Il sovraffollamento valutato per accordare la detenzione domiciliare di Fabio Fiorentin* Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2025 Le patologie del detenuto non avrebbero giustificato di per sé la scarcerazione. La condizione di sovraffollamento dell’istituto penitenziario dove il condannato è ristretto entra nelle valutazioni del giudice di sorveglianza chiamato a decidere sulla concessione della detenzione domiciliare per ragioni di salute (articolo 47-ter, lettera c, legge 354/1975). Lo ha affermato il Tribunale di sorveglianza di Torino, con l’ordinanza del 5 agosto 2025. I magistrati hanno trattato il caso di un detenuto che, avendo una pena residua inferiore a quattro anni, quattro anni, aveva chiesto di espiarla nella propria abitazione perché affetto da una serie di patologie, tra cui obesità e cardiopatia ischemica. Un quadro però che, ad avviso dei sanitari, non presentava condizioni cliniche di particolare gravità tali da richiedere, come prevede la norma penitenziaria, “costanti contatti con i presidi sanitari territoriali” né “acuzie” tali da non poter essere gestite con la detenzione in carcere. Per questo motivo, il magistrato di sorveglianza aveva respinto in prima battuta l’istanza di applicazione provvisoria della misura domiciliare. Decisione ribaltata dal collegio che ha, invece, concesso la detenzione domestica con un’interpretazione evolutiva della norma. Il Tribunale ha riconosciuto che, nel caso concreto, il detenuto non versava in condizioni di incompatibilità con il regime detentivo. Tuttavia, ha ritenuto doveroso valutare l’effettiva necessità della permanenza in carcere di una persona affetta da patologie, pur non di notevole gravità, la cui incidenza, sommandosi alla difficoltà di vita all’interno di carceri eccessivamente affollate, comporti un surplus di sofferenza psicologica suscettibile di integrare una violazione costituzionale, sotto il profilo che tutela l’umanità della pena (articolo 27 Costituzione), e convenzionale, per violazione dell’articolo 3 Cedu che difende la dignità della persona umana. Nel caso specifico, il detenuto si trovava ristretto in un istituto - il “Lorusso e Cutugno” di Torino - afflitto da un tasso di sovraffollamento di oltre il 130 per cento. Questo fattore, sommato alla condizione sanitaria del ristretto e alla obiettiva difficoltà dell’amministrazione penitenziaria di gestire con le risorse disponibili l’assistenza sanitaria adeguata visto il numero di detenuti, integra, ad avviso dei giudici torinesi, una condizione di sofferenza psicologica per l’interessato eccedente quella tollerabile e inevitabilmente correlata alla detenzione carceraria. In definitiva, pur riconoscendo che, nel caso esaminato, non sussistevano i presupposti normativi per l’applicazione della detenzione domiciliare sanitaria, il Tribunale ha ritenuto di adottare un’interpretazione estensiva delle norme esistenti e di applicare comunque al detenuto una misura extramuraria valutando come intollerabile la prosecuzione della detenzione in condizioni di sovraffollamento. La decisione del Tribunale di sorveglianza di Torino suona come un grido d’allarme e manda un forte segnale della necessità - vista la situazione di sovraffollamento delle carceri - di introdurre in tempi brevi una misura alternativa che consenta, entro il limite di pena dei quattro anni anche residui di una maggiore condanna, l’esecuzione della pena a domicilio per gli autori di reati non di allarme sociale e non pericolosi. *Magistrato di Sorveglianza presso il Tribunale di Venezia Questo sistema non va: promesse e proclami, ma i suicidi aumentano di Lucio Motta filodiritto.com, 1 settembre 2025 Con il suicidio al carcere di Torino del 20.08.2025 siamo a 56 morti nella disperazione di condizioni disumane e contrarie ad ogni decenza oltre la legittima certezza della pena da espiare. Ormai non è più neppure una questione di suicidi, che sono troppi e interrogano le coscienze di ciascuno ma soprattutto chiamano a responsabilità il Ministro Nordio e lo stato italiano che nulla sa fare se non invocare la certezza della pena, la inflessibilità contro ogni logica di clemenza deflattiva orizzontale, ignorando prima di tutto che l’esecuzione di un provvedimento giudiziale impone allo Stato il rispetto finalistico dell’art. 27 della Costituzione, imponendo allo Stato di rispettare la legge. Uno stato che ignora il rispetto della legge come può pretendere che i cittadini rispettino la legge anche nelle più basilari prescrizioni di convivenza, già lo pretende inventando nuovi reati, con lo spauracchio della punizione inflessibile e irreprensibile. Una pena atroce, così spaventosa da dover fungere da deterrente. Forse è per questo che lo Stato ed il nostro Ministro Nordio mantengono le carceri nella situazione illegale ed incostituzionale, abominevole e disumana in cui sono. Ora forse è chiaro: non voglio, non intendono non possono rendere umane le carceri e risocializzante la detenzione, temono di perdere il deterrente contro i cittadini. Già perché non si comprende come difronte al dramma che si consuma quotidianamente nelle carceri italiane, dove Agenti penitenziari sotto organico sono all’estremo delle forze oramai ridotti ad baluardo a difesa dell’ultima remota trincea della frontiera senza cittadinanza, personale educativo privo di ogni risorsa per pianificare un trattamento che sappia ricondurre il detenuto al dovuto reinserimento non possono che gestire una emergenza quotidiana senza programmazione e senza prospettiva, dove la sanità non è neppure più cura palliativa incapace di governare una prevenzione impossibile in luoghi dove a mancare è prima di tutto igiene sicurezza e decoro, non si comprende appunto come difronte a ciò lo Stato ed il Ministro non capiscano che in un contenitore da 50 litri non si possa pensare di farci stare 80 litri di liquido, trenta litri tracimano muoiono. Ecco il carcere oggi è un contenitore fatto per un X persone (100) e si pretende di stivarne 160; non ci stanno, tracimano, muoiono. Ministro con buona pace della sua fantasia, e della sua faccia tosta, non è questione di strumenti di clemenza deflattiva orizzontale, no non è quello che chiedono i detenuti. Queste persone chiedono di scontare la loro pena con decenza e dignità possibilmente avendo a disposizione tutti gli strumenti che lo Satto, nel patto sociale con il paese e con la legge, deve mettere a disposizione per raggiungere l’obbiettivo voluto dalla legge delle leggi: la risocializzazione del reo. Non è lo sconto di pena che i detenuti chiedo, è la legittima aspirazione a tornare in società risocializzati dopo aver effettuato un percorso di revisione e di risocializzazione con dignità ed ispirato all’umano rispetto. Risibile pensare che se aumentiamo il numero dei detenuti in cella questi possono meglio sorvegliarsi a vicenda evitando i suicidi, i detenuti devono risocializzarsi eventualmente a sorvegliarli devono pensarci gli Agenti penitenziari (una volta chiamati secondini proprio per la vigilanza). Ministro in attesa che lei costruisca nuove carceri, aumenti i posti di detenzione con container e con ampliamenti delle strutture esistenti, veda come convertire le caserme in posti detentivi a trattamento attenuato per Semiliberi e soggetti ammessi a misure alternative, nel frattempo come facciamo a far stare 160 nel contenitore che ha capacità 100? Qualcuno, come il Presidente del Senato, propone soluzioni strette, per non irritare gli amici di coalizione e non smentire le sue categoriche esclusioni, tanto strette da apparire se non impraticabili, studiate ad personam per qualche amico. O svuotiamo contestualmente le strutture stracolme pensando di introdurre un meccanismo di sospensione esecutiva in attesa si liberino i posti, quindi a un posto che si libera si fa entrare un nuovo detenuto, o studiamo qualche sistema diversificato, ora subito ! Sicuramente NON possiamo pretendere che in attesa di una detezione umana, domani, i detenuti di oggi siano ammassati come animali, carne da macello in condizione putrida e degradante. L’Italia aspetta dal 2013 anno della prima condanna della CEDU, e in 12 anni non si è fatto NULLA. Signor Minsitro mentre Lei si fa “40 vasche nella piscina del Roquet Club di Panatta a Treviso per poi mi concedersi un Negroni o uno Spritz Campari” (intervista Nordio a il Dubbio 22.8.2025) in carcere si muore, si vive in modo disumano e degradante, si resta senza speranza in un domani. Caro Ministro, la sua totale indifferenza in spregio alla dignità della persona è tanto grave quanto la colpa dello Stato per la violazione delle leggi che impongono rispetto della persona e esecuzione della pena finalizzata al recupero sociale (risocializzazione); in nessuna Legge della Repubblica Italiana, neanche in quelle ereditate dal regime fascista, si trova scritto che compito dello Stato nella esecuzione di una pena sia quello di annichilire il condannato e trattarlo in modo disumano e degradante, stivarlo in cella dove non può vivere in modo normale, lasciarlo senza acqua calda, con servizi igienici degradati e senza una sanità che sappia prevenire patologie e abbia cura della persona malata. Per questa responsabilità che i tanti troppi insopportabilmente suicidi in carcere si verificano Lei e tutto lo stato nelle sue articolazioni amministrative siete responsabili penalmente, civilmente, politicamente e socialmente. Nell’estate 2024 avete annunciato soluzioni che non ci sono state, a luglio 2025 avete annunciato lo studio con una task force per affrontare l’emergenza del sovraffollamento carcerario che non ha prodotto alcunché e non produrrà alcun risultato. Quanto ancora l’umana decenza deve attendere? Il “codice Meloni”, così la premier si prepara all’offensiva comunicativa d’autunno di Massimiliano Panarari La Stampa, 1 settembre 2025 Slogan securitari sui social, selfie e l’idea di un nuovo portavoce per trainare la corsa delle Regionali. “L’estate sta finendo, e un anno se ne va. Sto diventando grande, lo sai che non mi va…”. Così cantavano i Righeira e, nel frattempo, il governo Meloni cerca di triplicare i suoi anni di vita. Si sta infatti avviando verso i 1.050 giorni di navigazione, rappresenta il quarto esecutivo più longevo della storia repubblicana, e punta alla “medaglia di bronzo”, il traguardo del superamento delle 1.093 giornate di durata del governo Craxi I. Con tutta una serie di problemi all’orizzonte: dallo scenario internazionale sempre più instabile e turbolento (da ultimo, il ritorno del caos in Libia) - ed è proprio, inaspettatamente, sulla politica estera che la premier si è ritrovata a puntare molte delle sue carte - a quello macroeconomico sconvolto dai dazi trumpisti e denso di incognite (per utilizzare un eufemismo), sino alle prossime elezioni regionali, dove non sono neppure andate a dama tutte le mosse per definire i candidati presidenti e perdura ancora la “grana Zaia”. Il lavoro social e mediatico della premier - E per la leader di FdI, abituata a compulsare avidamente i sondaggi prima di prendere qualche decisione di rilievo, questo del voto amministrativo appare un fronte particolarmente caldo e preoccupante, dal momento che sui territori il sinistra-centro - a dispetto della notoria tendenza all’autolesionismo - risulta nettamente competitivo. Così, archiviate le vacanze, il ritorno in pista di Giorgia Meloni si configura da subito nel mood della campagna elettorale permanente. Dopo essersene andata in Grecia standosene sostanzialmente fuori dai riflettori (un elemento di discontinuità rispetto al passato), la presidente del Consiglio espone sulla sua bacheca Instagram un “uno-due” propagandistico che ne segna la ridiscesa in campo. Anzi, un “uno-tre”. Il post securitario sullo sgombero del Leoncavallo a Milano, ancestrale battaglia della destra presentata in termini di ripristino della legalità (se non fosse per il doppiopesismo rispetto al palazzo romano del Demanio occupato dai “fascisti del terzo millennio” di CasaPound...). La gallery fotografica dal Meeting di Rimini, côté più istituzionale, ma col punto di caduta di un discorso totus politicus, condito di citazioni ad hoc per il pubblico di Cl che l’ha salutata con una standing ovation e senza praticamente nessuna proposta concreta di policy per affrontare le (gigantesche) questioni della ripresa post-ferie. E, infine, l’immancabile format “Giorgia una come noi”, che si congeda dal periodo di riposo - seppure intervallato dalla versione “Meloninternational”, tra il viaggio a Washington e i contatti con gli altri capi di governo. Eccola in auto (con la cintura allacciata): look casual, occhiali scuri, una delle abituali faccette (la fisiognomica e la prossemica sono un pilastro del suo storytelling fortemente corporale) con cui occhieggia al pubblico. Nonché un cappellino molto scanzonato sull’Unità nazionale con la scritta “Italia. Original 1861”: una spruzzata in salsa anglogiovanile di sovranismo e nazionalismo - e chissà come commenterebbero questo patriottismo made in “Brothers of Italy” gli autentici, e giustappunto original, padri dell’unificazione, figure come i sabaudi Cavour e D’Azeglio. Mobilitazione comunicativa e strategia difensiva - Insomma, fuoco alle polveri, e Meloni si prepara alla massiccia offensiva comunicativa d’autunno (sentendosi, in realtà, sulla difensiva), come lascia intendere anche il possibile passaggio del direttore del Tg1 Gian Marco Chiocci a suo portavoce. Al momento non ci sono conferme ufficiali, ma in quel sensibilissimo sismografo della politica che è la Rai il rumor è stato preso molto seriamente. L’idea del trasferimento a palazzo Chigi di una delle punte di lancia di TeleMeloni - senza, tuttavia che per il telegiornale di Rai1, come per molti altri programmi della tv di Stato militarizzata, l’audience sia stata premiante - segnala che la premier è appunto un po’ inquieta per gli esiti del voto autunnale. E reagisce all’apprensione con il rafforzamento dei suoi apparati propagandistici, per cui nelle prossime settimane ci si deve attendere un diluvio comunicativo meloniano h24 e che “non farà prigionieri”, fra legacy media (stampa e tv) e social (da Facebook a TikTok). Una mobilitazione comunicativa che, nell’opulenza della “vita smeralda”, ha visto anche l’annessione sentimentale di Fedez alla destra della coppia “panfilo e moschetto” La Russa-Santanchè. Tra narrazione identitaria e galleggiamento politico - Abile e scaltra, la presidente del Consiglio asseconderà un’onda che, in verità, stante la scarsa condizione di salute del Paese, si traduce in un mero galleggiamento (o poco più). Giorgia ormai trifronte si muoverà con il consueto funambolismo ed equilibrismo, al crocevia fra esaltazione del ruolo internazionale, strategia narrativa della normalizzazione, opportunismo, piccolo cabotaggio nella politica interna, presentazione di FdI quale partito della nazione conservatore e pragmatico, ma cercando in ogni modo possibile di continuare ad apparire come la vera e unica depositaria della tradizione della destra-destra italiana. L’ircocervo della “Balena nerazzurra”, con buona pace di Salvini (e pure di Vannacci). Il ministro Musumeci attacca: “Magistrati killer”. Ira dell’Anm: “Ci delegittima” di Concetto Vecchio La Repubblica, 1 settembre 2025 “Parole gravi, offensive”. L’Associazione nazionale magistrati reagisce così all’uscita del ministro della Protezione civile Nello Musumeci che ha definito i giudici “killer”. È l’ennesima puntata dello scontro in atto tra il governo e la magistratura, e segue i recenti affondi della premier Giorgia Meloni. Antefatto. Sabato sera, a Ragalna, in provincia di Catania, (il paese dove Ignazio La Russa è cittadino onorario, i suoi vi soggiornavano in villeggiatura) durante il festival Etna Forum, Musumeci dice testualmente: “La magistratura è politicizzata, è sotto gli occhi di tutti. E gran parte dei magistrati che ha fatto carriera in Italia proviene dalle file della sinistra, alcuni erano anche dirigenti delle organizzazioni giovanili. Il magistrato ha il compito di fare il killer, la stampa ha il compito di darne notizia”. Poi precisa meglio il suo pensiero: “Ci sono decine di casi di uomini e donne della politica, incriminati e sbattuti in prima pagina come mostri, accusati di chissà quante infamie, e dopo anni prosciolti in istruttoria o assolti perché il fatto non sussiste, ma intanto la carriera politica è stata distrutta per sempre”. La giunta esecutiva centrale dell’Anm reagisce con una nota: “Definire i magistrati killer non è solo un insulto gratuito, ma un tentativo di delegittimare chi ogni giorno applica la legge nell’interesse dei cittadini. Chi ricopre incarichi di governo dovrebbe misurare le parole, invece di alimentare sospetti e propaganda contro chi ha il solo compito - costituzionale - di rendere giustizia. I killer sono quelli che la magistratura italiana, in collaborazione con le forze dell’ordine, assicura alla giustizia rendendo l’Italia il Paese con il tasso di omicidi più basso dell’Unione europea. La magistratura non è né braccio armato né strumento politico: chi la descrive così dimostra di non avere rispetto né per le istituzioni né per la verità”. Tra i pochi a reagire, al livello politico, la senatrice Enza Rando, responsabile legalità del Pd: “Parole pericolose. Delegittimare la magistratura significa colpire al cuore lo Stato di diritto e minare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Non è la prima volta che dal governo arrivano attacchi di questo genere”. A Rimini, al Meeting, Giorgia Meloni aveva denunciato “l’invasione di campo di giudici politicizzati”. Il 7 agosto, al Tg5, aveva parlato di un disegno politico dei magistrati. Tutto questo alla vigilia dell’elezione del nuovo primo presidente della Corte di Cassazione. Il 9 settembre andrà in pensione Margherita Cassano, e giovedì prossimo, al Csm, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il plenum dovrà scegliere il successore. La sfida è tra Pasquale D’Ascola, presidente aggiunto della Cassazione, e Stefano Migini, segretario generale della Suprema corte. Con D’Ascola sono schierati i togati di sinistra, Maurizio Carbone di Area e Mimma Miele di Magistratura democratica, Michele Forzati di Unicost e il laico di minoranza, Ernesto Carbone. Mogini invece può contare sul sostegno della consigliera laica in quota Lega, Claudia Eccher e del togato di Magistratura indipendente, Eligio Paolini. Il vittimismo del Governo allergico al controllo di giustizia e stampa libera di Lirio Abbate La Repubblica, 1 settembre 2025 Quando un ministro della Repubblica, in questo caso Nello Musumeci, con voce rotta dall’indignazione teatrale, accusa i magistrati di essere “killer” e i giornalisti di esserne complici armati di penna, non ci troviamo davanti a una sbavatura verbale, né a un’esuberanza da comizio. Siamo, invece, al cospetto di un disegno. Un disegno consapevole, deliberato, persino collaudato. Si tratta dell’ennesimo tentativo, consunto, eppure sempre efficace per certi pubblici, di delegittimare le due forme più potenti di controllo del potere: la giustizia autonoma e l’informazione libera. Il ministro Musumeci, con un cipiglio che pare preso in prestito da un teatro dell’assurdo più che da un governo liberale, finge di difendere i “distrutti” dalla macchina del fango, ma in realtà colpisce al cuore due capisaldi di ogni democrazia liberale: la magistratura indipendente e il giornalismo che sorveglia il potere. E allora: chi teme davvero il giudizio dei magistrati? Chi ha paura delle parole pubblicate? Chi si scopre nudo quando il giornalista racconta, con nomi e documenti, il patto nascosto, la menzogna del tribuno, l’affare torbido? Sono gli stessi che oggi, con la voce di un ministro, accusano i giudici di essere sicari e i cronisti di essere correi. Questo è lo schema. Il potere, quando sente di vacillare sotto lo scrutinio della legge e della stampa, si racconta come vittima. Si costruisce una mitologia dove il corrotto è in realtà perseguitato; il ladro, un martire della giustizia a orologeria; il bugiardo, un patriota. E non è un caso che queste parole vengano pronunciate a Catania, dove a maggio di due anni fa la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha definito le tasse “un pizzo di Stato”. Anche lì, il linguaggio non era una svista. Era un colpo assestato alle fondamenta stesse dello Stato di diritto. Se il fisco è mafia, lo Stato è il nemico. Se il giudice è un killer, la legge è una vendetta. Se il giornalista è una spia, la verità è un fastidio. Il vero problema non è che un politico venga assolto dopo un lungo processo: è che la politica preferisca il silenzio alla trasparenza. Che pretenda una stampa muta e una giustizia cieca. Il punto non è l’innocenza, ma il dovere di rendere conto. È questa la fatica della democrazia: che ogni uomo pubblico risponda delle sue azioni. Non davanti a un tribunale speciale del popolo, ma davanti ai giudici, se c’è un reato, e davanti all’opinione pubblica se c’è un’etica da infrangere. Musumeci vuole un Paese in cui la stampa non racconti e i magistrati non indaghino, almeno quando a essere indagato è “uno dei nostri”. Ma questo Paese, per fortuna, non esiste ancora. E se continua a esistere, è proprio grazie a quei giudici che non piegano la schiena e a quei giornalisti che non si fanno zittire dai morsi del potere. Alla fine, ciò che dà fastidio non è l’errore giudiziario o l’informazione inesatta, che esistono, certo, e vanno corretti. Ciò che davvero disturba certi ministri è la luce. Perché il potere, quando ha qualcosa da nascondere, non ama mai che qualcuno accenda un riflettore. “Capisco il dolore della mamma di Tommy, ma è così che funziona uno Stato di diritto” di Giuseppe Legato La Stampa, 1 settembre 2025 La procuratrice generale del Piemonte, Lucia Musti: “Il rapitore è libero perché contribuì alle indagini”. “La mamma di Tommy racconta che lei ha un ergastolo a vita e invece Salvatore Raimondi, uno degli assassini di suo figlio, è uscito dal carcere? Sono una madre come lei e capisco benissimo questa dichiarazione, so altrettanto bene che la pena di questa donna durerà fino all’ultimo minuto della sua vita, ma nella storia di questa scarcerazione non vi è alcuna mancanza. È stata applicata una legge dello Stato all’esito dell’osservazione dell’esecuzione della pena che nel nostro ordinamento è demandata a una magistratura specializzata qual è quella di Sorveglianza. Con tanto di relazioni di educatori, psicologi e assistenti sociali. Se poi vogliamo uno Stato che sospende i benefici o - peggio ancora - applica la legge del taglione bisogna dirsi con franchezza come questo si concili con la Costituzione e i principi rieducativi e riabilitativi della pena in carcere”. Lucia Musti, oggi Procuratore generale di Piemonte e Valle D’Aosta, nel 2006 era pm della Dda di Bologna. Sua fu l’indagine relativa al sequestro a scopo di estorsione all’uccisione del piccolo Tommy. Procuratore, come si concilia il dolore di una madre con la libertà riottenuta dopo 20 anni da uno degli assassini del figlio piccolo? “Con uno Stato di diritto che ha visto Raimondi scegliere, come la legge gli riconosce, il rito abbreviato e quindi passare da 30 a 20 anni di carcere”. Tutto qui? “Resta il fatto che quando un genitore si trova a dover seppellire il proprio figlio è la prova peggiore che può affrontare nel corso di un’esistenza”. La madre non perdona... “Il perdono è un dono ed è fortunato chi riesce a perdonare perché trova in qualche modo una sua pace interiore. E comunque non è dovuto”. La signora fa capire che la pena non sia commisurata al fatto. Cosa pensa? “È un diritto di ogni cittadino. Si pensi, ad esempio, alle pene molto più miti, che vengono inflitte nel caso di un omicidio stradale ovvero per colpa medica: anche in questi casi vi è stata la privazione del bene fondamentale che è la vita umana. Bisogna decidere se ci piace uno Stato di diritto in cui le pene, pur mai adeguate certo rispetto al dolore, vengono scontate sotto il controllo della magistratura oppure fare come il protagonista del film “Un borghese piccolo piccolo”, per trovare pace, in realtà vendetta, dopo l’uccisione di un figlio”. Il primo ricordo che le viene in mente del periodo dell’indagine? “Mio padre era ricoverato in un ospedale bolognese in fin di vita. Consapevole che l’indagine mi avrebbe distratto dalle sue cure, pensai tuttavia che se avesse potuto parlarmi mi avrebbe spronato a fare il mio dovere fino in fondo. E così feci”. Cos’altro? “Lavorammo per circa un mese senza sosta, da mattina a mattina. Il giorno in cui fu deciso il blitz a Parma con tutta la polizia giudiziaria, ho negli occhi quel corridoio del castello ducale dove era confluita da tutta Italia l’èlite del mondo investigativo che divenne interminabile quando il mio procuratore aggiunto mi mandò a chiamare. Lungo il tragitto incrociavo alcuni investigatori con le lacrime agli occhi, mentre altri si portavano le mani ai capelli. Capì che il bimbo non c’era più”. Come la prese? “In simultanea stavo interrogando due sospettati, un uomo e una donna che in un’intercettazione parlavano di un bambino che stava bene: entrambi risultarono a quel punto estranei a qualsiasi dubbio. Fu un colpo fortissimo al cuore. Tommy me lo sognavo di notte, mi scorreva nelle vene. Tutti noi avevamo una sua foto sulla scrivania: ci dava carica e speranza. Ma si trattò anche di una svolta pur dolorosa che - ci tengo a precisarlo - fu possibile grazie a Raimondi che crollò perché in fondo era succube di Alessi. Nella sua confessione effettuò anche due chiamate in correità che apparvero altamente credibili, alla luce di alcuni elementi già raccolti e ci permise di uscire dalla caccia a 360 gradi: in quei 27 giorni firmai 300 decreti o richieste di intercettazione, il più delle volte in via d’urgenza perché gli eventi si accavallavano e tutte le circostanze andavano verificate”. Come avete detto ai genitori di Tommy che il bimbo non c’era più? “Andai io dai genitori del piccolo e in particolare avvicinai la madre in un contesto riservato e quindi può immaginare a quale livello di empatia nei suoi confronti fossi arrivata”. La capisce come mamma ma dissente come magistrato... “Non si tratta di dissentire, la mia è una visione diversa conseguente al lavoro e alla funzione che svolgo nella consapevolezza anche che la fase dell’esecuzione della pena ha rispettato le garanzie di legge e le norme dell’ordinamento penitenziario a tutela del cittadino nello Stato di diritto”. Toscana. “Per risolvere le problematiche delle carceri serve una rivoluzione culturale” di Anna Grazia Concilio spazio50.org, 1 settembre 2025 Giuseppe Fanfani, Garante dei diritti dei detenuti della Regione Toscana, racconta la condizione degli istituti penitenziari tra problematiche e possibilità di intervento. “La politica deve essere lungimirante”. Sono sedici gli istituti penitenziari della regione Toscana, a questi si devono aggiungere altri due, le carceri minorili di Firenze e Pontremoli. Tra strutture medio grandi e strutture più piccole, con una differenziazione tra l’alta sicurezza e la media, oltre alle strutture destinate ai collaboranti, la popolazione carceraria toscana si aggira intorno alle 3.200 unità. “Il 50% di detenuti - spiega Giuseppe Fanfani, Garante dei detenuti della regione - è di origine straniera, il 35% ha problemi di tossicodipendenza. In una condizione simile, le modalità di gestione sono abbastanza difficili”. Fanfani, quali sono le principali criticità negli istituti di pena in Toscana? Il sovraffollamento è la criticità che fa più effetto ma non è la più grave: abbiamo psichiatria in carcere, tossicodipendenza in carcere, il reinserimento al lavoro e la presenza di detenuti stranieri che crea problemi anche culturali e di dialogo tra le persone. Quale, tra le carceri, ha maggiori difficoltà? Certamente gli istituti con un numero alto di detenuti, quello di Prato - ad esempio -, che ne conta 580. C’è un turn over piuttosto veloce, soprattutto per chi è in custodia cautelare. Le carceri di Prato, quindi, di Sollicciano, di Livorno, Pisa e San Gimignano sono le più importanti, sia per quello che accade all’interno, sia per il numero di detenuti e sia per la loro gestione. Lo scorso anno abbiamo registrato undici suicidi e quattro quest’anno, avvenuti proprio in queste strutture. Quanti sono i diritti maggiormente negati? Le problematicità sono infinite. Il carcere ha la caratteristica di essere un’entità chiusa in cui si ripropongono tutti i problemi che possiamo riscontrare nella realtà ma con un’aggravante che - essendo sostanzialmente monastica - tutte le problematicità sono aggravate dal sistema claustrale che fa emergere le psicosi enfatizzandole. Se, secondo le indicazioni del Ministero, ogni detenuto ha diritto a uno spazio di 3 mq, già di per sé insufficiente, immaginiamo cosa voglia significare per queste persone vivere in cinque in una stanzetta di 15 mq, con questo caldo e con un bagno piccolissimo che - spesso - viene usato anche per conservare cibo. Ecco, proviamo a immaginare la condizione psicologica di chi sa che deve vivere in questo spazio. Recentemente, l’onorevole Giachetti ha presentato una proposta per la liberazione anticipata (introduzione per i prossimi due anni di un ulteriore aumento dei giorni di sconto di pena, ndr), cosa ne pensa? È una buona idea ma non è risolutiva. È, tuttavia, una norma che in questo contesto andrebbe immediatamente accettata. Cosa fa un Garante? Purtroppo, non abbiamo poteri di intervento. Il garante ha potere di controllo e denuncia ed è già una grande premessa: a patto che lo si voglia ascoltare, altrimenti nominare un garante rimane solo un’operazione per pulirsi la coscienza. Il garante denuncia continuamente ma è vero pure che bisogna avere orecchie per ascoltare, altrimenti è inutile che urli nel deserto. Cosa dovrebbe fare la politica? Guardare lontano perché solo così può creare condizioni che prescindono dalle occasionalità. Se si guarda lontano, si comincia a ragionare: cosa serve a una società e come si può organizzare? Se questa capacità non si ha, ci si attacca alle emergenze quotidiane perché sono di effetto. Questo è quello che succede in tutti i cambi, anche quando si verifica un incidente stradale o un morto sul lavoro, si interviene nell’occasione. I politici, oltre a partire dalle fondamenta giuridiche sul ruolo della rieducazione, dovrebbero, proprio per questo, ragionare anche in chiave utilitaristica. Di cosa avrebbe bisogno il carcere oggi? Di una riforma che sia prima di tutto culturale, pensando che la maggioranza dei detenuti è frutto di questa società e che queste persone prima o poi tornano nella società. Se si è svolto un buon lavoro in carcere, le persone tornano migliori nella società, se tornano peggiori il carcere ha fallito nella sua missione di formazione o riformazione. O creiamo in ciascun detenuto la prospettiva di un’esistenza sociale migliore di quella da cui proviene o questi ricade inevitabilmente nello stesso dramma da cui è partito. Come si porta la bellezza nel carcere? Con l’arte. Tutto ciò che di artistico può essere portato all’interno di un carcere è uno spazio benedetto. Nel carcere di Volterra si svolgono lezioni di teatro, di recente i detenuti hanno recitato anche a Venezia. Tutto questo abbellisce anche un ambiente che non lo è. Veneto. Minorenni a rischio, il Centro di prima accoglienza si sposta a Mestre di Davide Tamiello Il Gazzettino, 1 settembre 2025 Partiranno a fine mese i lavori per il nuovo centro di prima accoglienza per minori. Il ministero della Giustizia ha individuato lo spazio adatto a realizzarlo all’interno del tribunale minorile di via Bissa. Costo dell’operazione: 600 mila euro (già finanziati). La struttura potrà ospitare 8 minori e andrà a sostituire il Cpa di Treviso, ormai obsoleto e inadeguato. L’altra operazione prevista dal Ministero riguarda il carcere minorile: verrà chiuso quello della Marca e ne verrà aperto uno nuovo a Rovigo. Il senatore padovano Andrea Ostellari, sottosegretario alla Giustizia, un anno e mezzo fa aveva fatto un sopralluogo al Palazzo della giustizia minorile di via Bissa insieme con i vertici dell’ufficio giudiziario. In quella occasione il rappresentante del Governo aveva constatato lo stato fatiscente dell’immobile inutilizzato da una ventina d’anni. Problemi legati alla carenza di personale addetto alla vigilanza avevano di fatto bloccato la realizzazione del Cpa, destinato per legge ad accogliere - per un periodo non superiore alle 96 ore - i minori in stato di arresto, fermo o accompagnamento fino all’udienza di convalida o di espulsione. In realtà, a Mestre, lo spazio per un Cpa c’era già ma per oltre vent’anni è stato abbandonato e inutilizzato, trasformato in una sorta di archivio per faldoni. Un monumento allo spreco, legato al travagliato iter del recupero dell’ex scopificio Krull di via Forte Marghera, che trent’anni fa era stato adibito a ospitare la Pretura (prima della riforma dell’apparato giudiziario) e che il Tribunale dei Minori aveva poi restituito al Comune, che per legge è tenuto a provvedere alla sede degli uffici giudiziari, una volta ultimati i lavori di recupero. Quell’immobile doveva ospitare il Centro di prima accoglienza, una struttura di fatto detentiva per i minorenni accusati di reati e in stato di arresto o di accompagnamento. Ma non se ne è mai fatto nulla. Così il centro di prima accoglienza è rimasto all’interno della struttura che ospita il carcere minorile di Treviso. E proprio di questa situazione si era reso conto Ostellari durante il suo sopralluogo nella sede giudiziaria di via Bissa, che dal 2002 ospita il Tribunale dei Minori. Il senatore padovano, dopo avere incontrato il presidente, il procuratore capo e la magistratura minorile, nel corso della visita aveva constatato lo stato di deperimento della struttura che originariamente era stata pensato per ospitare un Cpa. E ora centro di prima accoglienza tornerà a essere. Meno impattante di un carcere, meno traumatico di una cella in commissariato o in caserma. Un’operazione che, sull’asse Rovigo-Treviso-Mestre, permetterà anche di facilitare lo smistamento dei minori. “Manteniamo i patti - aveva dichiarato dopo il sopralluogo lo stesso Ostellari - il comprensorio minorile di Treviso comprende un istituto per minori e un Cpa. Entrambi saranno progressivamente dismessi. L’azione di ammodernamento prosegue con determinazione per rendere moderno il nostro sistema dell’esecuzione penale, con una particolare attenzione alle esigenze educative e di recupero dei minori”. Reggio Calabria. Detenuto termina la pena ma resta in carcere perché nelle Rems non c’è posto di Francesca Lagatta lacnews24.it, 1 settembre 2025 Mattia Spanò ha finito di pagare i conti con la giustizia ma non può tornare a casa, perché il giudice lo ritiene socialmente pericoloso, e non può entrare in una struttura sanitaria idonea ad accogliere gli autori di reato affetti da disturbi mentali perché non c’è disponibilità. Mattia Spanò, classe 1993, ha finito di scontare la sua condanna in carcere lo scorso 15 agosto, ma non potrà uscire né sottoporsi alle cure psichiatriche di cui ha bisogno, perché nelle Rems calabresi, le Residenze per l’Emissione delle Misure di Sicurezza, non ci sono posti disponibili. Ora i suoi genitori, preoccupati per le sue sorti, hanno deciso di rendere pubblica la sua storia. Mattia Spanò è un ragazzo di Cetraro che ha gravi problemi psichici certificati dalla commissione Inps, che gli ha riconosciuto l’invalidità civile, e da una serie di perizie redatte dagli esperti. La sua condizione è aggravata dall’uso di stupefacenti. Il 29 settembre del 2019 ha una crisi fortissima e aggredisce la madre, Tina Avolio, con un coltello. “Quella mattina - dice la donna - lo avevo portato a fare delle commissioni in paese, io l’ho atteso in auto. Poi ha fatto un giro nei vicoli e quando è tornato non era più la stessa persona”. La donna voleva solo somministrargli i medicinali prescritti dal medico, ma nasce una lite che degenera e spedisce Tina in Terapia Intensiva. Mattia finisce in carcere con l’accusa di tentato omicidio. Le condizioni di Mattia sembrano non essere compatibili con il regime carcerario e il tribunale ne ordina il trasferimento in una struttura protetta appena qualche settimana dopo la convalida dell’arresto. Ma lì, Mattia ha un’altra crisi psichica e il giudice decide di riportarlo in carcere. Il detenuto fa il giro dei penitenziari della Calabria, San Lucido, Catanzaro, Vibo Valentia ed infine Arghillà, a Reggio Calabria, ma le sue condizioni di salute mentale continuano a peggiorare e lui compie “plurimi illeciti disciplinari”. Oltretutto, diverse volte prova a togliersi la vita. Un giorno beve candeggina e viene salvato per un soffio, grazie all’allarme tempestivo lanciato da un compagno di cella. Il suo legale, l’avvocato Marco Bianco, prova a chiedere la misura alternativa dell’inserimento in una Rems, una tipologia di struttura sanitaria destinata ad accogliere autori di reato affetti da disturbi mentali, ma la richiesta non viene accolta perché le liste d’attesa sono infinite a fronte di soli venti posti disponibili in tutta la Calabria. Il 13 giugno del 2025 è lo stesso Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro, basandosi su una serie di perizie redatte da uno psichiatra, a ordinare per Mattia un “trattamento terapeutico in ambiente protetto” e l’inserimento in una Rems, ritenendolo un soggetto socialmente pericoloso. Il detenuto, tramite il suo legale, presenta un reclamo chiedendo la sospensione dell’ordinanza; la sua condanna sta per estinguersi e vuole tornare a casa. Il collegio del tribunale respinge la richiesta e resta fermo sulla sua decisione, ma nonostante la gravità della situazione, non succede nulla, nemmeno il 15 agosto, quando il giovane è ufficialmente un uomo libero perché ha finito di pagare i suoi conti con la giustizia. Mattia Spanò continua a essere detenuto in una cella del carcere di Arghillà. Mattia è provato, dicono i suoi cari, e in una delle ultime telefonate dal carcere al padre avrebbe nuovamente confessato l’intenzione di togliersi la vita. “Perdonami, papà - avrebbe detto al genitore - ma non ce la faccio più”. La sua famiglia, disperata, si è rivolta anche all’avvocato Giuseppe Aloisio, neo Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della città di Reggio Calabria. Aloisio, avrebbe già incontrato Mattia in un paio di occasioni durante le ispezioni in carcere, mentre domani, 1° settembre 2025, incontrerà i famigliari per comprendere il da farsi, il prima possibile. La vita di Mattia è appena a un filo e non c’è tempo da perdere. Ivrea (To). Il carcere è un quartiere della città? Forse, ma molto molto periferico di Cadigia Perini giornalelavoce.it, 1 settembre 2025 Tra retorica dell’inclusione e simboli vuoti, al carcere di Ivrea si spengono le voci e crescono tensioni e disorganizzazione: l’articolo 27 resta lettera morta. “Il carcere è un quartiere di Ivrea”, si sente dire fra le menti più aperte della città. L’intento è quello di trasmettere inclusione, affermare che il carcere non è cosa avulsa dalla città, ma sua parte integrante. Ma il passaggio all’atto pratico, dalle belle parole alle azioni concrete, è pieno di ostacoli. La responsabilità, a mio parere, sta in due questioni. Da un lato, il cambio di direzione della Casa circondariale che ha ostacolato fino a cancellarle iniziative di scambio dentro-fuori, di comprensione del disagio, di prospettiva. Penso alla chiusura della redazione La Fenice o alla cancellazione di laboratori espressivi. Dall’altro lato, l’iniziativa istituzionale non riesce ad essere incisiva. Sembra più orientata al bel gesto simbolico, da celebrare con inaugurazioni, tagli di nastri, foto, ecc. che a reali percorsi di cambiamento di visione. Penso alla panchina rossa che tutti possiamo vedere davanti alle mura carcerarie, fulgido esempio (monito) di inutilità per il cambiamento. Penso ai gatti galeotti, se c’è un animale che non si può chiudere in un recinto quello è proprio il gatto. Per questo l’associazione Eporedianimali, che gestisce il gattile di Ivrea e cura diverse colonie sul territorio, ha sempre dato giudizio sfavorevole al progetto, motivandone la contrarietà. Ogni tanto mi chiedo dove saranno questi mici, se usano la lussuosa struttura in lamiera (costo 8.500 euro) o se vagano come loro abitudine in luoghi diversi, se entrano in contatto con i pochi detenuti scelti per l’esperimento, se questi ne hanno giovamento. Eppure, panchina e struttura in lamiera sono ancora lì. La Fenice è stata chiusa. In linea con altre direzioni carcerarie che non afferrano il semplice principio che poter esprimere i propri sentimenti, il disagio, il dolore, il pentimento, la rabbia, scrivendo, è un beneficio non solo per i detenuti, ma di conseguenza anche per chi nel carcere ci lavora. Avere un luogo dove poter scambiare riflessioni ed esperienze è una magnifica valvola si sfogo, non è difficile da capire. Eh, ma parlavano male del carcere. Beh, non è che le carceri italiane brillino per aderenza al dettato costituzionale sulle pene. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” raccomanda l’articolo 27 della Costituzione italiana. Lasciare dei detenuti in celle affollate, al caldo infernale che anche sul cervello di chi è libero fuori può avere effetti devastanti, porta quasi inevitabilmente a eventi di intolleranza e aggressività. Così si susseguono gli episodi di tensione, gli scatti di escandescenza, attacchi verso sé stessi e verso la polizia penitenziaria. E c’è una cosa mi colpisce nella cronaca giornalistica di questi episodi: l’assenza di una voce in difesa dei detenuti. Per la polizia penitenziaria intervengono puntualmente, e legittimamente, i sindacati di categoria. A Ivrea, dopo i casi di agosto, questi denunciano un problema di dirigenza e organizzazione: “manca da quattro anni un comandante titolare”, e questo riguarda il loro Corpo, “il livello di disorganizzazione e degrado nell’istituto è giunto ai massimi storici” e questo riguarda la direzione del carcere. L’ultimo intervento del garante dei detenuti di Ivrea risale al maggio scorso (se non me sono persa altri). L’amministrazione comunale che pure, novità per Ivrea, ha una delega specifica per il carcere pare anch’essa in difficoltà nel rapporto con quel quartiere della città. Il carcere di Ivrea non è certo un caso isolato, ma purtroppo rispecchia appieno il sistema penitenziario italiano, abissalmente distante da quell’articolo 27 citato prima. Questo non consola nessuno, preferiremmo essere un modello da imitare invece che uno fra i tanti luoghi di costrizione disumana. La pena per un detenuto è la perdita della libertà, non altro. Per chi è interessato al tema, sul sito de La Fenice (lafenice.varieventuali.it), trasformato da “giornale dal carcere” a “voci dal carcere”, per tenere viva l’attenzione sul tema, si continuano a pubblicare articoli, testimonianze, racconti e denunce presi da altre pubblicazioni. In attesa che una più illuminata direzione permetta la riapertura della redazione dentro il carcere di Ivrea, per raccontare vite e provare a riflettere insieme su tutto il sistema che chiaramente sta fallendo considerato che quasi il 70% di chi entra in carcere c’è già stato, due detenuti su tre. Venezia. Chiude l’associazione “La Gabbianella e altri animali”, da 25 anni accanto ai minori genteveneta.it, 1 settembre 2025 Nata nel 1999 per porre l’attenzione sul tema dell’adozione e dell’affido, cui dal 2003 è seguito l’accompagnamento dei figli delle detenute del carcere femminile della Giudecca all’asilo nido, l’associazione la Gabbianella e altri animali (con sede a Sacca Fisola) è stata guidata fin dalla sua fondazione da Carla Forcolin, che in prima persona si è spesa sul tema degli affidi, ma anche sulla questione della detenzione dei bambini accanto alle loro madri in carcere, intervenendo più volte in Parlamento sulle problematiche dei minori costretti a crescere dietro le sbarre. Tre anni fa la presidenza dell’associazione è stata affidata ad Anna Sacerdoti, già psicoterapeuta e medico scolastico, molto sensibile proprio ai temi dell’educazione. “Abbiamo portato avanti alcuni progetti legati alla povertà educativa, concludendo un progetto avviato in tempo di Covid. In particolare abbiamo seguito dei bambini di Marghera, provenienti da famiglie straniere, che necessitavano di un supporto pomeridiano, a livello educativo e non solo. In questo modo - spiega Anna Sacerdoti - abbiamo anche potuto coinvolgere le famiglie, soprattutto le madri”. La Gabbianella ha poi proseguito il progetto, avviato molti anni prima, della capanna solidale per famiglie e bambini che altrimenti non avrebbero potuto andare al mare durante le vacanze estive. “E abbiamo rivitalizzato un orto-giardino presso la Cita a Marghera”, riferisce ancora la presidente che il prossimo 19 settembre presenterà all’assemblea straordinaria la decisione di chiudere l’associazione. “Purtroppo manca il ricambio generazionale. Alcuni volontari hanno lasciato e poi le pratiche burocratiche richiedono tempo, energie e costi, dato che serve l’assistenza di un commercialista. Lavorare per progetti, senza un finanziamento costante, comporta un grande impegno. Ma speriamo di trovare il modo di far proseguire i nostri progetti. Una possibilità sarebbe la collaborazione con l’associazione Baba Jaga, che ha sede all’ex asilo di Sacca Fisola e che ha già collaborato attraverso la sua presidente Ester Carmen Brumat. Un filo di speranza rimane”. La storia dell’associazione La Gabbianella e altri animali si trova sul sito https://www.lagabbianella.org/?p=2762 Perugia. Detenuti a Fontivegge e Monteluce con la giustizia riparativa di Alessandro Antonini corrieredimaremma.it, 1 settembre 2025 Il progetto Semi si Carità della Caritas entrerà nel vivo nel mese di settembre. Entrerà nel vivo nel mese di settembre il progetto Semi di carità, promosso dalla Caritas, che prevede l’avvio di due percorsi pilota nei quartieri di Monteluce e Fontivegge con la costruzione di modelli di giustizia riparativa da mettere a servizio delle comunità. “Si tratta - spiega una nota della Caritas - di un percorso che inaugura una nuova fase per l’Umbria, ponendola sulla scia delle esperienze nazionali più avanzate nel campo della giustizia riparativa. Questo progetto getta le basi per un territorio più consapevole, equo e coeso, trasformando valori, principi e pratiche in opportunità concrete di crescita e rafforzando il senso di comunità”. “La giustizia riparativa - aveva spiegato nel primo evento di presentazione del progetto il direttore della Caritas diocesana Marco Briziarelli - non è solo qualcosa di complementare alla giustizia retributiva, ma è un paradigma che ridefinisce il significato stesso di giustizia. Attraverso l’ascolto, il dialogo, l’incontro e la responsabilità condivisa è possibile trasformare la giustizia in un processo che non si limita a punire, ma che rigenera, riconnette e costruisce comunità più inclusive. È un’opportunità unica per il nostro territorio: un laboratorio di cambiamento culturale che pone al centro la responsabilità e la partecipazione attiva di tutti gli attori coinvolti”. E, proprio in questo senso, Semi di Carità, ha come obiettivi quelli di creare percorsi di inclusione sociale e lavorativa per persone detenute o ex detenute, sensibilizzare rispetto ai valori e alle pratiche di giustizia ristorativa, coinvolgere attivamente la comunità scolastica sulla giustizia riparativa e coinvolgere anche l’intera comunità nei processi di mitigazione dei conflitti e sviluppo della coesione sociale. Proprio in questo senso, il progetto prevede anche la creazione di un tavolo di coordinamento locale sul tema. In particolare, i progetti riguardanti i due quartieri di Perugia, prevedono la “costruzione di comunità più inclusive, solidali e consapevoli, attraverso l’ascolto attivo e il coinvolgimento diretto di cittadine, cittadini, istituzioni, associazioni, realtà commerciali”. Il progetto si sviluppa con il supporto di professionisti esperti e la partecipazione attiva dei partner e delle comunità dei due quartieri coinvolti, con l’obiettivo di ascoltare i bisogni reali delle persone, valorizzare le esperienze e risorse del territorio e rafforzare i legami sociali. Proprio in quest’ottica, da fine settembre partiranno gli incontri nei quartieri. In particolare, a Fontivegge si parte il 25 settembre e poi si proseguirà con cadenza settimanale a ottobre fino ad arrivare a un incontro finale il 7 novembre. Per quanto riguarda invece Monteluce, gli incontri renderanno il via il 29 settembre e proseguiranno a ottobre (6-13-20-24) per terminare infine a novembre (3 e 10). In altre zone d’Italia il progetto, è già strutturato e attivo per quanto riguarda i quartieri e le scuole. A Perugia ce n’è stato uno portato a termine lo scorso anno che era stato raccontato a dicembre durante un incontro in Caritas. Alfonso Dragone, referente dell’area progetti e fundraising della Caritas diocesana, aveva spiegato: “Il progetto ha permesso, tra l’altro, l’inserimento di due detenuti come operatori di due opere segno della Caritas diocesana, l’incontro con circa cento studenti di una scuola superiore, il percorso sia sulla giustizia riparativa che sulle misure alternative alle pene in comunità con insegnanti di religione, l’attività di sensibilizzazione-informazione di queste tematiche con i volontari dei Centri di ascolto parrocchiali e interparrocchiali in modo da determinare una capillarità e una cultura sulla giustizia riparativa a livello territoriale”. Gorizia. Vincitori premio letterario nazionale “inVISIBILI nell’INvisibile” di Associazione “Dipende da me” Ristretti Orizzonti, 1 settembre 2025 Una sala piena, nonostante altri eventi limitrofi e il delicato argomento, quella dell’evento “Le dipendenze nei penitenziari” che si è tenuto venerdì 29 agosto in Sala Dora Bassi a Gorizia. “La partecipazione attenta del pubblico penso dimostri quanto bisogno urgente c’è di risposte concrete, di cambiamenti sostanziali nell’ambito del sistema carcerario” afferma Michela Porta, giornalista e presidente dell’associazione “Dipende da me”. Durante la serata, infatti, sono emerse, tra operatori del settore, reali necessità di creare rete con un lavoro integrato tra Ser.D, CSM, Medicina penitenziaria e istituto penitenziario, e i benefici effettivi del lavoro sul singolo. Sono inoltre stati rivelati i nomi dei vincitori del primo bando del premio letterario nazionale “inVISIBILI nell’INvisibile” dedicato a detenuti ed ex detenuti, in collaborazione con Co.N.O.S.C.I. aps (Coordinamento Nazionale degli Operatori per la Salute nelle Carceri Italiane). Una grande partecipazione, con quasi una cinquantina di elaborati, nonostante i tempi ristretti e il periodo estivo. “Ne è emerso un quadro difficile, di grande sofferenza, ma anche di grande profondità, - possibile solo a chi ha sofferto tanto e, soprattutto, speranza” afferma de Robert, giornalista Rai e membro della giuria. L’obiettivo è quello di dare luce a chi invisibile non deve esserlo, neanche nel periodo di reclusione, dando spazio a storie -tra problematiche e opportunitàvissute in carcere nonché a come viene vissuta la dipendenza al suo interno. Tutte le storie andranno a far parte di un volume chiamato “inVISIBILI nell’INvisibile - Le parole che non vi ho detto” del quale verrà data comunicazione successivamente. La giuria è composta da una commissione formata da : Michela Porta (presidente Dipende da me, giornalista e insegnante), Sandro Libianchi (Co.N.O.S.C.I. aps, già responsabile medico unità operativa sanitaria Rebibbia),Silvia Costa (educatrice comunità terapeutica), Daniela de Robert (giornalista Rai),Gabriella Stramaccioni (ex garante Roma), Alessandro Agus (responsabile medico SerD di Monfalcone), Alessandra Dragone (scrittrice), Denise Amerini (CGIL Naz.le, Area Stato sociale – diritti, Responsabile Carcere – dipendenze), Katya Maugeri (giornalista e scrittrice), Andrea Sandra (avvocato e garante di Udine), Carolina Antonucci (volontaria penitenziaria), Annamaria D'Ottavi (psicologa penitenziaria di Rebibbia), Rosanna Mancinelli (primo ricercatore ISS), Eugenia Fiorillo (educatrice) e Alberto Arnaudo (medico già direttore SerD Cuneo e scrittore). Questi i vincitori: il terzo classificato, per l’accezione romantica del testo in contesto opposto, è Ramon da Voghera con il racconto “Il fabbricante di maschere”. Il secondo classificato, per aver spaziato con pienezza in ogni criterio valutativo e per lo stile personale, è “Vivere nell’ombra” di Martincek da Gorizia. Il primo classificato, per il lavoro di equipe con operatori e altri detenuti capace di esaltare le capacità personali, per l’originalità dell’opera e per il valore del messaggio inerente ai rapporti affettivi al di fuori della struttura che mantengono in vita lo spirito durante la detenzione, è “X Sofia” di Raffaele da Matera. Ai primi tre, oltre all’attestato di pergamena, verrà inviato un set di scrittura e il libro in via di pubblicazione. Il primo classificato riceverà, inoltre, un book da disegno e un diploma grafico firmato da Paolo Marabotto. Sarzana (Sp). Sotto i riflettori il mondo reale, da Gaza all’emergenza carceri di Angela Lombardo La Nazione, 1 settembre 2025 Anche l’attualità è cultura: la kermesse ha offerto spazi qualificati di approfondimento e riflessione. Tre giorni di un intenso e ricco flusso di idee e conoscenze premiati da una grande affluenza di pubblico. “E ora, dopo un fine settimana in cui siamo diventati più intelligenti, torniamo tutti stupidi per gli altri 362 giorni dell’anno”. È la frase che serpeggia tra i sarzanesi al termine di ogni edizione del Festival della Mente. C’è chi la pronuncia come battuta fra due risate. Chi con il rammarico di non avere altre manifestazioni di analogo rilievo nel resto dell’anno in città. Chi con un filo di invidia per essere escluso dall’organizzazione pur ritenendo di averne i meriti. Chi si sente sollevato per il ritorno a una sonnacchiosa normalità dopo tre giorni di gran trambusto. Comunque la si voglia vedere, è fuor di dubbio che anche quest’anno il Festival della Mente ha confermato una formula ancora vitale, vincente e fortemente attrattiva. Nonostante i suoi 22 anni. Anzi. Quest’anno sembra persino aver acquisito una nuova grandezza. Quella che porta saperi e conoscenze a dialogare tra loro e con l’esterno sull’attualità più stringente e sulle emergenze del momento. Come la strage dei palestinesi, ricordata dal palco nella cerimonia di inaugurazione dalla sindaca Cristina Ponzanelli, mentre all’esterno una trentina di attivisti del coordinamento “Restiamo umani - Riconvertiamo Sea Future” accoglieva relatori e ospiti al grido “Palestina libera”. Protesta salutata sullo stesso palco dall’assessore regionale Giacomo Raul Giampedrone con l’invito ad appoggiarla con un grande applauso. Protesta che, con slogan lanciati a intervalli regolari, ha accompagnato anche la lectio magistralis del professore Paolo Magri incentrata su Donald Trump, il presidente statunitense che quel massacro lo sta sostenendo. E ancora Gaza è tornata protagonista il giorno dopo nelle storie strazianti dei suoi bambini, vittime innocenti, raccontate dalla giornalista e scrittrice Francesca Mannocchi. Poi c’è la questione femminile, affrontata dallo storico Alessandro Barbero nella conferenza sull’invisibilità delle donne nella storiografia e riproposto ieri sera al Teatro Impavidi, in una diversa declinazione, con lo spettacolo Maria Stuarda, commovente testo teatrale scritto da Nicoletta Verna e portato in scena in anteprima a Sarzana da Marina Rocco con l’accompagnamento musicale della sassofonista Martina Notaro. E ancora, l’emergenza della detenzione nelle carceri, con un focus sull’importanza della porosità tra il carcere e quello che c’è fuori. Ne ha parlato sabato mattina nell’intervento “Potenza di ciò che non si vede e non si sa” Edoardo Albinati, per trent’anni insegnante nel carcere di Rebibbia. Lo hanno mostrato in tutta la loro efficacia la prima e le repliche dello spettacolo teatrale “Favola di Cì” pensato proprio per il festival. Un’incursione poetica e coinvolgente, per adulti e soprattutto bambini, in una storia di errori, sogni e nuovi inizi, portata in scena da una dozzina di detenuti della Casa Circondariale di Spezia all’interno del progetto “Per Aspera ad Astra. Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza”. Una promettente iniziativa nazionale nata nel 2018, promossa da Acri e finanziata da undici Fondazioni. A Spezia il progetto, sostenuto da Fondazione Carispezia, si articola in laboratori di teatro, scenotecnica e fonica, curati da Scarti - Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione. Insomma, si sono conclusi tre giorni di un intenso e ricco flusso di idee e conoscenze. Difficile pensare che si dissolverà, lasciandoci di nuovo stupidi come prima. “Un Prophète”, carcere specchio della società Francesca Pierleoni ansa.it, 1 settembre 2025 Fuori concorso al Lido la serie ispirata dal film di Audiard. La realtà carceraria “non è ‘altra’, è uno specchio della nostra società in tutti i suoi aspetti, aiuta a comprendere il mondo in cui viviamo”. Ne è convinto Enrico Maria Artale, regista di Un prophète, la serie francese in otto episodi (ispirata dal capolavoro cinematografico del 2009 di Jacques Audiard, parte del team creativo è lo stesso) al debutto alla Mostra del cinema di Venezia fuori concorso e in onda su Canal+ nel 2026. Sono in corso anche trattative per la messa in onda in Italia, “sono interessati in molti” spiega il produttore Marco Cherqui, che ha scelto Artale per la regia “perché non aveva timori reverenziali nei confronti di Audiard, a differenza di molti registi francesi a cui avevo proposto il progetto, aveva una sua visione ed era in piena sintonia con gli autori nel voler rendere la storia il più attuale possibile”. La serie, girata in parte anche in Puglia (dove è stata allestita la prigione dell’ambientazione marsigliese, con una troupe franco italiana), racconta la storia di Malik (Mamadou Sidibé, per la prima volta sullo schermo), giovane africano, utilizzato come ‘mulo’ per portare droga a Marsiglia. Tuttavia il crollo del palazzo dove stava facendo la consegna lo fa finire nelle mani della polizia e, visto il rifiuto a rivelare i complici, in prigione. È il luogo dove incontra Massoud (Sami Bouajila), un potente, disincantato e ambiguo uomo d’affari e ‘palazzinaro’, finito in prigione per un patto politico. L’imprenditore offre a Malik protezione in cambio della sua obbedienza, ma Malik si rende conto di essere solo una pedina. Nel cast, fra gli altri, anche Ouassini Embarek, Salim Kechiouche, Nailia Harzoune e Moussa Maaskri. “Ho fatto una lunga ricerca sulla realtà del carcere francese - aggiunge Artale, che si era messo in luce con film come Il terzo tempo, El paraiso e la serie Romulus - per comprendere quale fosse il rapporto mimetico con le persone. Da un lato volevamo aderire alla realtà, visto che questa è anche una questione politica, ma allo stesso tempo non volevamo farci imprigionare da quell’aspetto e aspirare a qualcosa di universale, etico, con un tratto romanzesco”. Per prepararsi, il regista ha visitato le carceri francesi e ha trascorso molto tempo a Marsiglia con ragazzi “che avevano scontato una pena. Così ho imparato anche cose sorprendenti, qualcuno mi ha detto, per esempio, che quello in prigione era stato il più bel periodo della sua vita”. Con gli autori “non volevano raccontare i personaggi come animali o vittime ma come persone degne, a volte anche nobili perché a qualcuno di loro quella reclusione aveva anche portato momenti di alta riflessione”. Per Artale è stato appassionante confrontarsi “col vissuto di questi ragazzi e dovremmo fermarci a riflettere tanti aspetti”. Uno, ad esempio, è che “sono tutti ragazzi, la criminalità ha sempre più al centro una generazione di giovanissimi anche in Francia”. Il regista Andrea Segre: “La mia zattera per i giovani che vogliono fare cinema” di Sara D’Ascenzo Corriere della Sera, 1 settembre 2025 Lunedi alle 9.30 il documentarista veneziano sarà ospite nello spazio Che Spettracolo! al Festival di Venezia per la “Bussola” di Paolo Baldini. Racconta il suo progetto Laguna Film Lab: in 25 giorni realizzati cinque cortometraggi che raccontano Chioggia. C’è la laguna più conosciuta e celebrata, che bagna e asciuga l’eterna Venezia. E c’è la laguna più appartata, a Sud, dove l’acqua si ritira tra le voci dei pescatori, un universo di soprannomi che si attaccano come mitili sugli scogli ai nomi: Pecchie, Mela, Sale. Lì, tra le calli e i campi di Chioggia, ogni anno cinque giovani registi provenienti da tutto il mondo hanno l’occasione lunga venticinque giorni di raccontare la città con un cortometraggio che in meno di un mese viene pensato, scritto, girato e perfino proiettato alla Mostra del Cinema di Venezia. Nella cronica mancanza di opportunità per i giovani, “Laguna Film Lab” è una zattera che si fa barca a vela, un laboratorio di cinema del reale curato da ZaLab - società di produzione e distribuzione di cinema indipendente - in collaborazione con Giornate degli Autori, sostenuto dai fondi dell’Otto per Mille dell’Istituto Italiano Buddista “Soka Gakkai”, con Fondazione Clodiense, ProLoco Chioggia Sottomarina, Regione Veneto e Comune di Chioggia. Un progetto di cinema nato da un film, “Io sono Li” del regista veneziano Andrea Segre. Lo spunto del film affondava nel reale: nel piccolo paese che sorge sull’acqua, un po’ improvvisamente, in una storica osteria al posto della barista di sempre compariva una barista cinese, Li. Il film raccontava questo passaggio sociale - l’emigrazione cinese in Veneto - con la leva della storia d’amore tra la donna e un pescatore del posto. “Dopo quel film - racconta Andrea Segre, che a Chioggia è cresciuto - mi hanno chiesto di rimanere vicino alla città con un progetto di cinema. Mi è venuto naturale pensare a qualcosa che legasse il cinema e la società. Invece di fare “solo” un festival di cinema d’autore, che comunque negli ultimi undici anni ha portato in città tante voci del cinema contemporaneo e tanto pubblico, sin dall’inizio abbiamo proposto un’occasione laboratoriale per raccontare Chioggia e da qui la laguna meno conosciuta, quella a Sud, il rapporto tra l’uomo e l’acqua”. Da subito la modalità è stata chiara: “Selezionare - racconta Andrea Segre - un gruppo di giovani registi in formazione che avessero un tempo d’incontro con la città e cercassero di conoscere le storie del luogo per raccontarle in un periodo intensivo”. Quest’anno la residenza è cominciata il 23 luglio con i sopralluoghi e il 30 agosto alle 20 i cortometraggi dei giovani registi saranno proiettati in Sala Laguna al Lido durante le Giornate degli Autori, costola indipendente della Mostra del Cinema di Venezia, mentre il primo settembre saranno proiettati all’Auditorium San Nicolò di Chioggia, dove uno vincerà il premio Laguna Sud. I protagonisti di quest’anno sono Liliya Timirzyanova, trent’anni, fuggita dalla Russia allo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina; Jacopo De Falco, 33 anni, una laurea alla Sorbona e un Master in Cinema documentario a Marsiglia; Francesco Rubattu, trentenne, laureato all’Accademia delle Belle Arti di Bologna; Ludovico Polignano, 28 anni, una laurea all’Istituto Europeo di Design e un corso di sceneggiatura all’Accademia Nazionale d’arte Drammatica “Silvio d’Amico”. E infine Sébastien Willem, 25 anni, nato a Liegi ma ora cittadino di un piccolo paese in Portogallo. “Li “buttiamo” in città - racconta Segre - lasciandoli liberi, ma supportati da una rete: tre ragazzi chioggiotti (Martino Aprile, Giulia Zennaro ed Enrico Arrighi) che danno loro consigli su dove andare “a perdersi” e quattro tutor (Alessandro Cassigoli, Firouzeh Khosrovani, Matteo Calore e Chiara Russo) professionisti del mondo del cinema. Trovano sempre qualcuno disposto a raccontare loro qualcosa: Chioggia è una città molto accogliente, penso sarebbe difficile concepire una residenza del genere in un’altra città. Ogni anno diamo loro un tema, l’indicazione di una parola collegata a un elemento della cultura popolare. Quest’anno è “fatalità”, che in dialetto suona come fatalità, ed è un termine che ha a che fare con qualcosa che il destino ti ha messo davanti, ma allo stesso tempo sapevi che ti sarebbe successo. Dopo questa esperienza alcuni sono cresciuti e hanno girato i loro film. In ogni caso è un passaggio molto importante per loro, un’esperienza intensiva forte, una sfida professionale autentica”. Il laboratorio è un po’ lo specchio dell’idea di cinema di Segre, partito nell’esplorare la visione da due vene pulsanti: le migrazioni verso l’Europa e il territorio sociale e geografico del Veneto, e allargatosi poi negli anni alle politiche migratorie e di residenza, sempre alternando il cinema del reale a quello di finzione. “A chi mi chiede se ho fatto il Centro Sperimentale di Cinematografia - dice Segre - rispondo che ho fatto il Centro giovanile a Valona, in Albania, da dove partivano i barconi per raggiungere l’Italia. Quello che mi muoveva e mi faceva viaggiare era l’idea di tenere insieme la ricerca sociologica ed etnografica con la militanza culturale. Mi piaceva fare progetti di scambio con Paesi che venivano esclusi dal viaggio, era un modo per conoscere e contrastare una certa idea di mondo. Lì ho iniziato a portare con me la telecamera per raccontare. È così che sono arrivato al mestiere che faccio oggi”. Ed è ciò che insegna ai registi che verranno. Lo stato sociale è finito? di Maurizio Ferrera Corriere della Sera, 1 settembre 2025 Senza un ripensamento del sistema, c’è il rischio che crollino le politiche sociali. La sfida più difficile riguarda quei Paesi come l’Italia, meno esposti alla minaccia della guerra, meno coesi internamente e culturalmente. Un nuovo inizio o declino? Lo stato sociale è a un bivio storico, che richiede serietà di analisi e coraggio nelle azioni di governo. Questo tema cruciale per il futuro dell’Europa è stato al centro di un importante convegno internazionale (Espanet 2025) conclusosi venerdì scorso nell’Università Statale di Milano. Le sfide da affrontare sono formidabili. Da un lato, l’invecchiamento della popolazione, la stagnazione secolare, gli effetti occupazionali delle transizioni energetica e tecnologica accrescono la vulnerabilità sociale e al tempo stesso erodono le basi demografiche ed economico-finanziarie su cui hanno tradizionalmente poggiato i sistemi pubblici di protezione. Dall’altro lato, l’interdipendenza profonda tra sistemi, originata dalla mondializzazione, provoca l’insorgere di shock intensi e improvvisi: pensiamo alla crisi dell’euro, alla pandemia, all’impennata dei costi energetici, ai disastri dovuti al cambiamento climatico. Le conseguenze di queste scosse possono raggiungere proporzioni catastrofiche, mettendo a dura prova le capacità di risposta degli Stati. Nei due anni di pandemia l’Italia ha speso 20 miliardi aggiuntivi per la sanità e più di 100 per i “ristori”. L’emergenza immediatamente successiva, la crisi energetica, ha richiesto ulteriori stanziamenti per 80 miliardi. Risorse calanti, bisogni crescenti, rischi emergenti: una combinazione che non può reggere. Come ha recentemente affermato il cancelliere Merz, le risorse che produciamo non bastano più per pagare il welfare. Come riallineare gli obiettivi e gli strumenti del welfare alla nuova struttura di rischi e bisogni? Lo stato sociale nacque in Europa per combattere i cinque e minacciosi “giganti” identificati da Lord Beveridge nel 1942: povertà, malattia, ignoranza, disoccupazione e “squallore” (soprattutto abitativo). Questi rischi non sono scomparsi. E per i ceti meno abbienti (comprese oggi le fasce medio-basse della classe media) è giusto che sia lo Stato a garantire protezione. Ai ceti benestanti potrebbe invece essere chiesta una maggiore compartecipazione ai costi dell’istruzione, della sanità, del consumo energetico. Si noti poi che il catalogo di Beveridge non comprendeva le pensioni, le quali potevano essere finanziate e gestite da fondi occupazionali. In molti Paesi, soprattutto in Italia, è proprio la spesa pensionistica ad assorbire la quota maggiore di spesa sociale, favorendo implicitamente gli alti redditi. L’agenda delle riforme previdenziali non si è ancora esaurita. Le garanzie pubbliche di protezione presuppongono mercati ben funzionanti che promuovano la crescita. Come diceva di nuovo Beveridge, la logica del profitto può diventare “un cattivo padrone, ma è il miglior servitore che abbiamo”. Se ben disegnata, la relazione fra mercato e welfare crea circoli virtuosi di mutuo rinforzo. Il calo delle risorse (“ciò che produciamo”) è in buona parte dovuto ai colli di bottiglia che ostacolano il mercato (Rapporto Letta) e la produttività (Rapporto Draghi). Durante Espanet 2025, molti studiosi hanno proposto un rafforzamento di quegli investimenti sociali (in asili, istruzione, formazione, politiche attive del lavoro, conciliazione e così via) che possono generare nel tempo elevati ritorni anche sul piano economico. Opportunamente regolati e incentivati, i mercati assicurativi sarebbero in grado di fornire a costi abbordabili protezioni individuali sia per alcuni piccoli rischi (il pagamento dei ticket sanitari) sia per i rischi catastrofici (disastri naturali, fallimenti finanziari). Gli stessi governi potrebbero dar vita a schemi Ue di ri-assicurazione, volti a coprire l’aggravio straordinario di spesa causato da shock improvvisi (una pandemia, o una crisi che colpisce con particolare intensità i livelli di occupazione o i bilanci aziendali). Che dire infine in merito al dilemma fra “burro” (il welfare) e “cannoni” (la difesa), ridiventato attualissimo con il conflitto ucraino e la presidenza Trump? Le politiche sociali si svilupparono anche per rafforzare la lealtà e le capacità di resistenza dei cittadini in caso di guerra. In Europa questo nesso si è fortemente indebolito. Nei Paesi in cui la minaccia russa si è fatta più concreta, il legame fra benessere interno e sicurezza esterna si è rapidamente ricostituito: pensiamo a Svezia e Finlandia. La sfida è più difficile in Paesi come l’Italia, meno esposti alla minaccia, meno coesi internamente e culturalmente avversi a qualsiasi tipo di deterrenza. Qui serve innanzitutto la responsabilità dei leader di governo e di opposizione. Nella definizione Nato, le spese per la difesa includono anche le misure di “rafforzamento delle capacità civili”. Contro-intuitivamente, l’aumento della spesa potrebbe creare spazio per investimenti in “difesa sociale” (infrastrutture critiche, prevenzione dei disastri, sanità pubblica, formazione digitale e così via), utili non solo per l’economia ma anche per il consenso politico. Il sentiero è stretto e tutto in salita, certo. Ma senza un incisivo ripensamento delle sue priorità e strumenti, il modello europeo rischia un cedimento di sistema. Le vecchie spettanze sociali perderebbero di valore e di effettività, in un contesto sempre più vulnerabile a turbolenze esogene quasi impossibili da controllare. La strage di Minneapolis, il piano di salute mentale e Franco Basaglia di Mario Iannucci e Gemma Brandi* quotidianosanita.it, 1 settembre 2025 Il 29 agosto era il compleanno di uno di noi. Fra i regali ricevuti c’è stato un video nel quale Basaglia, con molta obiettività e misura, parla della possibile pericolosità sociale dei malati di menti. Già: si può negare finché si vuole che i depressi non si suicidino più degli altri, o che talune forme di malattia mentale (specie i deliri cronici) non comportino, in talune fasi della malattia, un cospicuo aumento della pericolosità sociale. Si può negare, ma in questo caso si sarà lontani da un buon esame di realtà e ci si avvicinerà al delirio. Quando il Presidente Trump disse, qualche anno addietro e dopo uno degli abituali mass murders americani, che si trattava di problemi di malattia mentale, ognuno capì che avremmo presto denegato il valore di questa constatazione, proprio perché fatta da Trump. Non meraviglia quindi che, la recente azione delittuosa del giovane transgender del Minnesota che ha ucciso due bambini sparando all’impazzata in una chiesa, una azione le cui motivazioni dal chiaro sapore delirante sono state esposte da lui medesimo, venga ora indicata come effetto di un “odio religioso”. Un’altra notizia interessante. Dei troppi suicidi che avvengono nelle carceri italiane, diversi riguardano persone accusate o condannate per reati da “codice rosso”. L’ultimo è quello di un sessantunenne avvenuto a Busto Arsizio tre giorni or sono. Non pochi degli autori di femminicidio, inoltre, si suicidano subito dopo aver commesso l’omicidio, ancora prima di venire arrestati. Tuttavia, una recente sentenza della Cassazione (29849 del 28 agosto) spinge verso un atteggiamento prudente e ‘restrittivo’ nella valutazione dell’eventuale vizio di mente degli autori di reati da codice rosso. Poche settimane or sono il Ministero della Salute ha trasmesso alla Conferenza Unificata il Piano di Azione Nazionale per la Salute Mentale (Pansm) 2025-2030 (Il Direttore di QS ne ha parlato il 15 luglio). Dopo la pubblicazione di questo Piano, molte valutazioni sono state espresse, talune piuttosto critiche. A noi, qui, preme sottolineare alcuni aspetti del Piano, la cui trattazione, molto al di là delle soluzioni che sono fornite nel Piano, ci sono apparsi francamente realistici e senza dubbio in controtendenza rispetto alle valutazioni e indicazioni che nei decenni scorsi sono state prevalentemente espresse (o omesse) dagli Operatori della Salute Mentale. Il Piano, intanto, attribuisce un inevitabile rilievo alla questione delle Richieste dell’Autorità Giudiziaria in materia di minori e famiglie. Il lievitare (specie dopo la cd Legge Cartabia) di tali richieste, impone ai Servizi Socio-Sanitari un accrescimento dell’attenzione e delle competenze nel settore, specie in considerazione della delicatezza di tali accertamenti e dell’importanza di una vera terzietà istituzionale nelle valutazioni richieste. Valutazioni che spesso, sia per i minori coinvolti, ma anche per gli adulti, risultano avere una grande utilità preventiva. Questo è un elemento indubbiamente positivo del Piano. Un altro elemento positivo del Piano è l’importanza che finalmente si riconosce alla questione dei pazienti autori di reato e, in particolare, a quelli detenuti e internati. Se la Salute Mentale, interfacciandosi costantemente con gli organismi istituzionali della Giustizia (e della Pena), non affronterà con competenza tale questione, astenendosi da ogni pregiudiziale stortura ideologica, assisteremo a un incremento progressivo e incontenibile del disagio psichico recluso e del malessere dei e nei luoghi di pena, dove ad esempio il tasso di suicidalità supera di circa venti volte quello presente nella popolazione generale. Una Salute Mentale che tenda a rifuggire dalla cura dei pazienti più impegnativi, fra i quali vi sono sicuramente coloro che manifestano una eclatante pericolosità sociale legata al disagio psichico, rischia di decretare la sua quasi totale inutilità. Dispiace, a questo proposito, che nel sottolineare l’importanza della integrazione fra le diverse organizzazioni socio-sanitarie che si occupano della persona con gravi disturbi psichici, il Pansm non dedichi uno spazio sufficiente (vale a dire uno spazio esteso) all’incremento della collaborazione fra Servizi di Salute Mentale e SerD. Se si vogliono risolvere almeno taluni dei problemi connessi alla follia trasgressiva e reclusa, occorre ricercare una diversa integrazione della Salute Mentale con i SerD. È inutile e ipocrita fare Dipartimenti unici Salute e Mentale e Dipendenze, quando l’integrazione resta solo sulla carta. Se si vuole evitare gli abbandoni che hanno i mass marders e i reati da codice rosso come esito, sarà bene continuare a confrontarsi su quei temi che l’ultimo Pansm ha avuto almeno il merito di indicare come importanti per un autentico tentativo di restauro di una Salute Mentale molto compromessa, che negli ultimi decenni sembra essersi allontanata troppo dalla salutare assunzione di una responsabilità di controllo degli elementi di pericolosità impliciti in talune gravi patologie mentali, in particolare in quelle “trascurate”. *Psichiatri psicoanalisti. Esperti di Salute Mentale applicata al Diritto Scuola. L’ultima della classe? La sicurezza di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 1 settembre 2025 Ritardi e sciatteria: gli istituti non rispettano l’obbligo di dotarsi delle credenziali minime. I dati di due rapporti. Anche ieri due scosse. Entrambe 3.3 della scala Richter. Nella scia di altre migliaia, negli ultimi anni. Tutto “normale”, forse, per chi sa cosa sono i Campi Flegrei. Meno per chi ha letto lo sconcertante dossier di Tuttoscuola sulla sciatteria con cui gli edifici scolastici rispondono all’obbligo di dotarsi di cinque credenziali sulla sicurezza sismica e idrogeologica. Spiega dunque quel rapporto, elaborato sui dati 2023/2024 forniti dal governo il 14 luglio scorso, che nei comuni di Pozzuoli, Bacoli, Quarto e Monte di Procida, classificati “zona 2” cioè a rischio di “possibili forti terremoti” ci sono complessivamente 160 scuole delle quali 46 dell’infanzia e 50 della primaria, ospitate in 85 edifici scolastici. E di questi solo 31, cioè poco più di un terzo, dispongono di un certificato di collaudo statico. Vale a dire un documento tecnico ufficiale che attesti la sicurezza e la stabilità strutturale di un’opera edilizia. E non diversamente va nella non meno esposta area vesuviana: 130 edifici registrati (per 279 scuole) dei quali in regola col collaudo statico 40. Un quadro allarmante e inaccettabile. Che al di là delle precisazioni del ministero che si è precipitato a dire che i dati del dossier sarebbero datati perché di sei settimane fa, è confermato dal parallelo Rapporto sicurezza, qualità, accessibilità in asili nido, scuole, università di Cittadinanza Attiva in uscita fra pochi giorni con gli aggiornamenti per il 2024/2025 di un monitoraggio che va avanti da ventitré anni. E ha infastidito via via governi di destra e di sinistra, di sinistra e di destra. Dove si legge, oltre alla denuncia del ““congelamento” dell’Osservatorio nazionale dell’edilizia scolastica che non si riunisce da più di due anni”, che in tutta Italia i crolli di intonaci nell’ultimo anno sono stati 69 “come lo scorso anno” (totale 138), che c’è “l’urgenza di proseguire a tappeto con le indagini diagnostiche di soffitti e solai”, che solo il 37,2% delle scuole è in possesso del certificato di “agibilità” e che questa quota già bassa precipita nelle isole e nel Lazio a un umiliante 12,3%. In linea coi numeri della rivista scolastica di Vinciguerra. E non si tratta, come spiegavamo su corriere.it, del disbrigo di noiosi moduli burocratici: si tratta di sicurezza. Di salute pubblica. Di rischi sulla pelle di bimbi e adolescenti, maestre e professori, bidelli e segretarie in un Paese che ha il primato assoluto europeo delle frane (636.430) e ha registrato sul solo Appennino, nell’ultimo secolo, 37 terremoti superiori a 5.5 gradi della scala Richter. Un paese ad alto rischio governato troppo spesso in modo spensierato. Basti ricordare che quattro scuole su dieci si trovano in zona a media o elevata sismicità eppure sono state tirate su nell’85% dei casi senza criteri antisismici nonostante i primi ammonimenti di Pirro Ligorio risalgano al 1570. O che una su cinque (il 21,4%) “si trova in zona a rischio idrogeologico”. È mai possibile che in una realtà come questa, che ci viene sbattuta in faccia ogni volta che c’è una nuova sberla “della natura” (“La natura non è buona o cattiva: se ne infischia di noi. Inutile chiamarla in causa”, spiegò anni fa Renzo Piano stufo di certi discorsi) un edificio scolastico su nove dove studiano o lavorano 700 mila italiani sia del tutto privo delle obbligatorie credenziali sulla sicurezza e che addirittura nove su dieci non rispettino le norme fissate dalla legge? E questo a fronte di un patrimonio scolastico in cui, spiega ancora cittadinanza attiva, 4.128 edifici hanno più di un secolo di vita e nel 4,3% dei casi espone ancora 356.900 studenti all’amianto non ancora del tutto rimosso 48 anni dopo la messa al bando dell’International Agency Research Cancer e 33 anni dopo la legge italiana del 1992? Possibile che “solo il 33,8% delle scuole”, come scrive Tuttoscuola, disponga “del certificato di prevenzione incendi”? O che in Abruzzo”, terra di storici terremoti antichi e recenti ad Avezzano o L’Aquila, “solo il 10,8%” degli istituti risulti dotato del “progetto antisismico” cioè “la carta d’identità strutturale di un edificio costruito in zona sismica” che “serve a dimostrare che la scuola sarà in grado di resistere a un terremoto secondo le normative vigenti”? Certo, i ritardi sono stati accumulati per decenni e sarebbe indecoroso scaricare tutto su Giuseppe Valditara e il governo attuale. Ma sono domande che, quasi trent’anni dopo la legge del gennaio 1996 che finalmente avviò l’anagrafe dell’edilizia scolastica attesa da decenni, meritano una risposta. Scuola. Più condotta e niente cellulari: la svolta punitiva continua di Chiara Sgreccia Il Domani, 1 settembre 2025 Non una legge che definisca i cardini dell’educazione sessuo affettiva. Non un piano per garantire supporto psicologico in tutte le scuole. Ma riforme volte a irrigidire le norme attuali. A partire dal maggior peso attribuito alla condotta. La scuola si prepara a una “rivoluzione culturale”. Così ha più volte annunciato Giuseppe Valditara, da quando è ministro dell’Istruzione (e del Merito). L’ultima il 26 agosto, durante il suo intervento al Meeting di Rimini, a qualche giorno dalla riapertura della scuola. Che anche quest’anno, al contrario dei proclami, riaprirà grazie all’impegno dei precari (250 mila secondo le stime dei sindacati). Di “rivoluzione culturale” a Rimini il ministro ha parlato a proposito della filiera tecnologico-professionale 4+2, “per preparare i giovani al mondo del lavoro”. Senza ricordare che, proprio come per il liceo del Made in Italy, anche la proposta di rafforzare il collegamento tra scuola e interessi delle aziende è un flop a cui si sono iscritti poco più di 5 mila studenti. Anche perché, come chiariscono le analisi, ai “giovani”, il mondo del lavoro così com’è piace poco, preferirebbero avere gli strumenti per migliorarlo. Ma non è la prima volta che il titolare del Mim parla di rivoluzione culturale. Anzi. Lo ha fatto nel suo libro La rivoluzione del buon senso. Per un paese normale, in cui, come ha spiegato Aluisi Tosolini su Domani, il ministro propone “una svolta culturale che deve partire dalle scuole” per riportare la normalità di “certi” principi e “certi” valori, con l’obiettivo di contrastare quelli di una “certa” sinistra, senza chiarire che cosa questo “certismo” significhi. Così, proprio perché il punto sembrerebbe quello di trasformare il pensiero comune partendo dalle radici della società, Valditara ha annunciato la “rivoluzione culturale” la maggior parte delle volte in cui ha in cui ha spiegato le sue riforme per la scuola. Ad esempio, avrebbero dovuto generarla le linee guida per l’insegnamento dell’Educazione civica, già in vigore, tutte incentrate su individuo, patria e azienda. E la Legge Sasso che per disincentivare le aggressioni al personale scolastico inasprisce le pene. Lo dovrebbero fare le nuove Indicazioni nazionali sui programmi scolastici che entreranno in vigore dal 2026/27, che hanno sollevato molte critiche da parte di chi vive la scuola tutti i giorni. E, secondo Valditara, lo faranno le novità pronte per il nuovo anno. Non una legge per definire i cardini dell’educazione sessuo-affettiva, per contrastare la violenza e avvicinarsi alla parità di genere. Non un piano che metta a sistema e garantisca i fondi sufficienti per un servizio di supporto psicologico in ogni scuola. Ma riforme che irrigidiscono le norme affinché educazione sia sinonimo di obbedienza, per evitare la punizione. Così al centro del processo educativo per chi frequenta le superiori tornerà ad esserci la condotta. Che, valutata lungo tutto l’anno, inciderà anche sui crediti per l’ammissione all’esame di Stato: punteggio più alto solo a chi prende 9. Mentre gli studenti con 5 in comportamento verranno bocciati, quelli con 6 su 10, per essere ammessi all’anno successivo, dovranno redarre un elaborato su temi di cittadinanza collegati ai motivi che hanno causato la valutazione. Cambiano anche il sistema delle sanzioni disciplinari - con una sospensione fino a 2 giorni, lo studente verrà coinvolto in attività di approfondimento sui comportamenti che hanno causato il provvedimento, con una sospensione più lunga dovrà svolgere i “lavori socialmente utili” - e il nome dell’esame alla fine delle superiori. Che non sarà più di “Stato” ma di “Maturità” perché ad essere valutato, complice l’orale che diverrà multidisciplinare, sarà lo studente nel complesso, come se il lavoro che i professori fanno ogni giorno nel conoscere e strutturare il percorso degli allievi non esistesse. Infine, per i quasi sette milioni di studenti che torneranno a scuola dall’8 settembre (i primi saranno a Bolzano, gli ultimi in Calabria e Puglia il 16), l’uso del cellulare sarà proibito “durante lo svolgimento dell’attività didattica e più in generale in orario scolastico”, si legge nella circolare di giugno che estende il divieto già in vigore per il primo ciclo anche alle superiori. “È inaccettabile che si parli di autonomia di pensiero mentre si minaccia e punisce chi dissente. Che si rafforzi la condotta come strumento di controllo, che si imponga il Pcto come formazione quando nella realtà è sfruttamento”, commentano gli studenti della Rete della Conoscenza che si preparano alla mobilitazione. “Nessun confronto è stato aperto con noi. Nessuno ci ha chiesto cosa pensiamo”, aggiungono, convinti che più che una “rivoluzione culturale”, quella prospettata dal ministro sia un “ritorno al passato”. Di cui dovremmo già conoscere gli effetti. “L’Ai non può essere il miglior amico di un ragazzo, bisogna insegnare a usarla” di Franco Giubilei La Stampa, 1 settembre 2025 “L’intelligenza artificiale non può essere il miglior amico di un ragazzino, perché gli dà sempre ragione e non è una persona. Il fatto è che bisogna insegnare a usarlo, questo strumento potentissimo”. Don Andrea Ciucci, coordinatore della Pontificia accademia per la vita, è anche segretario generale della Fondazione vaticana RenAIssance per l’etica dell’intelligenza artificiale. Sui temi toccati nell’editoriale di ieri dal direttore de La Stampa Andrea Malaguti - lo spunto è il racconto di una madre del rapporto esclusivo del figlio 13enne con un chatbot, al punto da definirlo “il suo miglior amico”, appunto -, ha idee precise: “Il suo attaccamento all’Ai denuncia una fatica relazionale, e questo ragazzino sopperisce col chatbot a un’amicizia che non esiste”. In più ha solo 13 anni... “L’età è un elemento su cui riflettere: come è andato ad abitare il mondo digitale così presto, dal momento che probabilmente smanetta già da tempo? Il che porta a un’altra considerazione: come introduciamo i piccoli in quel mondo? La sensazione a volte è di resa totale, se i genitori danno lo smartphone in mano ai bambini che piangono. Salvo poi vietarlo anche per le attività didattiche a scuola... Non li aiutiamo a usare questi strumenti neanche per le cose che servono”. Intende dire che vanno guidati? “Ci vuole un essere umano che dica anche dei no, come farebbe un amico vero”. L’uso dell’Ai è già diffusissimo fra i ragazzi, dobbiamo arrenderci o il fenomeno è ancora gestibile? “Non è mai troppo tardi, coi ragazzi così come con gli adulti, anche se dobbiamo pagare un ritardo obiettivo. Ben venga allora anche una storia come questa, se ci aiuta a prendere coscienza del problema”. Come si può ovviare? “Con uno sguardo corretto: il virtuale fa parte della nostra realtà, la tecnologia non è altro rispetto al mondo, però bisogna imparare a maneggiarla e a conoscerla per quello che è, senza cadere in una retorica tanto pessimistica quanto sterile”. Ma chi deve intervenire? Gli adulti sembrano essere i primi succubi del digitale... “È un’operazione da fare insieme: davanti a una trasformazione così radicale e potente è necessario mettersi a un tavolo tutti quanti, famiglie, istituzioni scolastiche, associazioni culturali, religiose e del volontariato. Dall’altro lato, incoraggiare forme di socialità in presenza. Ma poi, ci preoccupiamo dell’impatto della tecnologia sui ragazzi quando il problema in effetti sono gli adulti, come dimostra la lettera del bambino che vorrebbe essere un cellulare, perché “è quello che il mio papà guarda di più”“. Servono regole più restrittive nell’uso dell’Ai? “Vengono invocate, ma mettere paletti senza una strada da percorrere non serve a niente. La domanda è: dove vogliamo andare? Che umanità vogliamo? Come pensiamo di gestire un fenomeno globale custodendo le differenze e le peculiarità? Abbiamo una grande occasione, non va sprecata”. Perché l’intelligenza artificiale è più rassicurante del rapporto diretto con un’altra persona, come nel caso del 13enne? “Perché è concepita per assecondarci, l’hanno programmata per questo: se mi dà ragione ci vado più volentieri, entro in una comfort zone. C’è uno scopo commerciale in tutto ciò, anche se non è l’unico”. Può essere utile in chiave educativa? “Sicuramente sì, a patto di saperla usare. Occorre essere in grado di fare le domande giuste ed essere abbastanza critici da orientarsi fra le infinite risposte che si ottengono. In una scuola che spesso ha privilegiato il nozionismo è proprio questo che bisogna insegnare: a fare le domande. I ragazzi hanno uno strumento potente, ora occorre farlo fruttare”. Non ci vorrebbe un limite d’età? Forse limiterebbe gli abusi e certe dipendenze... “Nei social c’è ed è stato amabilmente spazzato via. In realtà mi sta più a cuore come noi introduciamo fin dall’inizio al digitale. Per ogni età è opportuno parlare di certi argomenti e non di altri, il che non è un no secco”. Resta il fatto che, soprattutto per i giovanissimi, l’Ai può essere molto più tranquillizzante di un confronto diretto, non è così? “Assolutamente sì, ed è uno dei limiti dell’intelligenza artificiale. Può essere anche una trappola, ma proprio per questo bisogna fornire ai ragazzi gli strumenti per evitarla”. L’azzardo non è un gioco. Ma gli spot mirano ai giovani di Fabrizio La Rocca Il Domani, 1 settembre 2025 In Italia le pubblicità al gioco d’azzardo sono illegali dal 2018, quando fu introdotto il decreto Dignità. Al contrario, in Francia queste pubblicità sono legali e possono essere trovate praticamente ovunque. Le società del settore aumentano le spese dedicate alle campagne di marketing, con poche restrizioni sul volume di pubblicità e sui tipi di media dove queste possono essere trasmesse. Le restrizioni principali riguardano i contenuti dei messaggi trasmessi dagli operatori. Dal 2020 è vietato presentare il gioco d’azzardo come un modo per guadagnarsi da vivere o ottenere successo sociale, così come utilizzare minori o, più in generale, fare riferimento al loro ‘universo’ nelle campagne pubblicitarie. Eppure uno studio pubblicato dall’Osservatorio francese sulle droghe e le tendenze additive (Ofdt), che ha analizzato oltre 100 pubblicità diffuse dopo il 2020, evidenzia che la legalità di alcuni contenuti pubblicitari “può essere messa in discussione”. In alcuni casi, secondo lo studio, il gioco viene ancora presentato come un “mezzo per ottenere successo sociale”; in altri sono presenti riferimenti a videogiochi o cartoni animati. Il problema è particolarmente evidente nella Seine-Saint-Denis, il dipartimento con il più alto tasso di povertà nella Francia continentale. Secondo un recente studio, un terzo dei giovani del dipartimento di età compresa tra i 13 e i 25 anni ha già scommesso. Tra i 13 e i 17 anni, l’84 per cento ha dichiarato di essere stato recentemente esposto a pubblicità sul gioco d’azzardo. “La sensazione di essere poco protetti è molto forte tra i giovani” afferma Thomas Amadieu, professore alla scuola di commercio Essca di Parigi e autore dello studio. “La stragrande maggioranza pensa che ci siano troppe pubblicità. Pensano di essere male informati”, spiega il ricercatore. Lancelot Di Matteo, 25 anni, è seduto accanto a Bassieres con una birra in mano. Alcuni anni fa, ispirato dalle vincite del suo amico, ha trascorso un mese a scommettere compulsivamente, convinto di poter vincere anche lui. Eppure Di Matteo non è stato altrettanto fortunato. Alla fine di quel mese aveva perso 150 euro, senza vincere nemmeno una scommessa. “Ho capito che non ci avrei mai guadagnato, e ho smesso subito”, dice. Il desiderio di guadagnare soldi rapidamente è una delle motivazioni principali tra i giovani giocatori nel dipartimento, assieme alla speranza di cambiare vita e diventare ricchi. Questa narrativa può essere alimentata anche dalle pubblicità. “È così facile scommettere che le persone iniziano molto presto, quando hanno 15 o 16 anni, a volte anche 14. A poco a poco, il gioco diventa la loro unica fonte di reddito” spiega Mélanie Longby, 19 anni e residente a Saint-Denis. Insieme all’associazione Je suis l’Autre e ai suoi compagni del liceo professionale Bartholdi, Longby ha prodotto due video parodici per sfidare questa narrativa. Cofinanziate dal dipartimento della Seine-Saint-Denis e diffuse nel 2024, le parodie sono diventate una campagna di sensibilizzazione chiamata Loosamax, un gioco di parole sul nome del sito di scommesse francese Winamax, le cui pubblicità hanno ispirato i video. Longby sa bene che le pubblicità possono raggiungere anche i più giovani. Suo fratello di 17 anni ha iniziato a scommettere quando ne aveva 15, ed è convinta che le pubblicità abbiano avuto un ruolo chiave nel farlo avvicinare al gioco d’azzardo. “È un problema stupido. Si potrebbe evitare facilmente, ma c’è così tanta pubblicità ingannevole che finisci inevitabilmente per essere esposto”, dice. Winamax e Betclic, le cui pubblicità sono state analizzate nello studio dell’Ofdt, hanno declinato l’invito a un’intervista. A confronto - All’interno del suo studio, Thomas Amadieu cita restrizioni o il divieto assoluto di pubblicità come una possibile soluzione al problema. “Penso che ci sia una strada intrapresa da molti paesi europei, che è quella del divieto o comunque di una forte restrizione”, spiega il ricercatore. Oltre all’Italia altri paesi europei hanno introdotto limiti alle pubblicità, come il Belgio, i Paesi Bassi e la Spagna. Il caso italiano è al momento tra i più restrittivi nell’Unione Europea, ma potrebbe esserlo ancora per poco. Lo scorso 5 marzo, la commissione Cultura e Sport del Senato ha approvato una risoluzione di Fratelli d’Italia che cancellerebbe il divieto imposto nel 2018, nell’ambito della più ampia riforma del mondo del calcio. L’efficacia del divieto è comunque dibattuta: da quando è stato approvato, la spesa totale dei giocatori italiani è aumentata, fino a toccare i 150 miliardi di euro nel 2023. La spesa per il 2025 è stimata intorno ai 180 miliardi. Di recente, sono usciti anche i dati di uno studio di Bonus Finder, secondo cui il totale dei ricavi effettivi del gioco d’azzardo in Italia è di oltre 13 miliardi di dollari, tra casinò, lotterie e scommesse. Il Belpaese si attesta in quinta posizione in Europa. Primo il Regno Unito, poi Germania, Francia e Germania. L’Associazione Francese del Gioco Online (Afjel), che rappresenta la maggior parte delle grandi società francesi del settore, ha risposto al rapporto dell’Ofdt con un comunicato stampa. L’associazione ha dichiarato che “le società di gioco online e scommesse sportive assicurano il rigoroso rispetto del divieto di gioco da parte dei minori”. Il comunicato sottolinea che il gioco tra adolescenti è diminuito nel complesso, passando dal 38,5 per cento nel 2011 al 27 per cento nel 2022. Tuttavia, non menziona l’aumento osservato nel gioco online: solo il 14,7 per cento dei diciassettenni lo aveva praticato almeno una volta nel 2011, contro il 27,9 per cento nel 2022. Da qualche mese Bassieres ha deciso di darsi un budget mensile di 50 euro per scommettere, dopo che alcune grosse perdite gli hanno fatto capire il vero costo del gioco. Una lezione che il suo amico Di Matteo aveva già imparato molto prima. “Il gioco è solo per i poveri. Perché mai dovresti scommettere soldi se li hai già?” conclude. Medio Oriente. La Global Sumud Flotilla in rotta verso Gaza. Israele: “Saranno tutti arrestati” di Alessia Candito La Repubblica, 1 settembre 2025 È salpata da Barcellona e Genova la nuova sfida al blocco navale della Striscia. Lo Stato ebraico avverte che non farà sconti a nessuno. “Non esiste un piano B, se non tornare con una flotta ancora più grande”. Sul Moll de la Fusta di Barcellona, pieno di gente e bandiere palestinesi per salutare la partenza delle prime barche della Global Sumud Flotilla, la flotta civile che punta a Gaza per portare aiuti e aprire un canale umanitario permanente, prima di imbarcarsi Greta Thunberg non mostra tentennamenti. “Abbiamo il privilegio di vivere in un pezzo di mondo libero e il dovere - sottolinea - di fare qualcosa contro il genocidio in corso e le complicità che lo permettono”. Ne sono convinti tutti gli equipaggi partiti ieri da Genova e Barcellona verso la Striscia. Ma da Israele sono già arrivati gli avvertimenti. “Saranno arrestati come terroristi, detenuti nelle carceri di massima sicurezza Ketziot e Damon e le imbarcazioni confiscate e messe a disposizione della Marina israeliana”. La voce è quella del ministro Ben Gvir, espressione della destra messianica israeliana, ma tramite lui parla tutto il governo. La linea è stata decisa ieri nel corso di una riunione ristretta fra il premier Netanyahu, i ministri Israel Katz, Itamar Ben-Gvir e Gideon Sa’ar e i vertici degli apparati di sicurezza. E la scelta è caduta sulla linea dura. Le barche non solo saranno intercettate in acque internazionali, come successo nei mesi scorsi alla Madleen e alla Handala, o magari sabotate, come la Conscience, colpita a maggio da due droni al largo di Malta. “L’avvicinamento - è filtrato dopo l’incontro - sarà impedito a tutti i costi”. È la stessa strategia che nel 2010 si è trasformata in un massacro: sul ponte Mavi Marmara sono rimasti dieci morti e decine di feriti. “Loro hanno il loro odio, le loro armi, la loro violenza, noi il diritto internazionale e la solidarietà globale”, ribatte da Barcellona Saif Abukeshek del comitato organizzativo. E poi - si ragiona fra chi è salito a bordo e chi si appresta a farlo - ci sono i numeri, che potrebbero giocare un ruolo e mettere in difficoltà Israele. Le quattordici barche partite ieri da Barcellona e Genova sono solo una parte della Global Sumud Flotilla. Il 4 settembre, altre 40 navi prenderanno il largo da Catania, Siracusa e dalla Tunisia, nei giorni successivi, ulteriori imbarcazioni salperanno dalla Grecia. Tutte piccole, per lo più a vela. “Nessuno deve poterci considerare o raccontare come minaccia”, sottolinea la portavoce italiana Maria Elena Delia. In tutto, a bordo dovrebbero esserci settecento persone o più, provenienti da 44 Paesi diversi, incluso dal Sud Est Asiatico, che con Nusantara - il comitato che mette insieme dieci Paesi dell’area - ha contribuito alla Flotilla con fondi, navi, equipaggi. Eterogenee per nazionalità dei volontari a bordo e bandiera sul pennone, “tutte diverse - spiegano gli organizzatori - per evitare che vengano revocate alla partenza, come in passato”, dopo un rendez-vous nel Mediterraneo, le barche si muoveranno insieme verso la Striscia. “L’obiettivo è quello di mettere i governi davanti all’evidenza ed alla gravità delle loro mancanze”, attacca l’eurodeputata di Avs, Benedetta Scuderi che nei prossimi giorni salperà verso Gaza. “Il diritto internazionale è dalla nostra parte”, le fa eco la parlamentare portoghese Maria Mortagua, anche lei a bordo insieme all’ex sindaca di Barcellona Ada Colau. Il viaggio sarà lungo, ci vorranno due settimane per arrivare a largo di Gaza. Sempre che Israele lo permetta. Ma a terra, in tutta Europa, la mobilitazione continua e i “camalli” di Genova lo hanno promesso: “se per soltanto venti minuti perdiamo il contatto con le nostre barche, con le nostre compagne e i nostri compagni - ha detto Riccardo Rudino - blocchiamo tutto, da qui non esce più neanche un chiodo”. Siria. Centomila persone scomparse: la verità è ancora sotto terra di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2025 Le nuove autorità siriane intendono limitare le indagini: chi è al potere oggi ha fatto parte di gruppi armati che compivano sparizioni forzate. Sabato 30 agosto è stata la Giornata internazionale delle vittime di sparizione forzata: le conosciamo meglio col termine “desaparecidos”, coniato negli anni Settanta delle dittature militari nel Sud America e che purtroppo ha travalicato il periodo e la zona geografica, risultando attuale ancora oggi. In un rapporto intitolato “La verità è ancora sotto terra”, Amnesty International ha fatto il punto sulla situazione nello stato in cui finora, nel XXI secolo, c’è stato il maggior numero di persone scomparse: la Siria, dominata fino all’8 dicembre 2024 da Bashar al-Assad: dal 2011 oltre 100mila, cui devono essere aggiunte le migliaia di persone fatte sparire nel nulla dai vari gruppi armati di opposizione. Dalla caduta di Assad, famiglie disperate hanno iniziato a visitare centri di detenzione, basi militari, obitori e fosse comuni in tutto il paese. Dopo nove mesi, non hanno ancora trovato risposte. Amnesty International ha incontrato 21 persone: parenti di ex prigionieri politici, persone sopravvissute alla sparizione e rappresentanti delle associazioni delle vittime. Ne è uscito un quadro pieno di dolore e rabbia: dolore per la mancanza di interlocuzione, rabbia perché gli aguzzini di Assad hanno distrutto prove fondamentali. Alcuni di loro girano tranquillamente e impunemente e questo provoca ancora più rabbia. Ogni giorno che passa, questi sentimenti si acuiscono. Alcune famiglie hanno allestito “tende della verità”, per onorare i loro cari tuttora scomparsi, non farli dimenticare e chiedere verità e giustizia. Dice Wasel Hamideh, fratello di uno scomparso: “Le famiglie delle persone scomparse chiedono giustizia per tutte le vittime, per tutte le famiglie che hanno perso i loro cari a causa del regime di Assad o dei gruppi armati. Avere giustizia e punire i responsabili di ogni parte è l’unica garanzia che la nostra agonia non si ripeta e che saremo in grado di vivere in un paese governato dallo stato di diritto”. Il 17 maggio 2025 le nuove autorità siriane hanno istituito una Commissione nazionale per le persone scomparse e una Commissione nazionale per la giustizia di transizione, quest’ultima col colpito di “scoprire la verità sulle gravi violazioni causate dal vecchio regime, chiamare a rispondere i responsabili, risarcire le vittime e consolidare i principi della non ripetizione e della riconciliazione nazionale”. Rispetto alla prima Commissione, il 18 agosto il suo presidente ha dichiarato di aver istituito un comitato consultivo e aver avviato un programma di lavoro in sei fasi, che dovrà comprendere l’organizzazione di una conferenza nazionale sui bisogni e sui diritti delle famiglie delle persone scomparse. Come si capisce dalla dichiarazione di Wasel Hamideh riportata sopra, le nuove autorità siriane intendono limitare le indagini e i processi ai casi di sparizione forzata attribuiti al regime di Bashar al-Assad. Il motivo è chiaro: chi è al potere in Siria oggi ha fatto parte di gruppi armati che compivano sparizioni forzate. Sia per questo, sia perché anche con la migliore delle intenzioni possibili le risorse a disposizione e le competenze non sarebbero adeguate, Amnesty International ha sollecitato i paesi donatori a finanziare, e a supervisionare la destinazione dei finanziamenti, l’operato delle due commissioni e a non lasciare sole le associazioni delle famiglie delle persone scomparse. Senza verità, giustizia e riparazione, le ferite della Siria non cicatrizzeranno mai. *Portavoce di Amnesty International Italia Iran. Il grande esodo forzato dei rifugiati afghani di Francesca Mannocchi La Stampa, 1 settembre 2025 L’Iran espelle milioni di rifugiati verso un Paese in ginocchio, senza risorse e aiuti. Intersos: arrivano in un Paese che non conoscono più, un trauma anche culturale. A.R. è il primo a scendere dal camioncino che ha trasportato la sua famiglia da Islam Qala, sul confine tra Afghanistan e Iran, a Herat. È il primo a scendere e il più anziano, viaggia con la moglie, tre dei suoi quattro figli e i nipoti. Uno dei figli è rimasto in un centro medico di confine con la moglie che stava per partorire e non avrebbe potuto affrontare altre ore di viaggio. Si erano tutti trasferiti in Iran quattro anni fa, dopo la caduta di Kabul. Hanno cercato un lavoro, un alloggio, e ricominciato una vita lontani da casa. Una vita da esuli. Una vita faticosa e piena di restrizioni, ma tollerabile. Almeno fino a giugno, quando è scoppiata la guerra tra Israele e Iran. Da allora, dice A.R., i pericoli e i divieti, la paura e gli abusi, sono diventati intollerabili. Non potevano camminare liberamente, non riuscivano a trovare un pezzo di pane per i bambini. Non riuscivano a trovare un ospedale dove far partorire le donne. Un giorno degli uomini hanno bussato alla sua porta, lo hanno bendato e portato in una caserma, non saprebbe dire dove né se la base militare fosse ufficiale o meno, quello che sa è che le persone che lo hanno prelevato lo hanno accusato di essere una spia del Mossad, i servizi segreti israeliani, e che gli hanno detto di pagare o andare via, perché per gli afgani nel Paese non c’era più posto. Lui ha negato, dopo tre giorni è riuscito a tornare dalla sua famiglia e ha detto loro che era arrivato il momento di tornare in Afghanistan. E così hanno lasciato tutto e sono partiti di nuovo, percorrendo la strada in direzione inversa a quattro anni fa. A.R. sa che la sua famiglia in Afghanistan non ha futuro. Se ne avessero avuto uno, dice, quattro anni fa non sarebbero fuggiti. Oggi hanno un terreno a Laghman ma non hanno una casa, hanno braccia per lavorare ma non hanno lavoro, hanno bocche da sfamare ma non hanno cibo. Due milioni di ritorno dall’Iran - Al valico di frontiera di Islam Qala oggi arrivano dalle cinque alle seimila persone al giorno, a giugno ne arrivavano anche trentamila. Le organizzazioni umanitarie stimano che con le nuove limitazioni e le nuove scadenze imposte dall’Iran, nei prossimi mesi altre cinquecentomila persone potrebbero riversarsi qui. La sabbia e la polvere coprono tutto, le persone e i carretti che trascinano. Arrivano donne, uomini, bambini, in uno spazio troppo affollato per le esigenze sanitarie a cui deve far fronte. Gli operatori umanitari di Intersos dicono che i sistemi sanitari locali non sono attrezzati per gestire situazione e che è necessario un intervento strutturale per far fronte alla crisi dei fondi per gli aiuti destinati all’Afghanistan. Il governo talebano de facto, riconosciuto solo dalla Russia come governo legittimo dell’Afghanistan, è alle prese con il collasso economico e una crisi umanitaria aggravata dalle sanzioni occidentali e dai tagli draconiani agli aiuti decisi dall’amministrazione Trump a febbraio di quest’anno. “Assistiamo a una vera e propria emergenza, con milioni di persone che arrivano bisognose di cure sanitarie, sia fisiche che psicologiche, e di supporto economico per poter accedere a beni essenziali come cibo, acqua e alloggio - dice una operatrice umanitaria di Intersos - Molti di loro tornano in un Paese che non conoscono e oltre all’impatto della fuga e degli sfollamenti devono far fronte a uno choc culturale. È fondamentale intervenire tempestivamente, offrendo anche supporto per il recupero della documentazione e per l’accesso a servizi vitali”. Secondo i dati delle Nazioni Unite, quasi due milioni di afgani sono scappati o sono stati deportati dall’Iran da gennaio, dopo la stretta del governo sui rifugiati ritenuti irregolari. Mezzo milione di persone ha attraversato il confine soltanto a giugno, in concomitanza con la guerra tra Israele e Iran. Numeri giganteschi, che rendono quella in corso al confine di Islam-Qala una delle peggiori crisi di sfollati dell’ultimo decennio. La presenza di afgani in Iran è antica, per quarant’anni il Paese ha offerto riparo a milioni di persone che scappavano dalle continue guerre e dalla povertà, tanto che la diaspora afgana ha raggiunto numeri impressionanti. Secondo le istituzioni iraniane, il Paese ospita dai 4 ai 6 milioni di persone, la stragrande maggioranza dei quali proviene dall’Afghanistan. Numeri che rendono l’Iran il paese che ospita il maggior numero di rifugiati al mondo. Dopo l’occupazione sovietica dell’Afghanistan nel 1979, l’Iran aveva accolto milioni di afghani, concedendo loro lo status di rifugiato e dando quindi l’accesso ai servizi. Ma dagli anni Novanta le politiche sono cambiate e la solidarietà si è trasformata in contenimento. Le frontiere che erano aperte sono state chiuse e i servizi limitati. Limitati i luoghi in cui potevano vivere (10 province su 31) e anche i lavori che potevano fare, solo quelli pesanti e poco qualificati, gli afgani da decenni hanno difficoltà a acquistare una tessera telefonica o ottenere documenti per regolarizzare la loro posizione nel Paese, il che rende quasi impossibile l’accesso all’istruzione o all’assistenza sanitaria. Già a marzo il governo di Teheran aveva annunciato una stretta sui rifugiati, fissando per l’estate la scadenza per le “partenze volontarie”, ma dopo la guerra di giugno la repressione si è rafforzata, sono aumentati i posti di blocco, gli arresti, le espulsioni. L’Iran si giustifica sostenendo che le nuove politiche siano una risposta alla crisi economica, acuita dalla guerra, e siccome nell’effetto domino delle crisi c’è sempre qualcuno a cui va attribuita la colpa, il capro espiatorio in questo caso sono stati i rifugiati afgani, accusati di approfittare degli aiuti, rubare il lavoro e in ogni caso non più benvenuti. Nelle due settimane successive al conflitto con Israele, sono state circa 700 le persone arrestate perché accusate di essere spie e sabotatori al soldo di Tel Aviv, proprio come A.R. Oggi tornano in un Paese piegato dalla crisi economica, in cui non c’è lavoro, non ci sono case per tutti, non c’è assistenza sanitaria, in cui metà dei quaranta milioni di abitanti ha bisogno di sostegno economico e aiuti umanitari per sopravvivere. Un Paese uscito dai radar dell’attenzione globale e in cui gli appelli delle organizzazioni umanitarie per gli aiuti sono largamente sottofinanziati: quest’anno solo un quinto delle necessità umanitarie è stato finanziato. Il transito verso un futuro incerto - S.R. ha 27 anni, è appena arrivato al centro di transito di Herat con sua moglie e il loro bambino. Ha 14 giorni. Quando hanno ricevuto il foglio di espulsione S.R. ha chiesto di poter aspettare che sua moglie partorisse, che passasse almeno un po’ di tempo dopo la nascita del bambino. Ma le istituzioni iraniane non ne hanno voluto sapere, così una settimana dopo la nascita di suo figlio i tre si sono messi in viaggio da Teheran, e sono arrivati prima al confine e poi a Herat. Erano andati via non tanto per il ritorno dei talebani al potere, ma perché non avevano da mangiare, non avevano niente. S.R. dice che era scappato perché troppe sere andava a dormire senza aver messo in bocca nemmeno un pezzo di pane, e che oggi tornano, non hanno cibo, ma hanno una bocca in più. Dice così “non ci interessano le regole che dovremo seguire, abbiamo tre stomaci vuoti e non abbiamo pane”. Quando arrivano al punto di transito, a Herat, i volti sono diversi, il viaggio dal confine a Herat ha reso tutti più consapevoli, tutti più preoccupati. Passata la furia dell’attraversamento, le ore sotto i tendoni, le file per i primi documenti, il successivo punto di approdo è un centro di smistamento a Herat. La struttura può ospitare solo 700 persone al giorno, sono divise in tende, spazi per famiglie, o stanze con letti di ferro. Salvo casi eccezionali, gli afgani che arrivano qui possono restare una notte, il tempo di riposare, ricaricare i telefoni, ricevere una piccola somma di denaro che possa garantire loro lo spostamento dal centro e un eventuale ritorno nelle zone d’origine. Il resto è una storia che comincia da zero una volta varcata la soglia del cancello. Una volta tornati, molti si ritrovano in province prive anche dei servizi più basilari, costringendo migliaia di persone a trasferirsi in tendopoli improvvisate o insediamenti informali. Molti arrivano senza più documenti d’identità, rendendo ancora più difficile l’accesso agli aiuti. È dopo che i rifugiati hanno varcato la soglia del centro di transito che si sente di più la carenza di assistenza, lì che serve più aiuto, è che Intersos, supportata dai finanziamenti dell’Unione Europea, opera con le cliniche mobili fornendo assistenza sanitaria, sia per la malnutrizione che per le donne incinte, sia come supporto per la protezione umanitaria che per quello psicologico. Molte delle bambine e giovani donne che arrivano al valico di frontiera non hanno mai messo piede in Afghanistan, figlie di rifugiati delle guerre di decenni fa, nate in Iran, oggi tornano in un Paese che non conoscono, e che non hanno mai visto. Indossano scarpe da ginnastica, i jeans stretti, le camicie alla moda. Le bambine hanno ciocche di capelli colorate, i brillantini sulle magliette, le madri insegnano loro a indossare l’hijab, le bambine ridono, scherzano, ballano trascinando i veli, ancora inconsapevoli delle regole che dovranno rispettare. A.R. è originario di Mazar-i-Sharif, ha lasciato l’Afghanistan con i suoi genitori quando era bambino. Prima Mashdad, poi Teheran. Ha iniziato a studiare lì, poi ha lasciato la scuola perché i suoi genitori avevano bisogno che lavorasse e ha cominciato a lavorare come carpentiere. A Teharan ha conosciuto sua moglie S., anche la sua famiglia è di origine afgana ma lei del Paese non ha praticamente ricordi. S. ha una lunga treccia che le cade sulla spalla, e che il velo copre a malapena, una camicia chiara le copre il ventre e le gambe su cui è seduto il loro bambino di un anno e mezzo. In Iran aveva molta libertà, camminava da sola, lavorava come sarta per aiutare A.R. a pagare l’affitto della stanza in cui vivevano. Oggi ad attenderla ci sono le regole dell’Emirato Islamico. Non potrà più passeggiare sola, né lavorare. A.R. dice che nessuno dei due aveva scelta, e che questo rientro rappresenta la fine della vita, sia per lui che per sua moglie, che è pronto a rinunciare al suo futuro, perché non aveva alternative, ma che non può rassegnarsi al fatto che i suoi figli non lo abbiano i suoi figli.