Superare i vecchi concetti di detenzione di Filippo Messana giustiziainsieme.it, 20 settembre 2025 “Suicidi in carcere, un pesante fardello”. Così ha esordito il Ministro della giustizia, Carlo Nordio in Parlamento, rispondendo al question- time sempre alla stessa domanda, posta male per la verità, dato che nessuno degli interroganti ha incalzato il Ministro sulle questioni che stanno a monte dei suicidi e che ne costituiscono l’inesorabile matrice. L’indirizzo politico espresso dal Governo (sicurezza collettiva e certezza della pena) ha in realtà prodotto una proliferazione di figure di reato anche per fatti “bagatellari” (di scarsa rilevanza criminale) con costanti violazioni del principio di proporzionalità (tra condotta illecita e sanzione) costantemente richiamato dalla Corte Costituzionale e sul quale è tornato “a bomba” l’Ufficio del Massimario della Cass. nella sua recente relazione n. 33/2025, esprimendo un parere critico sul cd. “Decreto Sicurezza” e censurando anche l’emanazione di dette norme penali, in assenza dei presupposti di “necessità e urgenza” previsti dalla Costituzione come specifici presupposti necessari dell’emanazione di norme per decreto. Effetto precipuo di detto indirizzo politico è stato la ciclica presentazione di decisioni legislative ricadenti sul “sistema penale” in entrambe le sue componenti: sostanziale- comprensivo della fase esecutiva della pena- e processuale, con vari effetti infausti: 1- aumento delle figure di reato punite con la detenzione (il c.d. decreto “Rave”, i reati previsti dalle norme “anti immigrazione”, gli aggravamenti di pena previsti dal decreto cd. “Caivano”), 2- perdurante assenza di opportuna ponderazione tra il danno effettivamente minacciato dall’autore della singola condotta del caso di specie e quello previsto dalla norma astratta: ponderazione sulla base di dati statistici fondati sul campo, in quanto rivelatori di una effettiva reiterabilità di quel reato che dovrebbe essere alla base, per altro, proprio di un sistema penale cd. “law and order”). In questa temperie, i detenuti rimangono spettri in cosante attesa di una risposta ad una domanda rivolta al Direttore dell’Istituto, al Magistrato di Sorveglianza, al Giudice dell’esecuzione o in attesa della conclusione di un procedimento avanti il Tribunale di sorveglianza (competente a decidere sull’applicazione di una misura alternativa alla pena detentiva). E resta sempre al fondo la domanda perché continuano a uccidersi o si autoledono dentro un sistema penitenziario destinato, invece, a garantirne il reinserimento sociale, come prevede espressamente l’ordinamento penitenziario (artt. 1. 13), preludio del fine rieducativo della pena sancito dall’art. 27 c.3 Costituzione. Eppure dal 1931 al 2002 lo Stato ha mantenuto un costante impegno a garantire dette finalità, nonostante le emergenze del terrorismo degli “anni di piombo” 70/ 80 e delle stragi degli anni 90, e ciò fino agli anni 2000 (vedi decreto del presidente della repubblica del 30 giugno 2000, n. 230 con cui è stato emanato il regolamento d’esecuzione dell’Ordinamento penitenziario regolato, con legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modifiche, tra cui la fondamentale L. n. 663/1986 (cd. legge Gozzini con cui sono state rimodulate le misure alternative alla pena detentiva. Può dirsi che si profila una costante scelta del legislatore di mantenere la pena detentiva in carcere come extrema ratio, cui ricorrere, in caso di fallimento di forme alternative di esecuzione della pena inflitta dal giudice con la condanna conseguente al riconoscimento del reato e del suo autore. Nella camera oscura della prognosi che compete al Magistrato di Sorveglianza o al Giudice della esecuzione, però, va considerato che l’osservazione della personalità del condannato dovrà avvenire sulla base della costante analisi dei dati raccolti dagli operatori del gruppo di osservazione (interno all’istituto) durante tutto il corso dell’esecuzione della pena (psicologi, psichiatri o altri medici specialisti come neurologi), al fine di ottenere un’ osservazione fondata della personalità del paziente, attraverso i dati raccolti. E Infine il decidente (Magistrato o Tribunale di Sorveglianza) dovrà esprimere una prognosi motivata sul possibile - o meno - mutamento della personalità del detenuto. Specializzazione, motivazione e competenza costituiscono, perciò, gli elementi che devono concorrere nel fondare una prognosi positiva: essenziale per ottenere un qualunque beneficio che passo dopo passo valga a costruire un reinserimento sociale effettivo ed efficace di ogni individuo recluso in espiazione di pena. Rimane essenziale, perciò, che il detenuto avverta il senso e il fine dell’attività di analisi che viene compiuta su di lui, come è di rilevanza vitale che gli operatori contribuiscano a stabilire una qualche connessione con il mondo esterno (con il mercato del lavoro o comunque con il settore di attività per la quale il paziente ha mostrato interesse o dimostrato una qualche esperienza già maturata). L’attesa, il silenzio, l’indifferenza o peggio eventuali violenze subite all’interno dell’istituto costituiscono le peggiori incrinature della descritta attività di osservazione e del processo di reinserimento in atto. E proprio l’assottigliarsi della speranza e la mancanza di certezze all’esterno del carcere, sono all’origine della perdita di identità e anche del significato della pena che si sta scontando, non soltanto la mancanza di uno spazio vitale sufficiente e che ne costituisce un’aggravante indiscutibile. In Commissione Giustizia della Camera la Ministra della Giustizia Cartabia ha affermato: “ Penso sia opportuna una seria riflessione sul sistema sanzionatorio che ci orienti verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato. La certezza della pena non è la certezza del carcere” [il Dubbio 16/3/2021]. Non sembra di poter affermare che l’alluvionale produzione di nuove figure di reato punite con pena detentiva costituiscano -oggi- espressione dell’indirizzo politico dell’attuale governo e ci si chiede come alleggerire il “fardello” che reca sulle spalle la comunità tutta. Ora che la “questione detenuti” è diventata di rilievo nazionale, c’è da sperare che la domanda per un posto di Magistrato di Sorveglianza non sia considerato più da fior di colleghi della Magistratura della cognizione come equivalente a “spezzarsi la carriera” perché un “ufficio di sine cure”. Irma Conti (Garante detenuti): “Insistere sulle misure alternative” tgcom24.mediaset.it, 20 settembre 2025 Non sono un “liberi tutti”, ma un percorso alternativo fuori dal carcere per finire di scontare la pena. “Al momento abbiamo 63.216 persone negli istituti penitenziari, dove c’è una situazione di emergenza che ha radici negli anni. Dal 30 maggio a oggi ne sono entrate 500. Il sovraffollamento è uno dei problemi da risolvere con le misure alternative, misure che vengono concesse alla fine di un percorso, cioè quando la pena ha un residuo inferiore ai quattro, tre o due anni. È qui che bisogna incidere per poter risolvere il problema. “Il nostro ordinamento ha un solco ben deciso, quello del trattamento, della rieducazione, perché con un reato c’è uno strappo sociale tra individuo e società, che deve essere ricomposto. E ciò avviene tramite l’esecuzione della pena”, ha ricordato Conti. A Tgcom24, Conti è intervenuta anche sulla piaga del femminicidio. Cosa si può fare per combattere i crimini contro le donne? “Servono denunce da parte delle donne. Del resto, il circuito della violenza si interrompe solo con la denuncia, dai reati meno gravi a quelli più gravi. La denuncia innesca misure per interrompere tale circuito. Sono 75 i femminicidi da inizio anno: il nostro obiettivo deve essere zero femminicidi”, ha sottolineato la Garante dei detenuti. Le nostre prigioni, storie di pena e speranza di Gianluca Liut* L’Unità, 20 settembre 2025 Un teatro necessario, un atto civile, un incontro di voci e coscienze. “Le nostre prigioni. Storie di pena e speranza” è il recital che porta in scena, con pudore e lucidità, la vita invisibile che pulsa oltre le sbarre. Un viaggio nelle ombre e nelle luci del nostro Paese dietro le sbarre, dove la pena diventa racconto, la sofferenza si fa memoria, la speranza prende la forma concreta di sguardi, gesti, lacrime, parole. Protagonisti in scena Emanuele Montagna, Asia Galeotti e Martina Valentini Marinaz di CFA Colli Formazione Attori di Bologna, su testo di Dino Petralia, già a capo del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria. Cinque storie, tre interpreti e un autore per un affresco corale che attraversa l’umanità del carcere senza indulgere al sensazionalismo, cercando la verità minuta e quotidiana delle esistenze. In questa misura giusta il teatro civile compie la sua funzione di giustizia. Non assolvere, non convincere, ma mettere in condizione di vedere meglio. E, vedendo meglio, di comprendere. Il debutto è doppio e simbolico: anteprima nazionale a Padova, il 25 settembre, al Teatro Ai Colli; prima nazionale a Bologna, il 2 ottobre, al Teatro Dehon. Due città, due comunità, un solo filo che unisce la responsabilità di guardare dove di solito si distoglie lo sguardo. Il recital offre al pubblico una serata di teatro, che è anche un tempo condiviso di ascolto. Il tempo che manca a chi è chiuso, il tempo che manca a chi resta fuori. La scrittura di Dino Petralia è netta e compassionevole insieme. Asciutta nella lingua, attenta ai fatti, capace di restituire la densità morale delle storie. Il testo intreccia frammenti di vite - di donne e di uomini, di genitori e di figli, di operatori e volontari - componendo un mosaico dove ogni tessera trova il proprio posto grazie a una drammaturgia che alterna persone e comunità, confessione e coralità, cronaca e poesia, italiano e dialetti. Il friulano, il romagnolo, il napoletano, il barese e il siciliano, nei dialoghi, esprimono la dimensione nazionale delle storie di pena e di speranza. In scena, le tre voci si fanno strumento di un’unica coscienza in ascolto. Emanuele Montagna costruisce la spina dorsale narrativa, guidando lo spettatore dentro i nodi della pena, della colpa, della riparazione possibile, ma anche della rassegnazione e della rinuncia alla vita. Asia Galeotti e Martina Valentini Marinaz danno corpo alle fratture, componenti che si spezzano e si ricompongono, restituendo la fragilità e la forza di chi abita il limite. Un intreccio che evoca con sensibilità, senza mai arretrare dal rigore della parola. “Le nostre prigioni” è parola e silenzio. Perché è nel silenzio che spesso il carcere parla più forte. Nelle attese, nelle visite, nei corridoi, nelle notti. Il teatro, qui, non imita. Traduce, trasfigura e restituisce. E il pubblico diventa parte di un patto. Quello di non dimenticare. “Le nostre prigioni” è pensato per la cittadinanza tutta, per chi vive il carcere da dentro e per chi lo incrocia soltanto nei talk show e nei giornali. È un invito ad attraversare l’idea stessa di pena, a misurarla con la dignità, a chiederci quale comunità vogliamo essere. Padova e Bologna diventano luoghi di un rito laico. Il teatro come laboratorio di umanità. L’anteprima al Teatro ai Colli, il 25 settembre, è la prima occasione per conoscere queste cinque storie di pena e di speranza, come cura dello spazio pubblico dell’ascolto. La prima nazionale al Teatro Dehon, il 2 ottobre, consegna lo spettacolo alla sua piena maturità, aprendo la strada a un percorso di repliche e dialoghi con i territori. “Le nostre prigioni” non è uno spettacolo “sul” carcere. È un’opera “con” il carcere, con chi lo vive e lo attraversa, con chi ci lavora, con chi attende fuori. Una pratica di prossimità che il teatro rende possibile, creando una distanza giusta per vedere meglio e, allo stesso tempo, un’intimità che permette di riconoscersi. Perché le nostre prigioni, davvero, sono nostre. Parlano di noi, della misura con cui sappiamo coniugare giustizia e umanità. Una lungimirante produzione dell’Ordine degli Avvocati e della Camera Penale di Padova, con il patrocino di Nessuno Tocchi Caino Spes contra Spem. Segnatevi le date: 25 settembre, Padova, Teatro ai Colli; 2 ottobre, Bologna, Teatro Dehon. “Le nostre prigioni. Storie di pena e speranza” vi attende. Dove l’arte incontra la responsabilità, per trasformare l’ascolto in consapevolezza, la consapevolezza in scelta, la scelta in cura. *Avvocato, Consiglio Direttivo Nessuno tocchi Caino La Notte dei Poli Penitenziari Universitari torna con un focus sulle “Transizioni” garantedetenutilazio.it, 20 settembre 2025 L’evento si svolgerà la mattina del 25 settembre: diciotto le Università coinvolte in tutta Italia, ventuno gli Istituti penitenziari. Il presidente del Cnupp, Giancarlo Monina. Anche quest’anno l’European Researchers’ Night coinvolgerà cittadine e cittadini reclusi nelle tante carceri italiane dove sono presenti le università aderenti alla Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli Penitenziari (Cnupp). La Notte nei Poli universitari penitenziari giunge alla sua quinta edizione. Diciotto le Università coinvolte, ventuno gli Istituti penitenziari: un evento corale attraverso tutta l’Italia che coinvolge ricercatrici e ricercatori, studentesse e studenti, persone recluse, dirigenti e personale dell’amministrazione penitenziaria, garanti dei detenuti. A differenza del passato, in cui il Cnupp si è concentrato maggiormente sulle ricerche a tema penitenziario, l’obiettivo di quest’anno è quello di offrire un momento di condivisione su una tematica più generale e trasversale: le “Transizioni”. Una parola-chiave in grado di essere declinata in relazione alle singole ricerche locali e, insieme, di raccontare i nostri tempi: dall’intelligenza artificiale alle tematiche ambientali, dalla forza trasformativa del teatro, dell’arte, della creatività e dell’educazione fino all’impatto travolgente delle ricerche sociali, psicologiche e pedagogiche. L’evento si svolgerà la mattina del 25 settembre e si aprirà con i saluti del presidente della CNUPP, prof. Giancarlo Monina e della direttrice generale del personale e direttrice reggente della formazione del DAP, dott.ssa Rita Monica Russo in collegamento con tutti gli istituti penitenziari coinvolti. Poi, a seguire, ogni Ateneo svolgerà la propria iniziativa locale. “Ogni anno - si legge nel comunicato del Cnupp - percepiamo un interesse e un entusiasmo crescenti, che arrivano soprattutto dalle persone detenute, le quali si sentono coinvolte in un progetto più grande e ci spronano a continuare in questa direzione. Cogliamo l’occasione per ringraziare il DAP che fin da subito ha colto il nostro invito a sostenere l’iniziativa, e gli istituti penitenziari che si stanno prodigando per la buona riuscita dell’evento. Un ringraziamento va, infine, ai tanti progetti europei che ci “ospitano” nel loro palinsesto, nella consapevolezza che la divulgazione della conoscenza possa superare anche le mura spesse delle carceri”. Lasciare alle toghe lo stigma di “casta”: ecco l’arma per il Sì di Valentina Stella Il Dubbio, 20 settembre 2025 Referendum sulle carriere separate, il governo studia il “messaggio” per gli elettori e la super-mobilitazione. Tre elementi portano a pensare che la partita sulla separazione delle carriere sta mutando profondamente nelle regole del gioco. Primo: la rissa quasi sfiorata tra parlamentari due giorni fa alla Camera dei deputati nel momento in cui è arrivato il terzo via libera alla riforma costituzionale. Secondo: una discesa in campo di più ministri - vedasi Nello Musumeci e Paolo Zangrillo - nel criticare la magistratura. Terzo: un aumento delle dichiarazioni della presidente del Consiglio Giorgia Meloni contro i “giudici politicizzati” e a favore di una “riforma storica attesa da anni”. Tutto questo pare essere il segnale inequivocabile che l’attenzione stia salendo in maniera esponenziale, con una mobilitazione talvolta scomposta. E mancano ancora almeno sei mesi al referendum. L’auspicio dei due fronti che si contenderanno la vittoria è sempre stato pubblicamente quello di portare avanti una campagna politica e comunicativa basata esclusivamente sui contenuti della modifica all’ordinamento giudiziario. Dopo la consultazione confermativa, ciascuno vorrebbe poter dire di aver convinto gli italiani esclusivamente in merito a una questione rilevante per la parità processuale. Tuttavia, adesso sembra essere chiaro a tutti che così non potrà avvenire. Le regole di ingaggio saranno meno stringenti. In palio non c’è solo un “Sì” o un “No” alla separazione delle carriere ma anche il futuro elettorale dell’attuale compagine governativa e la reputazione della magistratura. Una sconfitta per la premier significherebbe arrivare azzoppata al voto per il rinnovo del Parlamento. Una sconfitta delle toghe equivarrebbe a un loro profondo ridimensionamento, secondo molti. Al momento, il risultato finale sul referendum non appare scontato, benché i favorevoli alla riforma partano in vantaggio. Per questo all’interno della maggioranza, in virtù anche di sondaggi non sempre decifrabili, sta crescendo una certa preoccupazione: “La vittoria non è scontata, non dimentichiamo come è andata a finire con Renzi”, mugugna qualche parlamentare. E non sarebbe una frase pronunciata per semplice scaramanzia. Dunque è arrivato il momento di una mobilitazione generale e capillare. Proprio ieri il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani ha annunciato che a fine settembre, alla festa di Forza Italia a Telese Terme (Benevento), “annunceremo formalmente la nascita dei comitati per il ‘Sì’ in vista del referendum”. L’obiettivo è martellare il più presto possibile i cittadini per portarli non solo a votare ma a votare a favore delle carriere separate. Ma prima va creata, tra gli elettori, una certa consapevolezza. E se per chi mastica questioni di giustizia appare scontata la rilevanza del contenuto della riforma, per la maggior parte degli italiani non è così. Per questo, allora, una autorevole fonte parlamentare di maggioranza non estranea al dossier giustizia ci spiega che all’interno dell’Esecutivo e dei partiti di centrodestra si rafforza l’idea di emendare ai buoni propositi, espressi in primis dallo stesso guardasigilli Carlo Nordio, che ha più volte ribadito come il voto non dovrà trasformarsi in un indice di gradimento delle toghe. Agli elettori non a digiuno della materia si dovrà sicuramente ribadire che la riforma è necessaria per garantire l’equidistanza delle parti processuali rispetto al giudice e che “l’arbitro non può avere la stessa maglietta di una delle due squadre in campo”. Inoltre bisognerà fare una sorta di fact checking puntuale rispetto agli argomenti usati dal fronte opposto. Su questo, ad esempio, ieri è intervenuto a “Radio anch’io” il presidente del Cnf Francesco Greco: “Il rischio sollevato dall’Anm è particolarmente preoccupante perché proviene dagli stessi magistrati: temono che il loro stesso corpo inquirente possa trasformarsi in una sorta di ‘ super poliziotto’, con poteri eccessivi e potenzialmente fuori controllo. Un grande cortocircuito”. Ma nel prontuario elaborato dal governo non si rinuncerà a descrivere la magistratura come una “casta”, che difende “lo status quo, quello del correntismo e dello scandalo Palamara mai superato”. L’obiettivo è ribaltare la narrazione degli ultimi trent’anni, liberare dallo stigma della “casta” la politica e associarlo piuttosto alla “magistratura lottizzata”. Lo scenario peggiore per l’Anm, ma che servirà ai promotori della riforma per scongiurare il rischio che una fetta dell’elettorato di destra- centro diserti le urne perché comunque solidale alla funzione originaria della magistratura, soprattutto di quella antimafia. Non a caso Nicola Gratteri potrebbe essere, se già non lo è, il migliore sponsor contro il “Sì” alla modifica costituzionale. Per portare avanti questa battaglia anche a livello locale, il governo avrà bisogno della mobilitazione più ampia possibile, e degli stessi avvocati. Non solo dei penalisti, che con l’Ucpi già nel 2017 raccolsero le firme di oltre 72 mila italiani per la prima proposta di legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere, ma di tutti gli avvocati. Tra i quali però c’è, da un lato, chi è favorevole nel merito alla riforma ma potrebbe non esercitare il diritto di voto o mettere addirittura la croce sul “No” solo perché la riforma è promossa dalla destra e portata avanti in nome di Silvio Berlusconi. Non a caso ieri Walter Verini, in un’intervista alla Stampa, ha evocato chiaramente questo tipo di argomentazione, scagliandosi contro una riforma che porta il sigillo del fondatore di FI e “della P2 di Licio Gelli. Entrambi erano contro la separazione dei poteri e volevano sottomettere la magistratura all’esecutivo”. E poi c’è una parte dell’avvocatura, in particolare quella civilista, che non essendo immediatamente “coinvolta” dalla riforma potrebbe non avere tutto questo interesse a impegnarsi nella campagna in vista del referendum e, di conseguenza, nel giorno del voto. Insomma, le incognite sono tante, le strategie ancora arrangiate, ma sicuramente si preannuncia un dibattito alquanto velenoso da parte di tutti i soggetti coinvolti. Adesso Palazzo Chigi teme “l’effetto Renzi”. Il voto popolare sarà una battaglia di Paolo Delgado Il Dubbio, 20 settembre 2025 Erano tre le grandi riforme promesse dal governo ma due sole passibili di rovesciamento a opera del voto popolare. L’autonomia differenziata non necessita di referendum approvativo anche in assenza dei due terzi dei consensi in Parlamento essendo non riforma costituzionale ma applicazione di una riforma precedente: quella varata con risultati disastrosi nel 2001 dal centrosinistra che ancora non ha chiesto scusa e sarebbe necessario. Fra le altre due solo una, la separazione delle carriere dei magistrati che ha incassato ieri la terza approvazione sulle quattro necessarie, finirà nelle urne in questa legislatura. L’altra, il premierato, pur essendo la più importante di tutte, ‘ madre di tutte le riforme’, e dunque a lume di logica la prima da far arrivare in porto sarà sottoposta a referendum solo nella prossima legislatura. Non era questa l’intenzione di Giorgia Meloni all’inizio della legislatura. Ha cambiato cavallo in corsa. La logica di questa illogica inversione delle priorità sembra evidente. Il premierato è la sua riforma. Il referendum sarebbe diventato inevitabilmente un plebiscito sul suo nome. Se sconfitta si sarebbe ritrovata anatra zoppa in un battibaleno. La riforma della giustizia invece è farina del sacco azzurro. Il calcolo di Giorgia deve essere stato tra i più classici: “Se si vince, vinciamo tutti e io per prima. Se si perde, perde solo Forza Italia”. Se davvero è stato questo il ragionamento che ha convinto palazzo Chigi a puntare sulla separazione delle carriere invece che sul premierato, è stato anche tra i più miopi. Il referendum che prevedibilmente sarà celebrato nella prossima primavera dopo l’approvazione finale della riforma al Senato in ottobre, sarà sul governo persino più di quanto sarebbe successo col premierato. Le carriere dei magistrati sono argomento ostico per la stragrande maggioranza degli elettori che ne sanno poco e ne capiscono meno. Si pronunceranno a favore dell’uno o dell’altro in uno scontro che si presenta in prima battuta tra il centrodestra e le toghe, trascurando il merito della riforma. La magistratura non gode oggi della popolarità di un tempo ma non significa che non vanti ancora un notevole sostegno popolare. L’esito della sfida sarebbe comunque tutt’altro che scontato ma la posta in gioco è già diventata anche più alta. Il centrosinistra chiamerà al voto contro il governo e proprio per questo si compatterà alla base più ancora che al vertice. C’è e ci sarà chi, dopo aver insistito per anni e anzi per decenni sulla necessità di separare le carriere voterà contro la separazione per ‘ mandare a casa Meloni e i nuovi fascisti’. I leader della destra invocheranno un voto in difesa del governo e probabilmente ci sarà chi in altre circostanze si sarebbe schierato senza pensarci due volte per i togati, in nome della legge e dell’ordine, ma voterà contro di loro in nome del governo. Delle carriere sin qui non si è praticamente fatta parola e anche in futuro se ne sprecheranno ben poche. Le bandiere e gli argomenti, nella prolungata campagna referendaria che ci aspetta, saranno altri anche se inevitabilmente il ruolo della magistratura dovrà essere tirato in ballo. I nemici della riforma diranno con forza crescente quel che già urlano da mesi, e cioè che la riforma mina l’autonomia della magistratura. Non a caso nessuno spiega mai come e perché la separazione renderebbe il potere togato asservito a quello esecutivo, al governo. La spiegazione latita per il semplice motivo che in sé la separazione delle carriere non sfiora neppure l’autonomia della magistratura. È vero in compenso che, dato il carico simbolico di cui è stato rivestito il referendum, l’approvazione popolare della riforma toglierebbe alla magistratura molto potere senza però eliminarne l’autonomia. Il governo cercherà di spostare il terreno dello scontro dalle toghe all’immigrazione e alla sicurezza, i suoi cavalli di battaglia, accusando ‘ la magistratura politicizzata’ di ostacolare a freddo l’operato del governo in particolare nel contrasto all’immigrazione clandestina. Insomma, proverà a far passare il messaggio secondo cui la sconfitta della separazione implicherebbe spalancare le porte all’immigrazione illegale. Sono argomenti di forte presa sia gli uni che gli altri e motiveranno tutti e due i rispettivi elettorati. La sfida è incerta e la preoccupazione in via Arenula e a palazzo Chigi è già molto alta. La sconfitta non imporrebbe a Giorgia Meloni le dimissioni come fu per Renzi ma l’handicap in vista delle successive elezioni politiche sarebbe pesantissimo. Non è che Elly e Conte rischino di meno però: se battuti al referendum inizierebbero a dover temere per le prossime politiche non solo la sconfitta ma una scomposta rotta. Separazione delle carriere, perché il Quirinale non può fermare la riforma di Salvatore Curreri L’Unità, 20 settembre 2025 La legge 352 del 70 prevede che il testo di revisione approvato in seconda lettura sia trasmesso al governo, e non al Quirinale. Che non potrebbe esercitare il rinvio alle Camere. Al termine di una seduta fiume iniziata martedì scorso - ennesima forzatura procedurale, peraltro immotivata in assenza di ostruzionismo dell’opposizione - la Camera ieri ha approvato a maggioranza assoluta in seconda lettura il disegno di legge costituzionale in materia di ordinamento giurisdizionale, altrimenti detto sulla c.d. separazione delle carriere. Una definizione, invero, impropria giacché dopo la riforma Cartabia del 2022 le carriere di giudici e pubblici ministeri sono già di fatto separate, dato che si può passare dall’una all’altra magistratura solo una volta entro dieci anni dalla prima assegnazione e cambiando sede. La riforma, piuttosto, duplica l’attuale Consiglio superiore della magistratura, prevedendone l’istituzione di due distinti: quello della magistratura giudicante e quello della magistratura requirente e trasferendo il giudizio sulla responsabilità disciplinare di entrambi i magistrati alla neo-istituita Alta Corte disciplinare, composta da quindici giudici: tre nominati dal presidente della Repubblica, tre estratti a sorte da un elenco compilato dal Parlamento in seduta comune e nove magistrati (sei giudici e tre pm) sempre estratti a sorte. Poiché è certo che tale riforma sarà prossimamente approvata dal Senato sempre a maggioranza assoluta, è altrettanto certo che le opposizioni (ma forse anche la stessa maggioranza di governo) chiederanno su di essa il referendum costituzionale, che la nostra Costituzione non prevede solo nel caso in cui una revisione costituzionale sia approvata da una così ampia maggioranza parlamentare (i due terzi di ciascuna Camera) da lasciar ragionevolmente presumere che essa corrisponda alla volontà sovrana del popolo. Si sta però ponendo fin d’ora il problema se e quando il presidente della Repubblica possa rinviare alle Camere la riforma costituzionale, nel presupposto che essa violi il principio supremo dell’ordinamento costituzionale secondo cui tutte le cariche devono essere elettive anziché, come nel caso specifico, estratte a sorte. È opportuno, infatti, ricordare che il presidente della Repubblica può esercitare il potere di rinvio dei testi legislativi a lui sottoposti per la promulgazione non perché non li condivida politicamente ma nei soli casi di palese o manifesta incostituzionalità (così i presidenti Ciampi, Napolitano e Mattarella nei loro discorsi rispettivamente del 26 giugno 2003, 3 ottobre 2009 e, da ultimo, 15 novembre 2024). Ma può il presidente della Repubblica esercitare tale potere di rinvio - espressamente previsto in Costituzione sulle leggi ordinarie, anche per quelle di revisione costituzionale? Può sostenere di trovarsi di fronte ad una riforma costituzionale “incostituzionale”, talmente lesiva dei principi supremi della Costituzione da esporlo, in caso di promulgazione, al reato di attentato alla Costituzione per il quale potrebbe essere messo in stato di accusa dinanzi alla Corte costituzionale? L’interrogativo non è ozioso, anche perché - c’è da scommetterci - si riproporrà, presto o tardi, quando il presidente della Repubblica si troverà a dover giudicare della riforma costituzionale sul c.d. premierato oppure sul disegno di legge ordinario sulla c.d. autonomia differenziata. Restando sul tema delle leggi di revisione costituzionali, è evidente che in questo caso l’esercizio del potere di rinvio assume una particolare problematicità. Il Presidente, infatti, non ha di fronte una legge ordinaria approvata a maggioranza semplice dalle Camere, ma una legge di revisione costituzionale che: o è stata approvata dalle Camere a maggioranza dei due terzi; oppure è stata approvata a maggioranza assoluta e confermata dagli elettori (per referendum oppure, tacitamente, non richiedendolo). In tali casi, potrebbe mettersi contro la volontà delle Camere e/o del popolo? Su tale interrogativo i costituzionalisti si sono sempre confrontati, cercando di trovare un punto di equilibrio tra la necessità di salvaguardare il potere presidenziale di rinvio, quale strumento fondamentale di garanzia costituzionale, e l’opportunità di evitare il più possibile che il ricorso ad esso possa innescare uno scontro politico-istituzionale. Per questo si è cercato di circoscrivere tale potere, sia nel merito (ad esempio solo vizi procedurali e non di merito) sia nel quando (ad esempio, solo dopo la prima o la seconda deliberazione delle Camere, così da evitare un rinvio dopo un eventuale referendum). Oggi, però, la normativa vigente prevede espressamente che il testo di revisione costituzionale approvato dalle Camere in seconda deliberazione debba essere trasmesso al Governo, e non al presidente della Repubblica (art. 1 legge n. 352/1970). Non è, dunque, possibile che il Presidente eserciti il suo potere di rinvio subito dopo tale seconda deliberazione allo scopo di impedire o ritardare l’eventuale referendum costituzionale. Se così è, tutto lascia presupporre che il presidente della Repubblica si troverà ad esercitare il proprio potere di promulgazione (o di rinvio) sulla revisione costituzionale del Csm in condizioni di estrema difficoltà politica poiché il testo sarà stato anche approvato dal corpo elettorale (se fosse stato bocciato, infatti, il problema ovviamente non si porrebbe), con la prospettiva - in caso di rinvio - di eventuali inediti e gravi conflitti, non desiderati e non desiderabili. Se questo è lo scenario che si potrebbe prospettare, mi pare evidente che non si possa sovraccaricare il presidente della Repubblica del compito di opporsi ad una riforma costituzionale che, per quanto non condivisibile, non mi pare sollevi profili d’illegittimità così gravi e manifesti sui supremi principi costituzionali, in presenza dei quali, peraltro, il presidente della Repubblica, proprio in ragione delle difficoltà qui evidenziate, avrebbe certamente avuto modo d’intervenire in via riservata. Ora la maggioranza teme il referendum di Andrea Colombo Il Manifesto, 20 settembre 2025 Al ministero della Giustizia circola un crescente nervosismo. A palazzo Chigi pure. Le rilevazioni, sulla riforma della giustizia ancora in via di approvazione, valgono ben poco: però quel poco dice che la partita non è affatto vinta a tavolino. Il referendum della prossima primavera è un rischio, più grosso di quanto probabilmente la premier prevedesse. La scelta di passare dal progetto iniziale, quello di partire con il premierato rinviando la separazione delle carriere, a una strategia opposta serviva proprio a questo: mettere al riparo il governo e chi lo dirige dalle ricadute di una eventuale sconfitta. Il premierato è di Giorgia Meloni, anzi è Giorgia Meloni. La riforma della giustizia è targata Forza Italia. Situazione ideale: eventuale vittoria dell’intero governo, possibile sconfitta solo degli azzurri. È già chiaro che le cose non andranno così. La separazione delle carriere è materia ostica, gli italiani che la conoscono e la capiscono si contano, quelli che la vivono come urgenza impellente sono anche di meno. Non a caso della sostanza non si è sin qui praticamente parlato mai e si proseguirà con il medesimo registro. Nessuno spiegherà davvero l’assunto in base al quale separare le carriere equivarrebbe ad asservire le toghe al potere esecutivo. Ma nessuno, sull’altro fronte, giustificherà mai l’urgenza di una riforma sulla quale si possono avere pareri opposti ma che di urgentissimo non ha più nulla. In parte si tratterà di uno scontro tra il centrodestra e la magistratura, che non vanta più i consensi popolari di un tempo ma qualcosa dell’oceanico sostegno ereditato da tangentopoli ha conservato. In parte ben maggiore sarà proprio quel che la premier voleva evitare: un plebiscito sul governo. A preoccupare il governo è proprio la consapevolezza che la corrente tira in quella direzione e che di conseguenza anche molti che sarebbero favorevoli alla separazione voteranno contro per infliggere un colpo micidiale alla destra e a chi la guida. La riforma ancora non c’è, attende la quarta e ultima approvazione al Senato. La polarizzazione è invece è già squadernata e coinvolge la base non solo i vertici. In attesa che il voto del Senato regali lo sparo d’inizio, i due fronti già affilano le armi e preparano le argomentazioni che, naturalmente, non potranno riguardare il quesito referendario perché di quello importa pochissimo a pochissimi. Il cavallo di battaglia del fronte referendario, i nemici della riforma, sarà la difesa della divisione dei poteri e la necessità di salvare la democrazia difendendo l’autonomia della magistratura. In realtà, se è vero che la riforma in sé non minaccia quell’autonomia è anche vero che l’ordalia referendaria si è caricata di un significato simbolico che va ben oltre la sostanza della riforma. Governo e maggioranza proveranno a presentarsi come chi vuole “liberare” la magistratura dal giogo delle correnti ma è un’arma spuntata e probabilmente la premier lo sa perfettamente: per passare da liberatori bisogna che ci sia chi chiede di essere liberato. Il discorso contundente, per quanto implicito, sarà dunque la necessità di sciogliere le mani dal governo da chi le tiene legate in particolare sugli eterni cavalli di battaglia della destra: la sicurezza e soprattutto l’immigrazione clandestina. Se non la si può combattere a dovere, di chi la colpa se non dei “magistrati politicizzati”? Ma alla fine, che alla premier piaccia o meno, la sostanza della sfida sarà secca: con Giorgia o contro Giorgia. Musolino: “Usano il diritto penale per colpire il dissenso” di Mario Di Vito Il Manifesto, 20 settembre 2025 Il segretario di Magistratura democratica: “Aggregano il consenso enfatizzando le paure sociali: un gioco pericoloso. È facile dire che a destra si lamentano dello stesso trattamento che riservano ai magistrati”. A primavera ci sarà il congresso delle “toghe rosse”, nel bel mezzo della campagna per il referendum. Stefano Musolino, procuratore aggiunto di Reggio Calabria e segretario di Magistratura Democratica, dopo l’omicidio di Charlie Kirk si è tornati a parlare con una certa insistenza di odio e violenza politica, che abiterebbero solo a sinistra. In Italia il governo e più in generale la destra dicono la stessa cosa… Quello a cui stiamo assistendo è l’esternazione di un certo modo, molto diffuso nelle democrazie occidentali, di aggregare il consenso. Si enfatizzano le paure sociali, come se ci fosse sempre la necessità di individuare un nemico da temere. È un gioco pericoloso che serve solo a coprire le difficoltà. Ci sono tanti problemi privi di soluzioni, dalla gestione dei flussi migratori all’emergenza climatica, e per mascherare l’incapacità di affrontare questi argomenti si creano nemici inesistenti. Peraltro, a proposito di odio, e violenza, veniamo da mesi in cui i magistrati sono stati definiti a più riprese come “killer”, “cancri”, “malati psichiatrici” e così via. È facile dire che a destra ci si lamenta dello stesso trattamento che di solito viene riservato ai magistrati, descritti come un nemico da abbattere perché su certi temi esprimono in maniera pacata il loro dissenso. Ma non bisogna cedere a questa logica ed è importante riportare le discussioni a toni più appropriati. Cosa ne pensa della decisione di Trump di inserire tra le organizzazioni terroristiche gli “antifa”, termine che in realtà non indica un’organizzazione e che può significare molte cose diverse? È la volontà di creare un diritto penale del nemico basato sull’opinione. In Italia, ovviamente, la situazione è diversa rispetto agli Stati Uniti, ma l’ultimo decreto sicurezza testimonia la stessa cosa: si vuole gestire il dissenso con il diritto penale al solo scopo di impedire il dibattito. Faccio presente, comunque, che negli Usa anche tra i Maga c’è stato un po’ di dissenso verso questa decisione di Trump, perché anche loro si sono accorti che è un attacco al free speech, a loro molto caro. Giovedì la camera ha dato il suo secondo via libera alla riforma della giustizia, ora manca solo un passaggio al senato e poi partirà la campagna referendaria. Che ruolo avrà Magistratura democratica in questa fase? Noi pensiamo che l’Anm si stia muovendo lentamente e in maniera un po’ goffa nella direzione di questa campagna referendaria. Attraverso i nostri rappresentanti, in ogni caso, proviamo a stimolare l’organizzazione in modo che proceda più spedita… Daremo anche un nostro contributo autonomo: a ottobre faremo partire una campagna social per dire ai cittadini quanto questa riforma metta in pericolo i loro diritti. Fuori dalle narrazioni mediatiche, infatti, dobbiamo spiegare che non siamo in presenza di un conflitto tra prerogative dei poteri dello stato, ma che il vero pericolo riguarda appunto i cittadini e i loro diritti. Oggi a Roma, alla fondazione Basso, si tiene il vostro consiglio nazionale. Di cosa parlerete? Cominciamo a preparare il nostro prossimo congresso, che si svolgerà a marzo sempre a Roma. Cadrà nel cuore della campagna referendaria e bisognerà eleggere le nuove cariche, visto che il mio mandato da segretario andrà a scadenza. Il gruppo quindi deve iniziare a immaginare quelle che saranno le sue prospettive future, soprattutto rispetto agli indipendenti che abbiamo contribuito ad eleggere all’Anm e al Csm. Il modo di fare associazionismo tra i magistrati sta cambiando e Md, a mio parere, deve continuare a mantenere la sua apertura, e qui penso soprattutto ai giovani colleghi, senza perdere radicalità. Ecco, è stata una settimana intensa anche sul fronte associativo: ci sono state alcune polemiche sul segretario dell’Anm Rocco Maruotti, che ha usato parole forse troppo dure verso i laici del Csm, salvo poi scusarsi e chiarire. Qualche attacco contro di lui è arrivato anche dalle parti di Magistratura indipendente… Penso che questo sia un momento in cui tutti i gruppi devono esprimere generosità. L’esigenza primaria è mostrare la coesione che c’è sul referendum costituzionale. I piccoli tatticisimi, i tentativi di acquisire una rendita di posizione dovrebbero lasciare spazio alla necessità di mostrarci uniti, come in effetti siamo. Petrelli (Ucpi): “Con la riforma un giudice davvero terzo” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 20 settembre 2025 Nella prospettiva di un referendum, il presidente degli avvocati penalisti difende le innovazioni del ddl costituzionale: “L’Anm ha fatto il comitato per il No? Noi quello per il Sì, prima di loro”. Nel rovente confronto politico, giuridico e mediatico che gravita attorno alla “madre di tutte le riforme” della giustizia, come l’ha definita il Guardasigilli Carlo Nordio, la posizione degli avvocati penalisti italiani è chiara e definita ormai da qualche anno. In questa fase, con la legge costituzionale ormai sui binari della quarta lettura in Senato, a darle voce senza tentennamenti è il presidente dell’Unione Camere penali Francesco Petrelli. Lei è schierato, senza se e senza ma, a favore della separazione assoluta fra le carriere di giudice e di pubblico ministero. Non nutre nemmeno un piccolo dubbio sulla futura efficacia della riforma? Personalmente, sono decisamente a favore della separazione delle carriere. E l’Unione Camere Penali lo è da anni: nel 2017 si era impegnata nella raccolta delle firme a favore di una proposta di riforma di iniziativa popolare, sottoscritta da oltre 72mila firme di cittadini che avevano colto in quella proposta, poi ripresa da forze politiche e infine dall’attuale Governo, un punto centrale. Quale, avvocato? Che il cittadino che si trova a dover affrontare un processo deve avere davanti a sé un giudice “terzo”, come sta scritto nella Costituzione, ossia distinto sotto tutti i profili dall’accusatore. Adesso non può essere “terzo? No, è come se l’arbitro frequentasse gli spogliatoi e la panchina di una delle due squadre. Sarebbe ovviamente una partita che nessun cittadino vorrebbe francamente giocare. Dopo la legge Cartabia, i passaggi fra i due percorsi di giudice e pm sono ormai ridotti a uno solo in tutta la carriera. Non poteva bastare? Ma no, perché si tratta di un equivoco che resiste da anni fra la separazione delle funzioni e quella delle carriere. La prima riguarda quelle porte girevoli fra funzione giudicante e inquirente che un tempo erano frequenti e oggi, come lei sottolinea, sono limitatissimi, anzi irrilevanti. Ma il problema qual è? Me lo dica lei... Che pm e giudice restano uniti all’interno di uno stesso Consiglio superiore della magistratura per quanto riguarda valutazioni di professionalità, disciplina, avanzamenti in carriera, nomine e incarichi. Una confusione inaccettabile. Perché? Perché il pm - che nel nostro processo accusatorio è una delle parti - e il giudice “terzo” non possono convivere in un medesimo contesto organizzativo. Sa chi volle l’unitarietà delle carriere? Quel dogma l’abbiamo ereditato dal Ventennio fascista: nel 1941 l’allora Guardasigilli Dino Grandi istituì un principio che si sposava non solo con uno Stato autoritario, ma anche con un modello processuale inquisitorio, che nel 1988 abbiamo superato. Un sistema, mi lasci dire, ormai anacronistico. Molte toghe ritengono che la riforma intaccherà l’autonomia e l’indipendenza della magistratura e porrà le basi per un “controllo” dell’azione penale da parte dell’esecutivo… Macché, è fantapolitica. Credo che alzino i toni e che insistano su questo tasto perché non hanno argomenti validi. Paventano rischi che non ci sono: autonomia e indipendenza di giudici e pm saranno rafforzate dall’avere ciascuno un proprio Csm, un proprio organo di governo. Per il centrodestra, la riforma metterà fine al correntismo. La vede così anche lei? Sì, credo che lo strumento del sorteggio sia l’unico capace di eliminare in radice quelle degenerazioni correntizie messe a nudo da vicende come il caso Palamara. E auspico che i nuovi Csm tornino a essere organi di garanzia delle toghe, come volevano i padri costituenti, più che luoghi di rappresentanza degli interessi delle componenti togate. Il Governo tuona contro le “toghe politicizzate”. Concorda? Il problema c’è da decenni: da Mani pulite al berlusconismo e pure in questi anni. Certa magistatura ambisce a controllare in modo improprio le scelte della politica. Alcune recenti indagini milanesi lo confermano. In vista di un probabile referendum confermativo, l’Anm ha appena costituito un comitato per il No. E voi? Li abbiamo preceduti, dando vita a luglio a un comitato per il Sì. Coinvolgeremo associazioni e cittadini, spiegando che così si avrà una giustizia più efficace ed equilibrata. Non pensa che i nodi gordiani siano altri? Processi annosi, carceri stracolme, errori giudiziari: la riforma come sanerà questo? La riforma è il nuovo hardware, diciamo così, poi bisognerà metterci tanti software. Fuor di metafora? Ad esempio servirà continenza nel varare nuove fattispecie penali: non ci si può lamentare della durata dei processi se si creano ogni giorno nuovi reati, che intasano l’azione delle procure. Inoltre, separando le carriere, non avremo più gip che assecondano le richieste dei pm, autorizzando spesso custodie cautelari non necessarie: negli ultimi 30 anni, si contano 30mila casi di persone ingiustamente private della libertà e solo lo scorso anno, lo Stato ha speso 27 milioni di euro in indennizzi. Una beffa, sommata alla detenzione ingiusta per migliaia di cittadini. L’Anm sbaglia a parlare di battaglia referendaria, il Parlamento va rispettato di Ermes Antonucci Il Foglio, 20 settembre 2025 Intervista al giudice Andrea Reale. Il rappresentante del gruppo Articolo 101: “Noi magistrati dobbiamo rispettare le prerogative del Parlamento. Non possiamo andare in battaglia, come hanno detto alcuni autorevoli rappresentanti dell’Anm, contro un potere fondamentale dello stato quale è quello legislativo”. A parlare, esprimendo una voce del tutto fuori dal coro, è il giudice Andrea Reale, componente del Comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati, esponente del gruppo anti-correnti Articolo 101. Reale ritiene “doveroso per l’Anm portare avanti, sul piano del dibattito pubblico, un’attività di sensibilizzazione sui tanti elementi negativi della riforma della separazione delle carriere e su quelli che possono essere i possibili aspetti positivi”, ma esprime critiche rispetto alla decisione adottata dall’Anm di istituire un Comitato per il No al referendum: “L’istituzione di un comitato referendario per il No dà la sensazione di una sorta di interventismo di tipo politico, estraneo a quella che è la funzione della magistratura in Italia, legittimando le critiche di opposizione politica e di esondazione dal proprio ruolo rivolte all’Anm”, afferma Reale. Nel merito, il giudizio di Reale sulla riforma Nordio resta nel complesso negativo: “Noi di Articolo 101 siamo contrari alla maggior parte della riforma, che è stata confezionata senza alcuna interlocuzione effettiva e concreta con la magistratura. La riforma non migliora il servizio giustizia, può comportare rischi di condizionamento nell’esercizio dell’azione penale e può generare altri aspetti negativi per quanto riguarda i procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati”. Dall’altra parte, per Reale la riforma costituzionale “contiene invece un rimedio molto importante per debellare il correntismo all’interno del Consiglio superiore della magistratura, cioè il metodo del sorteggio per la scelta dei componenti”: “Come Anm avremmo dovuto interloquire con governo e Parlamento sulla possibilità di introdurre, oltre a una fase preliminare di selezione casuale dei candidati al Csm, una fase di elezione. Insomma, il cosiddetto sorteggio temperato. Invece l’Anm ha preferito esprimere un no secco all’intera proposta di riforma”. In un convegno tenutosi lunedì scorso, il segretario generale dell’Anm, Rocco Maruotti, ha criticato la scelta di introdurre il sorteggio come metodo di elezione dei membri togati dei due futuri Csm, affermando: “Non mi si dica che novemila magistrati sono tutti capaci a fare i consiglieri, perché non è così”. Reale replica con tono netto: “Queste parole rivelano una prognosi negativa nei confronti dell’intera magistratura sul piano della preparazione tecnica e professionale, e sorprende che a esprimerli sia stato il segretario generale dell’Anm. Se il magistrato può quotidianamente irrogare pene come l’ergastolo o decidere su fallimenti milionari e comunque più in generale sui diritti fondamentali dei cittadini, non vedo per quale ragione non possa approfondire le tematiche amministrative relative alla gestione della vita professionale dei magistrati”. “È ciò che ha fatto il consigliere sorteggiato attualmente presente al Csm (Andrea Mirenda, nda) - aggiunge Reale - che non mi pare che stia dimostrando meno capacità e preparazione di quelli scelti dal sistema delle correnti. Lo stesso sistema che, anziché favorire il ricorso a criteri oggettivi per le nomine dei direttivi e semidirettivi, preferisce molte volte operare sulla base dell’appartenenza correntizia”. L’impressione è che, al di là della separazione delle carriere, sia stata soprattutto l’introduzione del sorteggio a far scattare la dura reazione delle correnti che governano l’Anm, tanto da spingere i dirigenti dell’associazione a parlare ora apertamente di “battaglia” sul referendum: “Lo penso anche io”, ammette Reale. “Per le correnti vedersi tagliare i ponti con il Csm significa vedersi tagliare il loro potere nell’autogoverno. Le correnti hanno perso la spinta culturale che invece le aveva sempre caratterizzate e aveva dato storicamente un grande senso alla loro nascita”. “Tagliare il cordone ombelicale col Csm significa per le correnti la fine di un assetto di potere che sembra essere diventato la loro principale ragione di esistenza”, conclude Reale. Il perdono secondo Cecchettin di Massimo Gramellini Corriere della Sera, 20 settembre 2025 Poiché l’odio è lo spirito del tempo, vorrei andare controcorrente tessendo l’elogio di un esponente della minoranza mite, il signor Gino Cecchettin. Anzitutto per avere condannato l’aggressione subita in carcere dall’assassino di sua figlia. Non era così scontato, non in questo clima attraversato dal desiderio di soluzioni che suonino semplici e sbrigative, a costo di risultare ingiuste e approssimative. Ma lo ringrazio anche per le parole che ha pronunciato ieri a Canale 5 sul perdono. Parole buone, ma tutt’altro che buoniste. Cecchettin dice di credere nella giustizia riparativa e di essere pronto a perdonare Turetta, però a una condizione: che questo abbraccio metaforico avvenga al culmine di un percorso lento e profondo, perché è così che funzionano le cose serie, le cose vere. Non ci si pente a ridosso dei processi. Prima bisogna prendere consapevolezza del dolore che si è inflitto, attraversare le montagne russe degli stati d’animo e infine giungere alleggeriti sull’altra sponda. Il viaggio è accidentato: pieno di soste, retromarce e sensi vietati scambiati per scorciatoie. Richiede tempi lunghi, che mal si conciliano con le esigenze di un pubblico che passa le giornate a scrollare il telefono, e che di tutto ciò che accade guarda ormai soltanto le sintesi: i famosi highlights. Invece la vita interiore di tutti (anche di un assassino, anche di un padre) ha i suoi ritmi, che non sono quelli degli highlights. Ringrazio il signor Cecchettin per avercelo ricordato. Salerno. Detenuto muore in cella nel carcere di Fuorni, un altro tenta il suicidio di Viviana De Vita Il Mattino, 20 settembre 2025 La Procura attende l’esito dell’autopsia la vittima era sotto terapia metadonica. Era tornato dietro le sbarre qualche mese fa, dopo l’ennesima denuncia dei genitori, stanchi delle continue violenze di quel figlio segnato dal dramma della tossicodipendenza. Ma dal carcere di Fuorni, Domenico Petrozzi, 57 anni, originario di Nocera Inferiore - un passato da maestro elementare ottenuto con una falsa dichiarazione nonostante la fedina penale macchiata - non è più uscito vivo. Un malore lo ha stroncato ieri mattina. Quando i compagni di cella hanno dato l’allarme era già troppo tardi: nonostante l’immediato intervento di due mezzi di soccorso dei sanitari del Vopi, il personale medico non ha potuto fare altro che constatarne il decesso. È l’ennesima morte dietro le sbarre di un istituto sempre più al centro delle cronache per episodi critici e che, proprio ieri, ha visto anche il tentativo di suicidio di un altro detenuto, salvato in extremis dalla polizia penitenziaria dopo essersi stretto un lenzuolo al collo. La tragedia si è consumata intorno alle 10, all’interno della sezione destinata ai tossicodipendenti dove il 57enne, sottoposto a terapia metadonica, era detenuto. La Procura, come atto dovuto, ha immediatamente aperto un fascicolo ed è stato predisposto l’esame autoptico per far luce sulle cause della morte dell’uomo, che proprio giovedì, assistito dal suo legale, l’avvocato Maria Vitolo, si era presentato davanti al giudice per l’udienza nell’ambito del processo che lo vede imputato per maltrattamenti. Al vaglio degli inquirenti c’è la cartella clinica del 57enne; l’autopsia, con i successivi esami istologici e tossicologici, potrà chiarire le circostanze del decesso, avvenuto a seguito di un arresto cardiaco. Gravato da diversi precedenti Petrozzi anni fa fu denunciato a Padova perché per ottenere un posto da insegnante aveva dichiarato il falso sottoscrivendo un’autocertificazione in cui diceva di non avere precedenti penali. Ma il dirigente scolastico delle elementari incrociò i dati della dichiarazione sostitutiva con quelli del casellario giudiziale, e si accorse che Petrozzi di precedenti penali ne aveva diversi. La sua morte riporta sotto i riflettori le gravi emergenze che affliggono il penitenziario di via Del Tonnazzo, dalle difficili condizioni di vita dei detenuti - con un sovraffollamento che supera i 500 ospiti a fronte di una capienza di 380 - alla qualità dell’assistenza sanitaria. A ciò si aggiungono la cronica carenza di personale di polizia penitenziaria, costretto a turni massacranti con arretrati e straordinari non retribuiti e i gravi problemi di sicurezza legati all’ingresso clandestino di telefoni cellulari, nonostante i sequestri continui. Non mancano episodi drammatici: solo lo scorso anno si è verificato un omicidio in seguito a una colluttazione tra detenuti, oltre a tentativi di suicidio e ad aggressioni sia al personale sia ai reclusi. Durissima la denuncia del Garante dei detenuti, Samuele Ciambriello: “Si continua a morire di carcere e in carcere. In Italia, dall’inizio dell’anno sono 61 i detenuti morti per suicidio, 70 per cause naturali e 38 per cause ancora da accertare. In Campania, 11 decessi sono inspiegati. Passano settimane, mesi, e non si ha né giustizia né verità: ci sono le carenze del sistema, la mancanza di figure socio-assistenziali, problemi legati alla tossicodipendenza e alla salute mentale. La politica deve avere il coraggio di intervenire: mi aspetto qualche gesto importante anche da parte del presidente della Repubblica”. Genova. Malasanità nel carcere, il caso di Carmine Tolomelli di Giulia Ghirardi fanpage.it, 20 settembre 2025 “Carmine è morto in agonia. Quando mi hanno permesso di vederlo, gli ho preso la mano e gli ho detto: ‘Sono qua’. Lui mi ha sentito e si è girato. Aveva gli occhi pieni di sangue, respirava con affanno. Mi ha guardato, poi si è girato dall’altro lato e non si è più svegliato. Lo hanno portato via in un sacco nero”. A parlare a Fanpage.it è Immacolata Stasino, “Titti” per gli amici, che ha denunciato la morte del compagno Carmine Tolomelli, avvenuta il 24 febbraio 2024 all’Ospedale San Martino di Genova. Il decesso, stando alla denuncia, “si poteva evitare” perché - secondo la donna - risultato di anni di negligenze e malasanità durante la detenzione. Un calvario che sembra non avere fine e a cui oggi fa eco la lettera di una cinquantina di detenuti della 5° sezione del carcere Marassi di Genova (adibita ai soggetti affetti da gravi patologie), indirizzata all’associazione Quei bravi ragazzi family nella quale sono stati denunciati una serie di gravi problemi sanitari che esisterebbero all’interno dell’Istituto. Tra questi viene segnalato lo stato di totale disinteresse nei confronti dei detenuti che - di fatto - “sono abbandonati nelle celle, senza un minimo di assistenza, con più malati all’interno delle camere, con medici assenti sia in caso di urgenze sia di visite quotidiane”, hanno lamentano i detenuti. “Si deve sperare che non siano malesseri gravi, altrimenti serve solo chiamare l’agenzia funebre”. Da qui è scaturita una denuncia contro il carcere per “gravi violazioni dei diritti fondamentali dei detenuti malati”. “Carmine è entrato in carcere nell’aprile 2019 presso la Casa Circondariale di Tolmezzo (Udine) con una condanna di 10 anni da scontare”, ha esordito la compagna a Fanpage.it. Poco dopo l’inizio della detenzione “abbiamo fatto richiesta di sostituzione della misura cautelare con gli arresti domiciliari”. Richiesta che viene motivata dalla grave patologia cronica pregressa da cui Carmine era affetto: cirrosi epatica grave di grado severo F4 che “necessitava di cure mediche specialistiche e un’alimentazione corretta e attenta che non erano possibili in carcere”. Stasino manda quindi tutta la documentazione medica necessaria per spiegare la condizione del compagno, ma la richiesta viene negata dai giudici che ritengono, invece, che Tolomelli possa essere curato in carcere. In breve tempo, però, le sue condizioni peggiorano tanto che nel 2022 un medico del carcere di Tolmezzo le dichiara “incompatibili con il regime carcerario” e chiede il suo trasferimento alla Casa Circondariale di Marassi a Genova, nota per il suo centro clinico SAI (Servizio Assistenza Intensiva). Secondo la denuncia, una volta arrivato a Marassi, Tolomelli non viene, però, collocato nel reparto clinico, bensì in una cella con un altro detenuto senza ricevere le terapie prescritte. Lì le sue condizioni si aggravano ulteriormente fino ad arrivare al ricovero d’urgenza all’ospedale San Martino di Genova nell’aprile 2023. Le prescrizioni terapeutiche stabilite in sede di dimissioni che Tolomelli avrebbe dovuto seguire in Istituto, “non vengono eseguite” e nel maggio 2023 Tolomelli viene nuovamente ricoverato in ospedale. Questa volta in coma. Ancora, il mese successivo l’ex detenuto torna in ospedale presentando diverse fratture alle costole e un edema alle gambe e alle braccia. “Aveva un litro e mezzo di liquidi, la setticemia e la sepsi, dovuto a rigetto ed insufficienza renale perché non adeguatamente curato, ma trascurato da medici incaricati che avrebbero dovuto rendersi conto delle condizioni di salute di Carmine”, ha aggiunto la compagna a Fanpage.it. Quando poi a luglio “Carmine è stato dimesso dall’ospedale non è stato più sottoposto ai necessari esami per accertare se era venuta meno l’infezione al sangue né è stato più portato in ospedale per i controlli”, si legge nella denuncia che Fanpage.it ha potuto visionare. Così, dopo mesi di agonia, Tolomelli è deceduto il 24 febbraio 2024. “Quando finalmente ho potuto vederlo, Carmine era in agonia. Gli ho preso la mano e gli ho detto: ‘Sono qua’. Lui mi ha sentito e si è girato, aveva gli occhi pieni di sangue, respirava con affanno. Mi ha guardato, si è girato dall’altro lato e non si è più svegliato. Lo hanno portato via in un sacco nero”. “Tutto questo poteva essere evitato perché la sua patologia era nota. Carmine è morto a causa del loro disinteresse”, ha concluso Stasino a Fanpage.it. “Per questo ho iniziato un’azione legale alle Procure di Udine, di Genova e di Napoli, perché Carmine poteva essere salvato. Carmine stava pagando perché per la legge aveva sbagliato, ma non doveva pagare con la vita. Ora chi ha sbagliato deve pagare. Il 26 giugno 2019 Carmine è entrato a Tolmezzo con i suoi piedi. Il 24 febbraio, mi sono dovuto portare via Carmine dentro una bara. Questo non lo accetto. Non è giusto. Sarò la voce di Carmine fino al mio ultimo respiro”. Oggi, a più di un anno dalla morte di Carmine, il processo sulla morte di Tolomelli è ancora in corso e nulla sembra essere cambiato. A dimostrarlo, tra l’altro, sarebbe un colloquio che si è svolto lo scorso 4 settembre durante il quale è stata consegnata una lettera di denuncia collettiva firmata da 50 detenuti della 5ª sezione (adibita ai soggetti affetti da gravi patologie) all’avvocata Guendalina Chiesi, in qualità di vicepresidente dell’associazione Quei Bravi Ragazzi Family, per segnalare una serie di presunti soprusi subiti all’interno dell’Istituto. Da qui l’associazione ha deciso di sporgere denuncia per “gravi violazioni dei diritti fondamentali dei detenuti malati”, accusando i vertici sanitari e amministrativi del carcere di Marassi di svariate “negligenza e omissioni”. All’interno della lettera, infatti, i detenuti descrivono una situazione allarmante: dalla somministrazione di farmaci senza blister o tracciabilità e l’assenza di visite specialistiche, fino all’esistenza di cartelle cliniche alterate, sovraffollamento nelle celle, e condizioni igienico-sanitarie pessime con muffa e aria stagnante. Il tutto contornato da un clima di “sfiducia e paura, con timori di ritorsioni”. Il caso ha portato a una richiesta di ispezione ministeriale urgente sia al centro clinico SAI del carcere di Genova che al reparto detenuti dell’Ospedale San Martino, per verificare le effettive condizioni strutturali e igienico-sanitarie. Qualcosa, quindi, si è messo in moto, ma non basta. “La speranza è che non ci siano più Carmine, che la morte di Carmine non sia vana”, ha concluso Stasino a Fanpage.it. “Adesso deve essere tempo di giustizia”. Roma. A Rebibbia seduta straordinaria del Consiglio comunale per dare voce ai reclusi di Cristina Michetelli* Il Dubbio, 20 settembre 2025 Il 23 settembre terremo una seduta straordinaria dell’Assemblea Capitolina nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso. Un Consiglio che, come consigliera del Partito Democratico e, prima ancora, come avvocato penalista, ho fortemente voluto, grazie alla lunga esperienza nel mio partito nel settore della politica giudiziaria e all’annoso lavoro svolto con la Camera penale di Roma, il suo Presidente Giuseppe Belcastro e tutto il direttivo e con il nostro Consiglio dell’Ordine e il suo delegato al penale consigliere Vincenzo Comi, con l’obiettivo di creare il miglior raccordo tra l’azione politico-amministrativa della città e la testimonianza di chi tutti i giorni raccoglie in diretta il grido per le drammatiche condizioni dentro i nostri istituti di pena. Ringrazio la Presidente Svetlana Celli e tutti i gruppi consiliari che hanno accolto con favore la mia proposta di accendere un focus sulle condizioni delle persone detenute nelle carceri romane. Queste costituiscono, infatti, una fetta importante del nostro territorio a cui occorre dare voce e di cui, nel governo della città, bisogna farsi carico in termini sociali, economici e culturali. Con il supporto prezioso della Garante Valentina Calderone e con molti consiglieri abbiamo svolto alcuni incontri preparatori con i detenuti e le detenute di Rebibbia, producendo sei ordini del giorno sulle loro diverse esigenze, dall’implementazione dei corsi di studio e formazione professionale, alla creazione di più opportunità di lavoro, dalla necessità di migliori opportunità sportive e culturali, a strutture più verdi, a maggiori servizi. Presenteremo anche un atto di denuncia su temi di competenza regionale e nazionale su cui Roma non può rimanere in silenzio, come il sovraffollamento oltre ogni limite, le mancate cure sanitarie, la carenza di progetti di recupero e reinserimento, la solitudine e l’abbandono, la carenza degli organici, l’abuso della carcerizzazione come metodo di soluzione dei conflitti e del disagio sociale, l’elevato numero dei suicidi, intollerabile in uno Stato di diritto rispetto a persone affidate alla sua custodia. In questa consiliatura stiamo dando grande centralità al tema delle diseguaglianze ed anche i percorsi di recupero e reinserimento delle persone detenute rappresentano un passaggio fondamentale nella nostra visione di comunità per determinare più inclusione e sicurezza. Quel giorno intendiamo dare voce soprattutto ai detenuti e alle detenute, che in questo lavoro preparatorio al Consiglio ci hanno trasmesso grande entusiasmo. L’accoglienza positiva per la nostra iniziativa ci ha fatto assumere, infatti, l’impegno a proseguire la nostra collaborazione. Confidiamo che il nostro atto funga da stimolo ad altre istituzioni territoriali, affinché entrino nelle carceri per vigilare e per contribuire fattivamente alle politiche di reinserimento. Davvero un’esperienza di grande formazione per ogni amministratore. *Direzione Nazionale Pd Brindisi. L’umanizzazione nelle carceri attraverso medicina narrativa e espressione creativa brindisisera.it, 20 settembre 2025 Si è conclusa presso la Casa Circondariale di Brindisi, con grande partecipazione, la fase finale del progetto “Resilienza Narrativa”, iniziativa promossa da APS Conchiglia e sostenuta dalla Chiesa Valdese - Otto per Mille, inserita nel più ampio programma “Sguardi Dentro”. Il progetto si rivolge a persone sottoposte a restrizione della libertà personale, tra cui detenuti con disturbi psichiatrici o psicologici, tossicodipendenti e migranti, offrendo un percorso basato su strumenti di medicina narrativa ed espressione creativa. L’obiettivo è promuovere processi di resilienza, favorire il riconoscimento di sé e la crescita interiore, contribuendo a mitigare gli effetti della marginalità e dell’isolamento. Un elemento di particolare innovazione è rappresentato dai lavori sviluppati in un’aula immersiva, quale spazio di rigenerazione e inclusione volto a migliorare le condizioni di vita delle persone più fragili all’interno dell’Istituto Penitenziario. La restituzione del progetto si è svolta alla presenza della Direttrice dell’Istituto Penitenziario, dott.ssa Valentina Meo Evoli e del Comandante, Dirigente Aggiunto Benvenuto Greco, a conferma della disponibilità e sensibilità istituzionale verso modelli alternativi di intervento e collaborazione con il terzo settore. In un contesto nazionale caratterizzato da varie criticità quali suicidi, autolesionismo, aggressioni e carenza di personale, questa esperienza dimostra come sia possibile favorire convivenza civile, autocontrollo e valorizzazione del potenziale umano anche in condizioni di difficoltà estrema, attraverso relazioni fondate sull’ascolto, la narrazione e la fiducia reciproca. Il progetto ha beneficiato anche del contributo del racconto fotografico di Nuria Arezzi, che ha saputo tradurre in immagini l’umanità e la complessità dei percorsi narrativi. Il coordinamento e la realizzazione sono stati curati da Serena Mingolla (progettazione e coordinamento); Claudia Cellamare, Raffaella Arnesano, Rosanna Picoco (conduzione dei laboratori); Nuria Arezzi (racconto fotografico). “L’importanza di un approccio integrato e rispettoso della persona - ha affermato la Garante dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale della Provincia di Brindisi, dott.ssa Valentina Farina - ha evidenziato la necessità di un cambio di paradigma culturale e linguistico. Riconoscere la dignità e i diritti inviolabili di ogni individuo è fondamentale per preservare i principi di uguaglianza e rispetto su cui si basa la convivenza civile. Il mandato della Garante ribadisce l’interesse istituzionale verso una politica che non privilegi esclusivamente la repressione, ma valorizzi prevenzione, educazione e inclusione sociale, agendo sulle cause profonde dei fenomeni di disagio e devianza. In un’epoca caratterizzata da complessità crescenti, il progetto “Resilienza Narrativa” rappresenta un modello di intervento che coniuga innovazione sociale, tutela dei diritti e attenzione alle dimensioni umane, proponendo una visione lungimirante e sostenibile”. Bolzano. L’eterna discussione sul nuovo carcere di Elena Mancini salto.bz, 20 settembre 2025 “A Bolzano serve un nuovo carcere, il vero problema della mancata costruzione del penitenziario è locale”. Non usa mezzi termini il segretario nazionale del sindacato di Polizia penitenziaria (Uspp) Leonardo Angiulli, che nella mattinata di oggi (19 settembre) ha visitato la Casa Circondariale di Bolzano per verificare lo stato dei luoghi di lavoro e delle condizioni di lavoro del personale. “Il personale e l’amministrazione del carcere ce la mettono tutta, le risposte sulla struttura le deve dare la politica. Ho chiesto più volte di essere ricevuto dal governatore della Provincia per parlare del nuovo carcere e delle gravi condizioni di alloggio del personale di polizia ma non sono mai stato ricevuto”, dichiara Angiulli. “Ho fatto verificare anche alla segreteria, andando indietro di due anni, e non risulta alcuna richiesta di incontro. Se c’è stato un errore, ce ne scusiamo, ma agli atti non c’è nulla”, dichiara il Presidente Arno Kompatscher, che respinge ogni accusa sull’ostacolare la costruzione del nuovo carcere. “Sono nove anni che chiedo a Roma la costruzione del nuovo carcere di Bolzano. Ho scritto e sollecitato ministri, capi di gabinetto, perfino il Presidente del Consiglio. Non si può dire che non lo vogliamo”. Dopo il completamento dei lavori di ristrutturazione dell’edificio di via Dante erano state tante le voci che avevano dato per persa l’opportunità di costruire un nuovo carcere a Bolzano. “Non è la Provincia che decide. Io non posso costruire un carcere da solo, finirei davanti alla Corte dei Conti. È competenza esclusiva dello Stato. Noi siamo pronti ad aiutare, anche con il meccanismo previsto dall’accordo finanziario: anticipiamo i soldi e li defalchiamo dal nostro contributo allo Stato. Ma la decisione deve arrivare da Roma, a me continuano a confermare l’intenzione di costruire, a prescindere dalla ristrutturazione, che era necessaria”, aggiunge il Presidente. Secondo Kompatscher la realizzazione del progetto sarebbe volontà sia di Bolzano che di Roma, il nodo è però nella gestione del progetto. In origine, fu il Ministero a stabilire la capienza di 200 posti e a nominare la commissione che aggiudicò la gara all’impresa Condotte. Poi l’impresa è entrata in concordato fallimentare, bloccando tutto per anni. “Abbiamo fatto l’esproprio dei terreni vicino all’aeroporto, sempre per conto dello Stato. Abbiamo anticipato anche quelle spese, che poi ci sono state rimborsate, adesso quel terreno è demanio statale destinato a carcere. Ma quando finalmente si poteva ripartire, è stata l’allora Ministra Cartabia a dirci “fermi, il progetto è sovradimensionato”. È stata una grande delusione, visto che era stato il ministero di giustizia stesso a darci l’indicazione dei 200 posti. Per noi va bene ridimensionarlo purché venga costruito un nuovo istituto”. Il risultato, spiega Kompatscher è un’impasse legale: ridurre la capienza senza riaprire la gara espone a possibili ricorsi di chi ha partecipato alla gara. “Il Ministero deve decidere: o si costruisce per 200 posti, oppure si trova un sistema che permetta di ridimensionare senza invalidare la gara. È un problema giuridico per il quale il Ministero di Giustizia ha chiesto un parere all’avvocatura dello Stato che dovrebbe essere arrivato in questi giorni. Io ogni settimana scrivo, telefono, mando messaggi. Mi rispondono sempre: ‘Presidente, ci dia ancora una settimana’. Mi sono fatto anche portavoce delle esigenze del personale, mi sembra assurdo ricevere un attacco del genere”. Mentre la contrattazione tra Roma e Bolzano prosegue, la carenza di personale c’è ed è evidente. “Oggi dovrebbe esserci qui a lavorare ben 88 persone, realmente ce ne sono 65 amministrati, di questi 6 sono fuori per altri titoli ed altri svolgono compiti amministrativi, quindi c’è una carenza del 37%”, dichiara Angiulli. La carenza del personale contribuisce anche a turni più lunghi “si lavora almeno 8 ore consecutive mentre l’accordo quadro nazionale, prevede un turno di lavoro di 6 ore”. Il problema della mancanza di polizia penitenziaria è nazionale. “Per anni c’è stato un blocco a livello nazionale ed oggi non si riesce a coprire le uscite delle persone che stanno andando in pensione. Per fare fronte al problema si stanno facendo corsi di arruolamenti di 4 mesi per accelerare il più possibile l’incremento”, spiega Angiulli. A breve uscirà il 183° corso di polizia penitenziaria e ci saranno nuove assegnazioni regionali. “In tutto il Triveneto sono assegnate 31 unità, quindi vedremo se si riusciranno a portare nuove forze lavoro a Bolzano”, si augura il segretario dell’USPP. Nelle more della discussione sul nuovo carcere, oggi nell’istituto di via Dante erano presenti 97 detenuti, mentre i posti regolamentati sono 88, l’unica certezza è che nel breve periodo il carcere rimarrà con poco personale e troppi detenuti. Ancona. San Vincenzo De Paoli presenta il percorso “Essere presenza nel mondo del carcere” agensir.it, 20 settembre 2025 Mercoledì 24 settembre, alle ore 12.30, presso la Sala Giunta del Comune di Ancona, sarà presentato in conferenza stampa il percorso formativo “Essere presenza nel mondo del carcere”, promosso dai volontari della Società di San Vincenzo De Paoli delle Marche con il supporto del Settore Carcere e Devianza della Federazione nazionale italiana Società di San Vincenzo De Paoli Odv e con il sostegno delle Istituzioni locali. Il corso, rivolto a chi desidera offrire sostegno e accompagnamento a persone detenute o sottoposte a misure alternative, prenderà avvio sabato 11 ottobre ad Ancona e si articolerà in otto incontri, con possibilità di partecipazione anche online su Zoom. Verranno affrontati temi centrali come la devianza minorile, il reinserimento sociale, le misure alternative alla detenzione, l’ascolto empatico, la criminalità e le tossicodipendenze, con un’attenzione particolare alla condizione dei minori, la cui recidiva oggi supera il 40%. Parteciperanno alla conferenza stampa mons. Angelo Spina, arcivescovo metropolita di Ancona-Osimo, Daniele Silvetti, sindaco di Ancona, Paola Da Ros, presidente della Federazione nazionale italiana Società di San Vincenzo De Paoli Odv, Antonella Caldart, responsabile del Settore Carcere e Devianza, Laura Ciccoianni, coordinatrice regionale delle Marche, Adriana Saragnese, presidente del Consiglio Centrale di Jesi, Ancona e Senigallia, Sandro Tiberi, presidente del Consiglio Centrale di Fabriano-Matelica, Gabriele Cinti, coordinatore del progetto. Il percorso, promosso dalla Federazione nazionale italiana Società di San Vincenzo De Paoli Odv - Settore Carcere e Devianza, con il contributo dei Comuni di Ancona, Pesaro e Ascoli Piceno, prenderà avvio l’11 ottobre ad Ancona e toccherà tre sedi: Ancona, nell’Aula didattica Mole Vanvitelliana; Pesaro nella parrocchia Cristo Re, in via Cesare Battisti 3; Ascoli Piceno nella parrocchia San Marcello, in via Piemonte. “Essere volontari in carcere richiede disponibilità d’animo, competenze tecniche e conoscenza delle regole di vita del carcere. Significa saper accogliere senza giudicare, offrire ascolto e speranza a chi l’ha smarrita”, dichiara Antonella Caldart, responsabile del Settore Carcere e Devianza. L’evento sarà moderato da Alessandro Ginotta, responsabile dell’Ufficio Comunicazione della Federazione nazionale. Info e iscrizioni: WhatsApp 350 1766581 - email sanvincenzojesi@libero.it. Venezia. Il cinema, un linguaggio che unisce carcere e città di Roberta Barbi vaticannews.va, 20 settembre 2025 Prosegue anche quest’anno la collaborazione tra la Biennale di Venezia e gli istituti di pena della città lagunare: in occasione della 82.ma Mostra del Cinema, i detenuti hanno ricevuti due visite davvero speciali. Un Toni Servillo smagliante, appena premiato con la Coppa Volpi come migliore interprete di un film, La grazia, che con l’istituzione carcere ha anche a che fare, e una Jane Campion meravigliosa, regista arrivata dall’altra parte del mondo, ma capace di parlare con il linguaggio universale delle immagini. Sono queste le due visite straordinarie che hanno ricevuto rispettivamente i detenuti della casa circondariale maschile di Santa Maria Maggiore e le ristrette della casa di reclusione femminile della Giudecca grazie al progetto Passi sospesi portato avanti da Balamos Teatro, realtà culturale da anni presente nelle due strutture: “Sono state due giornate eccezionali in cui gli artisti si sono intrattenuti molto più del tempo previsto con i ragazzi e li hanno salutati uno per uno”, racconta ai media vaticani il coordinatore di Balamos Teatro, il regista Michalis Traitsis. L’ultimo personaggio portato sul grande schermo dall’attore è un anziano Presidente della Repubblica attanagliato dal dubbio se concedere o meno la grazia a due persone colpevoli di un omicidio compiuto in circostanze che potrebbero rivelarsi attenuanti. Prima di incontrarlo, i detenuti che partecipano al corso di teatro attivo nella struttura hanno visto anche altri film in cui Servillo ha recitato da protagonista: “Gli hanno fatto molte domande - riferisce Traitsis - molto interessante è stata una conversazione sul valore del tempo che nella detenzione deve diventare una risorsa sia per pensare, sia per dedicarsi ad attività che aumentino la consapevolezza e l’autostima”. Uno scambio di prospettive soprattutto sulla condizione femminile in carcere e non e sul rapporto uomo-donna è stata, invece, al centro dell’incontro tra le detenute e la regista di Lezioni piano: “Le detenute si sono soffermate in maniera molto approfondita sui vari personaggi dei suoi film e sull’equilibrio tra maschile e femminile”, testimonia ancora il coordinatore di Balamos Teatro. Quest’anno a Venezia è stato presentato anche il nuovo lavoro di Leonardo Di Costanzo - già regista del film sul carcere Ariaferma - dal titolo Elisa, come il nome della protagonista, detenuta per aver ucciso la sorella: “È un film che si snoda tra le tematiche della colpa e del riscatto: la riflessione che questi due temi suscitano per chi è in carcere è la chiave del cambiamento - conclude Traitsis - l’importanza di queste riflessioni, come di tutti i nostri spettacoli è proprio il cambiamento e anche lo scambio di esperienze: portare il carcere in città ma anche la città in carcere”. Bolzano. Una delegazione di detenuti mercoledì incontrerà il Papa di Linda Baldessarini Corriere dell’Alto Adige, 20 settembre 2025 In regalo una bici e un disegno. Dal laboratorio di ciclofficina del carcere fino a Piazza San Pietro. Mercoledì 24 settembre una bicicletta personalizzata dai detenuti della Casa circondariale di Bolzano sarà donata a Papa Leone XIV durante l’udienza generale e non sarà l’unico regalo. Al Pontefice verrà consegnato anche un disegno che lo ritrae, realizzato da un detenuto con particolare talento artistico. Due oggetti diversi ma legati dallo stesso filo: creatività, impegno e un messaggio di speranza che attraversa le mura dell’istituto per approdare in Vaticano. La delegazione, guidata dal cappellano don Giorgio Gallina e composta da alcune persone detenute e autorizzate dalla magistratura di sorveglianza, rappresenta uno dei momenti più significativi dei percorsi trattamentali portati avanti nel carcere di Bolzano. La ciclofficina, dove quotidianamente i detenuti lavorano su biciclette e progetti artigianali, è infatti tra le attività formative più apprezzate, capace di unire manualità, responsabilità e prospettive di reinserimento. “L’iniziativa ha un forte valore simbolico, capace di unire spiritualità, impegno e voglia di futuro” sottolinea la direzione della Casa circondariale, che ha sostenuto fin dall’inizio il progetto, nato dal desiderio espresso dagli stessi detenuti. Alla realizzazione del viaggio hanno contribuito l’associazione “Assistenti volontari del carcere” e la Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano, che hanno seguito l’organizzazione logistica, insieme a Erjon Zeqo, progettista e coordinatore delle attività formative Fse, e Stefano Casellato, docente e referente per l’educazione permanente, due figure da sempre attive nei percorsi educativi. La fatica (spesso inutile) dei presidenti per disarmare le parole della politica di Marzio Breda Corriere della Sera, 20 settembre 2025 È un destino toccato a tutti i capi dello Stato degli ultimi trent’anni, quello di dover esortare le forze politiche a un codice di comportamento di lealtà e correttezza. Si farà sentire ancora, Sergio Mattarella, anche se deve sembrargli uno sforzo inutile, una fatica di Sisifo. Se interverrà, a modo suo, sarà in base al livello d’allarme che percepirà dal confronto/scontro tra i partiti. Dovrà farlo perché disintossicare il clima quando la lotta politica si radicalizza nel linguaggio incendiario degli ultimi giorni — che lo ha sorpreso — rientra nei doveri d’ufficio di un moderatore istituzionale quale lui è. “Bisogna disarmare le parole”, ha detto di recente papa Leone XIV. Lui la pensa allo stesso modo e ne ha dato infinite prove, esortando tutti ad “abbassare i toni” e a contenere gli eccessi della retorica davanti ai rischi di “imbarbarimento della società” e di fomentare la violenza. Deragliamenti che si ripetono, dato che viviamo in una campagna elettorale permanente. È un destino toccato a tutti i capi dello Stato degli ultimi trent’anni, quello di dover esortare le forze politiche a un codice di comportamento di lealtà e correttezza. E, curiosamente, a volte è capitato che siano stati chiamati a spiegare all’estero queste rincorse alle provocazioni come se fossero la cifra distintiva del nostro dibattito pubblico. Il 30 marzo 2011 Giorgio Napolitano si sentì chiedere alla New York University perché la politica italiana fosse ostaggio della hyper-partisanship, cioè di un eccesso di partigianeria e faziosità, e quali conseguenze ciò determinasse. Il presidente ammise che sì, “l’attitudine a dividersi è il nostro più grande problema”. Infatti, al giurista che lo interrogava, Joseph Weiler, spiegò che “da noi si assiste a una guerriglia quotidiana che crea una delegittimazione reciproca dei fronti in competizione e un grave indebolimento del nostro prestigio”. Pochi mesi dopo Napolitano ebbe conferma di quanto quel giudizio fosse dilagato fino a Oxford, quando si sentì elogiare per aver “guidato con mano saggia” i compatrioti, definiti come “gentem animosam ac facundam”, vale a dire litigiosa e lamentosa. Quasi che altrove se la passassero meglio. Questioni analogamente sconfortanti sulla credibilità del nostro sistema, sono state poste pure agli inquilini precedenti del Colle. Nel presupposto che la politica in Italia soffra cronicamente di questa patologia, la hyper-partisanship, appunto, in cui si pensa di saldare i conti con gli avversari nel modo più duro, additandoli come portatori di rancore se non inclini a scorciatoie violente. Terroristiche perfino. Silvio Berlusconi, per esempio, alla vigilia del voto del 2001, evocò “minacce personali” causate “dall’odio della sinistra”. Una sortita che costrinse Ciampi a convocare il capo della polizia e il comandante generale dei carabinieri, per poi far sapere che le paure erano ingiustificate. Ne nacque un botta e risposta parlamentare tra il vittimistico e l’accusatorio che un po’ ricorda quanto è accaduto dopo l’assassinio di Charlie Kirk, nell’America delle armi facili e dove cresce l’insofferenza verso le opinioni “nemiche”. A scuola ormai non si educa più, lo studente obbedisce e basta di Giancarlo Visitilli Corriere del Mezzogiorno, 20 settembre 2025 Non solo perché la generazione da cui provengo mi ha insegnato il dissenso, ma conoscendo un po’ gli adolescenti e le loro disobbedienze quotidiane, protrattesi nel tempo, fa strano la continua e silenziosa obbedienza degli studenti (e degli insegnanti) a scuola. Pensavo che l’ennesimo divieto, quello dei cellulari, li avrebbe indignati. Manco ciò li ha smossi, un po’ perché nella maggior parte dei casi consegnano cellulari morti e senza scheda, avendo una collezione negli zaini e nelle tasche, pronti contro la proibizione. La psicologia, la psichiatria, la pedagogia narrano continuamente del disagio giovanile, ma con l’ennesimo divieto dall’alto, vige quello che ha sostenuto a chiare lettere Marco, 17 anni, istituto tecnico: “Noi obbediamo perché ci prendiamo a paura delle sospensioni e della bocciatura, da scuola ce ne vogliamo andare prima possibile”. Emblematico ciò che dice Marco, ma anche Lusilla, liceale classica: “obbedire, lasciare i cellulari per poche ore, poi siamo liberi di fare quello che vogliamo. La scuola ormai è peggio di una caserma o di un collegio, fra state zitti, non vi muovete, guardate che vi guardiamo con il registro elettronico”, “siamo più controllati dei detenuti, anzi in carcere il cellulare i detenuti ce l’hanno, di nascosto, ma ce l’hanno”, ha continuato Alessio, liceale scientifico. La scuola della normalizzazione, dell’esclusione del difforme, per cui abbiamo “scienziati” politici con proposte di leggi contro la diversità di genere, sostenitori della “teoria gender”. Non si educa più, si obbedisce e basta. Assistiamo sempre più alla militarizzazione degli spazi pubblici e anche della scuola, fra imposizioni, controlli elettronici e non, compreso l’annientamento di qualsiasi forma di dissenso. I ragazzi a scuola hanno paura: paura della nota, delle sospensioni, di perdere l’anno, paura della Valutazione, il dio della scuola-caserma-azienda, e agiscono come soldati. Obbediscono. E con loro i docenti, come negli eserciti dei potenti. Non c’è nessuno che dissente, si indigna, perché si ha paura. Ci si conforma, la formazione è diventata conformazione. “La scuola è spazio di dialogo, confronto, sperimentazione, spazio critico, piattaforma di idee e costruzione del futuro - sostiene Daniela Dato, docente di Pedagogia generale a Foggia - credo che la politica dei divieti possa anche portare a risultati pratici ma non costruire teste ben fatte e identità responsabili capaci di agire poi proattivamente nella vita. Non so esattamente come insegnanti genitori e studenti stiano recependo tale indicazione. Mi giungono voci contrastanti. So solo cosa desidero, per i miei figli e tutti noi: che al rientro a scuola si sia dedicato del tempo a leggere, a capire, a interrogarsi sui pro e i contro di questa iniziativa del ministero”. E lo ammette questa scienziata dell’educazione: “Mi piace pensare anche che qualcuno abbia avuto il coraggio di dissentire con rispetto e pensiero critico e che gli insegnanti abbiano ascoltato e promosso la discussione”. Era Freire che invitava ad accettare e accogliere la ‘giusta collera’, “che non è protesta violenta o devianza, ma coraggio delle proprie idee. Le regole non possono essere solo imposte ma devono essere parte attiva di un patto educativo più complesso e profondo”. Migranti. Asgi: “Rimpatri, il nuovo Regolamento Ue mina i diritti umani” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 settembre 2025 Il 4 settembre si è conclusa la lettura tecnica del Consiglio dell’Unione europea della nuova proposta di Regolamento sui rimpatri, presentata dalla Commissione europea l’11 marzo 2025 per sostituire l’attuale Direttiva Rimpatri. Ma dietro il nome tecnico si nasconde quello che oltre 200 organizzazioni, tra cui l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), considerano un vero e proprio “Regolamento sulle deportazioni”. Le associazioni hanno sottoscritto un documento congiunto per denunciare un cambio di paradigma nelle politiche migratorie europee: i movimenti delle persone vengono ora trattati come una minaccia, giustificando deroghe alle garanzie fondamentali dei diritti umani. La proposta si fonda su politiche punitive, centri di detenzione, deportazioni e misure di coercizione, invece di concentrarsi su protezione, alloggio, sanità e istruzione. Le istituzioni europee hanno reso criminalizzazione, sorveglianza e discriminazione strumenti ordinari della governance migratoria, abbandonando l’approccio basato su protezione, sicurezza, inclusione sociale e ampliamento dei canali sicuri e regolari. “Le istituzioni e gli stati membri dell’Ue devono respingere misure di deportazione basate su approcci punitivi e coercitivi, che abbassano gli standard dei diritti umani e colpiscono in modo sproporzionato le persone razzializzate”, si legge nell’appello. Una delle misure più contestate è la possibilità di deportare una persona verso un paese extra- Ue con cui non ha alcun legame personale, che abbia solo attraversato o in cui non abbia mai messo piede. Una misura che, secondo le associazioni, ‘distruggerebbe famiglie e comunità in tutta Europa”. Il regolamento consente inoltre l’istituzione di “hub di ritorno” al di fuori del territorio Ue, centri simili a prigioni per chi attende la deportazione. Questi hub comporterebbero numerose violazioni dei diritti, tra cui detenzione arbitraria automatica e negazione dell’accesso alle garanzie legali. La proposta promuove l’uso sistematico della detenzione, estendendone la durata massima da 18 a 24 mesi. I criteri per la detenzione vengono allargati includendo condizioni che riguardano la maggior parte delle persone entrate irregolarmente in Europa: la semplice mancanza di documenti o la condizione di senzatetto sarebbero motivi sufficienti. Particolarmente grave la previsione della detenzione di minori, nonostante il diritto internazionale e gli standard sui diritti umani indichino chiaramente che si tratta sempre di una violazione dei diritti dell’infanzia. Il regolamento amplia la sorveglianza digitale delle persone nei procedimenti di deportazione, prevedendo la raccolta e condivisione estesa di dati personali, compresi dati sensibili sulla salute e precedenti penali, tra stati membri Ue e con paesi terzi privi di adeguati standard di protezione. Sono previste tecnologie intrusive nei centri di detenzione e “alternative digitali alla detenzione” come tracciamento Gps e sorveglianza tramite telefoni cellulari, che restano altamente intrusive e possono equivalere a una detenzione di fatto. La proposta elimina l’effetto sospensivo automatico dei ricorsi contro le decisioni di deportazione, rimuovendo una garanzia essenziale al diritto di ricorso effettivo. In assenza di un tempo minimo obbligatorio per i ricorsi, gli stati membri potrebbero rendere impossibile per le persone contestare efficacemente gli ordini di deportazione. Le oltre 200 organizzazioni firmatarie chiedono alla Commissione europea di ritirare la proposta e sollecitano il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Ue a respingerla nella sua forma attuale. “Chiediamo all’Ue di smettere di assecondare sentimenti razzisti e xenofobi e interessi aziendali, e di invertire la deriva punitiva e discriminatoria della sua politica migratoria”, conclude l’appello. “Le risorse devono essere destinate a politiche basate su sicurezza, protezione e inclusione, che rafforzino le comunità, tutelino la dignità e garantiscano a tutte le persone di vivere in sicurezza indipendentemente dallo status”. La proposta ora passerà all’esame del Parlamento europeo e del Consiglio dell’Ue per l’approvazione definitiva, mentre cresce la mobilitazione delle organizzazioni della società civile per fermare quello che considerano un pericoloso arretramento sui diritti umani in Europa. Migranti pestati e gettati in mare da militari libici. Altri guai in vista per il Governo di Luca Casarini Il Domani, 20 settembre 2025 La procura di Trapani ha avviato un’indagine contro ignoti sui fatti denunciati dalla ong. Violenze commesse “dagli uomini del governo di Tripoli”. L’esposto contro l’esecutivo- Sulla notte degli orrori a cavallo tra il 20 e il 21 agosto, quando dieci migranti sono stati lanciati in mare con molta probabilità da uomini del governo di Tripoli, la procura di Trapani ha aperto un fascicolo d’indagine. È ancora contro ignoti e mira ad accertare le responsabilità dei fatti denunciati con un esposto da Mediterranea Saving Humans, l’ong che quella notte d’estate ha portato in salvo i naufraghi e che ora invita i magistrati siciliani a indagare per tentato omicidio. Un altro esposto, oltre a quello su cui lavora il pm Gaiatta, è stato inviato alla Corte penale internazionale. “Dall’attenta visione delle fotografie scattate e dei filmati girati nel frangente da persone a bordo di nave Mediterranea, abbiamo avuto modo di constatare - si legge nell’esposto - che l’imbarcazione di tipologia militare che ha lanciato i naufraghi in mare a poca distanza dalla nostra nave è esattamente una di quelle della piccola flotta che ci ha circondato e ha cercato di intimidirci per farci allontanare dalle acque internazionali in cui stavamo svolgendo attività di monitoraggio Sar nella mattinata del precedente lunedì 18 agosto”. Dagli approfondimenti della ong è emerso che a bordo dell’imbarcazione, come già raccontato da Domani, ci fossero “militari dell’80esimo Battaglione per le “Operazioni speciali” della 111esima Brigata, capeggiata da Abdul Salam Al-Zoubi, attuale sottosegretario della Difesa nel governo di unità nazionale di Tripoli, nominato nel luglio 2024 dal primo ministro Debeibah”. Al-Zoubi, che nel mese di settembre ha incontrato al Viminale il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, il capo della Polizia Vittorio Pisani e il direttore dell’Aise Giovanni Caravelli, sarebbe il “nemico” giurato di Almasri e proprio al torturatore libico rimpatriato a gennaio dal governo Meloni con un volo di stato starebbe dando la caccia. Da qui la “promozione” a sottosegretario della Difesa. Torture e violenze - Sui motivi per cui i naufraghi, tutti provenienti dalla Libia, sarebbero stati gettati nelle acque internazionali - in piena notte e in mezzo ad onde alte circa due metri - lavoreranno, dunque, i pubblici ministeri di Trapani. I dubbi e le domande sono numerosissimi. “Non si può escludere - si legge ancora nell’esposto - né che si tratti di soggetti coinvolti nel giro delle estorsioni ai danni dei migranti trattenuti in Libia, né che tale iniziativa fosse preordinata a sollecitare azioni di contrasto e repressione nei nostri confronti, né, ancora, che l’intenzione fosse quella di allontanarci dai luoghi che sono teatro di crimini efferati contro l’umanità e di altri traffici illegali”. Tradotto: perché quei militari hanno voluto allontanare Mediterranea dalla porzione di mare in cui si trovava? Cosa stavano nascondendo gli uomini della Brigata? Troppo presto per rispondere. L’unico fatto certo è che in questa storia ci sono dieci vittime: uomini e donne che hanno rischiato l’annegamento e la morte, dopo essere stati “sottoposti a violenze di ogni genere, lavori forzati, torture e detenzione arbitraria”. Al momento - trapela dalla ong - i naufraghi “appaiono estremamente provati e versano in condizioni di estrema vulnerabilità”. Tra loro ci sono anche tre minori non accompagnati a cui adesso andrà “necessariamente assegnato un tutore”. Tramite il suo esposto Mediterranea chiede alla procura siciliana che vengano sentite come persone informate sui fatti, insieme ai suoi attivisti e “all’equipaggio a bordo della nave al fine di acquisire informazioni su quanto accaduto che siano utili ad accertare i fatti e le conseguenti responsabilità penali”. Per Mediterranea, alla luce dei fatti, non ci sarebbero dubbi: “Il governo italiano appare complice del sistema”. Un fatto che, forse, è già stato testimoniato dalla gestione della vicenda Almasri, per cui il guardasigilli Carlo Nordio, il ministro Piantedosi e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano hanno ricevuto da parte del collegio speciale di Roma un provvedimento di autorizzazione a procedere perché considerati responsabili della liberazione di Almasri, ricercato dai giudici dell’Aja. Il provvedimento, come noto, è al vaglio della Giunta per le autorizzazioni alla Camera che si riunirà la prossima settimana, e poi, il 30 settembre, deciderà sulla “sorte” dei fedelissimi della premier. Ma non lo farà su quella della capa di gabinetto di via Arenula, Giusi Bartolozzi, anche lei coinvolta nel caso Almasri e indagata per falso dalla procura ordinaria di piazzale Clodio. Ora a indagare, su fatti differenti che però richiamano nuovamente la relazione ambigua dell’Italia con la Libia, è anche un’altra procura. L’immigrazione, quel rompicapo che la sinistra mondiale non riesce a risolvere di Jack Daniel Il Dubbio, 20 settembre 2025 In Germania, secondo i sondaggi, AfD se la batte, a livello nazionale, con il Partito di Merz, più o meno entrambi dati al 25%. In Gran Bretagna, teatro, domenica 14 settembre, di una grande manifestazione della destra di Tommy Robinson, il Reform di Farage è largamente in testa e la domanda è se, da solo, sia pari alla somma di conservatori e laburisti. In Francia, il Rn di Marie Le Pen è di gran lunga il primo partito. In comune ai tre Paesi, secondo i sondaggi, la netta opposizione a politiche che favoriscano l’immigrazione, considerato spesso il primo dei problemi, accanto, appunto, all’economia. E infatti, in tutti i Paesi, il leitmotiv di questa nuova destra (volendo anche includere Trump dall’altra parte dell’Oceano) è la riposta dura da dare alla questione, con deportazioni o espulsioni immediate. Noi possiamo compiere tutte le analisi sociologiche che vogliamo, evidenziando come la paura dei migranti sia un falso problema, o che sia indotta da un sistema di diseguaglianze che spalanca la porta alla guerra tra poveri. Possiamo, e avremmo molte ragioni, ricordare l’inverno demografico e come sia necessario avere un flusso di migranti, ma il dato non cambierebbe: per gli elettori il problema immigrazione è forse il problema cruciale dei nostri tempi, e si vota chi promette di risolverlo in maniera drastica, anche in barba ad ogni principio legale o umanitario. Secondo l’Economist, il tasso di approvazione di Trump è in genere negativo. Ma se per problemi economici, quali lavoro e inflazione, lo è molto, quando si parla di immigrazione e sicurezza (che il Presidente lega a doppio filo, dal tempo degli immigrati che mangiano cani e gatti) il giudizio diventa solo leggermente negativo. Insomma: chi assicura pugno duro contro gli immigrati viene premiato. E lo vediamo anche qui, con i partiti di governo che non diminuiscono, ma semmai aumentano, i consensi dopo tre anni. Un esecutivo formato da partiti come FdI e Lega che del contrasto all’immigrazione hanno fatto il filo conduttore, che fossero blocchi navali o centri in Albania. Con quali risultati? Altro discorso, ma ciò che conta è innanzitutto la postura. Far la faccia feroce contro gli immigrati, insomma, paga. E il problema della sinistra è che, su questi temi, non può inseguire la destra senza snaturare sé stessa, a meno che non si rifugi nel rossobrunismo, come la tedesca Wagenknecht o, da noi, ma in bonsai, Marco Rizzo. Il cerchio che la sinistra non riesce a quadrare è come proporre soluzioni diverse dalle deportazioni o espulsioni di massa, contrarie ai suoi fondamenti, che, però, convincano larga parte dell’elettorato popolare che si “butta” a destra. Non solo. Minimizzando il problema, e sostenendo di fatto che l’immigrazione sia un falso problema alimentato da propaganda scandalistica, ha finito per indispettire ancora più quella parte dell’elettorato che non solo avverte quel problema, ma pure si sente messa sul banco degli imputati in quanto ingenua e credulona che cade nelle trappole della propaganda. Il che, unito alla difesa della multiculturalità, ha alimentato l’altra narrazione, assai diffusa a destra, secondo la quale la sinistra mondialista non riconosce il problema perché vuole e desidera l’immigrazione incontrollata. Da qui teorie complottistiche quali il piano Kalergi che imputa alla sinistra il volere una sostituzione etnica per eliminare i popoli europei. Inutile dire che sono fandonie, più o meno come sostenere che la terra sia piatta. Ma rimane la questione di questi tempi: che sia indotto o meno, che sia propaganda o meno, una gran parte degli elettori occidentali vede l’immigrazione come una minaccia, non come una risorsa, e la lega alla sicurezza, che mangino o no cani e gatti. Dire che sono falsi problemi non risolve: quegli elettori si sentono presi in giro, e il rischio (che vediamo) è la radicalizzazione. Eludere il problema, concentrandosi su tematiche di giustizia sociale aiuta poco: uno studio di Gennaioli e Tabellini della Bocconi suggerisce come ormai l’opinione pubblica, nonché elettorato, tenda a dividersi, più per identità culturali che per ragioni economiche quali il reddito e le sue diseguaglianze. L’immigrazione, quindi, viene vista come minaccia alla propria cultura e identità, e come tale respinta. La sinistra che oppone a tutto ciò una visione multiculturale o basata sulle diseguaglianze economiche, sottolineando come l’immigrazione sia problema secondario rispetto ad esse, rischia di parlare ad uditori sempre più vuoti. E infatti la destra avanza, e il suo tema centrale è, ovunque, il contrasto all’immigrazione e la difesa dei valori tradizionali. Quindi il problema è: come parlare di questi argomenti in maniera convincente, con soluzioni diverse da deportazioni di massa, senza ripetere ad libitum che si tratta solo di propaganda? Al momento, è un problema irrisolto. I padroni dell’odio di Antonio Polito Corriere della Sera, 20 settembre 2025 I giudizi si polarizzano ma la possibilità di dire ciò che pensiamo è un bene che non può essere sperperato. Il “free speech” è quello dei miei amici; lo “hate speech” è quello dei miei nemici. Facile, no? Orientarsi nel dibattito pubblico americano sembra diventato maledettamente complicato (e pericoloso). Però potete usare la legge che abbiamo appena indicato come una bussola che tutto spiega. È come ai tempi delle guerre di religione: gli eretici sono sempre gli altri. La destra dice: hanno ucciso Charlie Kirk, eroe Maga e uomo libero, perché senza peli sulla lingua smontava i tabù del politicamente corretto. Di conseguenza i Maga chiudono la bocca, fanno licenziare o minacciano di cause miliardarie singole persone, giornali ed emittenti che contestino o irridano le loro opinioni sul delitto Kirk; come è successo al comico Jimmy Kimmel, del quale la Abc, proprietà Disney, ha sospeso lo show televisivo per una battuta (peraltro non ben riuscita). Voi direte: ma per giudicare se il discorso sia “libero” o “di odio” basterebbe valutare la realtà dei fatti. Vi sbagliate. Prendiamo la scritta “Bella Ciao” su uno dei proiettili del giovane che ha sparato a Kirk. Per la destra Maga il richiamo a un canto “resistenziale” è la prova che l’attentatore è di sinistra; per la sinistra Antifa è la prova che frequenta videogiochi di estrema destra, dove quello stesso slogan è usato sarcasticamente. D’altra parte, è da un bel po’ che nel fantastico mondo di Trump “non esistono notizie false, ma solo fatti alternativi”. Qualche mese fa, in febbraio, il vicepresidente americano, J.D. Vance, venne fino a Monaco di Baviera per impartire una lezione agli europei: “Qui da voi la libertà di parola sta regredendo”, disse dal palco di una conferenza ad alto livello sulla sicurezza. Durante il Covid l’amministrazione Biden, accusò, incoraggiava aziende private “a mettere a tacere le persone che esprimevano la loro opinione”. Disse pure che “la minaccia che mi preoccupa di più non è la Russia, non è la Cina, ma il ritiro dell’Europa da alcuni suoi valori”. Un capolavoro di discorso: uno “hate speech” dentro un “free speech”, praticamente un “free hate”. Neanche sette mesi dopo questo nobile appello alla libertà di parola del suo vice, The Donald minaccia di ritirare le licenze alle tv ostili: “Il 97% è contro di me”. E l’uomo che ha messo a capo della Commissione federale per le comunicazioni, Brendan Carr, chiamato anche il “censor-in-chief”, ha annunciato ulteriori rappresaglie: “Con l’ecosistema dei media non abbiamo ancora finito”. Che fare? Innanzitutto ringraziare la Provvidenza che ci ha finora evitato, in questo nostro tutto sommato fortunato Paese, di finire in un tale disastro politico-culturale, nonostante i molti tentativi di emulazione. Ma poi studiare gli antidoti, per evitare di cascarci in futuro. Il primo consiglio è il seguente: più importante dello “speech” è l’”audience”. Ciò che conta non è tanto ciò che viene detto, ma come viene ascoltato e compreso. Bisogna cioè capire quanta faziosità si possa somministrare a un pubblico prima che qualcuno vada in overdose. Da questo punto di vista non possiamo stare tranquilli. Da molto tempo ormai, purtroppo, il moralismo ha preso il posto della politica qui in Italia; e dunque l’opinione pubblica è stata allenata a giudicare sempre di meno in base a criteri che, essendo politici, sono per definizione opinabili. Oggi il (pre)giudizio è invece prima di tutto etico, dunque irrigidito al massimo, fino al limite dell’intolleranza. Da trent’anni, e ancor di più negli ultimi dieci, il dibattito è ormai sintonizzato su due sole frequenze: indignazione o intrattenimento. Invettiva o satira. E infatti i comici inveiscono e i politici provano a fare i comici. In alcuni casi non si distingue più l’uno dall’altro, come il “De Luca-Crozza”, un essere bifronte insieme politico e comico. Lo spazio per un’opinione semplicemente e banalmente differente non è più contemplato. Se non sei d’accordo con le mie idee, delle due l’una: o sei prezzolato, pagato da qualcuno, o sei rimbambito e disinformato. Un tempo a Londra c’era l’angolo di un parco pubblico, “Hyde Park Corner”, per il “free speech”: chiunque poteva salire su uno sgabello e arringare la folla dei passanti su ciò che voleva. Bello ma innocuo. Oggi qualsiasi discorso, anche il più stupido e meno motivato, mobilita folle, perché al posto dello sgabello c’è il Web. Dunque, se vogliamo vaccinarci (vaccinazione non obbligatoria, intendiamoci, ma consigliata) dobbiamo iniziare con lo spezzare questo duopolio invettiva/satira. Ridando spazio e dignità all’argomento, alla spiegazione e al giornalismo indipendente (sì, indipendente). Tornare a una pedagogia del pubblico che lo induca ad accettare il contraddittorio come segno distintivo della democrazia; che funziona solo se io posso sperare di convincere un giorno chi non la pensa come me e viceversa. La deriva moralistico/indignata della vita pubblica in Occidente rischia di essere suicida. Innanzitutto facendoci dimenticare che non troppo lontano da noi chi dissente viene messo in carcere, mandato in Siberia, avvelenato o ucciso. E che la libertà di parola è perciò un bene troppo prezioso per sperperarla nell’odio. Bibbia e fucile, occhio per occhio: benvenuti in America di Sergio D’Elia* L’Unità, 20 settembre 2025 È una storia tipicamente americana che affonda le radici negli usi e costumi originari della giovane Nazione: la Bibbia e il fucile, lo sceriffo e il fuorilegge, l’occhio per occhio, la forca e il linciaggio. Il piano narrativo, come in un film, è già disegnato. Tyler Robinson, un ragazzo di appena vent’anni, di buona famiglia ma senza arte né parte, se ne va in giro armato e a piede libero. Con un fucile da caccia spara un colpo secco e preciso e uccide un ragazzo di appena trent’anni, Charlie Kirk, osservante dei Dieci Comandamenti del Vangelo e del Secondo Emendamento della Costituzione americana. Amava il Signore sulla Croce, “la risposta di Dio al male” predicava, e venerava il sacro diritto costituzionale americano alle armi libere per difendersi dal male. È stato colpito dal giovane cacciatore proprio mentre parlava di fucili e armi da fuoco negli Stati Uniti. Il fatto da cui inizia la storia è avvenuto in Utah e non avrà un lieto fine. La storia finirà come è iniziata, in nome di Dio e a colpi di fucile. Lo Stato dei Mormoni usa sia l’iniezione letale che la fucilazione. La parabola non sarà felice; in un modo o nell’altro, sarà implacabile, paradossale o speculare. In risposta al male compiuto, l’assassino forse sarà messo in croce, sul lettino letale che tale pare, con le braccia aperte e le gambe inchiodate. Oppure, più probabile, il fucile che ha ucciso Kirk ucciderà il suo assassino. Poco prima di morire, racconta un testimone, Kirk aveva proclamato con fervore al suo pubblico che “Cristo è il Signore” e che il Figlio di Dio aveva “vinto la morte”. Nel braccio della morte dello Utah, lo Stato si crederà il Signore, ma non vincerà la morte, la imporrà. Non sarà un Dio misericordioso quello che regnerà nei prossimi tempi sulla terra promessa dei Mormoni, ma un Dio spietato. Nella camera della morte di Salt Lake City, sul monito salvifico della Genesi “nessuno tocchi Caino” prevarrà la regola mortifera del Levitico “occhio per occhio, dente per dente”. Se lo Stato non riuscirà a ottenere le sostanze letali, la legge consente l’uso di un plotone di esecuzione. L’ultima è avvenuta un anno fa tramite fucilazione. La prossima sarà quella di Tyler Robinson, il ragazzo col fucile che ha sparato a Charlie Kirk, l’uomo amante della Bibbia e del fucile. C’è una sala d’attesa accanto a quella della morte, col pavimento grigio e una panca di cemento armato, il gabinetto e il lavandino di acciaio inossidabile fissati al muro. Lì, puoi pregare il Signore che vince sulla morte. Contro Gesù Cristo, la morte arriverà nella stanza dopo, e sarà più veloce e più violenta dell’iniezione letale. Nella camera della morte troneggia un tetro macchinario. Una sedia nera di ferro avvolta da cinque fibbie di cuoio, una per fermare la testa, due per bloccare il tronco, due per serrare le caviglie. Al giovane Tyler metteranno un cappuccio nero sul capo e cucito sul petto un bersaglio bianco con il centro rosso. Una tenda scura proteggerà il plotone di esecuzione. I tiratori volontari del sistema carcerario non si vedranno ma saranno pronti a sparare dietro due feritoie buie di fronte al trono illuminato della morte. Lo schiocco dei fucili che colpirà Tyler sarà secco e improvviso come quello che ha colpito Charlie. Il corpo sobbalzerà due, tre volte. Il bersaglio sul petto scomparirà all’istante. Al suo posto comparirà una macchia rossa di sangue. Un medico votato dal giuramento d’Ippocrate a salvare vite, ne certificherà la morte. Benvenuti nello Utah, la terra dei Mormoni, della promessa tradita. Benvenuti in America, la terra ferma alla Bibbia e al fucile. Per tre secoli, l’una ha ispirato l’idea di giustizia, l’altro ha diffuso la sensazione di sicurezza. Oggi, l’antico testo e l’arma da fuoco, sono divenute, ad un tempo, legge penale e strumento di esecuzione. Nel Sud della Nazione, nella “striscia della Bibbia”, che coincide con quella della pena di morte, la regola terribile della prima parte della storia raramente ha conosciuto eccezioni. Ora, quella realtà maligna rischia di estendersi anche al Nord e all’Ovest del Paese. Fino al piccolo stato messianico dello Utah dove la pena capitale è stata una pratica rara, dove nel braccio della morte sono detenute solo quattro persone. Al bravo ragazzo credente nel Signore che vince sulla morte, non è stato raccontato il lieto fine della seconda parte della storia, la buona novella del “non giudicare” e, soprattutto, del “non uccidere”. “Chi ha ucciso deve essere ucciso”, pene di morte e pene fino alla morte, non hanno fatto diminuire i reati. “Un cittadino, un’arma”, la libera circolazione delle armi da fuoco, ha minato l’ordine e la sicurezza negli Stati Uniti. La società “legge e ordine”, la Bibbia e il fucile, invece di riparare gli americani da ogni pericolo, per tragico paradosso, hanno prodotto la realtà dei delitti di sangue che in America avvengono con frequenza maggiore rispetto al resto del mondo. È la maledizione dei mezzi che prefigurano i fini. Perché sul viatico manicheo della lotta tra il bene e il male, a furia di armi da fuoco e pene capitali, anche uno Stato democratico può generare Caini e diventare esso stesso Caino! Se vogliamo dirci, non dico cristiani, ma semplicemente un po’ più umani e civili, occorre cambiare registro. Vivere nel modo e nel senso in cui vogliamo che vadano le cose. Pensare, sentire e agire in modo radicalmente nonviolento. Al contrario, la logica am ico/nemico, di azione e reazione per cui al male si risponde con il male, alla violenza privata con la violenza di stato, al fucile col fucile, è un modo di fare che genera mostri e fatti orribili, punizioni crudeli e inusuali come quelli già accaduti e altri che si annunciano nello Utah. In questi giorni ricorre il trentennale di un’altra storia che merita di essere ricordata. È una storia di violenza ma anche di resurrezione. Assomiglia a quella degli Stati Uniti, ma non è durata secoli e ha avuto un lieto fine. In Sudafrica, come negli Stati Uniti, l’uso della pena di morte è stata il prodotto della schiavitù, della violenza razziale e del linciaggio. Per molti anni, il Sudafrica è stato un leader mondiale nel numero di esecuzioni capitali. Più di mille persone sono state impiccate tra il 1981 e il 1990, con l’ultima esecuzione avvenuta nel novembre 1989. Il 95% delle persone condannate a morte durante l’apartheid erano nere, mentre tutti coloro che emettevano la sentenza erano bianchi. Quasi la metà delle persone nere giustiziate era stata condannata per l’omicidio di vittime bianche, mentre nessuna delle 31 persone bianche con vittime nere è stata giustiziata. Ma era l’era dell’apartheid. Più di trent’anni fa. L’America di oggi, invece, continua ancora a mostrare un pregiudizio nei confronti delle vittime bianche e dei carnefici neri. Dopo la fine dell’apartheid in Sudafrica, nel 1993 fu emanata una costituzione provvisoria, che includeva una carta dei diritti. I negoziati costituzionali non affrontarono la questione della pena di morte, affidando l’esame di costituzionalità ai tribunali. La Corte Costituzionale del Sudafrica fu istituita nel febbraio 1995, circa cinque anni dopo l’annuncio di una moratoria sulle esecuzioni. Nel giro di pochi mesi, la neonata Corte suprema emise una sentenza storica che aboliva la pena capitale e dava priorità ai diritti costituzionali fondamentali alla vita e alla dignità. La cancellazione dell’ultima traccia del passato coloniale cambiò il corso della storia, segnò l’inizio di una nuova era dei diritti umani in una terra che aveva conosciuto immani violenze, crimini atroci contro l’umanità. Ma il capolavoro di vera giustizia fu compiuto poco più avanti nello stesso anno, quando per sanare le ferite del passato e ristorare le vittime dell’apartheid, non furono istituiti tribunali penali, ma una “Commissione per la Verità e la Riconciliazione”. La verità per onorare la memoria delle vittime, la riconciliazione per salvaguardare il futuro del Paese. La risposta ai crimini più gravi si ispirava alla cultura tradizionale Ubuntu, una parola che può essere tradotta come “umanità attraverso gli altri” o “benevolenza verso il prossimo”, una visione della giustizia centrata sulla nonviolenza e la riparazione. Il Sud dell’Africa, con una filosofia sconosciuta nel mondo “civile”, ha sconfitto la pratica della violenza e della forca che erano state portate nel continente nero dai coloni bianchi del continente europeo. Nel sud della grande America, invece, il tempo si è fermato al tempo della Bibbia e del fucile. Occhio per occhio, colpo su colpo, pallottola per pallottola. *Nessuno tocchi Caino