L’altra giustizia, oltre le riforme: i suicidi in carcere e la custodia cautelare di David Allegranti publicpolicy.it, 22 settembre 2025 Domenica mattina una detenuta si è suicidata, impiccandosi, nella sezione femminile del carcere di Perugia. È il 62esimo suicidio in carcere (l’anno scorso sono stati 91, cifra record, persino superiore agli 84 del 2022), secondo i calcoli di Ristretti Orizzonti da sommarsi ai 3 suicidi tra gli operatori. “Numeri inconcepibili per un paese che voglia dirsi civile, ma che tuttavia non riescono a smuovere le coscienze di quanti dovrebbero intervenire compiutamente sull’emergenza penitenziaria, a cominciare dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio”, osserva Gennarino De Fazio, segretario generale della Uil-Pa Polizia Penitenziaria. A Perugia, aggiunge, “sono stipati 495 detenuti (70 donne) in soli 313 posti disponibili, di contro vi sono 196 agenti in servizio, quando ne necessiterebbero almeno 338. In altre parole, il 58% di ristretti in più gestito con il 42% di operatori in meno”. Del resto, osserva ancora De Fazio, “a livello nazionale si contano ben 63.160 reclusi letteralmente stoccati in 46.545 posti, mentre alla Polizia penitenziaria impiegata nelle carceri mancano oltre 20mila agenti, attese anche le assegnazioni soprannumerarie in uffici ministeriali e sedi extra penitenziarie. Ciò trasforma le carceri in gironi infernali per chi vi è ristretto, ma in luogo di espiazione anche per chi vi opera in condizioni difficilissime, di insicurezza e insalubrità, subendo aggressioni (oltre 2.300 nel corso di quest’anno) e patendo carichi di lavoro massacranti e turnazioni di servizio che si protraggono pure per 26 ore continuative”. A queste condizioni, “nostro malgrado, non solo i suicidi, le risse, gli stupri, le evasioni, i traffici illeciti, le aggressioni al personale e molto altro ancora continueranno, ma la situazione è destinata a ulteriormente deteriorarsi progressivamente”, aggiunge De Fazio. Il tasso di sovraffollamento, a livello italiano, è del 135,5 per cento; la crescita della popolazione detenuta nell’ultimo anno è ormai di 1.409 unità; il numero dei reati, in questi anni è rimasto sostanzialmente invariato; ci sono 6.942 persone detenute in più da quando è entrato in carica il Governo Meloni, nell’ottobre del 2022. “Da allora - dice Antigone - la capienza regolamentare è rimasta sostanzialmente invariata (+76 posti), ma sono aumentati di circa un migliaio i posti di fatto non disponibili. Sono ormai 4.615 rispetto ai 51.274 conteggiati dal ministero della Giustizia”. Le donne detenute con figli a seguito sono 18 di cui 10 straniere con 23 figli piccoli, a Lauro c’è una donna di 27 anni incinta di cinque mesi. 21.000 sono detenuti stranieri, 18.000 sono tossicodipendenti, più di 4.000 sono malati di mente e 4.151 sono detenuti dai 18 ai 24 anni. Il riassunto dello stato di salute dell’esecuzione penale in Italia lo ha fatto pochi giorni fa il portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello, nonché Garante campano delle persone private della libertà personale: “Ci sono nuovi reati, maggiori pene, nuove aggravanti, carceri senza aria, senza umanità, senza dettato costituzionale, diritti negati e urgenze dimenticate. Si entra di più in carcere e si esce di meno. La politica ha aperto i battenti, visto che le carceri esplodono: ora si farà qualcosa?”. Il problema del sovraffollamento non riguarda più soltanto il carcere per adulti, ha spiegato Ciambriello: a seguito del decreto Caivano, è aumentato notevolmente il numero di giovani adulti ristretti. Infatti, nelle carceri minorili in Italia ci sono 545 giovani, 1.137 nelle comunità private, e 16.374 dall’inizio dell’anno sono i minori in carico agli uffici di servizio sociale per minorenni, di cui 3.255 messi alla prova. “Pertanto”, ha detto Ciambriello, “il carcere non rieduca più ed è diventato un contenitore di fragilità sociali, bisogna perciò educare i minori per renderli più responsabili. Piuttosto che custodire occorre prevenire questi minori in difficoltà, che passano dal disagio alla devianza e alla microcriminalità”. Tra le tante necessarie riforme della giustizia (usiamo il plurale non a caso), dunque, dovrebbe trovare posto anche una seria misura per ridurre il sovraffollamento carcerario. Poi c’è il tema macroscopico, e di cui nessuno sembra volersi occupare fino in fondo, delle persone in custodia cautelare. Secondo un recente rapporto di Antigone, “nonostante l’aumento delle presenze, continua a calare la percentuale delle persone detenute in custodia cautelare. I detenuti con sentenza passata in giudicato, che erano il 71,7% alla fine del 2023, sono saliti al 73,5% alla fine del 2024. Restano comunque più di un quarto dei presenti le persone in attesa di giudizio e presunte innocenti”. I casi di innocenti finiti in carcere sono all’ordine del giorno, come spiega Errori Giudiziari in un report con i dati più aggiornati: “Per avere una prima idea complessiva di quanti sono gli errori giudiziari in Italia vale la pena di mettere insieme sia le vittime di ingiusta detenzione sia quelle di errori giudiziari in senso stretto. Ebbene, dal 1991 al 31 dicembre 2024 i casi sono stati 31.949: in media, quasi 940 l’anno (nota bene: in questo dato mancano però i totali dei soli errori giudiziari del 2023 e del 2024). Il tutto per una spesa complessiva dello Stato gigantesca, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri: 987 milioni 675 mila euro e spiccioli, per una media di poco inferiore ai 29 milioni e 49 mila euro l’anno (e anche in questo caso, non è disponibile il dato complessivo per la spesa in risarcimenti da errori giudiziari del 2023 e del 2024)”. Ma è il numero dei casi di ingiusta detenzione che consente di capire meglio le dimensioni da emergenza del fenomeno e cogliere con precisione quanti sono gli errori giudiziari in Italia: “Sono proprio coloro che sono finiti in custodia cautelare da innocenti, infatti, a rappresentare la stragrande maggioranza. Dal 1992 al 31 dicembre 2024, si sono registrati 31.727 casi: vuol dire che, in media, ci sono stati oltre 961 innocenti in custodia cautelare ogni anno”. Insomma, oltre alla separazione delle carriere c’è di più. La necessità dell’interprete nei penitenziari di Camilla Malatino L’Opinione, 22 settembre 2025 La presenza crescente di detenuti stranieri negli istituti penitenziari italiani pone con urgenza il problema della mediazione linguistica. La Costituzione, all’articolo 24, garantisce a tutti il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, mentre l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sancisce il diritto dell’imputato a essere informato nella lingua che comprende e ad avvalersi gratuitamente di un interprete. Tuttavia, la fase esecutiva della pena - quella vissuta dietro le mura carcerarie - rimane spesso in una “zona grigia” di tutele effettive, dove la traduzione e l’interpretariato non sono garantiti con la stessa incisività che nelle aule di giustizia. L’assenza o l’inadeguatezza del servizio di interpretariato genera conseguenze giuridiche e umane rilevanti. Un detenuto che non comprende la lingua italiana rischia di non poter conoscere i propri diritti, di non partecipare ai procedimenti disciplinari interni, di non comunicare efficacemente con il personale sanitario o educativo, e persino di non poter avanzare richieste di misure alternative alla detenzione. In questo modo, il principio di uguaglianza sostanziale (articolo 3 della Costituzione) viene gravemente compromesso. Le direttive europee in materia di garanzie procedurali, recepite dall’Italia, sottolineano l’importanza della traduzione e dell’interpretariato anche nella fase post-processuale. Tuttavia, la loro applicazione pratica nelle carceri resta frammentaria. Alcuni istituti si avvalgono sporadicamente di mediatori culturali o interpreti esterni, spesso senza formazione specifica sul contesto penitenziario. Altri sopperiscono con traduzioni informali, affidandosi a compagni di cella o a volontari, pratica che mina la riservatezza e la precisione delle comunicazioni. Dal punto di vista giuridico, la mancanza di interpreti nei penitenziari può configurare una violazione del diritto a un equo processo in senso esteso, inteso non solo come giudizio ma come intero percorso di esecuzione penale. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte ribadito che il detenuto deve essere messo in condizione di comprendere e partecipare consapevolmente a ogni fase che incida sui suoi diritti fondamentali. È dunque necessario un intervento normativo e organizzativo che riconosca l’interpretariato non come servizio accessorio, ma come presidio di giustizia. La presenza strutturata e qualificata di interpreti e mediatori culturali nei penitenziari non risponde solo a esigenze di comunicazione, ma rappresenta uno strumento di garanzia dei diritti umani, di prevenzione dei conflitti e di umanizzazione della pena. In un sistema penale che aspira alla rieducazione del condannato, la lingua non può diventare una barriera insormontabile. L’uomo non è mai solo il suo errore di Marco Calvarese ancoraonline.it, 22 settembre 2025 Marcella Reni, notaio calabrese, è stata una delle pioniere della giustizia riparativa in Italia. Fondatrice di Prison fellowship Italia, ispirata dalla sua fede cristiana, da oltre quindici anni promuove percorsi di riconciliazione tra detenuti e vittime attraverso il “Progetto Sicomoro”. In occasione del Giubileo degli operatori di giustizia, condivide con il Sir la sua esperienza e il significato di un cammino che unisce fede, diritto e umanità. La sua testimonianza mostra che la giustizia riparativa non è teoria astratta ma esperienza concreta di riconciliazione e rinascita. In un tempo segnato da conflitti, paure e rancori sociali, il suo lavoro ricorda che “nessuno è solo il suo errore” e che dalla forza del perdono può scaturire una nuova vita. Un messaggio che il Giubileo degli operatori di giustizia è chiamato a raccogliere e rilanciare. Come è nato il suo impegno con Prison fellowship e cosa l’ha spinta a lavorare con i detenuti e le vittime? È nato per caso. Non avevo alcuna intenzione di occuparmi di carcere, anzi pensavo: chi sbaglia deve pagare, si butta la chiave e basta. Poi, come notaio, mi capitò di incontrare un giovane detenuto accusato ingiustamente. Lo vidi distrutto, senza speranza. Gli promisi una preghiera, che poi dimenticai. Due anni dopo tornò a ringraziarmi: nei momenti in cui aveva tentato il suicidio, sentiva come una voce interiore che gli diceva “fuori qualcuno prega per te”. In quel momento capii che non era stato il mio ricordo, ma Dio a non essersi dimenticato di lui. Da allora ho cambiato sguardo: l’uomo non è mai solo il suo errore. Il Progetto Sicomoro è al centro della vostra missione. Di cosa si tratta? È un percorso che facciamo in carcere mettendo insieme detenuti e vittime dello stesso tipo di reato, anche se non si tratta dei loro casi diretti. In otto incontri settimanali, inizialmente c’è uno scontro duro, doloroso. Poi succede qualcosa: i detenuti acquistano consapevolezza della ferita provocata, mentre le vittime trovano una forma di ristoro non nella pena inflitta, ma nella responsabilità assunta dall’altro. È una dinamica sorprendente, che accade sempre, in ogni carcere, a ogni latitudine. Ci può raccontare qualche storia che le è rimasta nel cuore? Ne ho tantissime. Una giovane donna, a cui avevano ucciso il padre perché non voleva che lei sposasse un uomo legato alla ‘ndrangheta, ha incontrato in carcere un ex killer. Per tre settimane lo ha insultato senza sosta. Alla quarta, lui ha raccontato la sua vita segnata dalla violenza familiare:”Questa vita non l’ho scelta io, è la vita che ha scelto me”.Lei è crollata in lacrime e da quell’incontro è nata un’amicizia capace di sanare ferite antiche. C’è poi la storia di Elisabetta, mamma di un ragazzo quindicenne ucciso davanti al fratello gemello. Era piena di odio, voleva vendicarsi. Dopo il percorso, disse: “Per me è stato come entrare in un tunnel di odio e scoprire alla fine una luce. La mia liberazione è venuta dal carcere”. Oggi è una delle nostre più attive volontarie. Potrei raccontare ancora: un trafficante internazionale che ha scelto di scrivere un libro contro la droga per i giovani, un killer pluriomicida che solo ascoltando la testimonianza di una vittima di rapina ha compreso il dolore causato da ogni suo gesto. Sono storie che mostrano come la violenza sia un grido che chiede di essere ascoltato. Quando accade, tutto cambia. Lei ha visto anche le famiglie trasformarsi… Sì. Spesso sono proprio i legami familiari a guarire. Ricordo Mario Congiusta, papà di Gianluca, giovane imprenditore ucciso in Calabria. Non ha mai smesso di chiedere giustizia, ma nel carcere ha trovato una nuova vita. Dopo il Sicomoro la sua casa, segnata dal dolore, è tornata a profumare di cibo, il pianoforte del figlio è stato scoperchiato e suonato. Diceva: “Partecipare a questo progetto mi ha ridato la vita”. E questo, per un padre ferito, vale più di una sentenza. Oggi il carcere italiano vive molte difficoltà. Qual è, dal suo punto di vista, la sfida più urgente? Le nostre prigioni sono sovraffollate e inadeguate. Dentro ci sono tanti che dovrebbero stare altrove: tossicodipendenti, malati psichiatrici. Si muore di caldo d’estate e di freddo d’inverno. Ma il problema più grande è la recidiva: sette detenuti su dieci tornano a delinquere. Se questo accadesse in una scuola o in un ospedale, ci chiederemmo perché. In carcere no. Eppure è un problema di tutta la società: politica, impresa, associazioni, Chiesa. Serve più coraggio e più fiducia nel reinserimento, altrimenti l’unica cosa che restituiamo alla società è più rabbia. La fede cristiana come ha plasmato questo cammino? Il Vangelo mi ha insegnato che nessuno è riducibile al suo errore. Don Oreste Benzi diceva: “L’uomo è più grande del suo peccato”. Lo vedo ogni giorno: la giustizia riparativa non chiede perdono, lo mostra. E quando avviene, è una forza che ricostruisce. Non è buonismo, è concretezza. È vedere la vita ricominciare dove sembrava finita. Che significato ha per lei il Giubileo degli operatori di giustizia? Per me significa ricordare a giudici, avvocati, forze dell’ordine, volontari che dietro ogni errore c’è una persona con dignità. Non si può tornare indietro, ma si può riprovare a vivere bene. È il cuore del Giubileo: una restituzione. Ogni anno organizziamo il pranzo di Natale in carcere, servito da chef stellati o da vittime di reato. Vogliamo che “i primi servano gli ultimi perché gli ultimi si sentano primi”. Lo stesso spirito deve animare il Giubileo: restituire un po’ della fortuna che noi abbiamo avuto a chi non l’ha avuta. Quale appello si sente di rivolgere oggi alla società civile e alle istituzioni? Di non considerare il carcere un luogo separato. Chiedete a un bambino di disegnare la città: non disegnerà mai il carcere, come se non esistesse. E invece è parte della città. Bisogna cambiare sguardo. Creare percorsi alternativi, comunità educanti, case di accoglienza. Sostenere progetti come le Apac (Associazione di protezione e assistenza ai condannati ndr), strutture gestite dagli stessi detenuti con una sovvenzione statale che altrove funzionano. E soprattutto ricordare che queste persone torneranno tra noi: se tornano guarite è un bene per tutti, se tornano arrabbiate e disperate è un rischio per tutti. La lezione del sociologo ergastolano: “Avessi studiato non sarei in cella” di Gualtiero Parisi La Sicilia, 22 settembre 2025 La testimonianza raccolta nell’ambito del progetto di UniCt e dell’associazione Seconda Chance. Quando la lezione arriva da dietro le sbarre e il mondo accademico plaude. Per tre giorni all’Università di Catania si è discusso su esperienze e buone pratiche per costruire una sostenibilità sociale concreta, capace di ridurre le disuguaglianze promuovendo una crescita inclusiva. Un programma vasto e profondo, che ha riunito a Catania decine di ricercatori provenienti da parecchi atenei italiani, sotto la regia attenta del prof. Roberto Cellini del Dipartimento di Economia e Imprese dell’ateneo catanese. In una delle sessioni conclusive il protagonista è stato Pierdonato Zito, dottore in Sociologia, collegato da remoto, da Santa Maria Capua a Vetere, dove sta scontando l’ergastolo: “Ringrazio l’associazione “Seconda Chance” che mi ha coinvolto in questo progetto che mette a fuoco il problema reale dei detenuti, quello del reinserimento attraverso il lavoro. Ecco, anche in questo l’associazione fondata da Flavia Filippi - capace di procurare oltre 650 opportunità di lavoro in tre anni - ha dimostrato coerenza nella propria mission, dandomi dignità professionale nella ricerca che stiamo effettuando col prof. Bruno Pansera e altri esperti”. Zito, oggi sessantaseienne, quando entrò in carcere oltre trent’anni fa, aveva il diploma di terza media. Poi ha incontrato una persona eccezionale, il prof. Antonio Belardo, che ha cominciato a stimolarlo con le letture e a convincerlo a riprendere gli studi. Pierdonato ha preso la maturità e poi la laurea in Sociologia col massimo dei voti. “Grazie ad Antonio, diventato il mio miglior amico, e al cambiamento che è avvenuto dentro di me”, ha raccontato. Quello di Zito è stato un percorso lungo e difficile, completamente diverso dalle scorciatoie di un pentimento spesso attuato solo per limare le pene. Zito ora è in semilibertà, lavora come volontario al Comune di Succivo, in provincia di Caserta, ed è inserito nel progetto di “Seconda Chance” con l’Università di Catania che studia i rapporti fra carcere e mondo del lavoro. “Formazione, lavoro e inclusione sociale nel sistema penitenziario: analisi, buone pratiche. “Quello che vi ho esposto - ha sottolineato Zito - è qualcosa che prima ho vissuto sulla mia pelle e poi studiato. Fosse accaduto l’inverso oggi la mia vita sarebbe completamente diversa”, ha sottolineato il sociologo di origini lucane, per far capire come da giovane gli siano mancati gli studi che lo avrebbero allontanato dal crimine. “Quello dello studio e della formazione nelle carceri è un tema cruciale - ha detto-. Perché sono queste le uniche strade che portano al reinserimento sociale. Attraverso l’offerta di lavoro che dà la dignità alle persone. I dati statistici dimostrano che quando si va in questa direzione la recidiva viene abbattuta e la nostra società migliora. La situazione carceraria però e drammatica, per il sovraffollamento, per mancanza di strutture e personale. Ma bisogna capire che se mando un paziente in ospedale e questi esce più malato di prima vuol dire che questa cura non funziona e va cambiata”. Il prof. Marco Romano, anima del progetto Grins, ha ringraziato Zito e messo in evidenza “che i nostri studi sono ancora più efficaci proprio perché vanno al cuore dei problemi attraverso le persone che li vivono e sanno dare proposte importanti”. La lunga strada di Dochka, dal carcere alla rinascita di Caterina Ceccuti lanazione.it, 22 settembre 2025 Dopo la fuga dal Paese di origine la disperata ricerca di un lavoro, i furti, il carcere a Bologna e infine la rinascita, anche grazie all’aiuto delle Ancelle dei Poveri. Dochka ha attraversato un matrimonio di dieci anni segnato dalla violenza. Il marito aggressivo, la suocera ostile. In Bulgaria ha lasciato un figlio ancora piccolo, scappando, costretta ad un silenzio forzato. Non le è concesso neppure di sentirne la voce del suo bambino al telefono. Ha scelto la fuga, con un progetto semplice e immenso. Arrivare in Italia, lavorare, mettere da parte il denaro necessario per un avvocato e tentare il ricongiungimento con quella parte di se stessa rimasta amputata, ritornare madre. Il lavoro, però, non è mai arrivato. Invece sono arrivate la fame e l’angoscia. Con le notti passate a dormire in stazione, senza un tetto sulla testa. Alla fine i furti, l’arresto e il carcere di Bologna. “È lì che le nostre strade si sono incrociate”, racconta suor Philomina, originaria del Kerala, consacrata delle Ancelle dei Poveri con le quali accompagna donne che stanno cercando di rimettere insieme i pezzi della propria vita. Le chiedo di Dochka e lei comincia a raccontare. “Ho incontrato Dochka in carcere, abbiamo parlato tanto. Ho ascoltato la sua storia, toccato con mano il suo dolore di madre. Ho segnalato il suo caso al personale preposto. In carcere lei ha affrontato il suo percorso con coraggio e pazienza, fino a che le abbiamo offerto una possibilità concreta: lasciare la cella e proseguire la sua strada verso la rinascita nella nostra casa Ancelle dei Poveri, insieme ad altre donne nella sua stessa condizione”. Un tetto, una stanza, una routine che non promette miracoli ma restituisce dignità e prospettive. Per Dochka comincia la semilibertà: di giorno lavora per alcuni mesi nelle cucine di una casa che ospita ragazze madri con bambini, la sera rientra in comunità. Alcune compagne di cammino attorno, volontari e operatori, una trama minuta di attenzioni che tiene. Nessuna scorciatoia, solo impegno e pazienza. “Documenti, colloqui, contatti con i servizi sociali, turni in cucina, sveglie presto, conti che tornano. È la fatica quotidiana di una dignità che si ricostruisce passo dopo passo - continua Philomina. In nella casa famiglia delle Ancelle dei Poveri, ogni volta che una donna completa il proprio percorso di recupero la si saluta “con tutti gli onori di casa”, perché ciò che è stato perso non si rimette in piedi da soli, ma solo insieme”. La settimana scorsa, il giorno in cui Dochka ha riconquistato la sua libertà, c ‘è una tavola con intorno degli amici, c’è una comunità che l’ha aiutata a rimettere insieme i pezzi, con delicatezza. “Abbiamo mangiato pizza e buoni piatti, perfino una torta gelato offerta dalla festeggiata. Si è parlato delle vacanze, ci si è abbracciati e si è ascoltato il suo grazie, il suo saluto preparato con cura. Era una festa d’addio e di buon viaggio, la celebrazione sobria di una meta raggiunta.” Intanto la giustizia ha fatto il suo corso: affidamento in prova, lavoro, risparmi. Il progetto che in Bulgaria sembrava una montagna insormontabile è diventato possibile. Alla fine della pena Dochka è potuta rientrare a casa. Ad attenderla ora c’è suo figlio e la pratica legale per proteggere quel legame. Le Ancelle, mi dicono, l’hanno accompagnata fino allo scalino dell’aeroporto e anche oltre, perché la famiglia può esistere anche senza legami di sangue, come una rete di persone che ti prende per mano. Chiedo a suor Philomina che cosa l’abbia colpita di più in Dochka. Mi parla della tenacia. Della fame di giustizia di una madre che ha resistito quando le veniva persino impedito di parlare con il figlio per lunghi mesi. Mi parla delle altre donne che, a loro volta accolte, si fanno subito prossime e condividono il poco che hanno, lasciando un posto a tavola, mostrando la casa a chi arriva “con le tasche vuote”. Non è un gesto di beneficenza, è un passaggio di testimone. Chi è stata aiutata aiuta. E così la vita ricomincia a circolare. “Dochka ha commesso un reato e ne ha pagato il conto allo Stato - conclude Philomina -. Ma deve essere definita per sempre dal suo errore. Qualcuno le ha dato fiducia e lei l’ha onorata, alzandosi ogni mattina, presentandosi al lavoro, risparmiando, tenendo fisso lo sguardo su un obiettivo: riabbracciare suo figlio. E ora quel momento è arrivato”. Separazione delle carriere, la riforma che divide l’Italia di Giorgio Spangher Il Dubbio, 22 settembre 2025 Al centro del riassetto costituzionale, l’organizzazione di due Consigli Superiori della Magistratura, uno per i soli giudici e un altro riservato ai pm, l’individuazione per sorteggio dei relativi componenti e l’istituzione di un’Alta Corte disciplinare. La legge di riforma costituzionale dell’Ordinamento giudiziario si avvia ad affrontare la seconda fase di deliberazione che, pur approvata, richiederà per la sua entrata in vigore il passaggio referendario. In questa prospettiva, i due “campi” che si contrappongono - dato che l’esito, pur ritenuto favorevole ai riformatori, non può ritenersi scontato - si organizzano sia mediaticamente (attraverso il ricorso anche a società ed esperti di comunicazione), sia strutturalmente (attivando i comitati destinati a supportare il confronto pubblico), sia politicamente (cercando i necessari supporti nei diversi punti di riferimento: partiti, corpi intermedi, organi di informazione). Altresì si sviluppano argomentazioni che se da un lato mettono in luce aspetti patologici del rapporto fra giudice e pm destinati a suggestionare l’opinione pubblica, dall’altro agitano i rischi della riforma nella prospettiva di ricadute negative sulle garanzie processuali. Parimenti si mettono in campo personaggi e persone, sia del passato sia del presente, di una certa autorevolezza e percezione di credibilità per supportare le contrapposte opinioni. Il referendum, o meglio, il suo oggetto, è un prodotto che come tale va venduto e comprato. Nella possibile prospettiva di un ragionamento - frigido pacatoque animo - ancorché anch’esso confutabile, si impongono due domande: perché una riforma dell’ordinamento giudiziario; perché una riforma della Costituzione. Sul primo punto, sul quale si ritornerà anche in seguito, va sottolineato come questa non sia la riforma del processo penale, ma una riforma dell’ordinamento giudiziario. Il suo cuore è la riforma del Csm. Resta infatti inalterato l’art. 112 Cost. (obbligatorietà dell’azione penale) e la modifica dell’art. 104 Cost. rafforza le garanzie per i pm. La necessità della riforma dell’ordinamento giudiziario incardinato nel Csm è determinata dal fatto che l’ordinamento giudiziario è sostanzialmente quello del 1941 (riforma Grandi-Mussolini), confluito nella Costituzione del 1948 e operativo dal 1956. Mentre corrispondeva al sistema processuale sostanziale e probatorio penale (1930), ma anche sostanziale e processuale civile (1942) nonché minorile (1934) e penitenziario (1931), quel sistema non è più attuale. Nella visione di Grandi, fautore dell’unità della giurisdizione, pm e giudici rappresentavano solo una articolazione interna della magistratura. Sintomatica la presenza del processo pretorile. Il dato trova preciso riscontro nelle norme costituzionali che fanno riferimento al concetto di autorità giudiziaria (cioè identità fra giudici e pm) come negli artt. 13 e 15 Cost. nonché nel concetto di carcerazione preventiva (ancora art. 13 Cost.). Il concetto di autorità giudiziaria presente in Costituzione è strutturato nel Csm, dove pm e giudici ne condividono l’essenza. Il dato è alla base del fallimento della riforma del processo penale del 1988, dove veniva introdotto il modello accusatorio in contrasto con quella rappresentazione che costituiva l’essenza del modello inquisitorio. All’entrata in vigore della riforma del 1988 la dottrina (vedi l’intervista del Financial Times di Vassalli) ne evidenziava l’incongruenza, i rischi, l’incompatibilità. “Questa palese anomalia”, insieme alla legislazione di emergenza nata per fronteggiare i reati di criminalità organizzata e terroristica, ha provocato una involuzione del modello processuale fino ad arrivare alla riforma Cartabia, la quale ha portato la dottrina a parlare di processo a trazione anteriore con tutti i suoi corollari. Per ovviare a ciò era intervenuta la modifica dell’art. 111 Cost. e la previsione espressa di un giudice terzo indipendente e imparziale con l’indicazione di un contraddittorio tra accusa e difesa in condizioni di parità. Sintomatico quanto previsto dall’art. 143 disp.att. c.p.p. relativo alla collocazione delle parti nell’aula di udienza. Invero quella previsione costituzionale non ha mancato di avere conseguenze sulla legge ordinaria e anche su alcune disposizioni costituzionali per effetto di alcune sentenze della Consulta e norme processuali che hanno progressivamente scandito la distanza strutturale tra accusa e difesa e tra accusa e giudice. Si tratta dunque di “recuperare” questa evoluzione costituzionale e ordinaria all’interno dell’organo di governo autonomo della magistratura tenendo conto del diverso ruolo del pm e del giudice, non solo perché il pm è cambiato (Procura nazionale antimafia, procure distrettuali, procura europea, procura generale di Roma), ma perché processualmente il pubblico ministero non è più quello del codice Rocco e neppure il giudice è lo stesso, ma soprattutto perché nell’evoluzione del modello sono ontologicamente, processualmente e funzionalmente diversi e distanti. Senza pretesa di completezza si può ricordare che l’istituto della rimessione riguarda solo il giudice ritenuto inidoneo a giudicare in caso di gravi elementi che turbano lo svolgimento del processo; che solo il giudice può essere ricusato mentre il pubblico ministero ha solo la possibilità di astenersi; che i contrasti fra giudici, qualificati come “conflitti”, sono decisi dalla cassazione (giurisdizione) mentre quelli tra pubblici ministeri, definiti “contrasti”, sono decisi dagli uffici di procura; che il giudice è sempre autonomo e indipendente mentre il pubblico ministero gode di autonomia solo in udienza, che qualora l’imputato eccepisca l’incompetenza del giudice, questa è oggetto di una procedura di controllo da parte della Cassazione, mentre “l’incompetenza” del pubblico ministero è sempre sottoposta al controllo degli uffici di Procura. La netta distinzione strutturale è talmente evidente che in un documento sottoscritto da tutti gli uffici di procura è stato rigettato il modello organizzativo predisposto dal Consiglio Superiore della Magistratura, ricalcato su quello degli uffici giudicanti in quanto si legge che c’è incompatibilità fra le esigenze e le modalità operative degli uffici di procura rispetto a quelle degli uffici giudicanti. Quanto al secondo quesito: perché si è deciso di integrare con una legge costituzionale dopo che per tanti anni si è parlato del problema e si sono prese anche iniziative legislative? La risposta è agevole: perché in Parlamento ora c’è una maggioranza ampia ancorché non sufficiente (vedi referendum) per far approvare la riforma. Sullo sfondo si stagliano alcune situazioni diciamo imbarazzanti per la magistratura che seppur note sono state l’emersione plastica presso l’opinione pubblica e non solo per gli addetti ai lavori di profili di degrado e di malcostume. Perché le iniziative di riforma tentate con la legge ordinaria, anche con il consenso della magistratura (in funzione difensiva) si sono rivelate inadeguate. Il riferimento, tra le altre modifiche, è al sistema elettorale, ai passaggi di funzioni tra pm e giudici, esclusione della delibera a pacchetto, i criteri di verifica dei presupposti per gli incarichi direttivi e per la loro temporaneità, solo per citarne alcuni. Tuttavia tutto ciò non è stato sufficiente, restando le implicazioni della comune appartenenza nell’organo di governo che non può non tener conto, oltre alle possibili patologie dell’attività consiliare, delle differenze strutturali che non consentono omologazioni e commistioni. Invero forte della cornice costituzionale del Consiglio Superiore della Magistratura non modificabile con legge ordinaria, la magistratura ha costruito nel tempo il suo potere dilatando le sue funzioni, complice una politica accondiscendente, ma anche con interpretazioni estensive di funzioni ampliando e sviluppando la sua compenetrazione nella vita pubblica e istituzionale. È evidente che questo ampio potere, come tutti i poteri, va ed è esercitato e, non dovendo essere ridimensionato, va difeso strenuamente. Si spiega così la forte resistenza, addirittura la tenacia ostativa della magistratura associata. La necessaria riforma strutturale del Csm, l’uno per i giudici, l’altro per i pubblici ministeri, è stata accompagnata da una modifica dei criteri di nomina dei componenti (pubblici ministeri e giudici) nonché dei criteri di nomina della componente politica e dall’introduzione di un’Alta Corte di disciplina. L’attenzione si è inevitabilmente prospettata rispetto al sorteggio e conseguentemente sulle dinamiche consiliari. A tale proposito allo stato possono soltanto prospettarsi alcuni possibili interrogativi sulle ricadute che sotto questi profili la disciplina potrà avere. Il discorso riguarda, oltre alle implicazioni della suddivisione dei due consigli, le ricadute della legge elettorale che prevede il sorteggio della componente togata. Per la magistratura la riforma sottende il progetto di sottoposizione degli uffici di procura al potere politico (governo o ministro di Giustizia). Bisogna dire con onestà che si tratta di un pericolo agitato come detto in premessa, ma che non ha sinceramente fondamento. A parte le citate previsioni costituzionali, bisogna segnalare che un’operazione di questo tipo ancorché ipotizzabile sotto traccia, sarebbe viziata di illegittimità costituzionale facilmente ostacolata politicamente nel Paese, suscettibile di forti resistenze in sede europea come è successo per altri Stati. Se si ha l’onestà di guardare le vicende domestiche, non può non evidenziarsi soprattutto il ruolo che l’accusa ha esercitato nei confronti del legislatore, ostacolando le riforme non gradite (l’ultimo, il sequestro degli smartphone) e prima le modifiche all’utilizzabilità delle intercettazioni nei procedimenti separati (in contrasto con una decisione delle Sezioni Unite) impedendo le ricadute della contestazione dell’aggravante mafiosa per contrastare una sentenza della Cassazione ritenuta inadeguata a contrastare il fenomeno della criminalità. Ma gli esempi potrebbero essere ancora più numerosi. Invero l’esposizione mediatica dei pubblici ministeri è sotto gli occhi di tutti e non si può non sottolineare la carriera “politica” degli ultimi procuratori nazionali antimafia. Il pericolo come si è detto è piuttosto l’opposto. Deve chiedersi se l’autonomo Csm dei pm non possa determinare un rafforzamento del ruolo del potere dell’accusa, in conseguenza di quello che è stato definito “l’ascensore istituzionale”. L’antidoto a questa evenienza è prefigurato dalla convinzione - forse dall’auspicio - che il giudice separato (tutti i giudici cioè la giurisdizione) recuperi il senso della propria funzione di garante delle regole e dei diritti evitando di confondere il suo ruolo con quello del pubblico ministero. In ogni caso va ribadito che questa non è la riforma del processo penale che dovrà rimodulare il rapporto tra indagine e dibattimento anche alla luce dell’appena citato riequilibrio fra giudici e pubblici ministeri. Resta comunque da considerare che al di là della separazione dei due consigli superiori, la magistratura giudicante e quella requirente, resteranno unitari nell’Anm e che quindi per molti versi alcuni aspetti sottesi alla riforma dipenderanno dagli sviluppi che l’associazione nazionale magistrati e le sue componenti determineranno nelle dinamiche consiliari. *Emerito procedura penale - giurista Se le sentenze dicono troppo: il peso insostenibile delle parole tra moralismi e distorsioni di Simona Musco Il Dubbio, 22 settembre 2025 Pregiudizi e semplificazioni mediatiche rischiano di ribaltare il senso delle sentenze: non solo i verdetti, ma il linguaggio con cui vengono scritti può ferire la giustizia e i suoi protagonisti. Sentenze imbevute di giudizi morali, commenti, sermoni. Giornalisti che tagliano, estrapolano e trasformano frasi in armi di opinione. E una giustizia che sempre più diventa vittima di parole che, come macigni, appesantiscono la verità. La storia di Lucia Regna, brutalmente picchiata dal suo ex marito, condannato per le lesioni, ma assolto dall’accusa di maltrattamenti, è stata messa in prima pagina per una sola frase: “L’uomo andava compreso”. Parole che, pur scritte dai giudici in un contesto ben preciso, sono state ritagliate, semplificate e presentate come la chiave di tutta la sentenza. La frase, che sembra giustificare la violenza in nome di un dolore umano “comprensibile”, ha preso il sopravvento, relegando la vera essenza del caso in secondo piano. È questa l’ambiguità delle parole, che, a volte, sembrano illuminare l’animo umano, ma rischiano di distorcere la realtà. Il caso ci pone di fronte a una riflessione fondamentale sul diritto e sulla sua esposizione. Da un lato, c’è il piano giuridico: il processo, il quale, in un sistema fondato sul principio del “ragionevole dubbio”, deve portare a una condanna solo se la colpevolezza è provata. Dall’altro, però, c’è la dimensione delle parole, il loro peso, che è tanto determinante quanto l’oggetto del giudizio stesso. Perché, come afferma Fabio Pinelli, vicepresidente del Csm, “il processo penale è una civiltà di parole”. È attraverso il linguaggio che la giustizia si dispiega, ma è anche il linguaggio che può tradire la giustizia stessa. I giudici della sentenza su Lucia Regna, infatti, pur avendo motivato l’assoluzione con la credibilità della testimonianza dell’imputato, utilizzano un linguaggio che sfiora la compassione: “La separazione, dopo un’unione durata molti anni, ebbe qualcosa di brutale”. Perché lei non lo voleva più e per lasciarlo ha scelto di non affrontarlo faccia a faccia. Un’espressione che non è solo descrittiva, ma quasi empatica, come se il dolore della separazione dovesse mitigare o giustificare gli insulti e le violenze. Eppure, il problema non sta tanto nel riconoscere il dolore umano dell’uomo, quanto nel modo in cui tale comprensione viene trasposta nel linguaggio giuridico. L’assoluzione non si basa sull’umanità dell’imputato, ma sulla percezione che la testimonianza della donna non fosse pienamente attendibile e che, da un punto di vista giuridico, non fossero presenti gli elementi per configurare il reato di maltrattamenti. Ma le parole dei giudici - e la semplificazione mediatica - possono aver distorto il messaggio: in un processo, non è la comprensione per l’imputato a dover prevalere, ma l’accertamento dei fatti. Perché la “comprensione”, se manipolabile e manipolata da chi inevitabilmente legge quella sentenza, rischia di svuotare di significato la gravità della violenza, qui pure accertata, relegando il dolore della vittima a un corollario del processo. Un atteggiamento che la Cedu ha già contestato all’Italia: nel 2021, infatti, Strasburgo ha condannato l’Italia per aver esposto una donna, attraverso le motivazioni di una sentenza assolutoria per il reato di violenza sessuale di gruppo, ad un altro tipo di violenza, con valutazioni arbitrarie circa le scelte sessuali e i comportamenti personali non rilevanti per la sua attendibilità. “La Corte - si leggeva nella sentenza dei giudici di Strasburgo - considera che la lingua e gli argomenti utilizzati dalla Corte d’appello veicolino preconcetti sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che possono ostacolare l’effettiva tutela dei diritti delle vittime di violenza contro le donne, nonostante un quadro legislativo soddisfacente”. Il caso di Torino evidenzia come il linguaggio possa alterare il senso stesso della giustizia. E non si tratta di un caso isolato: in una sentenza di assoluzione per una presunta molestia, delle giudici avevano espresso una valutazione “psicologica” della presunta vittima. “Non si può escludere che la parte lesa, probabilmente mossa dai complessi di natura psicologica sul proprio aspetto fisico (segnatamente il peso) abbia rivisitato inconsciamente l’atteggiamento dell’imputato nei suoi confronti fino al punto di ritenersi aggredita fisicamente”. Anche in questo caso parole inappropriate, dal momento che - come già chiarito dalla Cassazione - elementi come l’aspetto fisico della vittima sono “irrilevanti”, in quanto “eccentrici” rispetto al tipo di reato. Ma a convincere le giudici della non colpevolezza dell’imputato è stato altro: le testimonianze delle colleghe della giovane che ha denunciato il suo superiore, che avrebbero sminuito i fatti, definendolo un “giocherellone”. Insomma, anche in questo caso non ci sarebbero stati sufficienti elementi a sostegno dell’accusa. La procura, nel 2021, aveva raccolto la denuncia della donna, che dopo il primo “quanto mi arrapi” pronunciato dall’uomo si sarebbe vista costretta a subire palpeggiamenti su “fianchi, schiena e pancia” e, in altre occasioni, anche sul seno, quando il dirigente si sarebbe spinto fino a “leccarla e a morderle le orecchie”, infilandole “la lingua in bocca”. Fatti confidati dalla donna alle colleghe, che però non hanno sostenuto la sua tesi. Innocente o colpevole che fosse quell’uomo, per le giudici determinante è stata l’assenza di prove. E in tale situazione, per il sistema penale italiano non è solo possibile, ma doveroso assolvere. Certo la cura del linguaggio sarebbe potuta essere migliore, come insegna un altro caso, poi conclusosi con il ribaltamento della sentenza di assoluzione, che aveva destato ugualmente scalpore e “provocato” un’ispezione ministeriale: la presunta vittima fu di fatto etichettata come “tutt’altro che femminile” e “piuttosto mascolina”. Le ragioni dell’assoluzione, poi ritenuta sbagliata, non erano quelle: per le giudici, la ragazza non era attendibile e ciò a prescindere dal proprio aspetto fisico. Ma quelle parole erano sbagliate. Lo erano anche per il difensore degli imputati, che definì pericolosa per lo stesso processo quella terminologia. Al punto, ipotizzò, di essere capaci, forse, di “condizionare” i giudici della Cassazione, che spianarono la strada per la condanna finale degli imputati. Per tutti i giornali, i ragazzi erano stati assolti perché lei era troppo brutta. Ma non era affatto vero. Lo scivolamento linguistico è forse più frequente in casi relativi a presunte o reali violenze sessuali. Ma i provvedimenti giudiziari, spesso, sono infarciti da giudizi morali. Come nel caso dell’inchiesta sull’Urbanistica milanese, in cui la procura, aveva stigmatizzato l’avvocato Eugenio Bono, “enfatizza aspetti etici e utilizza espressioni connotate, come l’accusa di “crescente avidità”, per giustificare esigenze cautelari che non trovano riscontro in elementi concreti. L’inchiesta appare più come un processo alla speculazione edilizia nella città di Milano, che un’azione giudiziaria basata su singole responsabilità accertate”. Un giudizio confermato, nei giorni scorsi, anche dal Riesame. E di giudizi morali si trovava traccia anche nella sentenza di condanna, poi ribaltata, di Mimmo Lucano, sindaco di Riace, nella quale il giudice di primo grado definiva il politico un “falso innocente”. Un giudizio completamente ribaltato nei gradi successivi: la sua era una “economia della speranza”. Etichette di senso opposto. Le parole, appunto, sono importanti. Il processo è un incontro tra narrazioni e il linguaggio è decisivo di Iacopo Benevieri* Il Dubbio, 22 settembre 2025 Il processo penale è una civiltà di parole. L’aforisma, nella sua epigrammatica chiarezza, vorrebbe manifestare il complesso rapporto tra linguaggio e processo penale. Su tale tema si è costretti a registrare una diffusa inconsapevolezza, soprattutto tra gli operatori del diritto. Storicamente la rilevanza del ruolo della parola, che ha concrete conseguenze nella quotidiana attuazione giustizia penale, era già nota fin dall’antichità. Il processo penale nasce come reazione a una giustizia praticata tramite faide, vendette, duelli. La reazione ha sostituito la giustizia privata a un dialettico confronto di parole. Alla civiltà della parola si è consegnato il processo penale: la narrazione del fatto denunciato dalla persona offesa, l’esposizione della propria difesa a opera della persona accusata, la narrazione di quanto osservato o conosciuto da parte dei testimoni, l’argomentare difensivo, la pronuncia finale del giudice. Il processo è diventato un incontro tra narrazioni. Come ebbe a scrivere una nota linguista, al di fuori di questa ‘civiltà di parole’ non v’è più processo penale bensì solo una sconfinata terra di rappresaglie, di mafie, di regolamenti di conti, di sopraffazioni da parte del più forte” (...) “Nell’ambito del processo penale i binomi Linguaggio-Potere e Linguaggio-Garanzia costituiscono una matrice fondativa che presiede al ruolo della Parola nell’esercizio della giurisdizione penale. La Parola nel processo penale è Potere e Garanzia. La Parola, cioè, è veicolo di dominio, è terra di dominio, ma anche presidio che lo arresta, katéchon che frena e garantisce il diritto dell’individuo. Questa duplicità emerge sia nelle architetture portanti del processo penale (livello di macro-analisi), sia nelle specifiche dinamiche che caratterizzano le interazioni linguistiche nell’aula di udienza dibattimentale (livello di micro-analisi). Questi due piani di operatività del Linguaggio come Potere e come Garanzia si riflettono e si nutrono reciprocamente.”(...) “Laddove dovesse vigere nel processo penale un dominio della Parola come espressione del Potere di attori istituzionali senza alcun presidio che garantisca la Parola pronunciata da chi non ricopre tali ruoli nell’aula di udienza; laddove la parola dell’imputato, del testimone dovessero esser abbandonate in aula alle suggestione o alla intimidazione di giudici, pubblici ministeri e avvocati; laddove la dichiarazione della vittima del reato dovesse esser indotta, intimorita, degradata da domande nocive; laddove accadesse questo, si celebrerebbero processi iniqui, si tornerebbe a respirare nell’aula di udienza l’antica aria inquisitoria, forse mai uscite definitvamente dalla civiltà occidentale” (...) “Contro questi rituali di degradazione della parola presiedono i principi costituzionali e normativi che frenano la Parola-Potere nel processo penale e assicurano le condizioni di esistenza della Parola-Garanzia”. “Le asimmetrie di genere vengono riprodotte continuamente nel processo penale tramite schegge linguistiche di spessore infinitesimale. Spesso ci sfuggono perché sono rilevabili unicamente se viene adottato un livello di analisi che scenda nei più sottili movimenti della dinamica comunicativa. Solo se ci poniamo in un tale piano di osservazione si possono constatare le asimmetrie di genere attuate, per esempio, tramite l’uso di alcuni vocaboli, una certa gestione delle pause, o alcune forme sintattiche con le quali vengono formulate le domande. E’ il livello di micro-discorso in senso foucaultiano, cioè quella dimensione di messa in opera della parola nella quale il potere viene concretamente realizzato, esercitato, riprodotto, sovvertito”. “Tuttavia le pareti dell’aula di udienza sono membrane attraversate dall’aria della società esterna, cosicché tra i banchi del giudice e degli avvocati, oltre alle asimmetrie comunicative giuridicamente codificate, si sovrappongono ulteriori disuguaglianze, quelle cioè provenienti dal mondo esterno: quelle di tipo sociale, religioso, etnico, economico e anche di genere. Si realizza in tal modo un ulteriore sbilanciamento in favore dell’interlocutore forte quando quello debole appartenga alla categoria dei soggetti socialmente vulnerabili. Costoro si trovano spesso a subire un potere nella gestione della conversazione che riduce ulteriormente i loro spazi comunicativi. All’asimmetria interazionale si aggiunge quella sociale. E’ pertanto urgente che tutti coloro che hanno ruoli istituzionali nell’aula di udienza, titolari dunque di una funzione “dominante” nella interazione processuale, siano consapevoli del fatto che l’esercizio delle loro legittime e irrinunciabili facoltà (per es., formulare le domande, finanche suggestive per verificare legittimamente la credibilità del soggetto dichiarante) potrebbe ampliare ulteriormente l’asimmetria quando l’interlocutore debole rechi con sé un propria originaria vulnerabilità. Tale consapevolezza risulta ancor più urgente con riferimento ai “vulnerabili” di genere, in quanto la struttura sociale e culturale orienta continuamente la percezione della realtà secondo schemi patriarcali: resistervi implica una continua capacità di sorvegliarsi linguisticamente. È necessario dunque occuparsi di una nuova disciplina, la ‘traumatologia’ della parola, affinché nei luoghi istituzionali della Giustizia il nostro parlare sia un continuo atto di assunzione di responsabilità e di garanzia, non di potere rivittimizzante. Attualmente constatiamo, al contrario, come nel processo penale spesso la parola costituisca un organismo che gli stessi operatori istituzionali d’aula non conoscono, pur interagendovi quotidianamente per trarne prove, indizi, deduzioni, argomenti. Questo approccio “domestico” all’uso della parola in aula, basato unicamente su personali capacità, spesso permette un sovradimensionamento della Parola come Potere e un sottodimensionamento della Parola come Garanzia: dietro un uso inconsapevole della parola si nasconde infatti il rischio di utilizzarla come strumento di dominio, anche di genere, anziché come strumento di garanzia, resuscitando così mai sopite culture inquisitorie. Difatti in ogni realizzazione storica del modello processuale inquisitorio la necessità del controllo da parte dell’Inquisitore si è sempre espressa, prima che sui corpi, prima che sul contraddittorio, prima che sulla pubblicità del processo, prima che nei luoghi della sua celebrazione, sulla parola di chi partecipa al processo”. *** Il punto centrale, nelle motivazioni della sentenza di Torino che ha riconosciuto le lesioni ma non i maltrattamenti nei confronti di una donna, il punto centrale non è stabilire se vi siano elementi di prova a favore dell’imputato, né discutere la sua eventuale assoluzione. Insistere su questo sposterebbe il fuoco della questione. Il nodo vero è un altro: in generale se anche l’imputato viene assolto, ma nelle motivazioni il giudice utilizza un linguaggio moralizzante per stigmatizzarlo, ciò ci porterebbe ugualmente a sollevare critiche. Per coerenza, se quel medesimo linguaggio viene rivolto alla persona offesa, dobbiamo riconoscere che il problema resta identico. Il cuore della riflessione sta qui: il Tribunale, nella sua motivazione, non si è limitato a esporre le ragioni logico-giuridiche della decisione, ma ha usato un linguaggio che “incornicia” - per dirla con la sociolinguistica (“frame”) le condotte della donna in chiave emotiva, culturale e sociale. Quando la sentenza afferma che “non è difficile immaginare cosa abbia provato l’imputato nel constatare che sua moglie poneva fine con un messaggio WhatsApp a un legame quasi ventennale”, compie un’operazione semantica precisa: trasforma le conseguenze della scelta della donna in materia di biasimo collettivo. L’espressione “non è difficile immaginare” richiama infatti a una percezione condivisa, quasi a dire: “tutti pensiamo la stessa cosa”. In tal modo, la condotta della donna viene caricata di una valenza colpevolizzante, mentre l’attenzione si concentra sulla dimensione emotiva dell’imputato, che viene così umanamente compreso. Ma una sentenza non è solo un atto giuridico: ha anche una funzione meta-giuridica, perché è pronunciata “in nome del popolo italiano”. È una narrazione ufficiale che diventa parte del discorso pubblico sulla giustizia e sul reato. Per questo, le parole utilizzate non possono attingere a registri moralizzanti o colpevolizzanti né contro l’imputato né contro la persona offesa e la reazione nostra deve esser la medesima: ciò perché tale approccio linguistico tradirebbe la neutralità che la giurisdizione deve incarnare (il giudice non solo deve essere imparziale ma deve apparire tale, insegnavano all’università). In altre parole, il principio del giusto processo implica anche il principio del giusto linguaggio. La giustizia non parla soltanto alle parti, ma alla società intera: e il modo in cui lo fa costruisce - o decostruisce - l’idea stessa di equità. *Stralci tratti dal libro di Iacopo Benevieri “Cosa indossavi? Le parole nei processi penali per violenza di genere”, Tab Edizioni, 2022 Elena Biaggioni: “Gli stereotipi fanno male alla giustizia. E quelle parole sono giudizi” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 22 settembre 2025 Le parole sono importanti, anche nelle sentenze. E non si stanca di ripeterlo chi lavora nei tribunali e nei centri antiviolenza, come la penalista Elena Biaggioni, già vicepresidente della rete D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza): la contattiamo per commentare la sentenza del tribunale di Torino, che ha fatto parecchio rumore per alcune espressioni usate nelle motivazioni. I giudici assolvono l’imputato per i maltrattamenti, e parlano di amarezza “umanamente comprensibile” per la separazione con l’ex moglie, colpita con un pugno al volto… Il tema non è l’assoluzione, sulla quale non mi esprimo senza conoscere gli atti. Il problema è nelle motivazioni della sentenza, a partire dalla tecnica con cui è scritta: una formula molto stereotipata, potremmo dire, che tradisce pregiudizi e connotazioni moralistiche. Questo è un aspetto davvero grave, a mio parere: se ciò che leggiamo nelle motivazioni è alla base del convincimento del giudice, allora abbiamo un problema. Siamo di fronte ai cosiddetti stereotipi giudiziari. Quale frase la colpisce di più? Partirei proprio dall’inizio, quando si parla dell’attendibilità della persona offesa, che andrebbe recepita “con estrema cautela perché proveniente da una parte civile portatrice di macroscopici interessi personali e patrimoniali”. Anche se è pacifico, per la Cassazione, valutare con attenzione l’attendibilità, mi sembra che il punto di partenza sia colpevolizzante, laddove la vittima - che porta delle placche di titanio in faccia per via del pestaggio ha legittimamente chiesto un risarcimento del danno. Nel dibattito di questi giorni, c’è chi sostiene che anche una sentenza corretta nel merito rischia di scivolare nell’errore per l’uso di un linguaggio inadeguato… Io la vedo esattamente così: dispiace molto leggere certe considerazioni in una sentenza. Come quando, ricordando che l’imputato rimproverò alla moglie di non avergli comunicato la sua relazione, si commenta: “come dargli torto”. Lo si direbbe, di qualunque altro reato? Perché certi commenti li leggiamo soltanto nell’ambito della violenza domestica? Ecco, quell’espressione supera decisamente i fatti per esprimere valutazioni personali, e questo è molto pericoloso: non solo nei casi di violenza di genere, ma in ogni caso. Nel merito, la sentenza non riconosce i maltrattamenti perché mancherebbe la condotta abituale… È uno dei grossi problemi con il reato di maltrattamenti, che riscontriamo spesso come avvocate dei centri antiviolenza. Le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono collegate proprio a questo concetto di abitualità, sul quale il Grevio del Consiglio d’Europa ha già espresso criticità, poiché non è in linea con la definizione di violenza domestica sancita dalla Convenzione di Istanbul. E mi pare che in questa direzione si muova anche la più recente giurisprudenza della Cassazione. Quella di Torino non è la prima sentenza che fa discutere. Ma capita anche che le frasi “incriminate” vengano estrapolate o decontestualizzate per cavalcare l’indignazione, soprattutto sui social. Vede questo pericolo? Il giudizio affrettato riguarda i social a 360 gradi, non solo nei confronti delle sentenze. Per questo sarebbe importante creare un rapporto fiduciario, che coinvolga voi giornalisti e anche noi “tecnici” del diritto, per discutere in maniera franca sul tema del linguaggio e sul messaggio che una motivazione veicola. Proverei a chiedermi se l’avvocatura si riconosce in quella modalità espressiva. Perché non basta dire: “Non avete letto la sentenza, non potete criticare”. Proviamo a rovesciare l’assunto, immaginando che chi commenta abbia letto ciò di cui parla, affrontando davvero il problema senza aggirarlo con certi “artifici”. Direbbe che nei tribunali vive ancora un certo spirito inquisitorio, che mette sempre la donna sul banco degli imputati? Come denunciava Tina Lagostena Bassi nel 1979… Quel tipo di cultura persiste e a un certo livello è fisiologico per l’accertamento delle responsabilità, rispetto al quale c’è ancora tanto da fare. Ma mi piace pensare che da “Processo per stupro” abbiamo fatto tanta strada. Ricordiamoci che sul tema del linguaggio e della vittimizzazione secondaria ci sono delle sentenze della Cedu che ammoniscono l’Italia, e il monitoraggio sull’implementazione delle sentenze da parte del nostro Paese è ancora aperto. Servirebbe maggiore formazione per i magistrati? Assolutamente. Lo stereotipo e il pregiudizio tendenzialmente operano ad un livello di automatismo culturale, non di volontà di perpetuarlo. A volte basta solo aprire gli occhi. L’idea è di indossare una lente che ti permetta di correggere la visione falsata dallo stereotipo e dal pregiudizio. E in questo la formazione dei magistrati è fondamentale. Si insiste spesso sull’importanza di denunciare. Il fenomeno della vittimizzazione secondaria può scoraggiarlo dal farlo? Le motivazioni sono tantissime. Sappiamo che delle donne che si rivolgono ai centri antiviolenza solo il 27 per cento denuncia le violenze subite. E sicuramente il timore di ciò a cui si va incontro incide sul dato, ma ad influire spesso è anche la paura che il padre dei propri figli sia condannato. Dell’importanza del linguaggio giudiziario si è discusso molto anche per il caso Cecchettin, soprattutto rispetto all’aggravante della crudeltà che non è stata riconosciuta. In quel caso, forse, bisognava distinguere tra ciò che intendiamo comunemente per “crudeltà” e i parametri “tecnici” utilizzati nel diritto… Capisco la fatica nel distinguere tra i due registri. Ma di nuovo, in quel caso, la scelta di alcune parole - come “l’inesperienza” nell’infliggere le coltellate - non è stata proprio felice. Bisognerebbe lavorare per rendere il linguaggio tecnico-giuridico intellegibile, perché le sentenze dovrebbero essere comprensibili. E se evitiamo i pregiudizi, evitiamo anche questi cortocircuiti e aumentiamo la fiducia nella giustizia. A proposito di questo, il rischio è che si faccia strada l’idea di una giustizia “a portata di click”. Nel caso di Torino, addirittura con una petizione online che chiede la rimozione del giudice… La petizione è una follia. Ma se tutte e tutti ci impegniamo ad evitare gli stereotipi, contribuiamo a una maggiore conoscenza e alimentiamo la fiducia nelle istituzioni per impedire certe assurdità. Perugia. Donna si suicida in carcere. Il Garante: “In Umbria la situazione è estremamente grave” di Luca Fiorucci La Nazione, 22 settembre 2025 L’avvocato Giuseppe Caforio: “Si sono moltiplicati in queste settimane episodi di autolesionismo e di violenza nei confronti della polizia”. La presidente della Regione, Proietti: “Una sconfitta collettiva”. Continua a essere drammatica la situazione delle carceri umbre. Tensioni, personale insufficienza, carenze strutturali, una percentuale estremamente elevate di detenuti psichiatrici che non hanno adeguata assistenza e che rendono la convivenza tra la popolazione reclusa estremamente critica. E un altro suicidio. La seconda morte nelle case circondariali dell’Umbria dopo il recente decesso di un detenuto a Spoleto, presumibilmente che complicazioni legate all’uso di stupefacenti. Ieri mattina, invece, a morire, per un atto volontario, è stata una detenuta trentacinquenne della sezione femminile del carcere di Capanne, a Perugia. “È con profondo dolore e anche con un senso di sconforto e sconfitta che devo comunicare che al carcere di Capanne nella sezione Femminile questa mattina vi è stato il suicidio di una detenuta italiana”. Lo rende noto il garante dei detenuti per l’Umbria, Giuseppe Caforio. “È un fatto gravissimo in un momento in cui gli sforzi per cercare di migliorare le condizioni dei detenuti nelle carceri umbre si stanno moltiplicando Anche se i risultati tardano ad arrivare. Mentre si è ancora in attesa della effettiva presa di avvio del provveditorato Umbria-Marche che dovrebbe essere più vicino alle esigenze delle nostre carceri, la situazione permane fortissimamente grave specie se si considera che oltre la dolorosa vicenda di domenica, si sono moltiplicati in queste settimane episodi di autolesionismo e di violenza nei confronti della polizia penitenziaria, a testimonianza di un momento veramente difficile” aggiunge Caforio. “Mi auguro che dopo tanta attesa finalmente si possa avere una svolta che dia concretezza a quei diritti fondamentali spesso violato nelle carceri. Mi riferisco soprattutto a quello di avere carceri in condizioni di umanità ragionevole. Questo cambio di passo - conclude Caforio - spero possa avere concretezza anche attraverso provvedimenti di natura straordinaria”. “Questo nuovo e grave evento critico rispecchia ancora una volta la grave situazione che stanno vivendo le donne e gli uomini in divisa della polizia penitenziaria di Perugia, i quali devono fronteggiare continuamente questi eventi estremi messi in atto da soggetti psichiatrici senza ricevere la giusta formazione professionale” sottolinea Angelo Romagnoli della segreteria regionale della Uilpa. “In Italia sale così a 61 la tragica conta dei ristretti che si sono suicidati nel corso del 2025 - sottolinea Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria -. Numeri inconcepibili per un paese che voglia dirsi civile, ma che tuttavia non riescono a smuovere le coscienze di quanti dovrebbero intervenire compiutamente sull’emergenza penitenziaria, a cominciare dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio”. “Siamo profondamente addolorati e scossi da quanto accaduto. Ogni volta che una vita si spegne dietro le mura di un istituto penitenziario sentiamo il peso di una sconfitta collettiva. Non possiamo nemmeno immaginare quanto grande fosse il dolore che ha portato questa giovane donna a togliersi la vita, e siamo sconvolti di fronte a questa tragedia che lascia senza parole”: a sottolinearlo la presidente della Regione Umbria, Stefania Proietti, e l’assessore al Welfare, Fabio Barcaioli. Perugia. La lettera della Sindaca alle detenute: “Non siete dimenticate, la vostra vita conta” perugiatoday.it, 22 settembre 2025 Lettera indirizzata a tutte le donne che scontano la pena nella casa circondariale del capoluogo. Nella mattinata di domenica 21 settembre una detenuta di 30 anni, originaria di Taranto, si è suicidata nel carcere di Capanne. Una notizia drammatica diffusa dal garante dei detenuti. La sindaca di Perugia, Vittoria Ferdinandi, ha voluto scrivere e inviare una lettera indirizzata a tutte le donne che scontano la pena nella casa circondariale del capoluogo. “Care ragazze - scrive Ferdinandi - in questi giorni così difficili desidero farvi arrivare tutta la mia vicinanza e quella della città di Perugia. La notizia che ci ha scosso ha riempito di dolore l’intera comunità e ci ricorda quanto sia importante non lasciare mai nessuna di voi sola. Vi scrivo perché sappiate che non siete dimenticate, che la vostra vita conta e che la vostra voce merita di essere ascoltata”. E ancora: “So che la vita lì può essere faticosa e che ci sono giorni in cui il tempo sembra fermarsi e il silenzio pesa di più. Perugia è presente per voi e non può voltarsi dall’altra parte, è fondamentale restare accanto a chi vive questo tempo difficile e trasformare ogni giorno in un’occasione per guardare avanti. Per questo serve il lavoro di tutti, la direzione del carcere, il personale, i volontari, il terzo settore, le imprese e le istituzioni, perché il tempo che vivete lì non sia soltanto un tempo sospeso ma un tempo capace di aprire strade nuove”. “È fondamentale rafforzare le attività che vi aiutano a sentirvi parte della comunità, percorsi di formazione e di lavoro che aprano possibilità per il futuro, iniziative culturali e ricreative che diano significato alle giornate, strumenti per mantenere vivi i legami familiari e per prepararvi al momento in cui tornerete a vivere la città. Ogni passo in questa direzione è un atto di giustizia e di civiltà e una comunità si misura anche da come accompagna chi attraversa i momenti più difficili - si legge nella lettera. Le vostre parole e le vostre proposte sono preziose, se sentite il bisogno di raccontare, di segnalare, di proporre, fatele arrivare attraverso chi lavora ogni giorno con voi. La città vuole ascoltarvi e da questo ascolto possono nascere percorsi migliori, più umani e più vicini ai vostri bisogni. E quando arriverà il momento di tornare fuori, è indispensabile che Perugia sia pronta ad accogliervi, vanno costruite reti, servizi, opportunità di lavoro e di formazione perché il ritorno alla vita di comunità non sia un salto nel vuoto ma l’inizio di una nuova possibilità”. “La città - conclude la sindaca - c’è, vi vede e vi pensa, siete parte viva di Perugia anche lì, siete una parte della nostra comunità e la vostra dignità ci riguarda tutti. Vi siamo accanto oggi e continueremo ad esserlo domani, trasformando insieme il dolore di questi giorni in un impegno concreto perché nessuna di voi si senta sola. Continuate a credere che un futuro diverso è possibile, e insieme faremo in modo che diventi realtà. Con un abbraccio sincero e partecipe”. Novara. Suicida in cella a 29 anni, la famiglia contro il pm sull’uso dei lacci delle scarpe di Elisa Sola La Stampa, 22 settembre 2025 Il giovane torinese si era impiccato a Novara, aveva già provato due volte. Il pm chiede l’archiviazione: “Non c’è un divieto esplicito sulle stringhe”. Si chiamava Michael Monsolino. Si è tolto la vita in cella a 29 anni, impiccandosi con i lacci delle scarpe. Era arrivato nel carcere di Novara quattro giorni prima, il primo luglio 2023. Era un ragazzo fragile. Una vita passata a Torino, nel quartiere Barriera di Milano. È finito dietro le sbarre la prima volta a 20 anni, per rapine, ricettazioni e porto di armi. Detenuto a Torino, e poi a Vercelli, ha provato due volte a suicidarsi, nel 2021. Nel penitenziario di Novara il terzo tentativo, finito in tragedia. Botta e risposta - Secondo la famiglia Monsolino, assistita dall’avvocato Gianluca Visca, la morte di Michael poteva essere evitata. I sintomi del suo malessere sarebbero stati evidenti da tempo. Lo scrivono nella denuncia che, insieme alla relazione del Nucleo investigativo della polizia penitenziaria del Piemonte, è stata analizzata dal procuratore di Novara, Giuseppe Ferrando, che ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo. Non ci sarebbero dubbi, secondo gli inquirenti, sulla fragilità del ragazzo. E nemmeno sulla dinamica del suicidio. Ma gli agenti del penitenziario di Novara non avrebbero colpe riguardo alla morte di Monsolino. “Nulla può essere eccepito, si sono attenuti scrupolosamente alla disciplina attualmente in vigore”, scrive Ferrando nella richiesta di archiviazione. Il riferimento riguarda uno dei punti nodali della questione: i lacci delle scarpe. I lacci sarebbero oggetti consentiti - Come mai un detenuto fragile era da solo in cella con delle stringhe, strumento usato spesso nei penitenziari da chi vuole togliersi la vita? La risposta, sottolinea la procura, sta nel regolamento del carcere di Novara. Non esisterebbe, nell’atto, una norma che prevede che i lacci delle scarpe debbano essere sequestrati al detenuto durante la perquisizione. I lacci “rientrano nel novero degli oggetti consentiti, pena la violazione della dignità e del decoro della persona, nonché dei suoi diritti fondamentali, salva la presenza di indicazioni specifiche i tal senso del personale sanitario, assenti nel caso di specie”, scrive la procura nella richiesta di archiviazione. Inoltre, rimarca il pm, era stato il ragazzo a chiedere di stare in una stanza da solo, perché aveva paura che gli altri detenuti gli facessero del male. La famiglia Monsolino non è d’accordo. E si è opposta alla richiesta di archiviazione. Il caso, quindi, verrà giudicato dal gip di Novara. Disaccordo sulla questione dei lacci - Il fratello della vittima, Alberto Monsolino, nella denuncia aveva scritto: “Non si comprende come un detenuto possa avere a sua disposizione dei lacci delle scarpe. Sono tra gli oggetti vietati alla popolazione carceraria. Se il personale avesse fatto attenzione, Michael non si sarebbe suicidato. Mio fratello era fragile, seguito da uno psicologo e prendeva una terapia”. L’avvocato Visca, nell’opposizione alla richiesta d’archiviazione, chiede al gip di mandare a processo il direttore, il comandante della penitenziaria, due medici e alcuni agenti del carcere di Novara “che ebbero a gestire l’ingresso e la custodia del detenuto, per non avere assunto nei rispettivi ruoli di garanzia, le dovute cautele volte a prevenire il rischio di suicidio come già occorso nel recente passato in termini di tentativo”. Nel carcere di Torino a Monsolino i lacci sarebbero stati tolti, ricorda il legale, che si chiede: “Perché a Novara no?”. Perugia. Da “Semi di Carità” alle pratiche generative della Giustizia riparativa umbriacronaca.it, 22 settembre 2025 Avviato nel 2024, prosegue il progetto della Caritas diocesana di Perugia-Città della Pieve “Semi di Carità”, finanziato dall’8xMille, finalizzato a promuovere sul territorio i valori, i principi e le pratiche generative della “Giustizia Riparativa” e della “Giustizia di Comunità”. Tra gli interventi già avviati, i percorsi di accompagnamento all’inclusione sociale e lavorativa per persone detenute, city farm e laboratori di ecologia integrale per studenti di scuole dell’infanzia, primarie e del catechismo, di sensibilizzazione della comunità scolastica sulla “Giustizia Riparativa” e campagna di advocacy su “Giustizia Riparativa” e “Giustizia di Comunità”. Quartieri Riparativi. La nuova fase del progetto, “Quartieri Riparativi”, che inizierà tra il 25 e il 29 settembre, riguarda due quartieri sensibili di Perugia, come spiega il dott. Alfonso Dragone, responsabile dell’Area Progetti di Caritas diocesana. “Innanzitutto si tratta della promozione della “Giustizia Riparativa” sul territorio, nel suo approccio comunitario, oltre l’applicazione in ambito penale previsto dalla riforma “Cartabia”. Abbiamo lavorato alla realizzazione di un ‘progetto pilota’ nei quartieri di Fontivegge e Monteluce così da promuovere e favorire la gestione e la prevenzione di conflitti e rafforzare il loro tessuto sociale, attraverso un approccio riparativo mediante i valori, i principi e le pratiche della stessa “Giustizia Riparativa”“. I “Quartieri Riparativi”, precisa il responsabile Caritas, “sono un percorso di ascolto, dialogo e trasformazione partecipato, nato per costruire comunità più inclusive, solidali e consapevoli con il coinvolgimento di cittadini, istituzioni, associazioni, realtà commerciali…”. Calendario degli incontri. È stato redatto il programma degli incontri di “implementazione” con le comunità, in presenza, aperti a tutti i cittadini interessati, incontri che avranno inizio, per il quartiere di Fontivegge, giovedì 25 settembre, alle ore 18, presso il Polo formativo Confcommercio (5° piano), in via Fontivegge 55, proseguendo con il seguente calendario: 2, 9, 16, 23, 30 ottobre e 7 novembre; per il quartiere di Monteluce, lunedì 29 settembre, alle ore 18, presso le Aule ADISU, in via del Giochetto (retro dello Studentato), con il seguente calendario: 6, 13, 20, 24 ottobre e 3, 10 novembre. Obiettivi del progetto. Questi incontri saranno sviluppati con il supporto di professionisti esperti e il coinvolgimento attivo dei diversi partners con un lavoro di mappatura dei bisogni della comunità. Gli obiettivi del progetto sono essenzialmente quattro: 1) Percorsi di inclusione sociale e lavorativa per persone detenute e/o ex detenute; 2) Sensibilizzazione rispetto ai valori e alle pratiche di “Giustizia Ripativa”; 3) Coinvolgimento attivo dell’intera comunità scolastica sulla “Giustizia Riparativa”; 4) Coinvolgimento della comunità nei processi di mitigazione dei conflitti e sviluppo della coesione sociale. Tra gli obiettivi per il futuro: lo sviluppo di una comunità; il tavolo di coordinamento locale sulla “Giustizia Riparativa”; la realizzazione di percorsi sperimentali nei quartieri di Monteluce e Fontivegge; il percorso sperimentale con l’ITTS “A. Volta”. “La partecipazione ampia e rappresentativa dei cittadini e delle varie realtà presenti sui territori è fondamentale - sostiene Alfonso Dragone -. Gli incontri si svolgeranno mediante l’utilizzo dei “circle”, spazi di dialogo strutturato in cui le persone si riuniscono in cerchio per affrontare un conflitto, una ferita sociale o un problema collettivo. Si basano su valori come rispetto, ascolto, responsabilità e cura reciproca”. Il commento del direttore Caritas. Il direttore della Caritas diocesana don Marco Briziarelli, nel presentare l’iniziativa “Quartieri Riparativi”, parla di “Giustizia Riparativa” come “paradigma innovativo per il nostro territorio, capace di attivare percorsi di comunità e di rigenerazione sociale nei quartieri in cui prende forma questo progetto pilota. Questa iniziativa è resa possibile grazie a una rete straordinaria di partner che credono nella forza del dialogo e della responsabilità condivisa. A loro va il nostro più sentito ringraziamento. Un pensiero di apprezzamento va anche alle istituzioni regionali, che con attenzione e sensibilità, stanno seguendo con interesse questo cammino condiviso”. I partners del progetto. Nutrito è l’elenco dei partners: Dipartimento di Filosofia, Scienze Sociali, Umane e della Formazione - FISSUF dell’Università degli Studi, Fondazione Valter Baldaccini, UDEPE, USSM, Comune di Perugia, USL Umbria 1, Casa Circondariale, Edizione Frate Indovino, Borgorete Soc. Coop. Soc., Caritas parrocchiali di Monteluce, Oasi Sant’Antonio da Padova, San Faustino, San Barnaba, San Raffaele e Santa Maria in Case Bruciate, Istituto Tecnico Tecnologico Statale ITTS “A. Volta”, Istituto Omnicomprensivo Salvatorelli Moneta di Marsciano, Istituto Omnicomprensivo Rosselli Rasetti di Castiglione del Lago, Pastorale Sociale e del Lavoro, Ordine degli Avvocati, U.N.I.T.A.L.S.I. - Sezione Umbria, Caritas Ambrosiana-Lecco, Caritas diocesana di Tempio-Ampurias, Laboratorio Team delle pratiche di Giustizia Riparava del Dipartimento di Scienze Umanistiche e Sociali dell’Università di Sassari. Bari. “Libri Liberi”, dibattito con i detenuti su “Gènie la matta” di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 22 settembre 2025 Una storia d’amore infinito che si infrange su un muro di sofferenza. È l’estrema sintesi del romanzo scelto per la nona tappa di “Libri Liberi” nei penitenziari, rassegna di fondazione De Sanctis patrocinata dal ministero della Giustizia. Lo scorso venerdì nella biblioteca della casa circondariale di Bari, l’attore Lino Guanciale ha letto e commentato con i detenuti “Génie la matta”, romanzo postumo della scrittrice francese Inès Cagnati, con l’introduzione della scrittrice Donatella Di Pietrantonio. “Non mi stare tra i piedi”. Marie se lo sente dire spesso dalla madre Eugénie, detta Génie. L’etichetta di ‘matta’ gliela dà la comunità da cui resta esclusa, condannata dalla sua famiglia e dall’intero paese per uno stupro subito. Da quella violenza nasce Marie, la voce narrante del romanzo, affamata d’amore. “Mi ha colpito moltissimo la quantità di amore che questa bambina ha incrollabilmente per questa madre, che fa tutto per lei, però non riesce a ‘toccarla’ come le servirebbe”, ha detto Guanciale ai detenuti. Génie riversa tutto il suo dolore - l’amore non ricevuto -, nel lavoro. È una contadina - “tagliava le siepi e la legna, faceva le fascine. In primavera zappava le vigne, i campi di piselli, di fave…” - ha raccontato Guanciale leggendo un passo del libro. Nella ripetitività della vita nei campi, Génie cerca di riscattarsi dalla sua condanna, che però non sconta mai. La discussione con i detenuti sul libro ha avuto al centro proprio l’ingiustizia della condanna che Génie ha subito dalla comunità - oggi si chiamerebbe vittimizzazione secondaria. Da donna violentata a portatrice di una colpa non sua. E poi, il rapporto madre-figlio, e il fragile equilibrio dell’amore: spesso chi non lo dà è perché, a sua volta, non l’ha ricevuto. L’importante è capire il punto di vista di Marie: amare, nonostante tutto. Milano. Puntozero Beccaria compie 30 anni di Gianni dal Magro cronacamilano.it, 22 settembre 2025 Una stagione, intitolata Persona, per celebrare il 30ennale del lavoro svolto da Puntozero Beccaria - struttura sostenuta dal Ministero della Giustizia (Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità) e riconosciuta dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, patrocinata dal Comune di Milano e inserita nel progetto Per Aspera ad Astra - Acri/Fondazione Cariplo - all’interno dell’Istituto Penale per Minorenni Cesare Beccaria, e per rilanciare sul futuro, proponendo un cartellone che prevede, oltre al meglio delle produzioni della compagnia, anche ospitalità, presentazioni, concerti. Un teatro che crea prospettive per una stagione che vuole essere una vetrina, perché l’incontro dal vivo resta sempre il modo migliore per raccontarsi davvero: Puntozero apre le porte del suo teatro, il primo in Europa aperto al pubblico all’interno di una struttura penitenziaria, con un ingresso separato, trasformando lo spazio di reclusione in un luogo di bellezza e lo fa con una rassegna strutturata: 8 spettacoli (di cui 5 produzioni e 3 ospitalità) e ancora incontri per far conoscere una attiva ed energica comunità teatrale dentro il carcere, dove tra corsi di formazione e laboratori si sperimenta anche un nuovo modo di scontare la pena, dando un senso al tempo per riempirlo con qualcosa di concreto, trasformando così il carcere non più soltanto in un luogo di pena, ma anche spazio di comunità, di bellezza e di futuro condiviso. La stagione si aprirà martedì 28 ottobre alle 19.30 con Errare Humanum est, storica produzione di Puntozero Beccaria, sostenuta da Fondazione KPMG Italia ETS (progetto previsto in repertorio fino a maggio 2026, sia in matinée destinate alle scuole su prenotazione che in replica serale - date e orari sono consultabili sul sito puntozeroteatro.org). In scena gli attori della compagnia Puntozero (giovani detenuti e non) e ospiti d’eccezione come il rapper El Simba e la cantante Joseena con le loro produzioni originali, sempre prodotte da Puntozeroteatro. Si tratta non soltanto di una rappresentazione teatrale ma di una potente riflessione sul disagio, la devianza minorile, la giustizia, che vede confrontarsi in scena detenuti e non detenuti con un pubblico di coetanei, per mostrare che cambiamento e crescita personali sono possibili e promuovere l’importanza della prevenzione al disagio giovanile. Suggestioni ed echi lontani introducono e commentano le vicende personali dei minori sul palcoscenico, in una armoniosa koinè di linguaggi: storie di strada, classicità dei versi shakespeariani e sofoclei, musica underground, ritmi rap e indie che si affrontano e si fondono. L’errore è il presupposto fondante del crescere, quindi del vivere perché, come afferma Tiresia nell’Antigone di Sofocle: “Tutti gli uomini possono sbagliare. Ma saggio e fortunato è colui che nell’errore non persevera e cerca di rimediare al male”. Verbania. Detenuti e abili sarti: “L’ago della libertà” aiuta nella ripartenza di Cristina Pastore La Stampa, 22 settembre 2025 Successo per la sfilata organizzata nel carcere di Pallanza. Il progetto è stato sostenuto dal Comune di Omegna. Scroscio di applausi per Michele al termine di una sfilata che ha avuto come protagonista la sua creatività e la voglia di ricominciare. Attorniato da modelle di tutte le età, e di nazionalità diverse, con gli occhi pieni di gioia trasmetteva l’entusiasmo che ha coinvolto altri due detenuti. Con lui sono i sarti del laboratorio “L’ago della libertà”, iniziativa di rieducazione e inclusione del carcere di Verbania. Con una convenzione con il Comune di Omegna e l’associazione cusiana Mastronauta è nato il progetto “Rivesto”, che lega il valore riabilitativo della pena con quello di un’economia circolare che combatte gli sprechi. A disposizione del creativo Michele, che ha fatto da maestro di taglio e cucito ai compagni di penitenziario, sono stati messi abiti da rigenerare, che a lavoro finito sono stati presentati a una platea da tutto esaurito sulla passerella allestita in uno dei cortili del carcere di Pallanza. A indossarli, con sbarazzina simpatia, tante volontarie che supportano la comunità carceraria, di cui la portavoce è la garante cittadina dei detenuti Silvia Magistrini. Sette le uscite: la prima di cento gonne cucite da Thomas, la seconda di jeans, la terza di indumenti casual e a seguire una di capi spalla, due di abiti, da giorno e da sera, con un gran finale a sorpresa. “Il futuro, credetemi, è un gran simpaticone, regala sogni facili a tutte le persone” è stato il verso di Gianni Rodari che l’assessore omegnese Mimma Moscatiello ha fatto incidere su una targa che ha consegnato agli ideatori dell’evento. “È stata una scommessa, fuori dagli schemi, nata conoscendo Michele, e che innesca un circolo virtuoso, perché parte di quanto raccolto con questo evento di beneficenza sarà dato all’associazione che gestisce il teatro sociale di Omegna” dice Moscatiello. La direttrice del carcere Claudia Piscione ha ricordato i tanti che hanno contribuito, tra cui l’associazione Camminare insieme, la Ciurma, l’oratorio don Bosco di Pallanza, la San Vincenzo di Trobaso, gli enti di formazione Casa di carità arti e mestieri, il Formont e l’Enaip di Omegna, la coop Il Sogno. A corollario della passerella ci sono stati intrattenimenti con vari artisti. “Questo momento è la dimostrazione che si può fare: che attività in sicurezza sono una via percorribile” ha detto il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Mario Antonio Galati. Il magistrato del Tribunale di sorveglianza Maria Criscuolo ha sottolineato come la casa circondariale di Verbania in questo senso sia un esempio. “La collaborazione, non scontata, della polizia penitenziaria è stata fondamentale” ha evidenziato la direttrice Piscione ringraziando gli agenti, il comandante Valeria Antonella De Iaco e il vice Simone Paolucci. Velletri (Rm). Prison Got Talent: un’idea del ministero della Giustizia per un format tv di Conchita Sannino La Repubblica, 22 settembre 2025 Un numero zero che via Arenula ambirebbe ad esportare in altre carceri. Tommaso, vincitore con un rap: “Aver potuto alzare una coppa qui dentro è una cosa che non dimenticherò mai più nella vita”. Un titolo che occhieggia ai talent show del mondo di fuori, Prison got talent. Un esperimento che serve a muovere e a calmare l’aria immobile, dentro. Più l’emozione di un giovanissimo vincitore, il 38enne Tommaso, sezione “reati comuni” con i suoi compagni di detenzione a contatto con artisti e membri della giuria. Scene che dal carcere di Velletri per qualche ora sospendono - senza poter cancellare - il fardello delle condizioni inumane in cui versano i penitenziari italiani. Ma al di là della vivace iniziativa della casa circondariale laziale - che pure é stata teatro di rivolte e incendi, in passato - la notizia sembra un’altra. Il ministero della Giustizia sta valutando l’idea di un format tv, un po’ Corrida, un po’ gara tra talenti, da costruire sulle potenzialità di riscatto delle donne e degli uomini rinchiusi nei nostri istituti. Un numero zero che via Arenula ambirebbe ad esportare in altre carceri, anche se non pare che il sottosegretario Delmastro, quello dell’annuncio “con noi non devono respirare “sia sulla stessa lunghezza d’onda. Ma al Ministero escludono eventuali contrasti. Certo è che il progetto, ammesso superi le prime ipotesi allo studio, calerebbe in un sistema sotto i riflettori per tutt’altre circostanze: tra suicidi, disagi e carenze suscita da tempo allarme bipartisan, e un mese fa non a caso é tornato in visita nelle celle delle nostre carceri il Cpt, Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa. La serata a Velletri ha lasciato una scia di buone intenzioni. A partire dalle semplici e concrete progettualità di vita di Tommaso, autore e rapper, il detenuto che ha vinto il primo Prison Got Talent, cantando una canzone di Alex Baroni “Ultimamente”, ma che poi ha concesso un personalissimo bis con un brano da lui scritto “Core core core”. Nella giuria c’erano la conduttrice radio e showgirl Rossella Brescia e due cantanti molto noti sul territorio, Luca Guadagnanini e Lavinia Fiorani. “Non riuscivo a dormirci, aver potuto alzare una coppa qui dentro è una cosa che non dimenticherò mai più nella vita - è il messaggio che Tommaso invia a Repubblica, attraverso gli uffici guidati dalla direttrice Anna Maria Gentile - Qui dentro tutto quello che si vive è amplificato, io ho visto tanta gioia anche nei miei colleghi che hanno recitato o cantato. Tra poco uscirò, con il mio conto finalmente pagato alla giustizia. Mi auguro che di queste iniziative se ne facciano tante: invece del vuoto, anche esercitarsi e trovare dentro di sé motivazioni e qualità su cui impegnarsi è qualcosa che ti riempie le giornate e ti salva il futuro”. Una serata finita con premi utili. Qualche tuta sportiva, forniture di cioccolato o biscotti. Senza contare che per il talent show di una sera, a Velletri - carcere di campagna, con i filari di vigneti, con un agronomo che insegna come coltivare l’orto - i detenuti hanno occupato l’estate a fare preselezioni, confrontarsi con la prima giuria, allenarsi e pensare ai successivi step. Altro che i materassi dati a fuoco e i detenuti asserragliati nelle celle, come dodici mesi fa. E chissà che l’esperienza non contagi altri istituti. “Per ora, parliamo di una interessante idea messa a segno dalla direttrice di Velletri, e dai nostri uffici abbiamo fornito supporto e ovviamente verifiche di compatibilità - si affrettano a spiegare al Ministero - Stiamo verificando parallelamente, e solo in via solo preliminare, se si possa puntare sui talenti artistici”. Ma solo come una delle opzioni, sottolineano, attraverso cui coltivare “i principi costituzionali della rieducazione e del recupero sociale”. L’incontro tra arte e reclusi vanta, in realtà antichi e storici precedenti: dall’esclusiva rappresentazione a Rebibbia di Shakespeare in napoletano tradotto da Eduardo ad altri lavori di spessore fino alle compagnie di carcere di teatro, come quella della Fortezza, a Volterra, straordinaria fucina di attori, fondata e diretta da Armando Punzo dal 1988. E se nelle patrie galere sono entrati detenuti senza un mestiere né istruzione, ad uscire spesso sono stati attori di elevata qualità - da Sasà Striano a Aniello Arena, fino a una figura nota nel cinema italiano, l’interprete e produttore Gaetano Di Vaio, prematuramente scomparso. Ma arte, teatro, game show non possono certo produrre frutto in realtà sovraffollate e disumane: gli oltre 60mila detenuti italiani aspettano ancora celle, strutture e assistenza sanitaria degne di un Paese civile. I ragazzi interrotti nelle nostre prigioni di Maddalena Messeri La Repubblica, 22 settembre 2025 L’inchiesta di Raffaella Di Rosa nelle carceri minorili tra “maranza”, sogni infranti e nessuna idea di futuro. Soli, arrabbiati e senza futuro, sono questi i giovani reclusi che popolano gli istituti di pena per minorenni in Italia. Quello che un tempo si chiamava il “riformatorio” e che doveva riabilitare i ragazzi alla vita in società, è invece diventato un luogo di dolore e violenze come testimonia il libro Vite minori di Raffaella Di Rosa, edito da il Millimetro. La giornalista affronta a passo di cronaca la situazione della detenzione minorile dopo il decreto Caivano - norma che prevede l’ampliamento della custodia cautelare e la limitazione di misure alternative - mettendone in luce tutti i limiti, a partire dal sovraffollamento. L’autrice, a differenza della versione edulcorata della fortunata serie Mare fuori, con un’attenta indagine mostra senza filtri come le carceri minorili siano diventate il simbolo di un sistema fallace e lo fa attraverso la voce di sette detenuti adolescenti e degli adulti che gravitano intorno a un istituto: agenti, educatori, infermieri, preti e magistrati. L’idea di questo saggio nasce dopo la notizia sconvolgente del suicidio del diciottenne egiziano Loka Moktar Youssef Barson, che a San Vittore si è tolto la vita dandosi fuoco. Nonostante la perizia psichiatrica avesse riconosciuto il suo forte disagio mentale, non fu comunque affidato a una comunità terapeutica, ma lasciato in cella. Poi c’è Hisham, orfano, scappato dal Marocco e diventato ladro, che aveva il sogno di diventare barbiere. Anche la diffidente Flora, ora nel minorile di Pontremoli, vorrebbe fare la parrucchiera. E cantante rap vorrebbe diventare Willy Boy, il bambino che tutti hanno abbandonato, e che sta scontando la sua pena nella comunità Kayros. Mentre Said purtroppo non sa più sognare, e ogni tanto si procura delle ferite sul corpo. E poi c’è F., che tra poco diventerà maggiorenne nel minorile di Catanzaro, dove è detenuto per aver partecipato al lancio di una bicicletta elettrica dai Murazzi del Po di Torino, condannando un giovane alla sedia a rotelle. Sono gli ultimi degli ultimi. I figli di nessuno. Al nord vengono chiamati “maranza”, piccoli delinquenti, ragazzi di strada alle prese con le dipendenze dalle sostanze stupefacenti e la criminalità. Così, una volta incarcerati nei minorili, covano rabbia e organizzano sommosse, come al Ferrante Aporti di Torino in cui è stato bruciato di tutto, urlando “Rivolta! Questo carcere fa schifo!” e postando addirittura il video su TikTok. “Mai vista una cosa del genere” sostiene Monica Gallo, la garante dei detenuti di Torino. “Hanno dormito per giorni sui materassi per terra, e sembrano dire: “Tu mi fai stare così, io ti distruggo il contenitore in cui mi hai rinchiuso”“. Sono queste le “vite minori” che urlano il loro disagio, esistenze che non possiamo dare per spacciate, perché anche loro hanno il diritto di sognare una vita diversa. Perché come dice don Burgio della comunità Kayros, “non esistono ragazzi cattivi” e ogni istituto deve aiutare i suoi reclusi a crederci per primi. “Vite minori” di Raffaella Di Rosa (pagg. 160, euro 18, il Millimetro) Statistica e giustizia dopo il BarLume di Giusi Fasano Corriere della Sera, 22 settembre 2025 Marco Malvaldi si chiede: possono giudici e magistrati permettersi di ignorare la statistica nel decidere per una condanna o un’assoluzione? “Una condanna viene disposta quando la colpevolezza dell’imputato è dimostrata “al di là di ogni ragionevole dubbio”; ma il significato della parola “ragionevole” non è univoco”. Ecco. Comincia da qui il viaggio di Marco Malvaldi nella costruzione, chiamiamola così, della colpevolezza e dell’innocenza. Proprio lui, il chimico scrittore che ha firmato i fortunati Romanzi del BarLume, si prende la briga di entrare nel territorio della Giustizia e inoltrarsi, armato di calcolo probabilistico, lungo i percorsi accidentati delle prove, degli indizi, delle testimonianze, della credibilità. Lo fa con un libro sorprendente (Cortina Editore) che si intitola “Se fossi stato al vostro posto”, sottotitolo: “Ragionevole dubbio e matematiche risoluzioni”. Un viaggio nel calcolo statistico attraverso il quale decodifica la narrazione di processi, sentenze e indagini in un alternarsi di esempi e paradossi tratti quasi sempre da fatti reali. Malvaldi segue le intuizioni di Edgard Allan Poe che, nel 1842, studiò atti e resoconti dell’omicidio di Mary Cecila Rogers e ne fece un romanzo poliziesco (Il mistero di Marie Roget) per dimostrare “come il ragionamento logico-deduttivo e la teoria delle probabilità possano aiutare a ricostruire correttamente un fatto criminoso”. La domanda chiave del libro è: possono giudici e magistrati permettersi di ignorare la statistica nel decidere per una condanna o un’assoluzione? La riposta di Malvaldi è ovviamente no. “Conoscere la statistica per un giudice è una questione di responsabilità”, scrive, ignorarla “significa avere una conoscenza parziale del mondo”. Un esempio di immediata comprensione: troviamo il prato bagnato; che probabilità c’è che abbia piovuto? Non ne siamo sicuri. Chiediamo in famiglia, al vicino: nessuno ha bagnato. Cresce la probabilità che abbia piovuto ma non è certezza. Immaginiamo uno scherzo. “Il fatto è che gran parte delle nostre domande riguarda il passato, non modificabile e non completamente ricostruibile”, ragiona Malvaldi. “Potremmo inventarci modi implausibili e assurdi, ma non impossibili, per spiegare il prato bagnato”. Qui la domanda è: avendo misurato un dato esito, che probabilità abbiamo che sia vera la nostra ipotesi? La risposta della statistica aiuta la ricostruzione della realtà. Questo è il senso del libro di Malvaldi. La carica dei nuovi fanatismi di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 22 settembre 2025 La polarizzazione della politica rischia di esasperare le posizioni fino all’odio mettendo a rischio la democrazia. L’assassinio di Charlie Kirk ha scatenato sia in America sia in Italia scontri verbali feroci. Il fanatismo che conduce alla violenza fisica è responsabilità soprattutto della destra o della sinistra? Che rapporto c’è fra la violenza verbale e la violenza fisica? O fra il fanatismo che si manifesta attraverso messaggi di odio e quello che passa all’azione picchiando colui che si considera il “nemico” oppure uccidendolo? Per tentare di sbrogliare la matassa conviene partire da tre considerazioni: la prima è che il fanatismo è in politica una merce assai diffusa. La seconda è che esistono varie gradazioni di fanatismo (dalle più blande alle più virulente). La terza è che, in genere (tranne che nel caso delle guerre civili) solo un piccolo sottoinsieme di fanatici passa dai messaggi d’odio alla violenza fisica. In generale, il fanatico si riconosce facilmente: egli vede il mondo in bianco e nero. È incapace di empatia. L’altro, quello che la pensa diversamente, è un mostro, un corrotto, un delinquente. O, nella migliore delle ipotesi, uno stupido burattino manovrato dai malvagi. Il mondo diventerebbe di gran lunga migliore - pensa il fanatico - se i malvagi venissero eliminati. I fanatici sono tutti uguali: non c’è, da questo punto di vista, nessuna differenza fra il fanatico che si dice di sinistra e quello che si dice di destra, il fanatico religioso o quello (diciamo così) laico. Il fanatico traduce in aggressività le sue frustrazioni private e la politica è un luogo perfetto in cui scaricarle. Egli si può raccontare, e raccontare agli altri, di essere al servizio di qualche nobile causa, può persino sentirsi un eroe. Però, come si è detto, ci sono varie gradazioni di fanatismo. Per capirlo bisogna squarciare il velo di ipocrisia che circonda la democrazia. Che ha molte virtù. Forse però la sua virtù maggiore, quella più preziosa, è di costringere, attraverso le sue istituzioni e le sue regole, persone che si riconoscono in parti politiche diverse e che, spesso, si disprezzano quando non si odiano, a trattarsi da “avversari” anziché da “nemici”. Certo, ci sono fasi, nella vita delle democrazie, in cui la polarizzazione cresce e la reciproca avversione diventa particolarmente visibile. Ma non è vero, per fare un paio di esempi, che segmenti rilevanti di elettori democratici e repubblicani non si disprezzassero e non si odiassero anche prima di Trump. E ciò vale anche, nell’Italia di un tempo, per l’atteggiamento reciproco di comunisti e anticomunisti. Magari non valeva, e forse non vale nemmeno oggi, nel caso delle élite ma valeva e vale per porzioni dell’elettorato. Ci sono forme di fanatismo blando che chiunque può cogliere nelle conversazioni private: persone miti, che non farebbero male a una mosca, sono capacissime, se parlano di politica, di pronunciare parole d’odio all’indirizzo di quelli che ritengono avversari politici. Ricordate il clima all’epoca dello scontro fra berlusconiani e anti-berlusconiani? Il fanatismo blando, poiché resta confinato nelle conversazioni, passa per lo più inosservato, al massimo viene etichettato come “eccesso di passione politica”. Tuttavia, contiene molti degli elementi (il mondo in bianco e nero, l’avversario politico come incarnazione del Male, eccetera) che ritroviamo nelle forme più attive, e più distruttive, di fanatismo. C’è, dopo il fanatismo blando, il fanatismo attivo di chi passa il suo tempo libero a manifestare il suo odio contro questo o quello: la Rete consente oggi al fanatico da tastiera di sparare ovunque quei messaggi di odio che un tempo potevano ascoltare solo i frequentatori del suo stesso bar o i suoi colleghi di lavoro. È possibile, quanto meno plausibile, che questa forma di fanatismo, quello che fa ricorso alla violenza verbale, crei il clima che finisce per spingere all’azione alcuni. Ho scritto prima che la politica è il luogo privilegiato ove si manifesta il fanatismo. Però è anche vero che non c’è troppa differenza fra il fanatico che colpisce l’avversario politico e, ad esempio, il branco che dà fuoco a un povero barbone: anche in questo caso il fanatico può auto-rappresentarsi come un eroe, impegnato a liberare il mondo da quelli che considera parassiti. Ma il fanatico politico che passa alla violenza non capirà mai quanto egli assomigli ai membri di quel branco. Nelle democrazie esiste da sempre un dibattito sui limiti (devono esserci o non esserci?) nella libera manifestazione del pensiero: ne fa parte o no il messaggio d’odio contro qualcuno? Sul piano empirico le leggi dei vari Paesi affrontano in modi diversi il problema. Sul piano teorico, del dover essere della democrazia, la questione resta apertissima, mai davvero risolta. La democrazia ha bisogno per funzionare di una certa dose d’ipocrisia. Ciò spiega perché le parti politiche in competizione mostrino sempre una certa indulgenza verso i fanatici che stanno nelle rispettive pance elettorali e la massima intransigenza verso i fanatici che si trovano nelle pance altrui. Certo, quando il fanatico in qualche modo riconducibile alla propria parte fa un atto di violenza, lo si condanna ma si evita di contrastarlo e di isolarlo prima che agisca. Ci sono in ballo voti e consensi. E in ogni caso, condannando l’atto, si possono sempre trovare delle giustificazioni e delle attenuanti. Giustificazioni e attenuanti che non ci si sogna di cercare quando il fanatico è uno del campo avverso. La democrazia, avrebbe detto il filosofo Montesquieu, è un regime “moderato”, ossia un regime che, per funzionare al meglio, richiede auto-controllo e disponibilità al confronto pacifico fra le opinioni. Se ne può quindi dedurre che nelle fasi in cui la polarizzazione delle opinioni cresce, la democrazia arranca e il fanatismo trova ampi varchi attraverso cui diffondersi. Sfortunatamente, questa è una di quelle fasi. In America e, giù per li rami, in tutto l’Occidente. Noi, impotenti nel mondo disumano di Raffaella Romagnolo La Stampa, 22 settembre 2025 Nell’era dell’odio essere onesti non basta. Cosa succederebbe se ogni persona ne portasse in piazza un’altra e poi un’altra? Il popolo dei disarmati deve farsi sentire. Gaza (ma anche Ucraina): come reagire a quello che sta accadendo? Non intendo come dovrebbero reagire i politici o gli alti funzionari con responsabilità decisionali, dico la gente comune, quella che studia, lavora o magari è in pensione. Come dovrebbe reagire la gente comune allo scandalo di altra gente comune affamata e scacciata di casa? Ai bambini ammazzati? Alla distruzione di abitazioni per farne resort? A leader che praticano la violenza e la chiamano diplomazia? Come dovrebbe reagire la gente comune allo scandalo indicibile di leader che si candidano a boia? È una parola di origine greca, scandalo, e vuol dire inciampo, ostacolo. Di qui il significato morale: scandalo è ciò che ti obbliga a fermarti, alzare le mani e dire: “no, questo no”. E se lo scandalo è quotidiano, l’inciampo è continuo. E infatti io, che non sono un politico né ho responsabilità decisionali, continuamente mi sento così: immobile, impotente e con un unico pensiero in testa: “no, questo no, questo è troppo”. Nell’editoriale di ieri il direttore Malaguti ha chiamato in soccorso Hanna Arendt. Pratica salutare, in tempi cupi, rivolgersi a chi ne ha vissuti con saggezza di simili. “Il suddito ideale di un regime totalitario” scrive Arendt “non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso, non esiste più”. A me viene in mente quello che diceva Primo Levi in Vanadio, penultimo racconto di quel capolavoro che è Il sistema periodico. “Un mondo in cui tutti fossero (…) onesti e inermi, sarebbe tollerabile, ma questo è un mondo irreale. Nel mondo reale gli armati esistono, costruiscono Auschwitz, e gli onesti e inermi spianano loro la strada”. Inerme vuol dire senza armi, indifeso. La gente comune è inerme per definizione. Nella maggioranza dei casi, è anche onesta. Levi scrive nei primi Settanta, anni che poteva avvertire come di ritornante fascismo, da piazza Fontana in avanti. Scrivendo, mette a fuoco il funzionamento dei totalitarismi e il rapporto tra potere e individuo, un pensiero che troverà compiuta elaborazione qualche anno più tardi ne I sommersi e i salvati (leggere il capitolo “La zona grigia”). Ma nel tempo scandaloso che viviamo oggi, come dovrebbe reagire la gente comune, onesta e inerme, per non spianare la strada agli “armati”? Arendt e Levi studiano i sistemi totalitari. Qui (Italia, Europa) siamo in democrazia. Eppure a me pare che la partita da giocare (“non spianare la strada agli armati”) sia simile. Se mi guardo intorno, vedo persone comuni presumibilmente oneste, e di sicuro disarmate, che scendono in piazza, organizzano fiaccolate, cortei, scioperi, sostengono associazioni umanitarie, raccolgono cibo per la Flotilla. Mi domando se è questo che intendeva Primo Levi e se ci sono altre forme disarmate per urlare allo scandalo e invertire il cammino. Serve, credo, un pensiero vivo, perfino creatività. Mi domando anche se può funzionare il contagio. Cosa succederebbe se ogni persona ne portasse in piazza un’altra, e poi un’altra, e via così? Cosa accadrebbe se un gruppo di disarmati diventasse un fiume e poi un mare di gente comune che sostiene altra gente comune? Non dovrebbero prenderne atto politici e decisori? Che poi la piazza abbia dei limiti, non c’è dubbio. Al corteo, ho sempre preferito lo studio e il contagio delle idee. Una forma comunque non esclude l’altra e ciascuno è libero di praticare quella che preferisce. Non mi rassegno a vivere nel tempo dell’odio. Sciopero per Gaza: scontri a Milano, caos in stazione a Roma e Torino La Stampa, 22 settembre 2025 I sindacati di base protestano per l’intera giornata. Escluso il trasporto aereo. Oltre 70 cortei nelle città. Dai treni alle scuole, dai porti al trasporto locale alla sanità. Lo sciopero generale indetto per oggi lunedì 22 settembre dalle sigle sindacali di base, in segno di solidarietà con la popolazione palestinese nella Striscia di Gaza e a sostegno della Global Sumud Flotilla, sta fermando varie piazze italiane. Tutti i comparti aderiscono alla mobilitazione e le manifestazioni si svolgono in almeno 75 città, a cominciare da Roma, Milano e Napoli. “Blocchiamo tutto con la Palestina nel cuore”, lo slogan utilizzato dalle sigle Usb per annunciare il programma di eventi previsti nella giornata. Per quanto riguarda il settore ferroviario, allo sciopero ha annunciato l’adesione il personale del Gruppo Fs con Trenitalia (fatta eccezione per la Calabria) ma ad incrociare le braccia saranno anche i dipendenti di Italo e Trenord. Disagi si registrano a Milano, dove in Stazione Centrale ci sono cancellazioni di treni o ritardi di oltre 2 ore. Lo sciopero è scattato a mezzanotte e durerà fino alle ore 23 di oggi e - come annunciato da Fs - potrebbe avere impatti sulla circolazione ferroviaria e comportare cancellazioni totali e parziali di Frecce, Intercity e treni del Regionale. Previste le fasce di garanzia dalle 6 alle 9 e dalle 18 alle 21. Astensione dal lavoro proclamata anche da Cub, Sgb, Adl Varese, Usi-Cit per il trasporto merci su rotaia dalle 21 del 21 alla stessa ora del 22 settembre; per le autostrade, 24 ore di stop dalle 22 del 21 settembre e anche per i porti per l’intera giornata. La mobilitazione nel trasporto pubblico locale e marittimo, sarà sempre di 24 ore ma con varie modalità. Previsti blocchi nei porti, a cominciare da quelli di Genova, Trieste, Ancona e Civitavecchia. Disagi in questo caso si sono registrati a Livorno, con parte del porto bloccata. Possibili disservizi anche nei trasporti locali. ATAC, l’azienda dei trasporti pubblici di Roma, ha detto che il servizio potrebbe non essere garantito dalle 8:30 alle 17, e dalle 20 al termine del servizio. Ha pubblicato una lista più completa delle linee garantite e non garantite durante lo sciopero sul suo sito. In particolare, migliaia di persone si sono concentrate in piazza dei Cinquecento, davanti a Termini, e la stazione Termini è di fatto bloccata. ATM, l’azienda dei trasporti pubblici di Milano, ha detto che durante lo sciopero i trasporti potrebbero non essere garantiti dalle 8:45 alle 15 e dopo le 18, fino al termine del servizio. Cortei con migliaia di persone si registrano a Torino, Bologna, Firenze, Milano, Genova (nonostante l’allerta meteo), Roma appunto, in varie località di Puglia, Sicilia, a Trento. Piantedosi: “C’è un clima di tensione, l’antagonismo può fare un salto di qualità” di Ileana Sciarra Il Messaggero, 22 settembre 2025 Dopo l’assassinio di Kirk, i toni si sono accesi tra maggioranza e opposizione. C’è chi ricorda gli anni di piombo e rievoca le Brigate rosse, chi ha citato la morte del commissario Calabresi. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi invita alla calma, perché il pericolo di un “salto di qualità” dalla protesta all’azione violenta esiste. Ministro Piantedosi, in Italia c’è il rischio di un caso Kirk? O di ritorno della lotta armata? “C’è un clima di tensione che non mi piace ma non ci sono elementi diretti che lascino presagire un ritorno di quei tempi terribili. La suggestione della lotta armata è stata, a quel tempo, sconfitta da un mix di reazione dello Stato e di indignazione degli italiani. Furono creati antidoti che sono ancora molto forti. Non per questo dobbiamo sottovalutare quegli ambienti e quei gruppi che in Italia, come in tutta Europa, fanno dell’antagonismo la cifra della loro esistenza e sono sempre in cerca di pretesti per rendersi protagonisti di violenze e disordini”. Cosa teme? “Bisogna stare sempre attenti a non alimentare quel clima di tensione che, talvolta, si respira nel dibattito politico e nella società ed evitare il pericolo di effetti emulativi e “salti di qualità”“. A Pontida è andata in scena una sorta di santificazione di Charlie Kirk. L’influencer del popolo Maga professava però anche l’uso di armi e parole d’odio. Non è un rischio idealizzare personaggi così divisivi? “Qualsiasi fossero le sue idee, aveva come tutti il diritto di esprimerle. Così come chiunque aveva il diritto di contestarle, ma non certo con la violenza, men che meno mortale. C’è chi si stupisce per la celebrazione della figura di Kirk ma, in realtà, quello che dovrebbe far rabbrividire è l’atteggiamento di chi in qualche modo ha giustificato la sua eliminazione”. Come se in qualche modo se la fosse cercata? “Una sorta di riproposizione dello slogan “uccidere un fascista non è reato”. Ancora più preoccupante se si considera che è sempre più frequente ritenere “fascista” chiunque semplicemente non la pensa come te”. Solo qualche settimana fa, lei ha inviato cecchini sui tetti di Viterbo dopo aver stanato due cittadini turchi armati prima della festa di Santa Rosa. In questi tre anni ha dovuto fare i conti con violente manifestazioni di piazza, i rischi legati a minacce ibride, svariati allarmi sul terrorismo. Qual è stato il momento o l’evento che ha vissuto con più timore? “Non c’è una circostanza in particolare. Il Ministro dell’interno è naturalmente portato a dover affrontare in continuazione situazioni complesse ma finisce necessariamente con il voltare pagina ogni giorno. A Viterbo in poche ore abbiamo dovuto svolgere una approfondita attività di analisi e, al contempo, assumerci la responsabilità di adottare decisioni difficili. Dovevamo garantire la sicurezza e contemporaneamente evitare di creare panico tra la popolazione. Abbiamo messo in campo misure di prevenzione molto forti per consentire di far svolgere la celebrazione nel migliore dei modi”. Gli hotspot in Albania sono praticamente vuoti. Quanto ci vorrà per farli entrare a regime? “Andranno a pieno regime a giugno con l’entrata in vigore del nuovo patto asilo e immigrazione. In questi mesi ci hanno consentito di rimpatriare un discreto numero di migranti irregolari. Avremmo voluto fossero di più ma ci siamo scontrati con una contrarietà, talvolta pregiudiziale, di una certa giurisprudenza”. Le opposizioni denunciano un ingente spreco di risorse pubbliche. Non temete un intervento della Corte dei Conti? Non sarebbe più semplice chiuderli? “Le nuove regole europee ci obbligano ad effettuare le procedure accelerate alla frontiera, esattamente quello per cui sono stati realizzati quei centri. La loro realizzazione, pertanto, è un investimento. Tanto più che i centri sono comunque già adesso in funzionamento. Ci si dovrebbe preoccupare di più del fatto che alcuni criminali che volevamo trattenere in Albania per rimpatriarli sono stati messi in libertà a seguito di ricorsi”. Renzi propone di portarci i detenuti albanesi che si trovano nelle nostre carceri. Potrebbe essere un’idea? “Faremo di più e meglio. Da lì verranno riportati a casa in tempi brevi persone che non hanno diritto a soggiornare in Italia, evitando che rimangano inutilmente per anni pesando sulle casse dello Stato. Credo siano utilissimi così”. Salvini sostiene che il problema non sono i carrarmati russi ma i troppi delinquenti stranieri che ci sono in Italia e che lì vanno investiti i soldi per la difesa: presidio di treni, stazioni, mezzi pubblici, scuole e strade. Siamo messi così male? “I carrarmati russi sono effettivamente lontani ma ahimè molto attivi ed è giusto che l’Europa si comporti di conseguenza. Detto questo, i nostri militari concorrono - con Polizia e Carabinieri - con l’operazione “strade sicure” a rafforzare quel sempre più efficace presidio del territorio che ci ha permesso di far calare i reati commessi in Italia. Salvini peraltro ha ragione - perché è un dato di fatto - quando rileva che gli stranieri irregolari commettono in proporzione la maggioranza dei delitti. Per questo abbiamo lavorato per aumentare i rimpatri di quelli maggiormente pericolosi”. Lavorate a una nuova stretta? “Stiamo lavorando in Europa su come rafforzare il sistema dei rimpatri degli irregolari. È un’esigenza avvertita in tutti i paesi”. Dopo le violenze dell’aprile scorso, con 24 agenti feriti e due quartieri in ostaggio dei tifosi, lei ha imposto lo stop per le partite serali allo stadio Olimpico... “Una decisione presa dopo aver concesso aperture dopo anni di divieti ed esserne stati ripagati con le vergognose scene di guerriglia urbana di cui si macchiarono in quelle ore gli ultras. Una parte della città tenuta in ostaggio per ore da facinorosi che hanno finito per danneggiare la stragrande maggioranza dei tifosi. E questo rammarica anche me. Peraltro il ritrovamento, poco prima del derby, di mazze e lame pronte per essere utilizzate per atti di volenza, scongiurati ancora una volta solo dall’azione delle Forze di polizia, conferma l’inevitabilità di quella decisione”. Pensa di tenere il punto fin quando sarà al Viminale? “Al momento non vedo alternative. Ma spero di essere smentito e di potermi ricredere di fronte a fatti concreti. Non si può consentire di mettere a repentaglio la tranquillità e la sicurezza dei cittadini. Lo sport deve riempire la vita delle città, non ostacolarla. E poi, devo assicurare rispetto anche per il lavoro di centinaia di operatori delle Forze dell’ordine che, in queste circostanze, vengono impegnati per ore in scenari di vera e propria guerriglia”. Con la crisi in Medioriente, c’è il rischio che crescano gli sbarchi sulle nostre coste? “I flussi migratori sono alimentati dalle situazioni di instabilità. Quindi il rischio c’è sempre. Anche da questo punto di vista va evitato che la crisi medio-orientale si estenda a tutto il Nord Africa”. Veniamo al caso Almasri. Pensa sia giusto “scudare” anche il capo del Gabinetto del ministero della Giustizia, Giusy Bartolozzi? “Assolutamente sì. Sono stato personalmente testimone di quanto la dottoressa Bartolozzi abbia lavorato in pieno concerto con tutti noi nella gestione di quella vicenda ed esclusivamente sotto le direttive del suo Ministro”. Il governo ha da rimproverarsi qualcosa? “Assolutamente no! Agendo diversamente, ora ci verrebbero rimproverate le conseguenze di una differente gestione della vicenda”. Tornaste indietro, apporreste il segreto di Stato? “La cosa principale è che abbiamo agito nell’esclusivo interesse del nostro Paese e dei nostri cittadini. Trovo singolare che, averlo fatto in assoluta trasparenza, possa diventare oggetto di critica. Non credo che la situazione assuma un rilievo diverso solo a seconda delle modalità che si scelgono. Lo ripeto: dovevamo proteggere i nostri interessi e i nostri cittadini e lo abbiamo fatto”. Un’ultima cosa ministro. Ad agosto avete sgomberato Leoncavallo. Casapound invece è ancora lì... “L’immobile di Casapound è inserito nell’elenco di quelli da sgomberare in caso di mancata restituzione da parte degli occupanti. Lo decisi io stesso quando ero Prefetto di Roma. Prima o poi anche quello stabile verrà liberato”. L’Assemblea Onu è il momento della verità per chi vuole lo Stato di Palestina di Elena Molinari Avvenire, 22 settembre 2025 Dopo il “sì” di Gran Bretagna, Australia, Canada e Portogallo, sono quasi 150 i Paesi che riconoscono la Palestina. Il “no” degli Usa, l’ira di Israele. Una cerimonia dedicata all’80° anniversario delle Nazioni Unite oggi a New York apre la nuova sessione dell’Assemblea Generale dell’Onu, ed al centro della riunione si troveranno subito le tensioni che circondano la questione palestinese e la guerra a Gaza. Lunedì, vigilia dell’apertura del dibattito generale, il Palazzo di Vetro ospiterà infatti una conferenza che ha l’esplicito l’obiettivo di promuovere lo Stato di Palestina e che vedrà Francia, Regno Unito e Malta formalizzare il riconoscimento della Palestina come Stato sovrano. Ieri, domenica 21 settembre, Gran Bretagna, Australia e Canada, insieme al Portogallo, hanno annunciato il riconoscimento formale dello Stato di Palestina, e oggi faranno lo stesso Francia, Belgio e altri Paesi. Altri, come la Germania, dovrebbero partecipare a sostegno della soluzione dei due Stati. Parigi ha comunque precisato che non aprirà rappresentanze diplomatiche sul territorio palestinese finché non saranno rilasciati tutti gli ostaggi ancora in mano ad Hamas, Non è prevista la presenza di persona del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, co-organizzatore ufficiale dell’incontro insieme a Emmanuel Macron, nonostante le pressioni del presidente francese. Per la Palestina si tratterebbe del momento diplomatico più importante dalla stagione degli accordi di Oslo, capace di imprimere un nuovo corso al dibattito sul conflitto israelo-palestinese. Israele ha reagito con ira alla notizia degli ultimi riconoscimenti. Il presidente Herzog ha parlato di “giorno triste”. Il ministero degli Esteri israeliano, dal canto suo, ha condannato ufficialmente la dichiarazione “unilaterale” di riconoscimento di uno Stato palestinese da parte di alcuni Paesi occidentali. “Israele respinge categoricamente la dichiarazione unilaterale di riconoscimento di uno Stato palestinese fatta dal Regno Unito e da altri paesi”, ha affermato il ministero. “Questa dichiarazione non promuove la pace. Al contrario, destabilizza ulteriormente la regione e mina le possibilità di raggiungere una soluzione pacifica in futuro”, si legge in una nota. Il ministro di estrema destra Ben-Gvir ha ventilato “contromisure immediate”: il riconoscimento da parte di Regno Unito, Canada e Australia è “un premio per i terroristi assassini della Nukhba”, la forza di Hamas ritenuta responsabile dell’attacco del 7 ottobre 2023 in Israele. I media israeliani sostengono che il ministro alla Sicurezza nazionale intende sollevare la questione dell’annessione della Cisgiordania alla prossima riunione del governo. Ben-Gvir chiede “l’imposizione immediata della sovranità” in Cisgiordania “e lo smantellamento completo dell’Autorità palestinese”. L’Amministrazione statunitense di Donald Trump, che equipara il gesto a un sostegno al terrorismo, ha però deciso di negare i visti a circa ottanta funzionari palestinesi, compreso il presidente Mahmoud Abbas, citando motivazioni di sicurezza nazionale. Per la comunità internazionale si tratta di una violazione dell’accordo del 1947 che obbliga gli Stati Uniti a garantire l’accesso ai rappresentanti stranieri per le attività dell’Onu, e alcuni Stati membri hanno proposto di trasferire a Ginevra l’evento dedicato alla Palestina. Si tratterebbe di una svolta storica, perché l’Assemblea Generale è sempre stata legata indissolubilmente al Palazzo di Vetro. Ma la scelta di Washington non impedirà alla leadership palestinese di farsi sentire. Un voto dell’Assemblea ha infatti permesso a Mahmoud Abbas di intervenire da remoto, segno della volontà della maggioranza dei Paesi di non lasciare che Washington riduca al silenzio una delle parti. Il riconoscimento della Palestina come Stato membro a pieno titolo resta però improbabile, perché richiederebbe il via libera del Consiglio di Sicurezza e un veto statunitense è praticamente certo. Tuttavia, i riconoscimenti bilaterali rappresentano un segnale forte. Macron ha guidato l’attuale campagna e, se gli eventi procederanno come previsto, quattro dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu riconosceranno la Palestina la prossima settimana. Ci si attende che Israele reagisca con forte opposizione diplomatica, denunciandoli come un favore ai terroristi e un ostacolo ai negoziati diretti. L’Assemblea Generale rischia di diventare dunque un banco di prova per il futuro stesso del sistema multilaterale attuale, mettendo in evidenza la crescente frattura tra Washington e una coalizione di Paesi europei e arabi su Israele. Il futuro dell’Onu passa dalla ricerca della verità per la morte di Mario Paciolla e di Luca Attanasio di Davide Mattiello* Il Fatto Quotidiano, 22 settembre 2025 Due morti sotto bandiera Onu, nessuna verità. La credibilità delle Nazioni Unite passa dalla giustizia per Paciolla e Attanasio. Oggi entra nel vivo l’ottantesima sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ed è bene sottolineare che il futuro dell’Onu passa necessariamente dalla ricerca della verità per la morte di Mario Paciolla e di Luca Attanasio, quest’ultimo assassinato insieme al carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e all’autista Mustapha Milambo. Nessuna credibilità potrà mai rifondarsi nella opacità di una istituzione inventata all’indomani della fine della seconda guerra mondiale per garantire pace mondiale attraverso il negoziato e progressivamente liquidata in maniera sempre più spudorata dalla immarcescibile, odiosa, avidità di élite contrapposte per smania di potere. A scanso di equivoci, io sono radicalmente convinto della necessità di ogni strumento giuridico e prima ancora politico-culturale che favorisca il rispetto reciproco, il dialogo, la mediazione: amo tutto ciò che è stato prodotto in tal senso nei primi dieci anni successivi all’inferno scatenato dai nazionalismi del primo Novecento. Su tutto l’art. 11 della nostra Costituzione repubblicana, che in un sol colpo riesce a sintetizzare in maniera formidabile il “no” alla guerra, “ripudiata” (loro pensavano una volta per tutte!), col “sì” alla cooperazione sovranazionale. Oggi l’animosità bellicosa finanziata e armata da chi vede nella pace, nei diritti, nei processi negoziali soltanto inutili ostacoli al profitto ha messo nel mirino tutti quei prodotti di “resurrezione”: i “neri”, servi fedeli di questa causa, a casa nostra attaccano la Costituzione repubblicana, minando l’indipendenza della magistratura, mentre mandano bacetti all’ambasciatore di Putin (acclamato profeta della divisione liberale dei poteri), mentre i “neri” da cui dipendono sul piano internazionale fanno strame del diritto umanitario internazionale, colpendo chi come Francesca Albanese denuncia la meccanica infame del genocidio e non chi il genocidio commette. In questo scenario, per capire quanto siamo ormai prossimi alla “mezzanotte” del conflitto finale, basta evocare le parole del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha recentemente paragonato l’attuale situazione a quella dell’estate del 1914. Si può ancora fare qualcosa per tirare il freno? Bisogna provare, la storia sentenzierà. Tra le prime cose da fare per tirare il freno c’è la necessità di iniettare dentro le istituzioni, che presidiano quel che resta del diritto internazionale, una dose massiccia di autorevolezza e questa non può che fondarsi sulla dura verità che è la prima forma di giustizia. Così si torna al punto di partenza: nove mesi separano la morte di Mario Paciolla (luglio 2020) da quella di Luca Attanasio (aprile 2021), mesi tormentati dalla pandemia, mesi nei quali Mario e Luca, con ruoli diversi, davano la vita per i diritti umani, sotto le bandiere delle Nazioni Unite. Mario Paciolla per l’Onu impegnato in Colombia a monitorare il processo di smilitarizzazione interno; Luca Attanasio, ambasciatore italiano in Congo, impegnato (anche) a verificare il funzionamento del PAM (il Programma mondiale per l’alimentazione delle Nazioni Unite) nel cuore dell’Africa. Di Mario Paciolla è stato detto che si è tolto la vita (come per Peppino Impastato, insomma), ma soltanto un imbecille o un corrotto potrebbe sostenerlo ancora oggi col cumulo di evidenze messe insieme da chi ha voluto indagare. Tuttavia la Procura di Roma, non ritenendo di avere elementi sufficienti per procedere, ha chiesto di archiviare il suo caso, che potrà essere riaperto in futuro naturalmente. Sulla vicenda Attanasio pende il rischio di archiviazione. Su entrambe le vicende, come per Giulio Regeni, come per Andy Rocchelli, si è scatenato il fuoco del depistaggio, con una spudoratezza che offende intelligenza e memoria: dopo l’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e tutto quello che da lì abbiamo imparato, come diavolo si fa ancora a giocare la carta del “tentativo di sequestro andato male” (come appunto è stato fatto per Attanasio)? In Parlamento giace una proposta di legge a prima firma Marco Sarracino per la istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla vicenda Paciolla: servirebbe eccome! E forse si potrebbe dedicarla alle due vicende insieme: Paciolla e Attanasio. È successo infatti nella storia del nostro Paese, che una Commissione di inchiesta adoperando bene i propri poteri sia riuscita a fornire alla magistratura elementi preziosi, utili a riaprire le indagini. È successo che una Commissione d’inchiesta sia riuscita ad offrire alla pubblica opinione una ricostruzione storica veritiera. È successo anche il contrario, certamente. Ma la democrazia è un rischio da correre, non un film da commentare. Se ne facessero carico anche i parlamentari che compongono la delegazione italiana di questa settimana di rilevanza centrale alla Assemblea generale delle Nazioni Unite: il vicepresidente della Commissione Affari Esteri e Difesa del Senato, senatore Roberto Menia, il senatore Alessandro Alfieri e i deputati Vincenzo Amendola e Salvatore Caiata. Molte realtà associative come Articolo 21 e Libera stanno lavorando in tal senso, sempre convinte come Yitzhak Rabin, primo ministro israeliano assassinato nel 1995 da un colono ebreo estremista di destra per aver sostenuto gli accordi di Oslo, che: “Cinque anni di negoziato sono sempre preferibili a cinque minuti di guerra!”. Appunto. *Articolo21 Piemonte, Deputato Pd XVII Legislatura