e tanto più quanto più la sua sconfitta sul campo appare totale - se non si riconosce in qualche modo nel “trattato di pace”, se non vede in esso altro che “ingiustizia”, continuerà la guerra nelle forme che gli sono possibili. E saranno quelle del più spietato terrorismo. Il passato insegna a ragionare in questo senso. Ma a chi interessa più il passato? Chi ricorda gli sforzi per trovare la via dell’accordo tra quei palestinesi e quegli israeliani, che hanno pagato con la vita per questo? Chi ricorda il ruolo decisivo giocato dalla Russia nella storia europea, dalla Beresina a Stalingrado? Possibile pensare di farne una potenza regionale? Altrettanto impossibile che pensare di riannettere a un Impero finito a pezzi lo Stato ucraino. Si solleva qui un problema che riguarda la forma mentis che ormai domina in Occidente e forse nel mondo intero. Non abbiamo passato, il nostro tempo è solo un presente che accelera prepotentemente verso un futuro indefinito. L’ottimismo tecnologico lo vede come un infinito progresso, da innovazione a innovazione, una crescita senza fine. Meglio cancellarlo il passato, dunque, cancel culture dominante ovunque. O lasciarlo agli storici di professione - per i “creativi” è solo impedimento, zavorra. Di quello che è successo siamo innocenti. Anzi, noi tendiamo a ritenerci innocenti in tutto; delle tragedie cui ci illudiamo di poter continuare a essere semplici spettatori la colpa è sempre dell’altro, è lui il responsabile, è lui il cattivo. Noi siamo per natura buoni, buoni sono i nostri desideri, benedetti i nostri appetiti. Non ricordiamo, non vogliamo ricordare come questa forma mentis sia l’humus in cui matura ogni forma di autoritarismo. Esso si fonda sulla irresponsabilità individuale. Si inizia con l’avvertire alcune potenze come assolutamente sovrane, al di là di ogni nostra capacità di condizionarle. Si prosegue inevitabilmente col delegare loro ogni decisione riguardante le nostre stesse vite. Si termina obbedendo loro o addirittura venerandole. Tranquilli, non parlo affatto del possibile ritorno di vecchie dittature. Costose e improduttive. L’individuo contemporaneo interiorizza il comando di un sistema anonimo e globale, retto da un manipolo di oligarchie economico-finanziarie. Lo Stato delega a tale sistema ogni decisione in campo economico e via via gli affida pure funzioni pubbliche vitali, fino a diventare una mera stazione appaltatrice di servizi, con compiti al più di sorveglianza e controllo. Così finisce in Occidente il Welfare State. E così finisce l’homo politicus. Questo sta avvenendo sotto i nostri occhi, una trasformazione più radicale ancora di quella crisi di ogni Diritto che testimoniano guerre e massacri. E alla quale nessun trattato di pace potrà rimediare. Ma di un tale destino non ha né paura né orrore il cittadino dell’Occidente che ha dimenticato la propria storia. Contro l’odio, antropologia dell’agire politico di Laura Pennacchi Il Manifesto, 23 settembre 2025 Il dominio delle “tecniche” neoliberiste di governo ha scatenato insicurezza, degrado di status, rabbia verso le élite che hanno fatto le fortune di forze autoritarie à la Trump. La violenza distruttiva non è un episodio, specie negli Usa, nasce dal soffiare estremistico sul fuoco delle destre. Non serve la “moralizzazione” ma la funzione aspra della critica. L’ininterrotto scatenamento di conflitti non mediati politicamente sulla scena mondiale e l’accentuata instabilità dei sistemi politici occidentali (significativo da ultimo il caso della Francia) parlano di qualcosa di più di una crisi della democrazia, qualcosa che investe più nel profondo la dimensione politica tout court. La depoliticizzazione generata dal connubio economicismo/mercificazione/individualismo proprietario, veicolato dal lungo predominio neoliberista, ha portato a una tecnicizzazione e a una amministrativizzazione dell’azione politica (con prevalenza di governi tecnici, accentuato ruolo delle Banche centrali e delle agenzie indipendenti, ricorso alla governance invece che al government) nel corso delle quali è sembrata attutirsi la discriminante destra/sinistra e le forze politiche hanno quasi disimparato l’esercizio della responsabilità diretta con il suo intrinseco forte carico valoriale e ideale. Ma dinamiche economiche che acuiscono la svalutazione del lavoro, la mercificazione, la finanziarizzazione, la ostilità alle istituzioni pubbliche, le diseguaglianze, la spogliazione delle risorse ambientali, il crescente dominio della tecnica non potevano che scatenare tra i cittadini insicurezza, degrado di status, risentimento verso le élite sui quali hanno costruito le loro fortune forze autoritarie à la Trump. Nella realtà la discriminante destra/sinistra non è sparita affatto, anzi si è radicalizzata prendendo forme nuove e sono insorti populismi estremistici, xenofobie, demonizzazioni esasperanti, fino all’ecatombe delle guerre. È tutto questo che fa emergere da ogni conflitto in atto un sottofondo drammaticamente morale. La violenza distruttiva non è un episodio, specie negli Usa, è generata dall’estremistico soffiare sul fuoco delle destre. Di fronte a ciò, non si tratta di abbandonarsi una “moralizzazione” obsoleta e stantia delle questioni politiche, ma di rivendicare un ritorno paradossalmente aspro, perché assai esigente, del significato morale dell’azione politica. La morale non come atteggiamento moralistico ma come “agire critico”, in grado di cogliere un tratto fondamentale della rivolta contemporanea, che da una parte dà alla denunzia politica un forte significato morale, dall’altra dà alla moralità un elevato contenuto critico. Quel tratto che l’alimentazione nichilistica dell’odio e della vendetta perseguita dalle destre autoritarie, a partire da Trump seguito da Meloni, ossessionate dai fantasmi dell’Anticristo teorizzati da Peter Thiel e pronte a sfruttare per un bieco vantaggio politico persino l’orribile assassinio di Kirk, tenta di soffocare. Quel tratto, però, non è colto neppure dai teorici schmittiani della politica che - affezionati all’idea hobbesiana che il politico nasca dalla “ostilità caotica” e dal potere disordinante di singoli e fazioni, messo in forma non dal diritto ma da qualcosa che lo eccede dall’interno e cioè la decisione - vi vedono solo la conferma di una deplorevole “generale tendenza allo slittamento morale delle istanze politiche”. Un esito della depoliticizzazione è evidente: il rovesciamento della realtà e la demonizzazione dell’avversario operati dalle destre tra urla sempre più parossistiche in cui si distingue la premier Meloni. Ma qui c’è un monito anche per le sinistre: le risposte a questa situazione non possono rimanere solo entro i principi proceduralisti formali del liberalismo - che confina la dimensione morale e dei valori nella sfera privata condannandola al mutismo politico -, debbono contrastare il vuoto provocato dall’affidamento al nichilismo, consapevoli che una vita concepita in termini nichilistici conduce a una vera e propria “antispiritualità”, a un agire famelico segnato dall’indistinzione tra bene e male insofferente di ogni limite e dall’idolatria del profitto e del denaro (basta pensare all’osceno progetto di fare del cimitero di Gaza un luogo di vacanze di lusso per ricchi). Per questo dobbiamo guardare nel profondo della depoliticizzazione in atto e prendere di petto la nuova “questione antropologica” che si staglia di fronte a noi, la quale nasce dalla situazione odierna ma origina da lontani antecedenti - racchiusi in Macchiavelli e Hobbes - che vanno nominati, esplicitati, rimessi in discussione. Possiamo contrastare la terribile antropologia machiavelliana e hobbesiana, intrisa delle idee della malvagità innata dell’essere umano, del suo intrinseco egoismo e utilitarismo, dell’homo homini lupus, della politica solo come forza e dominio, dell’inevitabilità della dicotomia amico/nemico, della irrimediabile pulsione umana alla distruttività e alla guerra. I processi di ripoliticizzazione sono connessi a quelli di riantropologizzazione e non saranno possibili senza la liberazione dell’energia creativa che emana dalla riscoperta di valori come umanità, umanesimo integrale (altro che transumanesimo!), diritti umani, “vita buona”, lavoro non alienato, realizzazione di sé, creatività. Abbiamo abbondantemente appreso che il dolore, la sofferenza, l’angoscia non sono altrettanto fondative della vita umana quanto la gioia, la felicità, la speranza, le quali soltanto rendono l’esperire umano meraviglioso. Ma la felicità non è l’opposto della tristezza o del dolore, sempre presenti nell’esistenza umana, è l’opposto della sterilità interiore e della improduttività, è l’adozione di un orientamento generativo nei riguardi di sé stessi e del mondo. La “morte cerebrale” del diritto internazionale di Massimo Nava Corriere della Sera, 23 settembre 2025 Mentre l’ONU si spegne fra veti incrociati, inazione e tagli di risorse, si rafforzano alleanze in contrapposizione con l’Alleanza atlantica. “La Nato è in stato di morte cerebrale”. L’espressione usata dal presidente francese Emmanuel Macron in un’intervista del novembre 2019 suscitò sorpresa e sarcasmo su un’analisi che suonava come un colossale abbaglio. In realtà, la Nato - peraltro allargata - è più viva e necessaria che mai se consideriamo gli sconvolgimenti nel cuore dell’Europa seguiti all’invasione russa dell’Ucraina. Come sempre, una sentenza estrapolata dal contesto si presta a semplificazioni. Macron, al contrario, mostrò una certa lungimiranza nel considerare la “morte cerebrale” come la fine di un’epoca in relazione al progressivo disimpegno degli Stati Uniti. Di qui la necessità di un rinnovato sforzo per la difesa europea, come in parte si sta avviando, pur fra riserve, di fronte alle nuove sfide planetarie, all’instabilità in Medio Oriente, alle ambizioni regionali di attori come la Russia e la Turchia, al formarsi di nuove alleanze ostili all’Occidente. Alla luce dell’attualità, l’espressione andrebbe attribuita all’ONU, alla “morte cerebrale” del diritto internazionale. Non solo per il genocidio a Gaza, l’annessione della Cisgiordania, l’aggressione russa dell’Ucraina, i precedenti in Iraq, Ruanda, ex Yugoslavia, ma anche per il rischio che Donald Trump legittimi l’agonia delle Nazioni Unite, con l’appoggio esplicito a Gerusalemme e con l’intesa sotto traccia con Putin. Come dire che se sono più forte preferisco la legge del più forte. E mentre l’ONU si spegne fra veti incrociati, inazione e tagli di risorse, si rafforzano alleanze in contrapposizione con l’Alleanza atlantica. I Brics non sono un blocco militare, ma si allargano come intesa geopolitica ed economica in alternativa all’impero del dollaro. Il recente vertice SCO, con tanto di parata spettacolare a Pechino, ha sancito un’alleanza commerciale, energetica e militare anti occidentale che vede insieme dalla stessa parte Cina, Russia e India e un “contorno” di preoccupanti sostenitori, in primis Nord Corea e Iran. In altri termini, la fine della globalizzazione e le crisi in corso segnano il declino e l’umiliazione dei principii che ispirarono la nascita della Società delle Nazioni e poi dell’ONU: l’idea che una governance globale potesse mettere fine o prevenire conflitti, che i diritti universali degli uomini e degli Stati potessero essere rispettati, che dittatori e aggressori potessero pagare il prezzo delle loro azioni. La guerra a Gaza ha messo in evidenza la paralisi dell’organizzazione, al di là di comunicati e dichiarazioni di condanna d’Israele rimaste lettera morta, come del resto le numerose prese di posizione contro la colonizzazione della Cisgiordania. Questo mentre assistiamo in diretta allo sterminio di una popolazione e all’annientamento delle organizzazioni umanitarie e delle agenzie dell’ONU. Qualsiasi proposta di risoluzione che tenti di limitare l’azione di Israele è ostacolata dal veto americano. La soluzione “due popoli, due Stati” è ripetuta a parole, mentre nessuno si nasconde più che i palestinesi finiranno come i pellerossa in America. La relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi, Francesca Albanese, è diventata uno dei simboli della delegittimazione dell’ONU. I suoi rapporti sulle complicità e responsabilità del genocidio sono rimasti inascoltati e le sono valsi sanzioni personali. Il segretario generale, António Guterres, ha moltiplicato inutili dichiarazioni che gli sono valse l’accusa di antisemitismo. Le risoluzioni di condanna dell’aggressione russa hanno incontrato veti, posizioni neutrali e opposizioni di numerosi Paesi e comunque non hanno avuto nessun seguito. La guerra in Ucraina continua, mentre dietro le quinte si ammette che la pace arriverà soltanto quando l’Ucraina si piegherà all’amputazione illegale dei suoi territori occupati dall’Armata rossa. Ma l’impotenza dell’ONU per Gaza o per l’Ucraina è solo la parte per il tutto. La credibilità dell’organizzazione è in caduta libera ovunque, perché ovunque sono travolti principi, trattati e convenzioni come quella di Ginevra. Cresce l’uso di mine antiuomo, nonostante la messa al bando sancita nei trattati. Si invertono in modo esponenziale, persino rispetto alle guerre mondiali, le percentuali di vittime civili rispetto ai caduti militari. Nessuno sembra più far caso ai soldati bambini, alle carestie indotte, all’arbitrio in tanti angoli del mondo. Gli Stati Uniti hanno lasciato l’UNESCO. Israele ha lasciato il Consiglio dei diritti umani. La Corte penale internazionale non è riconosciuta da tre dei cinque membri del Consiglio di Sicurezza. Il diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza è uno strumento d’impotenza e un relitto di un’epoca che non corrisponde più alla geopolitica attuale. Intanto, a differenza che in passato, la comunicazione permette di assistere ai crimini in diretta. Difficile aspettarsi un’inversione di tendenza all’assemblea generale che avrà come tema centrale il riconoscimento dello Stato palestinese, tema che non mancherà di allargare veti e divisioni. Gli autocrati - è il caso di includere nel gruppo Donald Trump - contribuiscono a minare il concetto di organizzazioni internazionali. Oggi è difficile ancora coltivare le speranze di un’alleanza planetaria basata sul concetto di “pace perpetua” caro a Kant. Ottant’anni dopo la sua creazione, “non per portarci in paradiso, ma per salvarci dall’inferno”, come disse l’ex segretario generale Dag Hammarskjöld, l’istituzione si trova in una situazione di crisi irreversibile, salvo una riforma dalle fondamenta che dia voce a tutto il pianeta. Al contrario, lo spostamento delle dinamiche di potere, di cui la Cina cerca di approfittare con il suo contingente di alleati, rischia di influenzare ancora di più gli eventi. Ciò che Kant aveva in mente era una “federazione per prevenire la guerra”. Non si trattava di un governo mondiale, ma di un “regime giuridico globale che unisce i popoli e abolisce la guerra”, come ha scritto Habermas. Il concetto di Kant richiede un impegno morale da parte degli Stati che devono sentirsi obbligati a lavorare insieme. Questi due aspetti - l’impegno volontario degli Stati e l’influenza simbolica - sono sempre stati fragili. Le Nazioni Unite oggi vedono compromessa anche l’influenza morale. Erode Smotrich e il bisogno di restare umani di Andrea Malaguti La Stampa, 23 settembre 2025 “Il suddito ideale di un regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione non esiste più”. Hannah Arendt (“Le origini del totalitarismo” - Einaudi). Sappiamo ancora distinguere il Bene dal Male? È rimasto, dentro di noi, un briciolo di etica, e, persino, di umanità? Abbiamo la forza di vedere l’altro per quello che è o lo vediamo solo per come siamo noi? Domande gigantesche. Che fino ad un paio di anni fa, nonostante la violenza russa in Ucraina e mille tensioni planetarie, sarebbero state più adatte ad un seminario universitario. Ma che oggi, con l’incessante distruzione dei valori occidentali, dagli Stati Uniti a Gerusalemme, dovrebbero diventare un’ossessione. Viviamo tempi sgradevoli. Pieni di ambiguità, ambivalenze ed emozioni miste. Un’epoca di regimi totalitari e ideologie mortifere, in cui dovremmo rimettere in scala le cose importanti, quelle in cui crediamo e che ci servono - appunto - per comportarci da esseri umani. Eppure, preferiamo accettare tutto, sovrapponendo realtà e finzione, racconti manipolatori e crudeltà manifeste. Scelte che un tempo avrebbero provocato scandalo, oggi si susseguono senza posa, dandoci l’idea dell’inesorabile. Siamo ancora capaci di indignarci o ci stiamo trasformando nell’incubo evocato da Hannah Arendt? “Il suddito ideale di un regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso, non esiste più”. Una vita senza consapevolezza è una vita da bruti. È questo che siamo diventati? Provo a rispondere partendo da due circostanze. La prima. Una dichiarazione bestiale di Bezalel Smotrich, ministro delle Finanze del governo Netanyahu. La spezzo in due parti: “La Striscia di Gaza è una miniera d’oro immobiliare”, dice Smotrich. E fin qui, per quanto disgustoso, siamo di fronte a un ragionamento largamente condiviso da esponenti di spicco dell’amministrazione americana. Poi, però, il leader con la kippah del minuscolo Partito Sionista Religioso, aggiunge una riflessione compiaciuta che fa a pezzi l’ultimo confine della civiltà. “Se serve un boia per Gaza, bambini compresi, mi candido al ruolo”. Non credevo che nel terzo millennio ci fosse spazio per una dichiarazione così arrogante, stupida e violenta. Sbagliavo. Seconda circostanza. L’orrore omicida di Smotrich, mi torna in mente venerdì, al festival organizzato a Torino da Paideia, fondazione che si occupa di disabilità e bambini. La parte sana del mondo. Quella che fa sperare, sempre più faticosamente, che comunque, nel pianeta, i buoni siano almeno uno in più dei cattivi. Se il disastro che ci circonda fosse un film, sarebbe certamente così. Drammaticamente non lo è. Gli organizzatori del festival, in ogni caso, mi invitano a dialogare con Vito Mancuso, editorialista de La Stampa, teologo e scrittore. Uno degli intellettuali più raffinati del Paese. Titolo dell’incontro: “Che cos’è per te l’essere umano?”. Risposta impossibile, che io sintetizzo malamente nella formula: “È umano chi - a differenza di Smotrich - vede l’altro ed è capace di empatia”. E che Mancuso, più profondamente, compendia con queste sette parole: “L’essere umano è la sua decisione”. I cani seguono il loro istinto, gli uomini no, sono guidati dalla morale. O, almeno, dovrebbero, perché è evidente che la crisi dell’umanità e quella della morale sono correlate. “Anche se il bene arranca, questo non ci impedisce di sperare e di restare umani”, aggiunge Mancuso. Che poi, di fronte alle mie obiezioni sulla fragilità della “speranza”, cita un saggio di Amos Oz che non avevo letto. S’intitola: “Contro il fanatismo”. Ottanta pagine di sensibilità e intelligenza. Una bibbia laica da lasciare sui tavoli dei potenti marci della Terra e da leggere nelle scuole. Il punto centrale è l’elogio del compromesso. Scrive Oz: “So che questa parola gode di pessima reputazione nei circoli idealistici dell’Europa, in particolare tra i giovani, perché è considerata mancanza di integrità. Puzza. È disonesta. Nel mio vocabolario, invece, è sinonimo di vita. Il contrario del compromesso è fanatismo. O morte”. L’essenza del fanatismo sta nel desiderio di costringere gli altri a cambiare. E noi siamo precipitati in tempo di fanatici. Smotrich e Trump, arnesi del potere incapaci di senso dell’umorismo, ma guidati da un sarcasmo borioso e letale, ne sono l’incarnazione più sorprendente. Supposti leader incapaci di farsi la più ovvia delle domande per chi vuole guidare una collettività e stare in relazione con il resto del pianeta: come mi sentirei se fossi lei, o lui? Come dev’essere stare nella sua pelle? Non se lo chiede più nessuno, forse perché Oz è scomparso e i suoi eredi si contano sulle dita di una mano. Ma è un errore grave. Il dibattito sulla libertà di parola di questi giorni lo dimostra. Italia, Torino, Politecnico. Un professore israeliano a gettone viene interrotto durante una lezione da un gruppo di studenti filo-palestinesi che contestano il suo diritto di essere lì. Lui, rispondendo, sostiene che l’esercito di Israele è il più etico che ci sia al mondo. Affermazione enorme, in effetti, che spinge il rettore a sospenderlo. In Aula non è ammessa una dichiarazione del genere. Decisione giusta o sbagliata? Confesso che non ho una risposta in tasca. Ed è il motivo per cui sul giornale abbiamo dato vita ad un dibattito che coinvolge analisti di pareri opposti. Ma la questione rimane: fino a che punto possiamo esprimere le nostre idee, in quali contesti e in che modo? E chi è che ha il diritto di fermarci? Parlarne è l’unico modo per non restare incastrati nella rete della nostra ignavia. Mantengo sospeso il giudizio sulla questione torinese, per attraversare l’Oceano dove credo sia più facile sostenere che la scelta di Trump di chiudere un famoso late-show perché ritenuto antigovernativo, non sia solo sbagliata, ma sia irricevibile e pericolosa. Le tv, i giornali, gli opinionisti che non la pensano come la Casa Bianca sono ormai destinati a cadere come birilli. L’aria che si respira a Washington, alla vigilia del funerale-evento di Charlie Kirk, è mefitica. Tanto da spingere il New York Times a scrivere, ieri, che negli Stati Uniti è nata una forma di “wokismo di destra”. La dittatura del politicamente corretto, soppiantata da quella del politicamente scorretto. Ma se la prima, per quanto molto opinabile, fa danni limitati, la seconda è l’anticamera della dittatura. Il dubbio che l’America sia alla vigilia di una guerra civile è sempre più spaventosamente diffuso. Il corpaccione del Paese più forte, armato e ricco del mondo ha ancora gli anticorpi per proteggersi da derive neroniane? La certezza è che si sta allontanando da noi. Indebolendo i confini della Nato con la Russia. Lasciandoci al nostro destino o, più banalmente, voltandoci le spalle. Chissà se anche in Italia ne siamo consapevoli. Certamente, oggi, il potere del Presidente degli Stati Uniti sembra essere senza più freni morali. Una prova di forza spudorata. Esercitata da un ex uomo d’affari che misura gli esseri umani solo dalla loro ricchezza. Certo che sia stato Dio stesso, secondo la visione degli evangelici, a scegliere gli eletti sulla Terra. Loro la Gloria, loro il Potere. Nemmeno la “reaganomics” era arrivata a tanto. C’era sì l’idea della libertà sfrenata per chi accumula fortune, temperata però dalla teoria del “trickle down”, lo sgocciolamento destinato a portare briciole dorate anche sul tavolo degli indigenti. Oggi siamo di fronte ad una rottura netta. La ricchezza non ha più responsabilità. Se non quella di moltiplicare sé stessa - magari garantendo stipendi da mille miliardi a Elon Musk - travolgendo i deboli. Ci avevano insegnato che la qualità di una democrazia non si misura dalla sua forza, ma dalla sua capacità di proteggere i più fragili. Gli Stati Uniti hanno cambiato rotta. Quanto saremo in grado di resistere in Europa senza di loro e di fronte a Putin? Crediamo ancora nell’inclusione, nel welfare, nello sguardo sull’altro e dunque nell’essere umano? O siamo scivolati inesorabilmente in un tempo di guerra e di paura? I pilastri della civiltà vacillano, chi cerca il compromesso viene considerato peggio di un traditore, un idiota. Il diverso, citando le preoccupate parole di Sergio Mattarella al ricordo di Willy Monteiro, viene visto come un nemico da annientare. In fondo la grande politica internazionale e le piccole questioni attorno a noi passano, come dice Mancuso, attraverso le scelte di ognuno. In apparenza i vigliacchi sono più dei coraggiosi. Certamente sono più in vista. Nel mondo e a casa nostra. Ma nessun destino è inevitabile. Egitto. Graziato l’attivista Alaa Abdel-Fattah, volto della “Primavera araba” del 2011 di Anna Momigliano Corriere della Sera, 23 settembre 2025 L’annuncio del presidente Al Sisi: il blogger 43enne era in prigione dal 2019. Incarcerato più volte già ai tempi di Mubarak e poi di Morsi, l’ultima volta è stato accusato di diffondere “notizie false” per un like su Facebook. Dopo quasi dodici anni di carcere, il più famoso dissidente egiziano, Alaa Abdel-Fattah, sarà finalmente libero: la grazia è stata annunciata ieri dal presidente Abdel Fattah Al Sisi, che non brilla certo per il garantire i diritti degli oppositori politici, dopo un incessante campagna lanciata da varie Ong e, soprattutto, dal governo britannico. Si sono spesi in prima persona il primo ministro Keir Starmer, che ha telefonato ad Al Sisi tre volte per chiedere la liberazione dell’attivista, e il ministro degli Esteri David Lammy. Nato e cresciuto in Egitto, da una nota famiglia progressista, Abdel-Fattah dal 2021 era infatti anche cittadino britannico, attraverso la madre, Laila Soueif: la donna, che è nata a Londra, si era battuta per ottenere la doppia cittadinanza al figlio proprio nella speranza di facilitarne la liberazione. Da allora, aveva organizzato sit-in davanti a Downing Street e al Foreign Office, e fatto ripetuti scioperi della fame, che per due volte avevano portato a ricoveri in ospedale. Simbolo di una generazione - Da più di vent’anni Alaa Abdel-Fattah, classe 1981, programmatore informatico di professione, ma soprattutto blogger e uno degli animatori della cosiddetta “Primavera araba”, era il simbolo di una generazione di giovani egiziani che si sono battuti per portare la libertà di espressione e la democrazia in un Paese che, sotto forme diverse, ha sempre conosciuto la repressione. Era in prigione dal 2019, condannato da un tribunale speciale nel 2021, con l’accusa di avere diffuso “notizie false”: nel concreto, la sua “colpa” consisteva nell’avere messo un “mi piace” su un post di Facebook sulla morte in carcere di un altro detenuto politico. A quest’ultimo giro, era stato il regime di Al Sisi a incarcerarlo. Ma la repressione Alaa l’ha vissuta sulla sua pelle fin da quando era giovanissimo: era finito per la prima volta dietro le sbarre nel 2006, quando al potere c’era ancora Hosni Mubarak. A quei tempi gestiva, insieme alla moglie Manal Hassan, un portale (chiamato Manalaa.net, dall’unione dei loro nomi) che fungeva da aggregatore per diversi blog egiziani, diventando una sorta di fonte alternativa d’informazione per un Paese dove i media tradizionali erano pesantemente censurati. Piazza Tahrir e la speranza tradita nel 2011 - Quando, nel 2011, la rivolta di piazza Tahrir portò alla caduta del regime trentennale di Mubarak, in molti speravano che le cose sarebbero cambiate. Ma per Alaa, e non solo per lui, l’entusiasmo durò poco: la giunta militare, che detenne il potere ad interim, incarcerò nuovamente il blogger per tre mesi. Seguirono elezioni, vinte dai Fratelli Musulmani: anche sotto il governo guidato dal presidente islamista Mohamed Morsi, tra il 2012 e il 2013, Alaa fu arrestato due volte. Sotto Al Sisi, che è al potere dal 2014, Alaa era stato incarcerato già diverse volte, e rilasciato dopo periodi relativamente brevi, prima di quest’ultimo arresto. Le autorità, questa volta, sembravano determinate a lasciarlo marcire in carcere, fino a quando le pressioni internazionali non hanno iniziato a farsi sentire con maggiore forza. La famiglia e i suoi sostenitori avevano cominciato a nutrire qualche speranza lo scorso 8 settembre, quando il Consiglio Nazionale per i Diritti Umani - un’agenzia sotto il controllo dell’esecutivo egiziano - aveva formalizzato una richiesta ad Al-Sisi perché utilizzasse i suoi “poteri costituzionali” per concedere la grazia: era il segnale che il governo era disposto a cedere.