Nordio: “Con la riforma magistrati liberi dalle correnti” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 21 settembre 2025 La riforma della giustizia. Parla il ministro Nordio: “Non è affatto punitiva per i magistrati. Anzi li libera dai vincoli delle correnti”. E garantisce: “Non mette a rischio l’equilibrio dei poteri”. Ministro Carlo Nordio, un ultimo sì e la sua riforma sarà legge. Per l’Anm però mette a rischio l’equilibrio dei poteri. È così? “Per nulla. L’equilibrio dei poteri costituzionali, tra legislativo e giudiziario, rimane inalterato e la magistratura requirente e giudicante mantiene intatta la sua autonomia e indipendenza”. Anche l’ultimo passaggio è blindato. Non è un’umiliazione del Parlamento? “Niente affatto. Dall’inizio abbiamo detto che separazione delle carriere e sorteggio per il Csm erano nel programma elettorale e non si toccavano, ma sul resto eravamo aperti. La magistratura ha risposto con uno sciopero e l’opposizione ha perso dei mesi per audizioni di giuristi contrari alla riforma, quando si potevano acquisire i loro scritti, autorevolissimi e ben argomentati, dedicando il tempo risparmiato per un confronto serio. La realtà è un’altra”. Quale? “Si volevano sforare i termini della doppia lettura costituzionale. Non siamo caduti nel tranello e siamo andati avanti da soli”. In aula è stata bagarre. Lei ha esultato? “Ma no. Era tutto preparato. Si è visto anche chi diceva: “Aspettate, non ora”. È la politica. Si voleva distrarre l’attenzione dal risultato”. I sondaggi sul referendum non vi danno un po’ in calo? “Sono attualmente a nostro netto favore, ma questo non significa nulla, non bisogna dare nulla per scontato. Piuttosto dobbiamo spiegare agli italiani, in modo chiaro, pacato e civile il significato di questa riforma”. “Vendetta verso i magistrati”, come dice il M5S? “No. Non è affatto una riforma punitiva per i magistrati. Anzi li libera dai vincoli delle correnti”. Schlein dice che trasformate i giudici in nemico per celare i fallimenti del governo. Sarà un referendum contro i magistrati? “A parte che non vedo fallimenti: sono l’unico sopravvissuto del G7 Giustizia da me presieduto a Venezia, tutti gli altri governi e ministri sono cambiati. Ma comunque farò di tutto per evitare che sia un referendum pro o contro i giudici, io”. Perché sottolinea “io”? “Perché è il Pd purtroppo che ha già fatto una chiamata alle armi ai magistrati con il discorso di Franceschini in Parlamento. Ma questo è pericolosissimo”. Perché? “Se vincessero loro, con il “no” alla riforma, i magistrati rivendicherebbero il successo e la politica sarebbe di nuovo subalterna alle procure, come è da trent’anni. Se perdessero, la magistratura ne uscirebbe umiliata ed esposta nella credibilità della sua indipendenza dalla politica. Le sconfitte politiche non sono indolori”. Il sorteggio per il Csm non esiste altrove. La convince davvero? “È il “rimedio peggiore dopo tutti gli altri”, per citare Churchill. È vero che non c’è altrove. Ma non esiste in nessun Paese neanche una magistratura che si riunisce in partiti che si scambiano favori e nomine a pacchetto”. Il procuratore Nicola Gratteri dice che la riforma è “inutile e dannosa”. “Gratteri mi è simpatico, perché crede in ciò che dice e penso che sia un pregio, anche se Mirabeau lo considerava un pericolo. Per di più ama la terra e mi ricorda un po’ il mio amico Di Pietro. Ma mi spiace che scivoli nel cosiddetto “benaltrismo”. Cosa intende? “Ha ragione che non accelera i processi, né l’ho mai sostenuto. Per farlo ne abbiamo fatte, e ne stiamo facendo, delle altre. Abbiamo già abbattuto il 27% degli arretrati dei processi civili. E alla fine del 2026, per la prima volta nella storia, avremo colmato l’organico dei magistrati”. Teme che al pm venga a mancare la cultura giurisdizionale e diventi longa manus del governo... “La cultura della giurisdizione è ormai una vuota astrazione speculativa. Quanto al pericolo del pm sotto l’esecutivo è un esercizio infantile di processo alle intenzioni, perché il testo della riforma dice espressamente il contrario. Aggiungo che sul sorteggio proprio Gratteri si è sempre mostrato favorevole. E penso che lo ricorderà nei suoi prossimi interventi televisivi”. La Giunta per le immunità può tutelare l’indagata Giusi Bartolozzi. O è un privilegio? “Sarebbe improprio se mi pronunciassi. Ripeto: la responsabilità giuridica e politica degli atti del ministro è solo mia. Lei ha sempre e solo eseguito le mie direttive”. Il suo ritardo nel rispondere su Almasri alla Cpi e alla Corte d’Appello non è diventato di fatto un’omissione? “La legge attribuisce al ministro un tempo ragionevole per esaminare gli atti della Corte e interloquire con altri organismi. Atti peraltro infarciti di errori, tant’è vero che sono stati rifatti. Considerarlo reato di omissione sarebbe come dire che anche il Tribunale di ministri lo ha commesso”. Perché? “Perché ha sforato tutti i termini. Se poi pensiamo ai detenuti scarcerati per scadenza termini, dovremmo incriminare mezza magistratura”. Il dipartimento Affari di giustizia del ministero aveva preparato una bozza di risposta alle Corti su Almasri che non le è mai stata mostrata da Bartolozzi. Farlo non era dovuto? “Questa è la più bella. Prima della firma una bozza è carta straccia. Se ne fanno di diverse e opposte per risparmiar tempo”. Ieri ha partecipato al Giubileo della giustizia. Cosa ne ha tratto? “È stato un onore rappresentare il governo davanti al Santo Padre. Il suo discorso è stato illuminante e istruttivo sul rapporto tra giustizia divina, giustizia naturale e giustizia formale che non sempre coincidono. La nostra civiltà occidentale è fondata su tre pilastri: la scienza, la filosofia e la religione. I loro tre massimi protagonisti, Galileo, Socrate e Gesù, sono stati oggetto di processi formalmente legittimi, ma sostanzialmente iniqui”. Null’altro l’ha colpita? “Il concetto che la giustizia in molti Paesi non c’è, nemmeno nelle forme più elementari. Questo dovrebbe farci riflettere. Anche politicamente. All’Onu, e in altri organismi internazionali, siedono nazioni che si permettono di darci le pagelle, mentre a casa loro violano i diritti minimi, soprattutto delle donne. Un argomento che prima o dopo andrà affrontato”. Violante: “La riforma della giustizia? Tentativo lodevole” di Edoardo Sirignano Il Tempo, 21 settembre 2025 “Dico a tutti: occorre maggior senso di responsabilità e consapevolezza della necessità di confrontarsi. C’è bisogno di rispetto. Non ho condiviso, ad esempio, alcuni commenti su Kirk. Quando si ammazza un uomo per le sue idee, è sempre un lutto per la democrazia. Per quanto riguarda la riforma della giustizia e in modo particolare la separazione delle carriere, capisco l’intenzione ma alla fine il risultato è dannoso per la stessa politica oltre che per i cittadini. Tutto dipenderà dalle norme attuate successivamente”. A dirlo Luciano Violante, ex magistrato ed ex presidente della Camera. Come vede tutta questa polemica sul ddl Nordio? “Conosco le persone che ci hanno lavorato e sono certo che hanno fatto ogni sforzo possibile per migliorare lo status quo. Lo dico senza retorica. Detto ciò, una riforma che doveva portare ordine, alla fine, rischia di generare disordine”. A cosa si riferisce? “Il pericolo, e la colpa, non è del Guardasigilli, è che si costituisca una casta di pubblici ministeri separata dai giudici, autogovernata. Avremo 1500 magistrati del pubblico ministero, con la polizia giudiziaria alle loro dipendenze, senza vincoli gerarchici che si potranno muovere liberamente sullo scenario”. Si è ancora in tempo per modificare qualcosa? “Siamo ormai arrivati alla terza lettura. Non mi pare che, fino a questo momento, siano stati ascoltati i suggerimenti degli studiosi consultati, né quelli delle opposizioni. Trenta anni fa la separazione delle carriere poteva essere utile. C’era davvero integrazione tra pm e giudici. Adesso il quadro è cambiato. Non è lo stesso di quando la invocava Berlusconi. Oggi parliamo di due funzioni già completamente separate”. Tutto il lavoro, dunque, è da buttare? “Voglio solo dire che raggiungeremo risultati diversi da quelli previsti”. Forse ciò è dovuto al clima di scontro, emerso negli ultimi mesi? “La maggioranza riteneva di dover realizzare un capitolo del proprio programma. E le obiezioni mi sembra che siano state respinte a priori. Credo, però, che non abbia giovato una qualche posizione eccessivamente aggressiva da parte di alcuni settori della magistratura”. Mi conferma, intanto, che la sinistra non è stata sempre contraria alla separazione delle carriere? “Non ricordo una linea favorevole in tal senso. Ciò non significa, però, che più di qualcuno, l’abbia pensata diversamente. Siamo una forza democratica”. Che idea, invece, ha sul sorteggio dei membri del Csm? “Stare al Csm è un qualcosa di complicato. C’è chi è adatto e chi meno. Prendere a caso delle persone per svolgere funzioni così delicate non credo sia la scelta migliore. Detto ciò, sono sicuro che anche in tal senso il governo abbia agito, seppure in modo affrettato, per risolvere un problema: rompere il peso eccessivo delle correnti. E questo non è sbagliato”. Forse ciò è dovuto al clima di scontro, emerso negli ultimi mesi? “La maggioranza riteneva di dover realizzare un capitolo del proprio programma. E le obiezioni mi sembra che siano state respinte a priori. Credo, però, che non abbia giovato una qualche posizione eccessivamente aggressiva da parte di alcuni settori della magistratura”. Mi conferma, intanto, che la sinistra non è stata sempre contraria alla separazione delle carriere? “Non ricordo una linea favorevole in tal senso. Ciò non significa, però, che più di qualcuno, l’abbia pensata diversamente. Siamo una forza democratica”. Che idea, invece, ha sul sorteggio dei membri del Csm? “Stare al Csm è un qualcosa di complicato. C’è chi è adatto e chi meno. Prendere a caso delle persone per svolgere funzioni così delicate non credo sia la scelta migliore. Detto ciò, sono sicuro che anche in tal senso il governo abbia agito, seppure in modo affrettato, per risolvere un problema: rompere il peso eccessivo delle correnti. E questo non è sbagliato”. Che idea ha, intanto, del clima venuto fuori nell’aula della Camera, dove si è arrivati quasi alle mani? “Gli scontri alla Camera e al Senato non sono mai un fatto positivo. Danneggiano la credibilità delle istituzioni. Detto ciò, ci sono sempre stati. Non dimenticherò mai le parole di Tatarella che, a una mia richiesta di stemperare gli animi, dopo un acceso confronto, mi ricordava, come talvolta uno scontro in Aula serviva a prevenire uno scontro in strada. E Tatarella non faceva mai riflessioni banali”. Alta la tensione, intanto, su quanto sta accadendo in Medio Oriente... “Siamo di fronte a un massacro di innocenti che non può essere accettato per alcuna ragione al mondo. E l’antisemitismo, sempre da rigettare, non può essere un alibi”. Più di qualcuno ha parlato di odio diffuso... “Mi sembra esagerato utilizzare questa parola. Vedo solo una contrapposizione molto netta; nella polemica politica non sono mancati giudizi inaccettabili”. Faccia un esempio... “Mi riferisco ad alcuni commenti sull’omicidio Kirk. Quando si uccide una persona per le sue idee, si apre la strada alla barbarie. Ho sentito reazioni che certamente non hanno nulla a che vedere con le idee della sinistra”. In tutta questa situazione, come se la sta cavando la premier? “La premier Meloni non ha bisogno del mio giudizio. Credo che cerchi di fare al suo meglio il compito. Poi, puoi essere d’accordo o meno sulle scelte, ma non tocca a me effettuare valutazioni o dare pagelle. In un momento così delicato tutti dovremmo avere maggiore rispetto per le istituzioni. Vengo da un’altra generazione e questo, per me, è un principio sacrosanto. Avverto un deficit diffuso di rispetto e ciò vale sia per la destra che per la sinistra”. Una riflessione in tal senso, ad esempio, potrebbe essere quella relativi a scioperi eccessivi e politici che penalizzano solo chi lavora? “Parliamo di un diritto sancito dalla Costituzione. Ci sono delle regole sugli scioperi. Facciamole rispettare”. Papa Leone: “Il male non va solo sanzionato, ma riparato” di Annachiara Valle Famiglia Cristiana, 21 settembre 2025 Il Pontefice, nel discorso per il Giubileo per gli operatori di Giustizia ricorda la realtà dei tanti Paesi e popoli le cui “condizioni di vita sono talmente inique e disumane da risultare inaccettabili”. E spinge ad applicare le parole di Sant’Agostino: “Senza la giustizia non si può amministrare lo Stato” per esercitare “la giustizia a servizio del popolo, con lo sguardo rivolto a Dio, così da rispettare pienamente la giustizia, il diritto e la dignità delle persone”. Un discorso a tutto campo quello di papa Leone agli operatori di Giustizia. Una udienza, quella per il loro Giubileo, che è stata spostata dall’Auola Paolo VI a piazza San Pietro per la grande affluenza di persone. In tutto oltre 15mila provenienti da 100 Paesi del mondo, con delegazioni particolarmente numerose da Italia, Spagna, Portogallo, Polonia, Francia, Stati Uniti, Canada, Brasile, Argentina, Messico, Colombia, Argentina, Cile, Australia, Nigeria, Perù e Filippine. Giuristi, professori universitari, magistrati. In piazza anche il ministro della Giustizia Nordio e Samuel Alito, giudice della Suprema Corte di Giustizia statunitense e rappresentanti della Corte costituzionale, del Consiglio Superiore della Magistratura, della Corte di Cassazione, dell’Associazione nazionale magistrati, per citare solo alcuni dei presenti. A loro e al mondo Leone ricorda la funzione della giustizia, che è “indispensabile sia per l’ordinato sviluppo della società sia come virtù cardinale che ispira e orienta la coscienza di ogni uomo e donna”. Essa “è chiamata a svolgere una funzione superiore nell’umana convivenza, che non può essere ridotta alla nuda applicazione della legge o all’operato dei giudici, né limitarsi agli aspetti procedurali”. Richiama le espressioni bibliche. Il salmo 45, “Ami la giustizia e la malvagità detesti”, che ci ricorda di evitare il male e coltivare il bene e la sapienza della “massima “dare a ciascuno il suo”. n ognuno, ricorda il Pontefice, è presente “quella sete di giustizia che è lo strumento-cardine per edificare il bene comune in ogni società umana. Nella giustizia, infatti, si coniugano la dignità della persona, il suo rapporto con l’altro e la dimensione della comunità fatta di convivenza, strutture e regole comuni. Una circolarità della relazione sociale che pone al centro il valore di ogni essere umano, da preservare mediante la giustizia di fronte alle diverse forme di conflitto che possono sorgere nell’agire individuale, o nella perdita di senso comune che può coinvolgere anche gli apparati e le strutture”. La giustizia, dice ancora Leone, “consiste nella “costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto”. In tale prospettiva, per il credente, la giustizia dispone “a rispettare i diritti di ciascuno e a stabilire nelle relazioni umane l’armonia che promuove l’equità nei confronti delle persone e del bene comune”, obiettivo che si rende garante di un ordine a tutela del debole, di colui che chiede giustizia perché vittima di oppressione, escluso o ignorato”. Parla di giustizia “capace di sconfiggere il male del sopruso”, ma anche di quella “giustizia superiore che paga l’operaio dell’ultima ora come quello che lavora tutto il giorno; o quella che fa della misericordia la chiave di interpretazione della relazione e induce a perdonare accogliendo il figlio che era perduto ed è stato ritrovato, o ancora di più di perdonare non sette volte, ma settanta volte sette. È la forza del perdono che è propria del comandamento dell’amore ad emergere come elemento costitutivo di una giustizia capace di coniugare il soprannaturale all’umano”. La giustizia evangelica, pur non distogliendo da quella umana, spinge però ad andare oltre, alla “ricerca della riconciliazione. Il male, infatti, non va soltanto sanzionato, ma riparato, e a tale scopo è necessario uno sguardo profondo verso il bene delle persone e il bene comune. Compito arduo, ma non impossibile per chi, cosciente di svolgere un servizio più esigente di altri, si impegna a tenere una condotta di vita irreprensibile”. La giustizia diventa concreta “quando tende verso gli altri, quando a ciascuno è reso quanto gli è dovuto, fino a raggiungere l’uguaglianza nella dignità e nelle opportunità fra gli esseri umani”. Denuncia le “crescenti discriminazioni che hanno come primo effetto proprio il mancato accesso alla giustizia” e sottolinea che “la vera uguaglianza è la possibilità data a tutti di realizzare le proprie aspirazioni e di vedere i diritti inerenti alla propria dignità garantiti da un sistema di valori comuni e condivisi, capaci di ispirare norme e leggi su cui fondare il funzionamento delle istituzioni”. Occorre, soprattutto oggi, cercare e recuperare i “valori dimenticati nella convivenza, la loro cura e il loro rispetto. Si tratta di un processo utile e doveroso, di fronte all’affermarsi di comportamenti e strategie che mostrano disprezzo per la vita umana sin dal suo primo manifestarsi, che negano diritti basilari per l’esistenza personale e non rispettano la coscienza da cui scaturiscono le libertà”. Nel suo lungo discorso il Pontefice cita Sant’Agostino: “La giustizia non è tale se non è nello stesso tempo prudente, forte e temperante” e ricorda che “quando si esercita la giustizia, ci si pone al servizio delle persone, del popolo e dello Stato, in una dedizione piena e costante. La grandezza della giustizia non diminuisce quando la si esercita nelle cose piccole, ma emerge sempre quando è applicata con fedeltà al diritto e al rispetto per la persona in qualunque parte del mondo si trovi”. E, infine, chiede di riflettere su quanto accade nel mondo, “sulla realtà di tanti Paesi e popoli che hanno “fame e sete di giustizia”, perché le loro condizioni di vita sono talmente inique e disumane da risultare inaccettabili”. Ricorda ancora le parole di Sant’Agostino: “Senza la giustizia non si può amministrare lo Stato; è impossibile che si abbia il diritto in uno Stato in cui non si ha vera giustizia. L’atto che si compie secondo diritto si compie certamente secondo giustizia ed è impossibile che si compia secondo il diritto l’atto che si compie contro la giustizia. Lo Stato, in cui non si ha la giustizia, non è uno Stato. La giustizia infatti è la virtù che distribuisce a ciascuno il suo. Dunque non è giustizia dell’uomo quella che sottrae l’uomo stesso al Dio vero”. Per dire che l’esercizio della giustizia deve essere “a servizio del popolo, con lo sguardo rivolto a Dio, così da rispettare pienamente la giustizia, il diritto e la dignità delle persone”. Cantone: “La fede spinge a vedere l’uomo anche nei fatti più efferati” di Amerigo Vecchiarelli difesapopolo.it, 21 settembre 2025 Raffaele Cantone, procuratore a Perugia, riflette sul Giubileo come occasione personale e spirituale. Denuncia una giustizia sempre più astratta e distante dai cittadini, rivendicando l’importanza di una visione umana e integrale dei processi. La cultura cattolica, afferma, aiuta a tenere viva la speranza e a cercare l’uomo dietro il reato. “Dietro ogni vicenda giudiziaria c’è sempre una persona, che ha vissuto e vive in una situazione di grande sofferenza. Questa premessa, fondamentale, ci consente di avere una visione non parziale ma totale, sia degli episodi criminosi che di chi li ha commessi. Credo quindi, come magistrato, che agire tenendo presente questo presupposto in qualche modo ci aiuta e ci permette di vivere ogni giorno il nostro Giubileo”. A parlare è Raffaele Cantone, magistrato e saggista italiano, dal 2020 Procuratore della Repubblica a Perugia. Già presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, consulente della Commissione parlamentare antimafia, Cantone non si nasconde e confessa di non aver partecipato a nessuna delle manifestazioni ufficiali, comprese quelle organizzate dai e per i magistrati, “anche perché - sottolinea - al di là delle difficoltà a venire a Roma, credo che il Giubileo sia un momento da vivere più sul piano personale che su quello del ruolo. La mia partecipazione al giubileo è stata personale, soprattutto tramite la visita alle basiliche giubilari”. Una premessa… Il Giubileo permetteva a chi era stato costretto a vendere terra, casa, di rientrarne in possesso e di riavere tutte le sue proprietà. Parto da questo concetto per chiederle se c’è qualcosa che il mondo della giustizia ha perso e di cui lei, come operatore di giustizia e magistrato, vorrebbe tornasse in possesso... Credo che al di là di quello che ha perso c’è una cosa su cui noi magistrati siamo in dovere nei confronti della giustizia e questo, forse, rappresenta un po’ un dato di perdita: il rapporto con e le risposte da dare ai singoli cittadini e lo dico con un po’ di rammarico. Spesso, anzi molto spesso, non riusciamo a dare la giusta soddisfazione alle istanze di giustizia della gente. La nostra preoccupazione è spesso legata più a una logica diciamo iper-produttiva o di gestione delle emergenze. In questo modo però, rischiamo di perdere un po’ la visione personalistica delle vicende giudiziarie e questo, a mio avviso, ritengo sia un grande danno le cui conseguenze finiscono per ricadere e penalizzare i cittadini. Cosa intende dire? Intendo dire che dietro ogni vicenda giudiziaria c’è sempre una persona. Il grande rischio, in questo momento, è quello di mostrare una giustizia sempre pronta ad inseguire l’efficienza che alla fine però non riesce di fatto a raggiungere la gente; oppure perdere la capacità di guardare gli interessi di chi ha subito un’ingiustizia. Ma la delusione maggiore è constatare che spesso i cittadini nutrono sempre meno fiducia nel rivolgersi alla giustizia. Anzi, spesso si ha l’impressione che chi si rivolge alla giustizia non sempre ne abbia diritto e chi invece ne ha non sempre riesca ad avere piena soddisfazione. Una richiesta di giustizialismo più che di giustizia? Più che di giustizialismo, direi che assistiamo sempre più a utenti che si muovono con logiche strumentali. A volte la giustizia viene utilizzata per fini diversi. Dal voler ottenere ragione su una questione al semplice desiderio di voler dare fastidio, oppure con l’obiettivo di confondere le acque. Per questo, credo che noi operatori di giustizia dovremmo ogni giorno interrogarci se siamo realmente riusciti a dare giustizia a chi ha chiesto il nostro intervento o se, nel nostro agire, ci siamo invece lasciati guidare dalla logica dei numeri e dell’efficienza perdendo di vista la meta e cioè, capire dove stanno effettivamente le ragioni in base alle quali siamo chiamati a intervenire. Domande valide per tutti ma a maggior ragione, e questo mi sembra scontato, per chi vive e basa la sua professione su fondamenti cattolici. Un “modus operandi” che va oltre la definizione di “cattolico”... È chiaro che chi fa il magistrato è tenuto, ovviamente, a essere imparziale, anche rispetto alle proprie idee, ma la mia vera preoccupazione è quella di praticare o applicare una giustizia sempre più astratta. Una deriva questa in pieno contrasto col nostro sistema giudiziario che, al contrario, ha sempre messo al centro dell’attenzione l’uomo, il cittadino, grazie anche al contributo proveniente dalla nostra cultura, certamente cristiana e cattolica. Questo giubileo è fondato sulla speranza, che non è l’ottimismo né il consueto e spesso irrilevante, andrà tutto bene. Come magistrato vede intorno a sé segni vivi di speranza? Li vedo ogni giorno! Vedo testimonianze vive di speranza e di impegno, di singoli cittadini che hanno coraggio, di operatori delle forze dell’ordine che mettono grande impegno in ciò che fanno; vedo la testimonianza di tanti colleghi, la maggioranza, che nel silenzio lavorano e fino in fondo fanno proprio dovere. Quello che invece vedo sempre meno è l’idea collettiva legata alla speranza, l’idea cioè che il comportamento del singolo fa sempre più fatica ad inserirsi in un contesto più ampio, a entrare nell’ottica di un interesse generale. E lei, personalmente, come vive questa speranza? La fede l’aiuta nel suo impegno pubblico? Assolutamente sì! La cultura cattolica invita sempre a vedere con occhi diversi la realtà, invita a cercare l’uomo, anche dietro i fatti più efferati. In particolare, mi spinge ad andare oltre l’apparenza per individuare, nella persona, la capacità di poter superare anche le situazioni più gravi. È la logica della ri-educazione e della possibilità, aperta a tutti, di potersi rifare una vita. La speranza poi è anche l’auspicio di trovare singoli cittadini pronti a fare la loro parte. La speranza poi è soprattutto legata all’idea del perdono, della riabilitazione. A tal proposito, per quanto mi riguarda, credo che la cultura cattolica, sia un elemento di forza per verificare - e non dimenticare mai - che le vicende processuali, mi riferisco soprattutto a quelle penali, riguardano uomini e donne e portano sempre in dote momenti di grande sofferenza. Di questa sofferenza, noi magistrati, siamo chiamati a farci carico, fermo restando l’obbligo di affermare sempre e comunque i principi di giustizia. Parla di una giustizia chiamata ad aprirsi perdono? Io credo che il perdono richieda espiazione, ciò non toglie però, che nella visione cristiana, soprattutto cattolica, sia necessario e doveroso guardare all’uomo e credere che, anche se sbaglia, ce la può fare. Questa premessa, fondamentale, ci consente di avere una visione non parziale ma totale, sia degli episodi criminosi che di chi li ha commessi. Credo quindi, come magistrato, che agire tenendo presente questo presupposto, in qualche misura ci aiuta e ci permette di vivere ogni giorno il nostro Giubileo”. L’ottava beatitudine definisce “beati i perseguitati a causa della giustizia”. Lei, dal 2003 a seguito della scoperta di un attentato pianificato dal clan dei Casalesi, vive sotto scorta. Si è mai sentito, in questo senso, “perseguitato” a causa della giustizia? Come ha vissuto questa situazione? Anzitutto ci tengo a dire che “perseguitato” è una parola che non credo possa essere applicata a un magistrato. Non mi sono mai sentito mai perseguitato né ritengo un magistrato possa essere di fatto perseguitato dalla giustizia. Certo, ci sono stati momenti in cui ho pensato stessi pagando un prezzo più o meno alto per quello che stavo facendo. L’affermazione della giustizia è una via irta, piena di difficoltà e se non si è disposti a pagare un minimo di prezzo vuol dire che il proprio dovere non lo si sta facendo fino in fondo. Aggiungo poi… non solo perseguitato, non mi sono mai sentito neanche abbandonato, anche quando alcune indagini ti facevano preoccupare, ti facevano avere paura. Le istituzioni sono sempre state vicine. E quando è stato necessario pagare non mi sono mai lamentato del prezzo. Ho ritenuto che fosse un fattore fisiologico e che facesse parte del pacchetto totale che spetta di diritto a chi decide di interpretare un ruolo di questo tipo. “Federico Aldrovandi, vent’anni dopo”. Giustizia, verità, famiglia di Cicola Bianchi Il Resto del Carlino, 21 settembre 2025 L’ex questore: “La polizia deve saper chiedere scusa”. Il 6 luglio 2009 la firma sulla prima sentenza di condanna per la morte di Federico Aldrovandi, 3 anni e 6 mesi filati fino alla Cassazione, fu del giudice Francesco Maria Caruso. Lui, ieri in Sala Estense, uno dei protagonisti dell’evento organizzato da Associazione stampa Ferrara e Aser: “Federico Aldrovandi, 20 anni dopo”. Un momento di riflessione con i protagonisti che seguirono la tragica vicenda accaduta in via Ippodromo 2005, con le parole giustizia, pena, polizia, rumore, città e piazza che hanno fatto da filo conduttore. “L’arresto di un individuo fuori controllo - ha proseguito Caruso - deve avvenire in modo incruento o aspettare le condizioni opportune. Queste le regole dell’arte”. Da Aldrovandi in poi, ricorda il giudice di Aemilia e della Strage di Bologna, “tutti i casi furono italiani, di famiglie che hanno trovato la forza di portarle in pubblico. Cosa sarebbe avvenuto se in una di queste tragedie ci fosse stato uno degli ultimi? Basta solo porre la domanda per immaginare scenari terrificanti”. Tocca a Francesco Maisto, il presidente del Tribunale di sorveglianza che rigettò i domiciliari e ordinò il carcere per gli agenti per un reato colposo: “Non riscontrammo - così in video collegamento - le condizioni per una misura alternativa alla detenzione per la mancata comprensione della gravità della condotta, la mancata autocritica, nessun gesto simbolico nei confronti della vittima e dei familiari. Fatti che per noi apparvero integrati nel crimine di tortura” (all’epoca non presente nel codice penale). Prima ancora dei processi, un grande lavoro venne fatto da Luigi Savina, il questore spedito in fretta e furia a Ferrara dall’allora ministro Amato per riportare serenità tra polizia, famiglia Aldrovandi e città. “Non esiste un aggettivo per definire chi ha perso un figlio, la mente umana rifiuta una cosa così terribile”. Il futuro numero due della polizia italiana, incontrò la famiglia e gli indagati, si mise in testa alla manifestazione organizzata dal Comitato per Aldro chiedendo a tutti di onorare la memoria di Federico, senza tafferugli e rabbia. Vinse lui. E mentre ciò accadeva, in questura fece svuotare gli armadi con brogliacci e manganelli rotti. “Trasparenza, lealtà, chiarezza - ha aggiunto - perché una polizia è autorevole se è credibile e sa chiedere scusa”. È la volta dell’avvocato, ed ex sindaco, Tiziano Tagliani, che portò Anne Marie Tsague, teste chiave, in Procura: “Lei è la prima ferrarese, e tolgo le virgolette, a parlare e non ce ne saranno altri. Prima di allora non c’erano manganelli rotti, trascrizioni delle due volanti, brogliacci modificati. Da lei è partita la verità”. Poi l’attacco alla politica, “alla sua strumentalizzazione del caso”, allo scontro con “un sindacato di polizia che venne a manifestare sotto le finestre del Comune”, al muso contro muso con un europarlamentare. “Si è fatto tanto in questi 20 anni ma sullo sfondo è restata un’ombra”. “La stampa - ha chiuso commosso Andrea Boldrini, amico di Aldro, l’ultima sera con lui, e portavoce del Comitato - è stata fondamentale come lo sono state le persone che hanno fatto la differenza. Tutti assieme dobbiamo impegnarci perché non sia una sola polizia o un Governo a cambiare la società”. Chico Forti, ore decisive per la liberazione: perché potrebbe uscire dal carcere di Matteo Sannicolò Corriere del Trentino, 21 settembre 2025 Attesa per la risposta dei giudici del Tribunale di sorveglianza di Verona chiamati a decidere sulla libertà condizionale. Potrebbe essere domani, 22 settembre, il giorno dell’annuncio ufficiale sulla liberazione di Enrico “Chico” Forti. Sono infatti giorni di trepida attesa per la mamma Maria (97 anni) e tutti i familiari dell’ex produttore cinematografico, che aspettano con ottimismo la risposta definitiva da parte dei giudici del Tribunale di sorveglianza di Verona. I quali, venerdì, si sarebbero riuniti in camera di consiglio per lavorare sulle prescrizioni che garantirebbero a Chico la libertà condizionale. Su richiesta dei propri legali, convinti che il loro assistito abbia già scontato una pena superiore di cinque anni a quella che gli sarebbe stata assegnata in Italia per lo stesso reato. In più, un ergastolano per poter richiedere la libertà condizionale deve aver scontato almeno 26 anni della sua pena. E Forti rientrerebbe di diritto in questa categoria. Così, sperano i familiari, domani potrebbe essere il giorno buono. Quello in cui i giudici potrebbero depositare l’ordinanza, offrendo di fatto a Chico una nuova vita, pur con i limiti imposti dalla condizionale. La condanna all’ergastolo - La storia burrascosa di Forti inizia alla fine degli anni Novanta. Dopo aver vinto 80 milioni di lire in un quiz televisivo condotto all’epoca da Mike Bongiorno, Chico decide di trasferirsi a Miami per coltivare la passione per la vela, il windsurf e la produzione cinematografica. Inoltre, inizia la carriera da imprenditore nel settore immobiliare: ed è proprio in questo ambito che incontra Dale Pike, il figlio di un albergatore australiano dal quale Forti intendeva acquistare un albergo a Ibiza. Il 15 febbraio del 1998, però, il corpo di Pike viene ritrovato senza vita in un boschetto vicino a una spiaggia di Miami e il primo indagato è proprio Chico Forti, che aveva visto Pike il giorno prima e proprio nei pressi del luogo dove è stato ritrovato il corpo. Così, dopo un lungo processo, nel 2000 Forti viene condannato all’ergastolo per omicidio, anche se lui in questi anni si è sempre professato innocente. Il rientro in Italia - Nel maggio del 2024 una prima svolta: dopo una lunga battaglia dei suoi amici e familiari - uniti dal comitato “Una chance per Chico”, si verifica il trasferimento del detenuto dall’America all’Italia, precisamente nel carcere di Montorio a Verona. Ora sembra vicina la sua liberazione, ma per avere una risposta definitiva bisognerà attendere almeno fino a domani. Veneto. Il taser “conquista” le città. I dubbi delle giunte di centrosinistra di Roberta Polese Corriere del Veneto, 21 settembre 2025 Venezia è stata capofila, ora è diffuso soprattutto nei Comuni di centrodestra. Il pressing dei vigili. Polizia e carabinieri di pattuglia lo hanno in dotazione. La questione è politica, come quasi tutto quello che riguarda la sicurezza nelle città. Mentre in provincia di Reggio Emilia si registra la terza vittima del taser (l’arma a impulsi elettrici che serve per immobilizzare le persone) nel giro di quaranta giorni, la giunta genovese della sindaca di sinistra Silvia Salis decide di sospendere le procedure che avrebbero portato all’adozione dello strumento anche per la polizia locale del capoluogo ligure. L’iter era stato avviato dalla precedente amministrazione di centrodestra, ma mai completato per l’assenza del necessario regolamento comunale. I due dispositivi, acquistati nel 2023, non sono mai stati utilizzati. Le tre persone decedute sono Claudio Citro, 42 anni morto in provincia di Reggio Emilia, Elton Bani, 41 anni, morto a Genova, Giampaolo Demartis 57 anni, deceduto a Olbia. Per Carlo Lattanzio, 42 anni, morto a Bolzano l’estate del 2024 dopo lo sparo dei dardi elettrici, il giudice ha chiesto l’archiviazione delle responsabilità dei carabinieri perché, a quanto pare, l’uomo risultava positivo alla cocaina. Tuttavia la famiglia ha fatto opposizione all’archiviazione. In tutti i casi i Persone armate, alterate da alcol o droghe, che si trovano in contesti pubblici molto frequentati. Sono le situazioni in cui polizia e carabinieri usano il taser. L’ultima volta che gli agenti della polizia di Padova lo hanno usato era il 10 febbraio in zona stazione: quel giorno è stato bloccato un uomo di nazionalità sudanese che aveva lanciato una bottiglia contro un agente. L’anno scorso, invece, i carabinieri avevano immobilizzato con l’arma elettrica un uomo armato con un coltello che si aggirava minaccioso all’ospedale di Cittadella, nel Padovano. Ad agosto ha scosso il caso di Danilo Riahi, un ragazzo di 17 anni immobilizzato a Vicenza dopo una rapina e una tentata rapina, fermato con il taser e arrestato: giunto nel carcere minorile di Treviso Riahi si è tolto la vita. A Venezia sono stati diversi gli episodi che hanno visto l’uso dello strumento elettrico per immobilizzare persone pericolose, tra questi un uomo armato di spranga sul ponte della Libertà nell’agosto dardi elettrici, che provocano l’immobilizzazione dei muscoli e la caduta a terra, sono stati sparati dai carabinieri, mai è stata coinvolta la polizia locale. In Veneto, sono molte le amministrazioni che stanno sperimentando questo nuovo strumento, per averlo è necessario il passaggio in consiglio comunale perché l’adozione del taser implica una modifica del regolamento dell’impiego della polizia locale, che deve avere l’approvazione dell’organo che rappresenta i cittadini. Ciò premesso, per quanto riguarda i capoluoghi veneti, non è un caso che le polizie locali di Verona, Padova e Vicenza, città guidate da giunte di centrosinistra, ancora non abbiano il taser. I vigili del Comune di Venezia invece ne ha una ventina. “Siamo stati la prima città ad averli in dotazione e abbiamo stilato noi le linee guida nazionali per l’Anci - spiega il comandante Marco Agostini - sono strumenti che funzionano per lo più da deterrente: in cinque anni lo abbiamo usato una sola volta il mese scorso, abbiamo fatto i corsi di formazione sappiamo quando e come utilizzarli”. A Rovigo, guidata dal centrodestra, il consiglio comunale non ha ancora discusso la delibera, ma la formazione propedeutica è già stata avviata; a Belluno e Treviso anche qui a trazione centrodestra, i passaggi nei rispettivi consigli ci sono stati, e lo strumento è a disposizione dei vigili, che lo stanno sperimentando. L’approvazione in consiglio comunale è avvenuta anche a Verona, ma gli strumenti non sono ancora stati acquistati, non che il Comune si sia mai espresso in modo contrario, ma allo stato attuale la polizia locale ha dato la priorità alla sicurezza. Tutti gli interventi sono stati realizzati da polizia o carabinieri, personale esperto che ha fatto mesi di training con formatori specializzati. Mentre l’adozione dello strumento da parte delle polizie locali è stato lungo e macchinoso, l’acquisto delle bodycam. Non ci sono solo i capoluoghi di provincia. Sono diversi i Comuni che hanno adottato questo strumento: nel Veronese li hanno a San Bonifacio e San Giovanni Lupatoto. A Cittadella, nel Padovano, la sperimentazione è partita a gennaio, in provincia di Venezia hanno i taser le amministrazioni di Chioggia, Jesolo e San Donà, nel Trevigiano li hanno a Conegliano e Oderzo, mentre Castelfranco ha avviato la procedura. Le amministrazioni di Vicenza e di Padova sono quelle dove la politica sta opponendo una certa resistenza. “La questione è senza dubbio politica - spiega l’assessore alla l’introduzione del taser nelle forze dell’ordine è stato molto più rapido: sperimentato solo in diciotto città nel 2022 (e prima ancora, per qualche mese nel 2018, in dodici comuni tra cui Padova) è stato poi distribuito ai comandi provinciali e alle questure nel 2023. In Veneto tutti i reparti radiomobile dei carabinieri lo hanno: sono le pattuglie che più comunemente si vedono di passaggio nei centri abitati, è personale che deve gestire le emergenze. Anche nelle questure l’arma a impulsi elettrici è stata distribuita al personale che gestisce le emergenze quando è in pattuglia. “Gli agenti che ne fanno uso sono specializzati - spiega Maurizio Ferrara, segretario regionale del sindacato Fsp polizia di Stato - ci sono lunghi corsi di formazione che insegnano anche le regole di ingaggio, sugli ultimi casi di cronaca, che hanno visto alcune persone morire in seguito all’utilizzo dei taser, attendiamo l’esito delle indagini, viene quasi sempre dimostrato che la morte dei soggetti del Comune di Padova Diego Bonavina - l’uso di questo strumento mi è stato richiesto dal personale della polizia locale e c’è una mozione presentata dalla minoranza che ne chiede l’adozione, io non credo che a Padova serva, è un parere che condivido con il sindaco Sergio Giordani, gli ultimi casi in cui alcune persone hanno perso la vita mi hanno ancor più convinto che questo non sia uno strumento adeguato alla polizia locale, ma visto che la questione non è solo tecnica, è giusto che il consiglio si esprima”. Anche la maggioranza a Vicenza, a guida Pd, è contraria: “Ci opponiamo con forza all’adozione di questo strumento - spiega il capogruppo di Coalizione civica Mattia Pilan, che condivide la posizione più volte espressa dal sindaco Giacomo Possamai - è bene che sia chiaro che la questione della sicurezza nei Comuni non è di competenza del sindaco, ma della prefettura e del questore: abito anche io in città, sono consapevole di alcune criticità, ma credo che questo risultato si possa ottenere con più poliziotti, ottenendo che la questura di Vicenza passi dalla seconda alla prima fascia, non armando la polizia locale che non ha competenze sulla sicurezza”. La polizia locale veneziana è stata la prima a sperimentare il taser.Il regolamento lagunare è stato preso a modello per le linee guida dell’Anci non è dovuta all’uso di scariche elettriche, vorrei che questi eventi non venissero usati in modo strumentale: l’utilizzo del taser è l’alternativo al corpo a corpo o all’uso della pistola, eventi anche questi di per sé pericolosi per i poliziotti che agiscono ma anche per le persone da immobilizzare”. Si attendono le indagini per capire se, negli episodi finiti in tragedia, gli agenti hanno agito in modo corretto. Per contro, all’inizio del 2025 un dossier di Amnesty International documenta come le forze di sicurezza utilizzino strumenti come pistole stordenti e manganelli elettrici in strada, alle frontiere, nei centri di detenzione per persone migranti e rifugiate, negli istituti psichiatrici, nelle stazioni di polizia, nelle carceri e in altri luoghi di reclusione. Il rapporto di Amnesty International esamina in particolare il crescente uso improprio delle armi a scarica elettrica, che possono essere impiegate in modo legittimo nelle operazioni di polizia ma che vengono spesso utilizzate in modo scorretto. Sulla piattaforma dell’organizzazione in difesa dei diritti umani è stata lanciata una petizione per bloccarne la diffusione. Sicilia. Codacons: “Le carceri sono fuori controllo, il sistema rischia l’implosione” palermotoday.it, 21 settembre 2025 L’allarme: “Sovraffollamento cronico, carenza di organico, strutture fatiscenti e disinteresse istituzionale hanno trasformato gli istituti penitenziari dell’Isola in vere e proprie polveriere”. Il Codacons lancia un grido d’allarme sul sistema penitenziario siciliano, ormai vicino all’implosione. “Le carceri dell’Isola - è l’accusa - sono sempre più teatro di aggressioni agli agenti, sommosse, tentativi di evasione e tensioni continue che mettono a rischio la sicurezza interna ed esterna, segnalando un’emergenza che non può più essere ignorata. Sovraffollamento cronico, carenza di organico, strutture fatiscenti e disinteresse istituzionale hanno trasformato gli istituti penitenziari siciliani in vere e proprie polveriere”. “Il sistema penitenziario siciliano è arrivato al collasso - afferma Francesco Tanasi, giurista e segretario nazionale Codacons -. Non possiamo tollerare che la polizia penitenziaria venga lasciata sola a fronteggiare situazioni da guerra quotidiana. Servono assunzioni immediate, riduzione del sovraffollamento e investimenti strutturali e tecnologici, a partire dal potenziamento della videosorveglianza. Se non si interviene subito, non sarà più solo un problema di ordine pubblico, ma una vera emergenza democratica e sociale”. Il Codacons chiede con forza un piano straordinario del Governo nazionale e della Regione Siciliana ed è pronto a presentare un esposto alla Corte dei Conti per accertare eventuali omissioni o mancato utilizzo dei fondi destinati alla sicurezza penitenziaria. “Chi lavora ogni giorno all’interno delle carceri merita rispetto, strumenti adeguati e condizioni dignitose. Allo stesso tempo, i detenuti devono poter vivere in ambienti che garantiscano i diritti umani e la funzione rieducativa della pena. Diversamente, di rieducativo resterà solo la parola”, conclude Tanasi. Roma. Due detenuti morti in carcere per overdose e coma etilico di Ilaria Sacchettoni Corriere della Sera, 21 settembre 2025 Aperte inchieste sui decessi a Regina Coeli e Rebibbia. Due inchieste della Procura si sforzano di far luce su quanto avviene nei penitenziari di Regina Coeli e Rebibbia ai (troppi) detenuti che affollano le strutture. Tra agosto e settembre, infatti, sono accaduti fatti che messi in fila, uno alla volta, hanno rafforzato la convinzione che il carcere sia ormai fuori controllo, come, d’altra parte, denunciano avvocati e Garante dei diritti dei detenuti. Per prima cosa la pm Stefania Stefanìa ha formalizzato un’ipotesi investigativa - morte come conseguenza di altro reato - nel fascicolo aperto dopo la morte di Giovanni Ricca, 37enne detenuto a Regina Coeli per aver svaligiato una palestra. Un passato di tossicodipendenza, un presente di sofferenza dietro le sbarre: Ricca aveva ottenuto, attraverso il suo difensore, l’avvocato Roberto Paternostro, la disponibilità del Sert a farsi carico di lui, in alternativa al carcere, ma il Tribunale di sorveglianza aveva espresso parere negativo. Pochi giorni dopo il trentasettenne è stato trovato morto nella sua cella. L’autopsia ha accertato che si è trattato di overdose. Il giovane aveva assunto una dose di crack poco prima. Chi glielo aveva dato e come? Possibile che assieme ai cellulari di cui i detenuti sembrano avere ampia disponibilità circolino anche sostanze del genere? Erano i primi di agosto e il penitenziario di Regina Coeli era precipitato in condizioni di estremo disagio fra agenti della penitenziaria che mancavano e il cronico sovraffollamento la direzione non riusciva a far fronte neppure ai colloqui ordinari con i difensori. La pm ha disposto ora una serie di audizioni a persone informate sui fatti, fra le quali compagni di detenzione e agenti di polizia. Ma non basta. Un caso simile per certi versi, benché meno clamoroso, è avvenuto poche settimane fa a Rebibbia. Qui un detenuto di mezz’età è scivolato nel coma etilico finché il cuore si è fermato. Morto anche lui per via di circostanze da chiarire. La pm che si occupa della sua vicenda, Rosalia Affinito, sta effettuando alcuni approfondimenti. Emerge che le celle sono il luogo ideale per praticare una serie di sperimentazioni alimentari. Qualcuno tra i detenuti conoscerebbe il modo di far fermentare la frutta e distillare, per così dire artigianalmente, l’alcol. Sta di fatto che c’è un altro morto dietro le sbarre. Il quadro non sarebbe completo senza menzionare il dramma dei suicidi in carcere. Sette persone dall’inizio dell’anno si sono tolte la vita tra Regina Coeli e Rebibbia. “Il carcere è divenuto discarica sociale”, aveva commentato semplicemente Stefano Anastasia, garante regionale dei diritti dei detenuti. Cremona. I Radicali chiedono alla Asst delucidazioni sulla sicurezza dei detenuti e dei visitatori cremonasera.it, 21 settembre 2025 A distanza di un mese dalla visita effettuata al carcere Ca’ del Ferro di Cremona, i Radicali chiedono alla Asst di Cremona massima chiarezza riguardo al rischio di contagio derivante dall’infestazione da parassiti all’interno della struttura, in particolare in relazione alla partecipazione di persone fragili e disabili alle prove di uno spettacolo con detenuti e alla presenza di focolai nel Reparto Protetti. “Si chiede se corrisponde al vero che l’allarme lanciato dalla delegazione del Partito Radicale dopo la visita del 15 agosto nel carcere Ca’ del Ferro di Cremona sia fondato. Durante la riunione voluta dal Presidente della Provincia di Cremona il 6 settembre scorso, è emerso che il 27 settembre p.v. si terrà uno spettacolo all’interno del carcere con la partecipazione di ragazze e ragazzi con disabilità e detenuti. Si richiede di sapere se a cavallo di tale visita, nonostante la gravità dell’infestazione interna, siano stati effettuati incontri che abbiano esposto a rischio contagio persone fragili e disabili, oltre agli operatori, entrati in carcere per le prove dello spettacolo. Si chiede altresì conferma se le prove siano continuate anche dopo l’allarme lanciato dal Partito Radicale a margine della visita, denunciato alla Direzione del carcere, alla Garante dei detenuti della provincia di Cremona e alla Direzione sanitaria dell’Asst di Cremona, con grave responsabilità per aver consentito lo svolgimento delle prove in un ambiente carcerario nonostante l’allarme relativo al contatto diretto con detenuti sospetti. Si richiede conferma che lo spettacolo del 27 settembre sia effettivamente confermato e se corrisponde al vero che nella Casa Circondariale siano presenti detenuti affetti da scabbia. Si chiede inoltre se nella Sezione A (A5, A10, A19; Protetti) siano presenti infestazioni da agenti patogeni, con detenuti che si rivolgono ripetutamente all’infermeria per curare infezioni ricorrenti, richiedendo una diagnosi certa da parte di un dermatologo e alla direzione di procedere alla disinfestazione delle loro celle. Si richiede di sapere perché la Direzione Sanitaria non sia ancora intervenuta per risolvere la grave infestazione mediante una diagnosi certa, nonostante gli interventi effettuati nei mesi di luglio e agosto, e perché al momento non siano stati inviati specialisti per la diagnosi delle infezioni dei detenuti. Si chiede infine di conoscere quali interventi la Direzione sanitaria dell’ASST di Cremona intenda programmare per affrontare la situazione.” Maria Antonietta Farina Coscioni Maria Teresa Molaschi Gino Ruggeri Bolzano. Kompatscher, dura replica al sindacato: “La Provincia vuole il nuovo carcere” di Silvia M. C. Senette Corriere dell’Alto Adige, 21 settembre 2025 Il presidente respinge le critiche dell’Uspp: “Non ci hanno mai chiesto un incontro”. “Qui non ci sono due versioni: ci sono i fatti. Ed è chiaro che questo signore non è informato”. Lo scontro è frontale, la replica infuocata. Se già ieri le accuse del segretario nazionale dell’Uspp, l’Unione dei sindacati di polizia penitenziaria, avevano scaldato gli animi, la risposta del presidente della Provincia di Bolzano, Kompatscher, alza la temperatura a livelli inusuali. Il Landeshauptmann si lancia in un duro attacco contro Leonardo Angiulli, definendo “inaccettabili” le sue affermazioni sulla situazione della casa circondariale di Bolzano e la presunta indifferenza di Palazzo Widmann, e lo fa con una veemenza insolita per il suo consueto aplomb. Le parole di Angiulli, venerdì al termine del sopralluogo in via Dante, erano state chiare: “Il vero problema è con la vostra Provincia. Ho fatto delle richieste per il pianeta carcere, ma non sono mai stato ricevuto dall’attuale presidente”. Affermazioni che hanno scatenato la reazione del presidente Kompatscher, che smentisce categoricamente l’esistenza di qualsiasi richiesta di incontro da parte dell’Uspp. “Siamo andati indietro di due anni con la ricerca a sistema e non c’è nulla, a computer: nessuna richiesta di incontro è mai pervenuta - tuona il presidente infastidito senza risparmiare critiche al sindacalista. Dispiace che questo personaggio si comporti così, non capisco il motivo di voler attaccare la Provincia gratuitamente. Mi sembra davvero ovvio che ci troviamo, purtroppo, di fronte a una persona non informata. Poteva informarsi prima di fare queste dichiarazioni”. Kompatscher rivendica un impegno costante e pluriennale, della Provincia e suo personale, nella gestione della problematica del carcere del capoluogo. “Ho più volte contattato il governo per spingere per una soluzione ragionevole, mi sono fatto portavoce delle richieste dei sindacati da almeno 5 - 6 anni per aggiungere finalmente risorse umane e aumentare la pianta organica, ho spinto per una ristrutturazione, per risanare il tetto, ma anche per costruire un nuovo carcere. Lo faccio settimanalmente - garantisce il presidente -. Ho scritto lettere al ministro, gli incontri che ho richiesto e a cui ho partecipato con oggetto la casa circondariale non si contano nemmeno più sulle 10 dita”. La Provincia, prosegue il presidente, non solo ha sollecitato Roma ma si è offerta di mettere a disposizione risorse economiche. “Ho addirittura proposto di anticipare noi i soldi per il nuovo carcere. Fare tutto da soli, però, non possiamo: è competenza dello Stato. Noi non possiamo costruire un carcere”. Un’affermazione che risponde direttamente all’esempio di Trento avanzato da Angiulli e che rilancia la palla al governo centrale. “Basta chiedere all’indirizzo giusto. E infatti più volte ho portato a Roma le istanze e addirittura le lettere dei sindacati assieme alle mie” insiste Kompatscher, che non nasconde la sua frustrazione per il dibattito: “Mi trovo di fronte a persone non informate - spiega - e vedo che le nostre comunicazioni puntuali vengono ignorate. Qui non ci sono due versioni: ci sono i fatti”. Una replica dura, che segna una rottura e sposta il peso del problema dal livello locale a quello nazionale. Campobasso. Nel carcere i detenuti diventano pizzaioli ansa.it, 21 settembre 2025 “La pizza per ricominciare, per guardare al futuro con più ottimismo e con un mestiere in mano”. Così la direttrice del carcere di Campobasso, Rosa La Ginestra, in occasione della conclusione, con gli esami e la consegna degli attestati, del corso di pizzaiolo tenutosi all’interno della Casa Circondariale del capoluogo molisano. Dodici detenuti, impegnati in lezioni teoriche e pratiche, hanno potuto acquisire competenze specifiche nella preparazione degli impasti, nella gestione dei tempi di lievitazione e nelle tecniche di stesura e cottura della pizza, secondo i più alti standard qualitativi della tradizione italiana. Il docente del corso è stato il presidente della Unione Pizzaioli Molisani, Tony di Lieto. Il ‘Molino Caputo’ e l’azienda ‘La Torrente’ hanno donato farina e pelati per preparare le pizze. “Il corso - sottolinea La Ginestra - ha rappresentato un importante momento di crescita professionale ed umana per i partecipanti che, con entusiasmo e attenzione, hanno seguito i consigli e sperimentato le tecniche presentate dal maestro Di Lieto, migliorando giorno dopo giorno, pizza dopo pizza. L’esperienza appena terminata - aggiunge - è un esempio concreto di come la formazione professionale possa diventare, per chi sta vivendo un momento difficile della propria vita, un ponte verso il futuro, creando opportunità concrete e offrendo competenze spendibili in un settore che non sembra soffrire crisi: quello della pizza, autentico simbolo del made in Italy”. Perugia. Detenute rigenerano la sala polivalente del carcere di Capanne ansa.it, 21 settembre 2025 Alcune detenute del carcere di Perugia sono state protagoniste della rigenerazione della sala polivalente della struttura detentiva. L’iniziativa si inserisce nella “Settimana della custodia” promossa dal Comune insieme alla Fondazione Cucinelli. Le detenute impegnate hanno frequentato nei mesi scorsi un corso di formazione promosso dal Cesf - Scuola Edile di Perugia in collaborazione con Ance. Per il Comune “un progetto che unisce formazione, reinserimento e cittadinanza attiva, e che si inserisce perfettamente nello spirito della Settimana della Custodia: prendersi cura non solo dei luoghi della città, ma anche delle persone che la abitano e che ne fanno parte”. La sindaca di Perugia Vittoria Ferdinandi ha sottolineato che “la Settimana della Custodia non riguarda soltanto i muri e le piazze, ma anche le persone. Questo intervento - ha aggiunto - restituisce dignità a uno spazio di comunità e riconosce alle detenute il ruolo attivo che possono avere nel prendersi cura, attraverso il lavoro e la formazione. È un segno forte di speranza e di fiducia nel futuro”. Per l’assessore Andrea Stafisso “la Settimana della Custodia è anche questo: generare esperienze di responsabilità condivisa e di bellezza in contesti fragili, rafforzando la rete tra istituzioni, enti di formazione e mondo del lavoro”. Pistoia. Gli scarti di tessuto diventano coperte e borse per senzatetto e rifugiati di Silvia Morosi Corriere della Sera, 21 settembre 2025 La scommessa Fody Fabrics, startup che prende il nome da un piccolo uccello tessitore del Madagascar. La realtà a forte vocazione sociale dà lavoro a persone con disabilità o temporaneamente svantaggiate. Trasformare gli scarti di tessuto in coperte salvavita, destinate a senzatetto e rifugiati e a ricoveri per animali abbandonati. Offrendo un’opportunità lavorativa a persone con disabilità. È questa la missione di Fody Fabrics (www.fodyfabrics.com/), fondata a Pistoia nel 2020 come progetto pilota, e dal 2022 trasformata in società benefit e startup innovativa a vocazione sociale. “Tutto nasce dall’intuizione di recuperare rimanenze tessili di alta qualità dell’industria della moda, che altrimenti sarebbero buttate, per creare prodotti utili e solidali. Con l’impiego di persone emarginate, in una società civile che punta a promuovere percorsi di carriera e talenti già formati”, spiega Luca Freschi, ceo dell’azienda. Uno degli obiettivi ambiziosi che Fody si pone, ora, è quello di arrivare a donare un milione di coperte entro il 2030, inserire in percorsi o terapie lavorativi oltre 1.000 persone con disabilità e riciclare oltre 1.000 tonnellate di scarti tessili. Il nome legato al Madagascar - In particolare, aggiunge, “i prodotti fisici realizzati con il 50% del materiale raccolto sono commercializzati a beneficio di persone e aziende che vogliano acquistare prodotti ecosostenibili e finanziare un’azienda inclusiva; quelli prodotti con l’altro 50% sono coperte salvavita e oggetti utili, da donare a persone e animali in difficoltà. Grazie a Fody, poi, le aziende riescono anche a risparmiare sulla gestione degli scarti”. E a incuriosire è anche il nome: il fody è un piccolo uccello tessitore del Madagascar, capace di costruire nidi comunitari con materiali di recupero. I numeri del progetto - A oggi sono 25 i ragazzi e le ragazze impiegati, e cinque i Paesi che ricevono le coperte, ma sono decine le richieste di organizzazioni del Terzo settore che desiderano collaborare con l’apertura di nuovi laboratori, e famiglie che chiedono un aiuto: “Ogni persona viene inserita con modalità di interazione diverse. Si inizia con un percorso in presenza, non tutti i giorni e non tutto il giorno, che sia compatibile con la prosecuzione di cure mediche, psicologiche e psichiatriche, e con altri impegni. Poi, si valutano gli individui più interessati con cui proseguire con più regolarità i laboratori, per mezza giornata: parte del team si dedica ai tessuti, parte alla divulgazione delle attività. Scambiandosi i ruoli, e questo è fondamentale anche per imparare a rapportarsi con soggetti terzi”, ricorda Freschi. La squadra di artigiani dell’ago e del filo - A rendere Fody ancora più speciale sono proprio gli artigiani dell’ago e del filo che realizzano i prodotti e risultano temporaneamente o sistematicamente emarginati dal contesto economico-lavorativo. “Qui trovano un posto sicuro dove imparare, crescere e cimentarsi con un primo, vero, impiego. Avendo la possibilità, se determinati, di essere stabilizzati”, spiega Lorenzo Traversari, uno degli educatori. Così, ad esempio, solo per citare una piccola parte del team, Vilma, Giada, Davide, Sara, Luca, Samuele ed Eugenio si occupano della finitura; Daniele del taglio, Francesco e Serena della cucitura; Francesca del controllo qualità; Luca del confezionamento. E così l’inclusione non è più uno slogan ma diventa valore quotidiano. Anche borse e zaini - E oggi, dopo anni, non si parla più solo di coperte, perché si lavorano anche borse, zaini, shopper, venduti online per sostenere il progetto. Il successo di Fody ha attirato l’attenzione di diverse aziende, che hanno iniziato a collaborare per realizzare gadget eco-solidali, eventi, attività di team building. “Durante la mia esperienza lavorativa precedente nel Terzo settore ho notato pochi giovani interessati. Eppure si tratta di un ambito pieno di valori e risorse positive. E proprio questo che mi ha motivato a puntare anche sulla promozione di Fody attraverso i social dove parlo, in generale, del mondo della disabilità”, insiste Traversari, ricordando come i ragazzi riescano ad apprendere con facilità in un ambiente sereno. Il sogno? “Portare Fody in ogni città. Se le aziende prendono esempio da questa esperienza si arricchisce tutta la società. A effetto domino”. Roma. Carcere di Rebibbia, evento per il Giubileo degli operatori della giustizia di Viola Mancuso gnewsonline.it, 21 settembre 2025 Sabato 20 settembre, Roma ha ospitato il “Giubileo degli operatori della giustizia”, un evento che ha coinvolto non solo il personale del ministero della Giustizia e i professionisti del settore legale, ma anche università, associazioni di categoria ed enti di volontariato. L’iniziativa ha l’obiettivo di aprire un dialogo trasversale sul concetto di giustizia nella società contemporanea. L’istituto di Rebibbia Nuovo Complesso è stato uno dei luoghi scelti per un momento di preghiera e di riflessione, dove volontari e detenuti del circuito di media sicurezza hanno avuto l’opportunità di confrontarsi su temi legati alla giustizia e al recupero, in un’atmosfera di solidarietà e di impegno condiviso. Guidati dai cappellani del carcere don Marco, padre Lucio e don Stefano, i volontari hanno attraversato la Porta Santa della Chiesa dell’istituto romano, inaugurata da Papa Francesco in una delle sue ultime apparizioni il 26 dicembre 2024. L’associazione Ain Karim, il Gruppo Équipe Notre Dame e la Consacrazione dell’Ordo Virginum hanno partecipato alla celebrazione della Santa Messa con l’accompagnamento dei giovani del coro della Chiesa di Santissima Trinità a Villa Chigi. Partendo dal significato speciale che Papa Francesco ha voluto dare al Giubileo della Speranza, l’omelia del cappellano è un invito a riconciliarsi e a guardare al futuro con fiducia, soprattutto in contesti difficili come quello detentivo. Il volontariato è uno strumento di speranza che mitiga le disuguaglianze e guarda all’essere umano nella sua persona, al di là del suo reato. Su questi temi si è sviluppata la riflessione al termine dell’eucarestia, momento in cui i volontari hanno potuto porre domande ai sette detenuti sacrestani sul loro percorso trattamentale e di vita. I sacrestani di Rebibbia hanno un ruolo particolare che unisce aspetti liturgici e umani: al pari di un’attività lavorativa, assistono materialmente i sacerdoti durante la messa e nella pulizia della cappella, ma soprattutto fanno da ponte tra la comunità detentiva e i cappellani, facendosi portatori delle istanze dei detenuti con maggiori difficoltà economiche ed emotive, distribuendo prodotti igienici o sussidi per le ricariche telefoniche. I sacrestani si mettono al servizio della comunità carceraria, incoraggiando e dando concreto supporto e conforto ai compagni di detenzione. Questo percorso aumenta il senso di responsabilità e di empatia verso gli altri e si ricollega al principio contenuto nell’art. 27 della Costituzione. Tra scambi di battute e curiosità, il confronto si è concluso con un invito a considerare le difficoltà concrete di un percorso di reinserimento sociale, evidenziando come l’insufficienza del personale penitenziario e le frequenti difficoltà di collaborazione tra le istituzioni governative ed ecclesiastiche rappresentino ostacoli significativi. Tuttavia, sono proprio queste occasioni di dialogo con il mondo esterno che offrono un’opportunità preziosa per tutti: operatori, detenuti e società civile si ritrovano ad ascoltarsi reciprocamente e a celebrare la giustizia non solo come istituzione, ma come una vocazione condivisa. Torino. Torna il Festival delle arti dentro e fuori il carcere arte.sky.it, 21 settembre 2025 Prenderà il via tra pochi giorni a Torino la quinta edizione del “LiberAzioni Festival”, la rassegna che punta a utilizzare arte, cinema e teatro per creare ponti culturali tra gli spazi carcerari e il mondo “fuori”. Torino si prepara ad accogliere nuovamente LiberAzioni Festival, la rassegna biennale di arti dentro e fuori il carcere organizzata dall’Associazione Museo Nazionale del Cinema. Giunta alla sua quinta edizione, la manifestazione in programma dal 1° al 16 ottobre si articolerà attraverso un corposo cartellone di eventi, uniti idealmente da un obiettivo di grande valore: favorire il dialogo e il contatto culturale tra la realtà carceraria italiana e la società civile. Anche quest’anno, gli appuntamenti del festival saranno ad accesso gratuito e coinvolgeranno ospiti provenienti da diversi ambiti culturali. Oltre alla presenza confermata di artisti e performer come Andrea Pennacchi e Paola Bizzarri, spicca l’evento inaugurale della rassegna: la proiezione di Tehachapi, documentario diretto dall’artista parigino JR e Tasha Van Zandt, che affronta il tema delle carceri da una prospettiva originale. Le due settimane del festival torinese proporranno ai partecipanti un cartellone ricco di eventi che spaziano dagli spettacoli teatrali ai film, senza dimenticare i numerosi incontri con figure rappresentative del panorama culturale italiano. Oltre al documentario di JR, che sarà proiettato mercoledì 1° ottobre presso le Gallerie d’Italia di Piazza San Carlo, sono in programma il nuovo appuntamento con il concorso nazionale di cortometraggi e documentari, nonché numerose proiezioni speciali dedicate a temi di assoluta rilevanza come le condizioni della vita carceraria, i diritti della persona e le marginalità. Il teatro sarà protagonista del cartellone di LiberAzioni grazie a spettacoli come Ma l’amore no della compagnia Voci Erranti, formata da detenuti del carcere di Saluzzo, o la performance di Pennacchi, che il 7 ottobre si esibirà nel teatro della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno. L’istituto carcerario torinese ospiterà inoltre un workshop di scrittura a cura di Alessio Romano, nel corso del quale interverrà il poeta romano Daniele Mencarelli. All’interno del programma del festival ci sarà inoltre spazio per un evento a sostegno della causa palestinese: la proiezione del documentario Sarura di Nicola Zambelli, in programma il 10 ottobre nell’ambito dell’iniziativa IllustrAzioni per Gaza alla Libreria Binaria. Accanto alla ricca programmazione di eventi culturali, LiberAzioni Festival proporrà anche una serie di inizative gratuite dedicate alla formazione professionale in campo cinematografico. Tra queste, si segnala il laboratorio di scenografia tenuto da Paola Bizzarri, vincitrice del David di Donatello per il lavoro sul set di Habemus Papam di Nanni Moretti. Ampio spazio sarà dedicato poi alle grandi tematiche sociali del nostro tempo, approfondite da eventi come la presentazione del libro Gorgo CPR. Tra vite perdute, psicofarmaci e appalti milionari, un’inchiesta sui Centri di Permanenza per il Rimpatrio che sarà presentata il 7 ottobre dai due autori Lorenzo Figoni e Luca Rondi al Cineteatro Baretti. Anche la locandina ufficiale dell’edizione 2025 della rassegna torinese si ricollega idealmente al rapporto tra l’universo carcerario e il mondo fuori dalle mura. Il manifesto è stato infatti realizzato nell’ambito di un laboratorio creativo aperto alle detenute del carcere di Torino, curato dall’artista visiva Arianna Vairo. Torino. Contro i luoghi comuni, per una legalità consapevole di Carlo Rea giornalelavoce.it, 21 settembre 2025 Dal 2 al 5 ottobre a Torino torna “Giornate della Legalità - Spazi aperti in luoghi chiusi”: oltre 40 eventi per smontare stereotipi e pregiudizi. Invitare ad andare oltre i modi di dire che tutti conosciamo ma che, spesso, nascondono una rappresentazione distorta della realtà. È questo il fil rouge che guida la terza edizione delle Giornate della Legalità - Spazi aperti in luoghi chiusi, in programma a Torino dal 2 al 5 ottobre 2025, con un tema quanto mai attuale: “Contro i luoghi comuni”. Un festival diffuso che mette al centro la riflessione pubblica sul valore della legalità, affrontando i pregiudizi e le false credenze che possono alimentare discriminazioni, distorcere la percezione della giustizia e persino giustificare la violenza. Un’occasione per decostruire semplificazioni dannose e promuovere una cittadinanza più consapevole, responsabile e solidale. Un programma ricco e trasversale con oltre 50 ospiti e più di 40 appuntamenti distribuiti nei luoghi simbolo della legalità - dai tribunali alle carceri, dalle caserme ai teatri, fino alle università e alle piazze - il programma di quest’anno offre un caleidoscopio di incontri, dibattiti, lectio magistralis e performance artistiche. L’apertura ufficiale è dedicata al tema della violenza contro le donne. Il 2 ottobre, nell’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Torino, si terrà l’incontro “È stato solo un raptus”, rivolto alle scuole e realizzato in collaborazione con la Fondazione Giulia Cecchettin, alla presenza dell’avvocato della famiglia Cecchettin. Un titolo provocatorio per un dialogo profondo sulle narrazioni distorte che circondano il femminicidio. Altro momento cruciale sarà la lectio di Gustavo Zagrebelsky, riservata ai detenuti della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, il 3 ottobre alle ore 10. Il titolo, “Se sono lì, è perché se lo sono meritato”, mette in discussione uno dei più insidiosi luoghi comuni legati alla giustizia penale, invitando a riflettere sul concetto di responsabilità e sulla funzione rieducativa della pena. Il programma prevede anche eventi che esplorano la relazione tra legalità, informazione e cultura popolare. Il giornalista e podcaster Pablo Trincia, tra i volti più noti del crime storytelling italiano, sarà protagonista il 4 ottobre alle ore 21 al Teatro Valdocco con il racconto-performance “A sangue freddo”, dedicato al capolavoro di Truman Capote e all’impatto del true crime sulla narrazione contemporanea. In parallelo, torna la collaborazione con Portici di Carta, con l’iniziativa Portici della Legalità, che animerà il centro città con incontri, presentazioni e momenti di dialogo a partire dai libri. In prima linea anche il Bibliobus delle Biblioteche civiche e la BILL - Biblioteca della Legalità, che porteranno tra le strade di Torino la legalità come bene comune. “Le Giornate della Legalità - sottolinea l’assessore alla Legalità Marco Porcedda - sono un momento fondamentale di riflessione sul valore delle regole, dei diritti e delle responsabilità. La legalità è un patrimonio collettivo, che si costruisce ogni giorno, anche attraverso le scelte più semplici. Questo festival è uno strumento potente per rendere la città più consapevole e coesa”. Concorda l’assessora alla Cultura Rosanna Purchia, che evidenzia: “La cultura diventa strumento di crescita civile e democratica, aprendo spazi di confronto e contrastando i pregiudizi. La legalità non è solo una questione giuridica: è un valore che appartiene a tutte e tutti, e che ognuno è chiamato a custodire”. Una rete che cresce: difatti l’edizione 2025 vede l’ingresso di nuovi partner e sponsor - Fondazione CRT, Gruppo Iren e Banca Etica - che affiancano la Città di Torino nel promuovere una cultura della legalità e della cittadinanza attiva. Un’alleanza tra istituzioni, cittadini e realtà del territorio per rendere la giustizia più accessibile, la società più giusta e il pensiero più libero da stereotipi. Catanzaro. Progetto “La cultura rende liberi”, letteratura e sentimenti dietro le sbarre politicamentecorretto.com, 21 settembre 2025 Il quarto appuntamento la casa circondariale Ugo Caridi di Catanzaro relativo al Progetto “La cultura rende liberi” (Ophelia’s friends Cultural Projects), ideato e diretto dalla giornalista e scrittrice Stefania Romito, si è svolto in un clima di profonda partecipazione e interesse. Ancora una volta, il percorso culturale e formativo, avviato all’interno dell’istituto penitenziario, ha dimostrato come la letteratura e la riflessione sui sentimenti possano rappresentare strumenti preziosi non solo di conoscenza, ma anche di crescita personale e di apertura verso l’altro. Il tema centrale dell’incontro ha riguardato i rapporti sentimentali tra uomo e donna raccontati in letteratura, con un focus specifico su una delle figure femminili più iconiche del teatro italiano: Eleonora Duse. Attraverso le sue relazioni amorose, Romito ha guidato i detenuti in un percorso di analisi che ha messo in luce non solo le sfumature della dimensione affettiva, ma anche le dinamiche psicologiche e umane che caratterizzano i legami amorosi. La relazione tra Eleonora Duse e Arrigo Boito è stata raccontata come esempio di un rapporto basato su una forte affinità intellettuale e su una complicità discreta, lontana dai clamori. Un amore silenzioso e profondo, fatto di rispetto reciproco e di un dialogo costante tra due anime sensibili. Di contro, l’intensa e tormentata storia con Gabriele D’Annunzio ha mostrato un volto molto diverso dell’esperienza sentimentale: un legame carico di passioni, contraddizioni e sofferenze, segnato dalla personalità magnetica e, al tempo stesso, controversa del poeta. Romito ha proposto una riflessione sul fatto che la relazione con D’Annunzio potrebbe essere letta anche alla luce delle dinamiche tipiche di un rapporto con una personalità incline al narcisismo patologico. Una dimensione relazionale in cui l’egocentrismo, la necessità di dominare l’altro e la ricerca costante di ammirazione, finiscono per mettere in secondo piano i bisogni e i sentimenti della controparte. La Duse, donna di straordinaria sensibilità e dedizione, si trovò a vivere un amore travolgente ma doloroso, che ha lasciato tracce profonde nella sua vita e nella sua arte. L’analisi di queste due esperienze amorose così diverse ha offerto ai partecipanti l’occasione di confrontarsi con i molteplici aspetti dei rapporti umani, riconoscendo come la letteratura possa fornire strumenti preziosi per interpretare la realtà e, in particolare, le proprie esperienze personali. Nella seconda parte dell’incontro, l’attenzione si è spostata sul percorso di scrittura creativa. Dopo aver trattato, nei precedenti appuntamenti, temi legati alla costruzione della narrazione e all’importanza delle emozioni, Stefania Romito ha introdotto un argomento fondamentale: il ruolo dei personaggi. Sono infatti i personaggi a conferire spessore, credibilità e vitalità a un testo narrativo. La loro caratterizzazione, la capacità di renderli autentici e complessi, rappresenta una delle sfide principali per chiunque si accosti alla scrittura. Romito ha posto le basi per un approfondimento che verrà sviluppato nel prossimo incontro, in cui si parlerà anche del romanzo di Giuseppe Berto Anonimo Veneziano, stimolando i detenuti a riflettere su come i personaggi possano nascere dall’osservazione del reale, dal vissuto personale o anche dall’immaginazione, diventando specchi attraverso i quali esplorare le diverse sfaccettature dell’animo umano. Particolarmente significativo è stato il coinvolgimento dei partecipanti. I detenuti hanno preso parte alla discussione con interesse e sensibilità, portando contributi che hanno arricchito il dialogo e testimoniando come, anche in un contesto difficile come quello carcerario, la letteratura possa aprire spazi di libertà interiore e di condivisione. Un ringraziamento speciale è rivolto alle educatrici che seguono con dedizione il percorso, e alla direttrice Patrizia Delfino, il cui sostegno e la cui attenzione hanno reso possibile la realizzazione di un progetto tanto prezioso. Il loro impegno rappresenta un segno concreto di come la cultura e l’educazione possano essere strumenti di rieducazione e reinserimento, rispondendo pienamente alla missione di un’istituzione penitenziaria attenta al futuro delle persone che la vivono. Con questo quarto incontro, il Progetto “La cultura rende liberi” conferma la sua valenza non solo culturale, ma anche sociale e umana. Un cammino che, tappa dopo tappa, restituisce dignità, ascolto e possibilità di espressione a chi troppo spesso è relegato al silenzio. Livorno. Pinocchio coi detenuti-attori, lo spettacolo in carcere Il Tirreno, 21 settembre 2025 “Com’ero buffo”. Pinocchio prende vita sul palco del carcere di Livorno, con uno spettacolo liberamente ispirato a Collodi. In scena attori detenuti e il gruppo “Teatro Galeotto” per l’evento del 6 ottobre alle 18 (ingresso del pubblico alle 17). La regia è di Maria Teresa Delogu e Lavinia Meo. Per assistere prenotazione obbligatoria entro domani, lunedì 22 settembre, inviando i dati anagrafici a: teatrocarcere@giallomare.it. In scena, gli attori detenuti della sezione Alta Sicurezza delle Sughere e le attrici e gli attori del gruppo “Teatro Galeotto”, nato all’interno del laboratorio del Teatro del Popolo di Castelfiorentino. È la storia di un Pinocchio che parla a tutti, dentro e fuori le mura. La storia di Pinocchio non è soltanto una fiaba per l’infanzia, ma un percorso universale di crescita, errori, cadute e riscatto. Portare questo racconto dentro il carcere significa riconoscerne la forza simbolica: ciascuno, almeno una volta nella vita, si trova a fare i conti con la complessità delle scelte, con il peso delle regole e con il desiderio di libertà. Com’ero buffo è il risultato di un percorso teatrale che non si limita a riproporre la vicenda del burattino, ma la trasforma in una riflessione collettiva su cosa significhi diventare e riscoprirsi umani. Pinocchio diventa così una lente attraverso cui guardare noi stessi e il nostro stare insieme nel mondo. Info. Lo spettacolo è il 6 ottobre alle 18, necessaria la prenotazione entro domani. In caso di maltempo lo spettacolo sarà rinviato a mercoledì 8 ottobre, con gli stessi orari. “In cella senza motivo”, premiato Abdallah Motan di Fabrizio Geremicca Corriere del Mezzogiorno, 21 settembre 2025 L’”Amato Lamberti” al regista detenuto in Israele da otto mesi. Applausi per Francesca Albanese. È detenuto a Ramallah da gennaio senza altra colpa se non quella di avere girato un documentario che denuncia le condizioni dei detenuti palestinesi i quali muoiono nelle carceri israeliane senza che i loro corpi siano neppure restituiti alle famiglie. Restano nelle celle frigorifero e diventano strumento di ricatto e di pressione da parte delle autorità israeliane. Abdallah Motan, 30 anni a novembre, ieri non ha potuto ritirare a Napoli, città dove ha vissuto e ha tenuto corsi di videomaker per i ragazzi organizzati da Gesco, il premio Responsabilità Sociale Amato Lamberti, giunto alla XII edizione. È in regime di detenzione amministrativa senza che nei suoi confronti le autorità israeliane abbiano pronunciato alcuna condanna specifica. Marchiato da una generica accusa di pericolosità che si traduce nella colpa di aver dato voce a chi, sepolto in carcere, quella voce non ha. Ha ritirato dunque il premio al suo posto Raffaele Rossi, che lo ha conosciuto tramite Gesco. La cerimonia si è svolta a Palazzo Gravina, sede storica del Dipartimento di Architettura della Federico II. “A luglio - ha raccontato Rossi - sono scaduti i primi sei mesi di detenzione amministrativa, prorogati per altri sei. L’unico che può saltuariamente incontrare in carcere Motan è il suo avvocato e ci ha riferito che è smagrito e provato. Da gennaio il regista non ha mai potuto incontrare i suoi genitori”. Quella di Motan è una storia di censura, di ricatto e di violenza come purtroppo ne accadono molte in terra di Palestina e non è un caso che tra i premiati ieri c’è stata Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati. Quando è apparsa in collegamento video dalla Tunisia molti si sono alzati per tributarle solidarietà ed è partito un lungo applauso. “Anche la solidarietà di un pezzo di stoffa per dire Palestinesi non siete soli rischia di provocare accuse di antisemitismo e filo-terrorismo. Un momento difficile, ma proprio in questo frangente dobbiamo alzare la testa. Quello che sta accadendo ai palestinesi è la conseguenza di decenni di impunità. Dobbiamo chiederci dove abbiamo sbagliato, forse ci siamo adagiati sull’assistenzialismo pensando che aiutarli a costruire un pozzo o con piccoli progetti fossimo assolti. Il grosso del problema è l’appoggio economico, politico, finanziario e militare che paesi come il nostro danno da decenni ad Israele”. Il consiglio comunale di Napoli ha votato alla unanimità l’attribuzione della cittadinanza onoraria a Francesca Albanese. La disgustosa scorciatoia di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 21 settembre 2025 La politica italiana deve mettersi in testa di avere una responsabilità, non solo interessi e convenienze. Disgusto. La politica sa come usarlo, non da oggi. Se il vocabolo vi sembra troppo forte, potete sostituirlo con risentimento, indignazione, scontentezza, insoddisfazione, frustrazione, desiderio di rivalsa. Sono questi sentimenti che spostano i voti (dove ancora si vota), scatenano le insurrezioni, creano i totalitarismi. Leggete Hannah Arendt: aveva capito tutto. Il disgusto popolare può essere seminato; oppure raccolto, quando cresce spontaneamente. In ogni caso, è questo il sentimento che, nei periodi di crisi, conduce al potere. Non la riconoscenza, non la solidarietà, non il senso morale. Il disgusto, oggi pompato dai social. Giorgia Meloni conosce la politica e se ne rende conto. Pensa che gli elettori la confermeranno al potere non per i suoi meriti al governo, ma perché troveranno irritanti gli avversari. L’opposizione di sinistra lo capisce? Certo che lo capisce. Ma il disgusto è un’arma che non sa utilizzare. Eppure, in passato, ha funzionato anche per quella parte. Ricordate il successo del Movimento 5 Stelle? Beppe Grillo era un maestro nell’uso - prima artistico, poi politico - del disgusto. Quei vaffa contro la casta politica, di cui il M5S ora fa gioiosamente parte, hanno portato Giuseppe Conte a Palazzo Chigi tra il 2018 e il 2021. Oggi il leader pentastellato, liquidato il suo mentore, sta all’opposizione. Sa che la scorciatoia per tornare al potere - magari in coabitazione - è provocare indignazione, scontentezza, insoddisfazione. Ecco spiegate l’ostilità verso la difesa nazionale e la decisione di chiamarla, sempre e soltanto, “riarmo”. Ma in politica non esistono soltanto le scorciatoie, che possono essere insidiose, come sa chi va in montagna. Sarebbe più saggio ritrovare il sentiero principale, per provare ad arrivare in vetta. Fuor di metafora: la politica italiana deve mettersi in testa di avere una responsabilità, non solo interessi e convenienze. Seminare risentimento è miope e pericoloso. Magari vinci le elezioni, ma poi perdi la nazione. È la ricetta di Donald Trump. Davvero vogliamo imitarlo? Non ci credo: siamo troppo intelligenti per commettere un errore così. Il linguaggio politico è sempre più aggressivo, per il 74% degli elettori è colpa dei social di Alessandra Ghisleri La Stampa, 21 settembre 2025 Il 45,7% degli intervistati definisce conflittuale il clima in Italia, una tesi trasversale ai partiti. C’è un’Italia silenziosa, fatta di cittadini che osservano con crescente disagio il modo in cui si parla - e si urla - di politica. Un’Italia che, secondo gli ultimi dati di un sondaggio di Only Numbers, percepisce il clima politico nazionale come conflittuale (45,7%), teso (27,1%) e addirittura violento (10,4%). Solo un risicato 3,7% definisce il dibattito politico “sereno”. Numeri che, se non allarmano, dovrebbero almeno far riflettere. In un contesto del genere, parlare di “odio politico” non appare più un’iperbole, ma una definizione che si avvicina tristemente alla realtà. La stessa premier, nei giorni scorsi, ha denunciato un clima di violenza verbale nei suoi confronti. A ciò si aggiungono le scene indecorose viste in Parlamento durante la discussione sul decreto giustizia: urla, insulti, risse sfiorate. Se il Parlamento è lo specchio della nazione, non possiamo ignorare che lo specchio oggi ci restituisce un’immagine distorta e inquieta. Le differenze tra generazioni - Non stupisce, allora, che quasi il 65% degli italiani ritenga che il linguaggio della politica sia diventato più aggressivo rispetto al passato. Una percezione che sale fino al 75,5% tra gli over 65 che quel passato lo ricordano bene. Al contrario, i più giovani (18-24 anni), cresciuti in questo clima, non notano grandi differenze: per loro, questo è sempre stato il tono “normale” della politica (62,7%). Eppure, proprio da questi giovani dovremmo ripartire. Perché se la politica è ormai percepita come una continua guerra tra fazioni, incapace di spiegare con chiarezza contenuti, riforme e scelte, c’è da chiedersi: che esempio stiamo offrendo a chi si affaccia alla vita pubblica e democratica del Paese? Il ruolo dei social - In questo quadro, i social media non aiutano. Anzi! Tre italiani su quattro (74,1%) sono convinti che piattaforme come Facebook, X, Instagram e TikTok peggiorino il dibattito politico, lo esasperino, amplifichino i toni più aspri e diano spazio a chi grida più forte, non a chi argomenta meglio. In questo nuovo “ring digitale”, le parole vengono spesso usate come armi. A rendere tutto ancora più caotico contribuiscono anche i font urlati, grandi caratteri bold di titoli sensazionalistici, post senza contesto, meme e slogan che riducono la complessità della politica a semplice tifoseria da stadio. Ma dove ci sta portando tutto questo? Ce lo dobbiamo chiedere, con serietà. Ha davvero senso trasformare ogni dibattito politico in uno scontro personale? O c’è, nel profondo del Paese, un desiderio inascoltato di capire meglio le sfide, le fatiche e gli sforzi della politica nel governare una realtà sempre più complessa? Da avversari politici si sono trasformati in nemici. In molti denunciano che al di fuori delle telecamere ci si abbraccia e i toni risultano più pacati. E qui sta forse il dato più preoccupante, perché molti italiani invece credono che questo clima di odio sia reale - e non recitato - e che possa spingere qualche “svalvolato” a compiere atti estremi. Le risposte degli elettori - È una consapevolezza trasversale, che supera ogni schieramento politico e che ci interroga, tutti, sull’urgenza di un cambio di passo. La politica ha bisogno di visioni, di confronto anche duro, ma costruttivo; non di odio, insulti e delegittimazione reciproca. Per avvalorare le proprie tesi spesso si alterano i significati fino a renderle verosimili provocando reazioni sempre più forti e roboanti tra le parti e innescando un meccanismo che porta velocemente dal credibile all’improbabile. In un contesto in cui tutto si trasforma in rumore e la confusione offusca il giudizio, l’elettore finisce per affidarsi più al sentimento di appartenenza che a una scelta realmente consapevole. L’omicidio di Charlie Kirk - È anche per questo che i due blocchi politici, “centrodestra” e “centrosinistra allargato”, restano immobili, senza reali travasi di consenso se non tra i partiti all’interno delle reciproche alleanze. Si moltiplicano tra i diversi schieramenti le ricerche di nuove figure “moderate”, capaci di rassicurare nell’immagine e nei toni, ma non basta. Il 59,9% degli italiani attribuisce all’odio politico un ruolo principale (27,4%) o comunque significativo (32,5%) come movente nell’omicidio del politico americano Charles James Kirk. Un dato che dovrebbe far riflettere, perché racconta di una consapevolezza diffusa: il linguaggio politico, quando si fa strumento di polarizzazione e scontro permanente, può contribuire a innescare dinamiche pericolose anche nella realtà. I cittadini meritano una classe dirigente all’altezza, che sappia scegliere le parole con responsabilità, costruire fiducia e innalzare il livello del confronto, perché in democrazia le parole non sono mai solo parole: sono atti, e gli atti, inevitabilmente, generano conseguenze. La politica, oggi più che mai, ha il dovere di disinnescare tensioni, non alimentarle, perché una società che smette di ascoltarsi è una società che rischia di smarrire sé stessa. Migranti. Nelle “Scuole senza permesso” si impara la lingua dell’integrazione di Maurizio Ambrosini Avvenire, 21 settembre 2025 Migliaia di persone immigrate seguono i corsi di italiano, primo passo per la convivenza auspicabile. Servirebbero più spazi, più opportunità e più sostegni. È suonata la campanella nelle scuole di tutta Italia, e gli alunni di ogni età sono tornati sui banchi. Tra loro, fra l’altro, oltre 900.000 privi della cittadinanza italiana. Ma un altro sistema educativo ha riaperto le porte: i corsi d’italiano per stranieri. Una parte è organizzata dal sistema pubblico, mediante i Centri Provinciali per l’Istruzione degli adulti (Cpia), con oltre 200.000 iscritti nel 2023/2024. Un’altra cospicua parte invece è mandata avanti da una galassia d’iniziative associative ed ecclesiali, distribuite in tutto il Paese, con l’apporto di migliaia di volontari. A Roma e nel Lazio la rete Scuolemigranti raccoglie un centinaio di associazioni e più di 10.000 iscritti ai corsi ogni anno. A Milano e dintorni, esiste da dieci anni una rete che coordina una quarantina di scuole, giovandosi di 250 insegnanti volontari e accogliendo circa 3.000 studenti. Si è data un nome emblematico: “Scuole senza permesso”. Caratteristica delle scuole mandate avanti da soggetti della società civile è infatti la flessibilità organizzativa, la moltiplicazione delle soluzioni praticate in termini di orari e modalità d’insegnamento, nonché la capacità d’intercettare anche persone che per diversi motivi non riescono a rientrare negli schemi dell’offerta educativa pubblica. Troviamo infatti scuole che offrono corsi al mattino per le mamme che hanno qualche ora disponibile dopo aver accompagnato i figli a scuola, oppure servizi di baby-sitting per accudire i più piccoli mentre le madri partecipano alle lezioni, oppure ancora corsi per sole donne e con insegnanti donne per riuscire a coinvolgere studenti che per vincoli culturali e religiosi non parteciperebbero a corsi misti. Intorno ai corsi poi spesso si sviluppano attività socializzanti e di tempo libero. Molti insegnanti non solo danno prova di creatività, inventando moduli didattici e modalità d’insegnamento non convenzionali, agganciate alla vita quotidiana e alle sue necessità, ma diventano punti di riferimento e consulenti anche per molte esigenze extrascolastiche: ricerca di lavoro, casa, orientamento nei meandri della burocrazia. Qui prendono forma le basi dell’integrazione e della convivenza auspicabile. Il possesso della lingua è un fattore basilare dell’integrazione degli immigrati, una risorsa essenziale per trovare e migliorare il lavoro, interagire con i servizi pubblici (pensiamo alla sanità), seguire i figli nell’apprendimento, costruire relazioni con la popolazione locale. Ma la lingua è nello stesso tempo anche un fattore di emancipazione, come insegnava don Milani: il mezzo per potersi esprimere in pubblico, partecipare alla vita sociale, diventare attori a pieno titolo della società italiana. Per provare a uscire dall’integrazione subalterna che il mercato del lavoro e tanta parte della società italiana sembra richiedere agli immigrati. Le scuole d’italiano sono anche scuole di cittadinanza, nel duplice risvolto del termine: scuole in cui insieme alla lingua, s’imparano le regole della vita in comune in un nuovo paese, e in cui la lingua è il veicolo della presa di parola e della partecipazione democratica. Dal punto di vista degli interessi nazionali, invece di lamentare la mancata integrazione, l’incapacità di comunicare, la formazione di società parallele e separate, sarebbe fondamentale estendere l’esperienza delle scuole d’italiano là dove ancora non esistono o non sono sufficienti, dotarle di sedi e attrezzature più adeguate quando ne sono carenti, aumentare il numero di volontari coinvolti per rendere più efficace e personalizzato l’insegnamento. Più scuole d’italiano, più immigrati accolti e formati, più esperienze di successo educativo, significano meno spaesamento, meno emarginazione, meno derive devianti, meno rischi di banlieues nelle nostre città. Migranti. Minori stranieri “non accompagnati”: a Bologna solo 7 famiglie li accolgono Corriere di Bologna, 21 settembre 2025 Ci sono sette famiglie, in questo momento, in tutta la città metropolitana che stanno accogliendo un minore o un neo maggiorenne straniero non accompagnato. Ragazzi e ragazze con il peso sulle spalle di viaggi migratori spesso lunghi e dolorosi, che dopo un periodo trascorso all’interno delle comunità sul territorio, ritrovano il calore familiare, seppur lontano dal Paese di nascita. Solo sette oggi quelli che possono giovare dell’abbinamento con una famiglia bolognese che ha deciso di aprirgli le porte di casa. Un numero piccolo, dietro il quale però c’è un lavoro molto impegnativo degli operatori e dei servizi sociali, perché si creino le condizioni migliori sia per chi accoglie sia per chi è accolto. Dal 2016, quando è partito, il progetto Vesta, che vede la sinergia di Comune, Asp e Cooperativa sociale Cidas, ha permesso l’accoglienza in questa modalità di 130 ragazzi e ragazze migranti, attraverso l’attivazione di 16 percorsi formativi che hanno coinvolto 250 cittadini candidati a partecipare. Il progetto è inserito nel Sistema di accoglienza e integrazione Sai, di cui è titolare il Comune di Bologna, e ha l’obiettivo di garantire supporto alle famiglie accoglienti, che siano nuclei di due, tre o più persone, o anche singoli, spinti dal desiderio di dare un po’ del proprio spazio e tempo ai ragazzi arrivati in Italia senza un adulto di riferimento. Gli altri vivono nelle strutture del sistema Sai, distribuite nella città metropolitana e gestite con il supporto di cooperative, associazioni, volontariato. In tutto, si contano 350 minori stranieri non accompagnati. “I posti sono tutti pieni - fa sapere l’amministrazione - e appena qualche posto si libera si riempie di nuovo”. Il dato dei 350 è stabile da un po’ di tempo; a questi numeri si aggiungono altri 50 posti riservati ai minori soli all’interno dei Cas, centri di accoglienza straordinaria, gestiti direttamente dalla Prefettura. Qualcuno sbaglia, inciampa nelle maglie dell’illegalità, come la cronaca purtroppo racconta. Allora, il percorso di integrazione si fa ancora più complesso. “I più abbandonati dall’Occidente”, li ha definiti così i minori stranieri non accompagnati finiti al carcere minorile, il cappellano del Pratello don Domenico Cambareri, in un’intervista al Corriere di Bologna. Una denuncia accorata, per richiamare l’attenzione sull’estremo bisogno di ascolto e di cura di chi, giovanissimo, affronta l’inimmaginabile per trovare il suo futuro altrove. Il declino della diplomazia di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 21 settembre 2025 Le difficoltà dell’Onu emergeranno nell’Assemblea che inizia domani. Il punto più basso dalla Guerra Fredda. Inizia domani, a New York, la sessione dell’Assemblea generale Onu. È facile prevedere che sarà una delle più meste e inconcludenti dai tempi della Guerra Fredda. Nel recente passato il grande raduno dei leader politici e delle diplomazie mondiali è stata l’occasione di negoziati, incontri dietro le quinte per risolvere controversie, prevenire l’inasprirsi delle crisi, trovare una sintesi tra posizioni diverse. Questa volta, invece, avremo la certificazione di spaccature che appaiono insanabili e, in definitiva, della crisi profonda del multilateralismo. Tutto ciò è il risultato dei crimini di guerra commessi in Ucraina da Vladimir Putin, a Gaza da Benjamin Netanyahu, nonché dei fallimenti politici di Donald Trump. La cronaca ci spinge a cominciare dagli Stati Uniti. Il presidente americano dovrebbe ricevere Netanyahu alla Casa Bianca. Pochi giorni fa, subito dopo il blitz israeliano contro i capi politici di Hamas a Doha, Trump, secondo il “Wall Street Journal”, avrebbe confidato ai suoi consiglieri: “Benjamin mi sta fregando”. Se è così, si è trattato di un momento verità. Da quando è rientrato nello Studio Ovale, Trump si è fatto dettare le scelte dall’alleato israeliano, senza intervenire per fermare la strage di civili palestinesi. L’Amministrazione americana fa fatica persino a tutelare i partner arabi e i propri interessi vitali nella regione. Raccontano che il recente viaggio nel Qatar del Segretario di Stato, Marco Rubio, sia stato uno dei più imbarazzanti nella storia recente della diplomazia Usa. Altro che nuovo Kissinger. Rubio ha provato a calmare la furia dell’emiro Al Thani, che da mesi si spende nella mediazione tra Hamas e Israele. Il Segretario di Stato ha offerto ai qatarini l’accelerazione dell’accordo sulla sicurezza. Poi, ha dichiarato alla stampa: “Restano pochi giorni per arrivare a una tregua su Gaza”. Come no? Intanto i carri armati di Netanyahu stanno piallando la Striscia e la credibilità politica del governo americano. Joe Biden, vituperato dalla destra americana e non solo, dopo l’infame pogrom di Hamas del 7 ottobre aveva consigliato a “Bibi”: “Non commettete gli errori che abbiamo fatto dopo l’11 settembre (invasione di Afghanistan e Iraq ndr)”. Ma il premier israeliano è andato oltre l’immaginabile, fino a essere colpito da un mandato di cattura dalla Corte internazionale dell’Aia. L’Assemblea generale avrebbe potuto rappresentare una buona opportunità per ragionare tutti insieme sulla questione palestinese. Ma Trump che fa? Nega il visto di ingresso negli Usa ad Abu Mazen, il presidente dell’Autorità palestinese, l’ultimo brandello istituzionale alternativo ad Hamas. Non solo. Gli Stati Uniti votano contro anche la proposta di far intervenire Abu Mazen in videoconferenza. Come dire: non c’è dialogo, il leader palestinese non deve parlare. Una posizione al limite dalla paranoia, bocciata dalla stragrande maggioranza dell’Assemblea (145 voti contro 5, più 6 astenuti). Abu Mazen farà il suo discorso, a questo punto di pura testimonianza, con video pre registrato. L’atteggiamento di Trump ha mandato in corto circuito il fronte europeo. Una parte si ritrova con la Francia che, insieme con l’Arabia Saudita, ha promosso una conferenza parallela all’Assemblea per formalizzare il riconoscimento dello Stato palestinese. Sul versante opposto ci sono Germania e Italia. Il governo Meloni sta cercando di pattinare su un ghiaccio sottilissimo: condanna l’attacco israeliano a Gaza, ma non vuole rompere del tutto con la linea trumpiana. È un equilibrio sempre più difficile da mantenere, sia sul piano esterno che su quello interno, con un Salvini in libera uscita pro Netanyahu e con le opposizioni sempre più incalzanti. Si avvicina il momento di una scelta di campo più precisa. Sarebbe illusorio attendersi da New York anche qualche segnale di speranza sulla guerra in Ucraina. E qui ci sono pochi dubbi su chi sia il responsabile numero uno: Putin. In tanti, anche in Italia, chiedono all’Europa di assumere un’iniziativa diplomatica. Il richiamo arriva in particolare dalla leader del Pd, Elly Schlein, dal capo dei Cinque Stelle, Giuseppe Conte e, su un’altra corsia, dal leghista Salvini. Sono sollecitazioni giuste, ma, a questo punto, andrebbe anche suggerito che cosa fare, nel concreto, per smuovere Putin. Vale la pena ricordare che solo negli ultimi mesi ci sono stati almeno sette tentativi di mediazione. Sette. Il più spettacolare è stato condotto da Trump con il vertice in Alaska. Si è mosso anche Macron, con una telefonata di due ore, il primo luglio scorso. Ci hanno provato e, a quanto risulta stanno continuando a farlo, i sauditi, gli svizzeri, il leader turco Recep Tayyip Erdogan, il Vaticano. Infine anche il governo Meloni ha offerto Roma per ospitare il vertice Putin-Zelensky-Trump. Un’eventualità subito accettata da Kiev e subito respinta da Mosca. Il “no” russo condizionerà e, probabilmente, vanificherà la fitta trama di incontri a margine dell’Assemblea, a cominciare da quello tra Trump e Zelensky. Il Papa: “Tanti i Paesi che hanno fame e sete di giustizia” di Agnese Palmucci Avvenire, 21 settembre 2025 Quando si esercita la giustizia “ci si pone al servizio delle persone, del popolo e dello Stato, in una dedizione piena e costante”. Stamattina, davanti a decine di migliaia di pellegrini, tra cui avvocati, magistrati, giuristi e notai, riuniti in piazza San Pietro per l’udienza del Giubileo degli operatori di giustizia, papa Leone XIV ha esortato ad impegnarsi nel proprio lavoro sforzandosi di “interpretare la legge nella misura più umana possibile”, e ponendo “al centro il valore di ogni essere umano”. La giustizia, ha ricordato con fermezza a tutti i presenti, provenienti da oltre 100 Paesi del mondo, è una “funzione indispensabile sia per l’ordinato sviluppo della società, sia come virtù cardinale che ispira e orienta la coscienza di ogni uomo e donna” e “non può essere ridotta alla nuda applicazione della legge”. In piazza oggi c’erano anche molte personalità istituzionali tra cui il ministro della Giustizia della Repubblica italiana, Carlo Nordio, e il giudice della Corte suprema degli Stati Uniti, Samuel Anthony Alito. “Senza la giustizia non si può amministrare lo Stato - ha ribadito il Papa citando sant’Agostino -. Lo Stato, in cui non si ha la giustizia, non è uno Stato”. Parlando ai giuristi e alle tante autorità internazionali che operano nel campo della giustizia, il pensiero di Leone è andato ancora una volta “alle realtà di tanti Paesi e popoli che hanno “fame e sete di giustizia”“, perché, ha detto, “le loro condizioni di vita sono talmente inique e disumane da risultare inaccettabili”. L’appello del Papa è stato a recuperare “i valori dimenticati nella convivenza”, un processo “utile e doveroso, di fronte all’affermarsi di comportamenti e strategie che mostrano disprezzo per la vita umana sin dal suo primo manifestarsi, che negano diritti basilari per l’esistenza personale”. In più, non è possibile pensare a una società “giusta”, ha aggiunto il Vescovo di Roma, finché non è reso a ciascuno “quanto gli è dovuto”, finché non venga raggiunta “l’uguaglianza nella dignità e nelle opportunità fra gli esseri umani”. E proprio sul tema dell’”uguaglianza” papa Leone si è soffermato in modo particolare, “consapevoli che l’effettiva uguaglianza non è quella formale di fronte alla legge”. La vera equità, al contrario, ha sottolineato, “è la possibilità data a tutti di realizzare le proprie aspirazioni e di vedere i diritti inerenti alla propria dignità garantiti da un sistema di valori comuni e condivisi, capaci di ispirare norme e leggi su cui fondare il funzionamento delle istituzioni”. Tra le tante associazioni di categoria presenti all’udienza giubilare anche l’Associazione nazionale magistrati (Anm), da cui Leone XIV ha ricevuto in dono un foulard, prodotto dai detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, in un progetto solidale. “La giustizia evangelica, - ha continuato Prevost toccando l’importanza dei percorsi di “riconciliazione” tra vittime e colpevoli -, non distoglie da quella umana, ma la interroga e ridisegna: la provoca ad andare sempre oltre, perché la spinge verso la ricerca della riconciliazione”. Il male, infatti, “non va soltanto sanzionato, ma riparato, e a tale scopo è necessario uno sguardo profondo verso il bene delle persone e il bene comune”. “Non c’è giustizia se condizioni vita sono disumane” di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2025 Papa Leone, durante l’udienza giubilare in piazza San Pietro dedicata agli operatori di giustizia, ha sottolineato che “il Giubileo invita a riflettere anche su un aspetto della giustizia che spesso non è sufficientemente focalizzato: ossia sulla realtà di tanti Paesi e popoli che hanno ‘fame e sete di giustizia’, perché le loro condizioni di vita sono talmente inique e disumane da risultare inaccettabili”. Il Pontefice ha citato Sant’Agostino: “È impossibile che si abbia il diritto in uno Stato in cui non si ha vera giustizia”. E ha sottolineato che all’attuale panorama internazionale andrebbero applicate “queste sentenze perennemente valide”. Nella delegazione in piazza San Pietro per il Giubileo degli operatori di giustizia presenti il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. Il male “non va soltanto sanzionato, ma riparato, e a tale scopo è necessario uno sguardo profondo verso il bene delle persone e il bene comune. Compito arduo, ma non impossibile per chi, cosciente di svolgere un servizio più esigente di altri, si impegna a tenere una condotta di vita irreprensibile”, ha detto Papa Leone XIV. Prevost ha citato Sant’Agostino: “Come scriveva Sant’Agostino: ‘La giustizia non è tale se non è nello stesso tempo prudente, forte e temperante’. Ciò richiede la capacità di pensare sempre alla luce della verità e della sapienza, di interpretare la legge andando in profondità, oltre la dimensione puramente formale, per cogliere il senso intimo della verità di cui siamo al servizio. Tendere verso la giustizia, quindi, richiede di poterla amare come una realtà a cui si può giungere solo se si coniugano l’attenzione costante, il radicale disinteresse e un assiduo discernimento. Quando si esercita la giustizia, infatti, ci si pone al servizio delle persone, del popolo e dello Stato, in una dedizione piena e costante. La grandezza della giustizia non diminuisce quando la si esercita nelle cose piccole, ma emerge sempre quando è applicata con fedeltà al diritto e al rispetto per la persona in qualunque parte del mondo si trovi”. “Oggi, a sollecitare gli operatori di giustizia - ha ricordato il Pontefice - è proprio la ricerca o il recupero dei valori dimenticati nella convivenza, la loro cura e il loro rispetto. Si tratta di un processo utile e doveroso, di fronte all’affermarsi di comportamenti e strategie che mostrano disprezzo per la vita umana sin dal suo primo manifestarsi, che negano diritti basilari per l’esistenza personale e non rispettano la coscienza da cui scaturiscono le libertà”. E ha sottolineato che “proprio attraverso i valori posti alla base del vivere sociale, la giustizia assume il suo ruolo centrale per la convivenza delle persone e delle comunità umane”. La guerra delle parole e i veri confini da difendere di Marco Impagliazzo Avvenire, 21 settembre 2025 Lo sdoganamento della mentalità bellica è iniziato col linguaggio ostile verso presunti nemici sociali e si è trasferito sul campo. Dobbiamo tornare alla cultura umanista che abbiamo dimenticato. Le parole possono essere pietre - ammoniva Carlo Levi - e le pietre possono colpire gli uomini e le donne per le loro parole. Ciò che è accaduto negli Stati Uniti con la tragica fine di Charlie Kirk è inaccettabile ed è un campanello d’allarme che riguarda le società contemporanee. Dalle parole d’odio alle pietre. Inoltre, si fa strada il rischio di strumentalizzazione nel dibattito tra forze politiche: “Gli odiatori siete voi!”, “No, siete voi!”. In realtà il linguaggio d’odio è stato utilizzato da parti differenti: oggi emerge chiaramente come l’indulgere in parole di disprezzo, razzismo e demonizzazione dell’altro, finisce in fatti di inciviltà, se non di sangue, che possono minare la qualità del dibattito pubblico e lo stesso equilibrio democratico. La questione è vasta: la società va dividendosi in “curve” di tifosi, “tribù” d’appartenenza a causa della polarizzazione, dello spaesamento e del clima bellicista diffuso in tutto l’Occidente. Si è sempre più preda di pulsioni semplificatorie e generalizzanti, che alimentano circuiti di intolleranza, esclusione, pregiudizio. La fine dei pensieri lunghi, profondi, meditati, delle parole pensate, ha significato il prevalere di schemi polarizzati, veloci, irriducibili. La contrapposizione non teme di gettare benzina sul fuoco delle contraddizioni e dei risentimenti, incendiando le parole e le idee. Si dovrebbero “costruire ponti” e “non alimentare ulteriormente le polarizzazioni”, ricorda in una recente intervista papa Leone. La guerra delle parole inizia sempre all’interno di una società, per poi trasferirsi verso il nemico esterno. Le prime vittime sono in genere i poveri che vengono additati con epiteti terribili, ed esclusi. Poi si passa agli immigrati e alla fine al nemico. C’è un filo rosso tra il pregiudizio, l’esclusione, l’odio e infine la guerra. Oggi poi, a differenza del passato, l’uomo digitale è più solo e spaesato dei suoi predecessori: la sua identità è incerta, ha bisogno di essere puntellata. L’hate speech dei social fornisce certezze semplici e rassicuranti, creando nemici veri o presunti. Il meccanismo dei “followers”, dei “like”, dei “gruppi”, non fa altro che rinforzare giudizi e pregiudizi. Il mondo si riduce a una lotta tra tribù virtuali, ma molto reali nelle emozioni negative. Il confronto delle opinioni, così decisivo nel gioco democratico e per la crescita della società civile e la maturazione delle personalità, si inaridisce alla radice. Le piattaforme “premiano l’indignazione e l’aggressività, nascondono il contesto e favoriscono il conflitto invece che la sua soluzione”, ha scritto su The Atlantic Charlie Warzel. I social mettono una bandiera artefatta in mano a monadi potenziali, scarsamente relazionate con altri, raramente legate a reti associative, facilmente influenzabili dall’ondeggiare dal flusso incontrollato delle notizie. Oggi c’è qualcosa in più rispetto a ieri. Non va infatti sottovalutato il clima creato da conflitti sempre più duri e lunghi della “guerra mondiale a pezzi”. La guerra è stata sdoganata a livello politico e mediatico, dai nostri leader e opinionisti, e la sua mentalità sta rompendo ogni argine. Se è lecito combattere il nemico, se è giusto fornire armi e comminare sanzioni, tutti si sentono legittimati a usare le armi per eliminare chi minaccia le proprie ragioni, la propria identità o propri confini. Ecco la bandiera per la quale si può morire o uccidere. Forse è davvero venuta l’ora di “difendere i confini” in un senso diverso rispetto a quello a cui siamo abituati, quindi non quelli etnici o politici: piuttosto lo spazio della cultura umanista antica di duemila anni perché non venga esiliata dai luoghi comuni e dalle pulsioni emotive. Occorre identificare come dannosa e isolare la zizzania della contrapposizione e del disprezzo che è stata lasciata crescere. Messaggi di odio, di disprezzo, di irrimediabile alterità tirano fuori il peggio da ogni società facendola cadere nella trappola della polarizzazione identitaria. Le parole sono potenti e anticipano le armi. Quanto accade deve diventare di monito per tutti: l’invito ad un esercizio di maggiore responsabilità. Il benessere, la dignità, il riscatto di ognuno di noi sono strettamente legati a quelli di coloro che ci vivono accanto, chiunque essi siano. Stiamo creando un mondo di trincee, barriere, fili spinati di Mauro Armanino* Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2025 Non basteranno i sistemi di sorveglianza più sofisticati, le aree video- controllate, le geolocalizzazioni o i controlli facciali. La vita è e rimane fragile per tutti ed è solo una questione di tempo. Una manciata d’anni o poco più. La metafora della sabbia o della polvere non sono mai fuori luogo e probabilmente più ancora laddove si cercano certezze e si finge l’impressione di perennità. Basta poco per destabilizzare piani, progetti e linearità. In questa fragilità che gli anni, le malattie, gli avvenimenti inaspettati ci impongono come ineludibile, appare qualcosa di grande che, in genere, rimane nascosto quando tutto sembra andare bene. Com’è noto le parole rivelano molto del nostro sentire attuale perché offrono (e nascondono allo stesso tempo) ciò che in realtà mettiamo prima di tutto, oppure abbiamo smarrito. Una di queste parole è la ‘sicurezza’ che, ormai da anni, si propone e impone come chiave di lettura di ogni politica che si rispetti. Nulla di nuovo sotto il sole. Qualcuno disse in una parabola che il proprietario, sazio degli affari, voleva ingrandire i suoi granai e poi godersi finalmente la vita. ‘Stolto’ dice il racconto, ‘questa notte stessa ti verrà chiesta la vita. Quello che hai accumulato a chi gioverà’. Così termina chi accumula per sè e non per la vita. Anziani, ammalati e chi si attornia di solitudine nelle case per anziani. Gente col bastone, spingendo una carozzella o condotta sottobraccio, spesso, da una straniera che talvolta trascura la sua propria famiglia per assistere gli infermi altrove. In tutto ciò si nasconde una grande verità e una silente ferita. La verità perché è proprio nei momenti di debolezza e fragilità che si smaschera ciò che si nasconde quando tutto sembra filare liscio e le forze illudono, come fanno i monumenti, di eternità. Mentre la ferita è quanto permette all’umano nascosto di emergere. Le ferite lo sappiamo, sono in realtà delle ‘feritoie’ attraverso le quali si infiltra l’umano che era stato confiscato, appunto, dall’apparente ‘sicurezza’ del momento. Le ferite, nelle nostre società, sono innumerevoli e in gran parte censurate da un sistema per il quale ogni debolezza, in quanto sintomo di mortalità, sarà da cancellare come una intrusa. Il tradimento ricorrente dei politici (o dei militari) al potere. L’economia studiata per escludere i deboli. Una scuola creata per perpetuare il sistema e un servizio sanitario ad eliminazione dei non abbienti. Tutto ciò e altro congiura per rendere la debolezza, la povertà e ogni tipo di indigenza, come vergognoso e di cui parlare il meno possibile. Perché, in fondo, non rimane che un’unica domanda che attraversa la fragilità e le ferite che ad essa vengono ricondotte. La domanda che si pone come orizzonte di ogni cultura, filosofia, religione o progetto politico. Si potrebbe formulare come un futuro nascosto nel presente o un presente che già contiene e genera il futuro. Che tipo di mondo stiamo creando quando crescono le esclusioni, le eliminazioni e le distruzioni in diretta sugli schermi televisivi come macabro spettacolo quotidiano di impotenza dinnanzi al male. Un mondo di trincee, barriere, fili spinati, ponti inagibili o chiusi si proposito per perpetuare un sistema di potere che, lo sappiamo per esperienza, è foriero di morte e desolazione. Un mondo dove gli invisibili dovrebbero rimanere tali e dove le grida e la mobilità di chi non vuole scomparire senza lasciare traccia viene equiparato al terrorismo. Un mondo dove sono dichiarati beati coloro che calpestano i diritti e la dignità dei poveri. Che tipo di mondo abbiamo ereditato e che tipo di mondo lasceremo alle generazioni che verranno. È sola domanda che valga la pena essere tradotta in tante lingue e poi affidata proprio a loro, i fragili e coloro giudicati non degni di prendere la parola. Solo dal silenzio, ascoltato, delle loro ferite aperte potrà rinascere un mondo nuovo. *Missionario, dottore in antropologia culturale ed etnologia