Le carceri scoppiano ma Nordio è troppo preso dai brindisi per la separazione delle carriere di David Allegranti lettera43.it, 19 settembre 2025 Mentre il ministro festeggia con uno spritz l’avanzamento alla Camera della riforma sui magistrati, l’emergenza detenuti peggiora. Il tasso di sovraffollamento è del 135,5 per cento. Da quando c’è il governo Meloni si entra di più in galera e si esce di meno. Tra suicidi, episodi di autolesionismo e mancanza di agenti di Polizia penitenziaria. Amnistia, indulto o liberazione anticipata: fate qualcosa. La Camera ha approvato (con bagarre, e meno male che bisognava abbassare i toni) in terza lettura la separazione delle carriere dei magistrati (243 sì e 109 no). La politica dunque fa il suo corso. Anche se non sempre, come testimoniano le recenti statistiche del ministero diretto, almeno in teoria, dall’ex pubblico ministero Carlo Nordio, troppo impegnato a celebrare l’avanzamento della riforma a Montecitorio: “Per la cronaca di chi ritiene che io sia addetto all’alcolismo, vado a festeggiare questa bellissima giornata con uno spritz”. Mentre lui brinda, però, l’emergenza nelle carceri italiane resta. Al 31 agosto 2025 c’erano nel nostro Paese 63.167 detenuti, per una capienza regolamentare di 51.274 posti, ai quali però vanno sottratti anche quelli inagibili (i posti reali dunque sarebbero 46.706). Il tasso di sovraffollamento è del 135,5 per cento; la crescita della popolazione detenuta nell’ultimo anno è ormai di 1.409 unità; il numero dei reati in questi anni è rimasto sostanzialmente invariato; ci sono 6.942 persone detenute in più da quando è entrato in carica il governo Meloni, nell’ottobre del 2022. Aumentano di circa un migliaio i posti di fatto non disponibili - Dice Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale: “Da allora la capienza regolamentare è rimasta sostanzialmente invariata (+76 posti), ma sono aumentati di circa un migliaio i posti di fatto non disponibili. Sono ormai 4.615 rispetto ai 51.274 conteggiati dal ministero della Giustizia”. Le donne detenute con figli a seguito sono 18, di cui 10 straniere con 23 figli piccoli: a Lauro, in provincia di Avellino, c’è una donna di 27 anni incinta di cinque mesi. I detenuti stranieri sono 21 mila, i tossicodipendenti 18 mila, più di 4 mila sono malati di mente e 4.151 sono detenuti dai 18 ai 24 anni. Ci sono nuovi reati, maggiori pene, altre aggravanti - Il riassunto dello stato di salute dell’esecuzione penale in Italia lo ha fatto pochi giorni fa Samuele Ciambriello, garante campano delle persone private della libertà personale e portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti dei diritti delle persone private della libertà personale: “Ci sono nuovi reati, maggiori pene, nuove aggravanti, carceri senza aria, senza umanità, senza dettato costituzionale, diritti negati e urgenze dimenticate. Si entra di più in carcere e si esce di meno. La politica ha aperto i battenti, visto che le carceri esplodono: ora si farà qualcosa?”. “Il carcere non rieduca più, è un contenitore di fragilità” - Il problema del sovraffollamento non riguarda più soltanto il carcere per adulti, ha spiegato Ciambriello: a seguito del Decreto Caivano è aumentato notevolmente il numero di giovani adulti ristretti. Infatti nelle carceri minorili in Italia ci sono 545 ragazzi, 1.137 nelle comunità private, e 16.374 dall’inizio dell’anno sono i minori in carico agli uffici di servizio sociale per minorenni, di cui 3.255 messi alla prova. “Pertanto”, ha detto Ciambriello, “il carcere non rieduca più ed è diventato un contenitore di fragilità sociali, bisogna perciò educare i minori per renderli più responsabili. Piuttosto che custodire occorre prevenire questi minori in difficoltà, che passano dal disagio alla devianza e alla microcriminalità”. L’anno scorso record di suicidi (91), fin qui siamo a 61 - E vogliamo parlare dei suicidi? L’anno scorso sono stati 91, cifra record, persino superiore agli 84 del 2022. Fin qui sono 61, quest’anno, calcola Ristretti Orizzonti. Ci sono poi quelli che ci hanno provato e non ci sono riusciti (1.123 persone). Senza dimenticare i 7.486 atti di autolesionismo compiuti da inizio anno in Italia. Mancano 18 mila agenti di Polizia penitenziaria - “Come si fa a non considerare che dietro a questi numeri ci sono persone? Il 50 per cento delle persone che provano a suicidarsi sono in carcere da pochi giorni o pochi mesi. Un’altra metà prova a suicidarsi mentre sta per uscire dal carcere. Il carcere è diventato un luogo di contraddizioni irrisolte, poveri cristi, vittime di ingiustizie sistemiche. Immigrati, detenuti senza fissa dimora, tossicodipendenti, malati di mente. In Italia mancano 18 mila agenti di Polizia penitenziaria. Il numero degli agenti viene calcolato in base ai posti disponibili in ogni istituto carcerario e non alla presenza reale dei detenuti”. Servono assistenti sociali, psicologi, psichiatri - Occorrono più educatori, assistenti sociali, psicologi, psichiatri, mediatori culturali e linguistici, ha spiegato Ciambriello: “Occorre più lavoro in carcere. Una misura deflattiva, che può essere l’amnistia, l’indulto o la liberazione anticipata. Facciamo qualcosa adesso. Serve il coraggio di cambiare il carcere. Perché non farlo nell’anno del Giubileo della speranza?”. Altrimenti rimangono solo le pur nobili parole del presidente del Senato Ignazio La Russa. Detenuto senza certificato d’affetto di Luca Fazzo Il Giornale, 19 settembre 2025 Esiste un certificato d’affetto? Una carta bollata che dimostri quanto un essere umano ama un suo parente, quanto gli sia legato, quanto soffra per lui? Se questo certificato esiste, V.D., detenuto cinquantaduenne, non l’ha trovato. Non ha saputo a quale anagrafe del cuore rivolgersi. E così gli è toccato restare chiuso nella sua cella del carcere di Bollate mentre suo nipote, stroncato a quarant’anni da un infarto, era in una bara nella camera ardente; e poi mentre la bara veniva chiusa, e l’uomo sepolto al termine del funerale. Il giudice di sorveglianza che doveva autorizzare il permesso gliel’ha rifiutato. Prima perché mancava la prova del rapporto di parentela: così mamma e fratelli del defunto sono dovuti correre in municipio, abbandonando la salma, per ottenere il certificato. Ma neanche quello bastava, il giudice voleva la prova della “effettiva esistenza di una relazione affettiva e continuativa tra i due”. Una prova impossibile. Chi poteva testimoniare che zio e nipote si volevano bene? Il nipote no, perché morto. Lo zio no, perché chiuso in carcere. Così il permesso non è arrivato. Lasciando l’avvocato del detenuto incredulo. “Non ho mai visto una cosa del genere”, dice Gianpiero Verrengia, raccontando all’agenzia Agi l’incredibile vicenda. A rendere ancora più surreale la storia, alcuni dettagli. V.D. non è un boss della mala. È un emarginato che ha accumulato reati su reati, quasi tutti legati alla droga. Ha da scontare una dozzina d’anni, ma il fatto che sia recluso a Bollate, la più umana delle carceri milanesi, è la prova che non è considerato pericoloso. Si dirà: anche i piccoli criminali scappano. Vero. Ma V.D. ha già dimostrato con i fatti che non vuole tagliare la corda: quando morì un altro parente, il giudice gli permise di uscire per il funerale, lui andò e tornò in cella. A farlo uscire fu lo stesso giudice che stavolta gli nega il permesso. Come mai? Conta più un cognato, un cugino, un nonno, nella graduatoria giudiziaria degli affetti? E poi al giudice sarebbe bastato poco per avere la certezza che V.D. e il nipote avevano un legame forte: il nipote era tra i pochi parenti autorizzati a visitare il detenuto in carcere. Andare al funerale, insomma, non era una scusa di V.D. per farsi una passeggiata all’aria aperta. Eppure la sua domanda è stata respinta. Canterebbe De Andrè: il cuore tenero non è una dote di cui sian colmi i carabinieri. Anzi, i magistrati. Dalla cella al terrore: quando il sistema penitenziario fallisce di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 settembre 2025 A inizio settembre 2025 la Digos di Torino e il Nucleo Investigativo Centrale della polizia penitenziaria, coordinati dalla Direzione centrale della polizia di prevenzione, hanno notificato un provvedimento di custodia cautelare in carcere a un quarantenne di origine tunisina, già detenuto presso la casa circondariale “Lorusso e Cutugno” (Le Vallette). Secondo gli atti d’indagine, l’uomo - che in Italia avrebbe vissuto per più di dieci anni con un’identità fittizia - avrebbe fatto proselitismo tra i compagni di cella, diffondendo canti nasheed, racconti mistici e inviti al martirio; gli inquirenti collegano la sua attività ad ambienti vicini ad Ansar al- Sharia e rilevano la sua ammirazione per Osama bin Laden. Gli investigatori sostengono che l’indagato si sarebbe detto pronto a compiere un attentato una volta libero. Il caso di Torino, per quanto specifico, non è un evento isolato, ma l’incarnazione di una dinamica più ampia e profonda che da anni preoccupa le autorità e gli analisti: la vulnerabilità del contesto carcerario ai processi di radicalizzazione. Quel che il caso mette in luce, e che va raccontato con documenti alla mano, è l’ambiente in cui questi messaggi circolano: un carcere affollato, spesso senza percorsi di cura, con poche figure religiose riconosciute e con strumenti di monitoraggio che a volte non bastano a trasformare una segnalazione in un intervento concreto. In questo contesto, la propaganda jihadista trova la sua forza nell’offrire una risposta a domande esistenziali. Un leader carismatico, come il detenuto di Torino, può facilmente fare breccia nella psiche di un compagno di cella, trasformando un piccolo spacciatore o un criminale comune in un “mujahid pronto a immolarsi” in pochi giorni. I metodi di reclutamento, che spaziano dai racconti mistici ai canti di propaganda, riescono a tradurre la frustrazione individuale in un conflitto collettivo. Il carcere, in questo senso, diventa un “campo di battaglia” in cui l’ideologia estremista si sovrappone alla violenza e al disagio della vita detentiva, fornendo un senso e una giustificazione a una rabbia altrimenti senza direzione. Il caso più noto è forse quello di Anis Amri, l’autore dell’attentato di Berlino, che durante i cinque anni di detenzione in Italia “rivestì di religiosità il suo temperamento rivoltoso”, radicalizzandosi prima di compiere la sua violenta fuga. Questo processo, paradossalmente, non è dissimile da quello che avviene sul web, altro luogo in cui si può coltivare la radicalizzazione. Entrambi gli ambienti, la prigione e il virtuale, pur essendo agli antipodi, offrono uno spazio in cui l’individuo si può auto- convincere, per poi trovare in un leader o in una rete il catalizzatore che trasforma le idee in azione. Solo che in carcere, la spinta è maggiore. Vediamo il perché. Per capire perché la presa ideologica può attecchire dentro le mura, bisogna entrare nei rapporti, nelle circolari e nei progetti che il sistema penitenziario ha messo in campo negli ultimi anni - e capire dove si inceppano. Il Dap ha istituito da anni il Nucleo Investigativo Centrale (NIC) come osservatorio sul fenomeno. Nel 2017 il NIC indicava un sistema a tre livelli (alto/ medio/ basso) per classificare i detenuti ritenuti a rischio: analisi mensile per i profili più pericolosi, bimestrale per quelli medi, osservazione su richiesta per i restanti. Lo stesso documento spiega che dal 14 dicembre 2015 è stata introdotta, nell’applicativo “Eventi Critici”, la categoria “rischi di proselitismo e radicalizzazione” per consentire l’inserimento in tempo reale di comportamenti o avvenimenti sospetti. L’apparato di monitoraggio esiste, ma i numeri del rapporto parlano chiaro: su circa 700 segnalazioni esaminate in quell’anno, il 25% fu classificato come primo livello, il 14% come secondo, il 15% come terzo, mentre il 46% rimase “sotto osservazione” dalle direzioni d’istituto - cioè non venne immediatamente incanalato in una misura strutturata. È in quel vuoto di tempo che il reclutatore può trovare spazio. Quel censimento (il rapporto Dap del 2017) è utile perché spiega due cose: il sistema è costruito sulla raccolta e sull’aggregazione di dati (relazioni comportamentali, corrispondenze, colloqui, invii/ recezioni economiche), ma quelle informazioni richiedono tempo e risorse per trasformarsi in decisioni operative. Non è una questione tecnologica: è un problema di organico, formazione e regia. Non si capisce la dinamica del reclutamento se non si guarda allo stato delle carceri. Come ha evidenziato Antigone, il tasso di affollamento reale ha raggiunto il 135,5%. La presenza straniera resta sempre intorno al 31,6% del totale, con la Tunisia tra le nazionalità più rappresentate tra gli stranieri. Antigone documenta poi condizioni che favoriscono rotture psicologiche: calore estivo senza adeguati servizi, sospensione di attività, carenza di ventilazione, aumento dei suicidi e dei decessi in carcere. In questo contesto, l’isolamento, la noia, l’assenza di lavoro o formazione e il senso di ingiustizia sociale sono carburante per chi cerca adepti. La fotografia di Antigone non è retorica: è un elenco di fattori che la ricerca internazionale indica come catalizzatori della radicalizzazione in ambito carcerario - sovraffollamento, clima di tensione, assenza di programmi strutturati di reinserimento. Chi ascolta i detenuti più fragili ascolta ansia, paura e rabbia; e chi parla con fermezza e narrazioni assolute può offrire una risposta semplice e attraente. La letteratura delle pratiche operative per arginare la radicalizzazione è ampia e concorde. La Rete europea per la sensibilizzazione (RAN) invita a una gestione multilaterale: valutazioni del rischio specifiche per soggetti potenzialmente estremisti, interventi differenziati, formazione specialistica per il personale e continuità assistenziale al momento della scarcerazione. Il Consiglio d’Europa, nel suo manuale, insiste sulla necessità di coniugare sicurezza e diritti umani, investendo su clima carcerario, formazione e cooperazione interistituzionale. L’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine, infine, propone protocolli operativi per la gestione dei detenuti violentemente estremisti e raccomanda strumenti di valutazione strutturati e programmi di reinserimento che coinvolgano enti esterni. Tutto questo materiale esiste e offre indicazioni concrete; il problema è che tra la teoria e la pratica c’è spesso un divario organizzativo e finanziario. Ma, come sempre, si preferisce quasi esclusivamente la via repressiva. Un esempio è il Decreto Legge 48/ 2025, che introduce “disposizioni urgenti in materia di sicurezza pubblica, di tutela del personale in servizio... e di ordinamento penitenziario”. Questo provvedimento, convertito in legge nel giugno 2025, ha introdotto nuove fattispecie di reato, tra cui la detenzione di materiale con finalità di terrorismo e la divulgazione di istruzioni per il compimento di atti violenti o di sabotaggio. L’articolo 26, in particolare, introduce aggravanti per l’istigazione a disobbedire alle leggi e per il reato di rivolta se commessi all’interno di un istituto penitenziario. Queste misure rafforzano il lato repressivo, cercando di innalzare barriere legali e sanzionatorie più severe per chi fomenta l’estremismo in carcere. Questa risposta normativa, però, non affronta le radici del problema. Un approccio unicamente repressivo e di sorveglianza, infatti, rischia di inasprire il sentimento di ingiustizia e alienazione dei detenuti, perpetuando il ciclo della radicalizzazione. La durezza del sistema, unita al sovraffollamento, è già stata oggetto di condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha evidenziato la tensione tra sicurezza e rispetto dei diritti fondamentali. Individuare una persona che seminava odio in cella è un’operazione necessaria - la magistratura e le forze di polizia hanno fatto il loro lavoro - ma non basta. Se il carcere rimane sovraffollato, con poche attività, senza mediatori formati e con un’applicazione disomogenea delle procedure, il rischio che altre celle diventino cassa di risonanza per messaggi estremisti resta alto. I documenti internazionali dicono come intervenire; i rapporti italiani dicono che è urgente farlo e con risorse stabili. Referendum, il centrodestra si ricompatta e prepara la lotta sui territori di Mauro Bazzucchi Il Dubbio, 19 settembre 2025 La riforma della giustizia diventa ufficialmente la bandiera del centrodestra e la vetrina della sua unità. Con il voto di ieri alla Camera in terza lettura, la separazione delle carriere è ormai pronta per arrivare davanti agli italiani. Non essendo stato raggiunto il quorum dei due terzi dei componenti in seconda deliberazione (come prevede l’articolo 138 della Costituzione), sarà il referendum a decidere, trasformando una vittoria parlamentare in un pronunciamento popolare. Formalmente manca ancora un ultimo voto al Senato, Giorgia Meloni e l’intera maggioranza sono già con la testa rivolta al referendum. Non si tratta di un semplice adempimento costituzionale: sarà una prova di forza politica, una sorta di test generale per le elezioni del 2027. “Con l’approvazione in terza lettura - ha scritto la premier - portiamo avanti il percorso della riforma della giustizia. Continueremo a lavorare per dare all’Italia un sistema sempre più efficiente e trasparente. Avanti con determinazione per consegnare alla Nazione una riforma attesa da anni”. Un messaggio che proietta la sfida referendaria oltre il merito tecnico, facendone il vero banco di prova per misurare il consenso del governo in vista della fase finale della legislatura e delle prossime elezioni politiche. La posta in gioco è chiara: se su politica estera, autonomia differenziata e fisco la coalizione sta conoscendo momenti di tensione, sulla giustizia il centrodestra appare più unito che mai. La separazione delle carriere diventa il collante ideale, il tema identitario su cui Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia parlano con una sola voce. Ecco perché la campagna per il “sì” sarà molto più di una consultazione popolare: sarà il palcoscenico su cui Meloni, Salvini e Tajani potranno presentarsi compatti, offrendo un’immagine di maggioranza coesa, pronta a chiedere la riconferma nel 2027. “Festeggiamo la riforma, Berlusconi sarà felice. È una grande vittoria politica. Ora siamo pronti a lavorare ai comitati per il sì”, ha detto Antonio Tajani ad Ancona, evocando persino il referendum del 1985 sulla scala mobile e definendolo “un risultato lusinghiero”. Un paragone che trasforma il voto in un rito di identità collettiva: come allora, l’obiettivo è vincere e consolidare il blocco sociale di riferimento. La regia è già in movimento. “Siamo a un passo dal traguardo - ha detto il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto - con questa riforma il cittadino torna al centro del sistema giudiziario, con tutte le garanzie tutelate da un giudice finalmente terzo. Ora siamo pronti a sottoporre il progetto al giudizio degli italiani”. Una dichiarazione che lascia intendere che il referendum non sarà subìto, ma cavalcato. Per la Lega, Matteo Salvini ha parlato di “provvedimento nell’interesse di tutti i cittadini, una battaglia storica del Carroccio. Promessa mantenuta: avanti tutta!”. Un assist alla premier che conferma l’allineamento interno sul tema giustizia. Persino Carlo Nordio, pur mantenendo il tono istituzionale, ha lasciato trasparire l’importanza del momento: “Non deve essere vissuta come una sconfitta della magistratura - ha spiegato - ma mi pare che un certo entusiasmo sia normale, visto il risultato schiacciante che sarà confermato al Senato e, ne sono certo, anche durante il referendum”. La campagna elettorale per il “sì” sarà dunque una vetrina per mostrare coesione, in un momento in cui la maggioranza non può permettersi di apparire divisa. Il referendum diventa un catalizzatore: chi andrà a votare si esprimerà anche sul governo. Per questo la posta in gioco è altissima: trasformare una riforma costituzionale in un’investitura politica. Non è un rischio calcolato: è una scelta strategica. Se il centrodestra vincerà, potrà presentarsi alle Politiche del 2027 con la forza di una maggioranza che ha mantenuto le promesse e che gode del sostegno popolare su uno dei temi più sentiti dall’elettorato. Se invece il referendum dovesse fallire, il colpo sarebbe anche simbolico, perché acuirebbe l’impressione di una coalizione tutt’altro che granitica. Per ora, però, la narrazione è chiara: giustizia come battaglia di civiltà, referendum come “prova generale” delle urne del 2027, e centrodestra che si ricompatta dopo mesi di frizioni. Un’occasione che Meloni non intende sprecare. Sulla giustizia una prospettiva referendaria preoccupante di Massimo Franco Corriere della Sera, 19 settembre 2025 La gazzarra alla quale si è assistito ieri in Parlamento è un cattivo presagio. Non solo e non tanto per la riforma della giustizia in sé, sulla quale esistono posizioni opposte e tutte legittime. A portare a riflettere è la prospettiva che quel clima rissoso venga replicato nel Paese nella campagna per il referendum. Già il fatto di darlo per scontato perché la maggioranza sapeva che non avrebbe ottenuto i due terzi dei voti favorevoli ha indebolito qualunque volontà di dialogo con le opposizioni; e ha radicalizzato preventivamente i due fronti. In più, presentarla come una vittoria postuma di Silvio Berlusconi rischia di connotarla come una rivalsa sulla magistratura: anche se solo su quella “politicizzata”, che pure esiste. Le perplessità espresse dai settori dell’Anm considerati moderati dovrebbero essere accolte non come un allineamento ai settori antigovernativi del potere giudiziario, ma come un segnale da non ignorare. Sottolineare con applausi dai banchi del governo, oltre che dagli scranni dei deputati della maggioranza, “un altro passo verso la storia”, è stato visto come una provocazione. Il Guardasigilli, Carlo Nordio, sostiene che “la bagarre dell’opposizione nasce dall’amarezza della sconfitta”. Non si può escludere. Ma non basta a spiegare lo scontro fisico sfiorato ieri a Montecitorio. L’intero andamento della discussione promette di irrigidire e estremizzare le posizioni sia tra il governo, sia tra i suoi avversari, sia tra i magistrati. Il sospetto è che sia stato lasciato andare verso un muro contro muro dal quale tutti contano di riemergere se non altro ricompattati sulle posizioni più estreme. L’inasprimento dei toni negli ultimi giorni non può essere spiegato solo con le prossime elezioni regionali. Ci sono un populismo governativo e antigovernativo che sembrano alimentarsi a vicenda. Mobilitano minoranze simmetriche e opposte. E sembrano volere accompagnare il resto della legislatura non solo per le tensioni dovute alla riforma della giustizia. Tendono a contagiare anche l’approccio ai problemi economici, con propagande contrapposte: trionfalista l’esecutivo, catastrofista le sinistre. Rimane da capire la reazione dell’opinione pubblica davanti a un’intossicazione trasversale della narrazione; e come influirà sulla partecipazione. La maggioranza prevede una vittoria “schiacciante”, dopo quella parlamentare che aspetta solo il via libera al Senato, contando sull’impopolarità dei magistrati. È possibile. Peraltro, per il tipo di referendum qualunque percentuale di sì o di no è valida, senza richiedere il quorum del 50 per cento più uno. Ma un successo di minoranza, pro o contro la riforma, sarebbe una vittoria non di popolo ma di parte. Basta parole, ci vediamo al referendum di Riccardo De Vito Il Manifesto, 19 settembre 2025 Alla Camera arriva il via libera alla “seconda lettura conforme” del disegno di legge di riforma della giustizia. Manca l’ultima votazione del Senato e poi sarà il momento del referendum oppositivo previsto dalla Costituzione. La discussione uscirà dalle aule del Parlamento per andare, come si diceva una volta, in mezzo al popolo. C’è da auspicare che quel tempo arrivi presto. Inutile sperare che dal secondo giro al senato arrivi qualcosa in più del clima rissoso che si è visto ieri alla camera: il testo della revisione costituzionale è stato blindato dall’accordo tra i partiti di maggioranza e non sarà l’ultimo esame del Senato a consegnarci un dibattito centrato e trasparente. Nella battaglia referendaria si potrà provare a svelare tutto che quello è stato occultato sotto l’etichetta parziale della separazione delle carriere. I nomi delle leggi possono sedurre, ma spesso illudono. Non bisogna dimenticare il monito di Franco Cordero: nelle esperienze normative le cose visibili sono di frequente una controfigura ingannevole di quelle reali. È quello che accade in questa riforma. Oltre alle statistiche, tutti i recenti casi giudiziari dimostrano l’assoluta irrilevanza, rispetto all’esito del procedimento, del fatto che giudici e pubblici ministeri appartengono allo stesso ordine giudiziario. È sufficiente, a mo’ di esempio, leggere le motivazioni con cui il tribunale del riesame di Milano ha respinto le misure cautelari nelle inchieste urbanistiche per rendersi conto di come e quanto i giudici si discostino dalle richieste delle procure. E ci mancherebbe altro: non siamo ai tempi delle truccate ordalie medievali, il giudizio è attività scientifica, l’applicazione delle norme e il vaglio del materiale probatorio sono pubblicamente verificabili. Di separazione delle carriere, dunque, non c’è reale necessità. Il vero obiettivo della riforma, nascosto nel cavallo di Troia della separazione delle carriere, è quello di sferrare un colpo diretto all’autonomia della magistratura. Un tentativo di piegare il Consiglio superiore della magistratura - oggi organo di governo autonomo - a logiche di eterogoverno politico. Sarà questo l’effetto del c.d. sorteggio asimmetrico: i rappresentanti in Csm dei magistrati saranno scelti a caso, mentre quelli della politica saranno scientemente eletti, per lo più dalla maggioranza politica di turno. Basta immaginare di riprodurre questa situazione in qualsiasi organo elettivo, dal parlamento al consiglio di classe, per rendersi conto della disparità di coesione, efficacia e potere tra la rappresentanza tirata a dadi e quella eletta, del dominio della seconda sulla prima. A questo si aggiunga che con l’alta corte disciplinare si proverà a concentrare nelle mani dei giudici “alti”, di cassazione, un potere di influenza sui giudici dei tribunali mai visto prima. A essere mortificata, in conclusione, non sarà solo l’indipendenza, interna ed esterna, del giudice penale, ma anche quella di tutti quei giudici civili che ogni giorno decidono dei salari, dello stato delle persone, del destino dei figli, dei diritti dei consumatori. C’è da auspicare che di tutto questo si potrà parlare nella campagna referendaria. La buona notizia è che lo scorso 14 settembre l’Anm, forte di un mandato assembleare, ha costituito il “Comitato a difesa della Costituzione e per il No al referendum”. Qualcuno sperava che i magistrati accettassero la deriva, che si lasciassero logorare, divisi e soli. Qualcuno, forte del potere del monopolio mediatico, spera che il popolo travolga i giudici sotto una montagna di Sì; li annienti come, nella favola di Daudet, faceva il lupo con la capra di Monsieur Seguin, ostinata a scegliere i pascoli aperti invece che la corda del padrone. La scommessa, per la democrazia, è che la magistratura sappia spiegare le ragioni della sua battaglia, che non è per un pascolo privato, ma per uno spazio pubblico: quello della giustizia come garanzia dei diritti di tutte e tutti. Se lo saprà fare, si potrà scrivere un’altra variante della favola del signor Seguin, esattamente come fecero gli allievi di Mario Lodi, facendo vincere la libertà. Giustizia, ci sarà il referendum costituzionale: ecco come sono andati i quattro precedenti di Gabriella Cerami La Repubblica, 19 settembre 2025 Giustizia, ci sarà il referendum costituzionale: ecco come sono andati i quattro precedenti. In attesa della quarta e ultima lettura al Senato, è già sicuro che si dovrà tenere la consultazione popolare per approvare o respingere la riforma che prevede la separazione delle carriere tra pm e giudici. Sarà il quinto referendum costituzionale. Nel 2026 si andrà al voto per approvare o respingere la riforma che prevede la separazione delle carriere tra pm e giudici, approvata in terza lettura alla Camera. Benché si tratti solo del penultimo passaggio prima dell’approvazione definitiva della riforma da parte del Parlamento, quello di ieri sancisce con certezza che si farà ricorso al referendum confermativo, poiché Montecitorio ha dato il suo via libera senza raggiungere il quorum dei due terzi che avrebbe impedito il ricorso al referendum da parte delle opposizioni. A differenza del referendum abrogativo, quello costituzionale non richiede un quorum, ossia una quota minima di votanti sugli aventi diritto al voto, per la validità della consultazione. Finora se ne sono tenuti quattro: in due casi la legge al voto è stata bocciata, negli altri due approvata. Il referendum del 26 e 26 giugno del 2006 si è concluso con la mancata approvazione di una proposta di legge costituzionale che modificava la seconda parte della Costituzione. Ha vinto il “no” con il 61,29% ed è stata la prima volta che una legge è stata respinta. C’era il governo Berlusconi IV e si voleva trasformare il Senato in Senato federale proponendo il taglio del numero dei parlamentari in entrambe le Camere. Poi una nuova bocciatura si è ripetuta nel 2016. Era il 4 dicembre e i cittadini si sono espressi sulla riforma “Boschi - Renzi”: “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”. Ha vinto il “no” con il 59.12%. L’affluenza è stata del 65,47%. Anche il primo referendum costituzionale nella storia della Repubblica, quello che si tenne il 7 ottobre 2001, ha riguardato la riforma del titolo V della seconda parte della Costituzione, in particolare si è deciso di dare più poteri alle regioni. I “sì” sono stati pari al 64.2%. E infine nel 2020 il referendum costituzionale di concluso con l’approvazione della legge “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”. L’affluenza è stata del 51,12% e questa volta, sul taglio dei parlamentari, ha vinto il “sì” con il 69,96% delle preferenze. Per vincere il referendum al centrodestra basterà far parlare i magistrati da soli di Ermes Antonucci Il Foglio, 19 settembre 2025 Il segretario generale dell’Anm, Rocco Maruotti, critica la separazione delle carriere usando argomentazioni che nella sostanza, come ha fatto Davigo, delegittimano proprio la magistratura. Più ci si avvicina all’approvazione finale della riforma sulla separazione delle carriere e più sembra diventare chiaro che al centrodestra, per vincere il referendum, converrà far parlare i magistrati da soli, lasciando che le loro affermazioni, sempre più assurde, siano ascoltate dall’opinione pubblica. Sono le toghe, infatti, i nemici peggiori della propria categoria. La conferma, dopo le dichiarazioni incredibili di Piercamillo Davigo (secondo cui, con la riforma in vigore, i pm cominceranno a fare accertamenti patrimoniali nei confronti dei giudici che assolvono troppo, così terrorizzandoli), giunge dalle esternazioni di Rocco Maruotti, nientemeno che segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati. Durante un convegno tenutosi lunedì scorso, Maruotti si è scagliato contro i partiti e contro i consiglieri laici da loro eletti in Parlamento al Consiglio superiore della magistratura: “Un tempo i partiti eleggevano personalità di rilievo, come Giovanni Fiandaca, Carlo Federico Grosso, Vittorio Bachelet, potrei fare un elenco infinito. Andate a leggere i nomi degli attuali consiglieri del Csm. Ditemi se ne conoscete qualcuno, se conoscete il loro curriculum. O se invece semplicemente facevano gli avvocati della Lega, di Forza Italia o del Partito democratico”. Le parole hanno scatenato un putiferio, tanto, pare, da irritare persino Sergio Mattarella (che del Csm è presidente). Mercoledì, al plenum del Csm, i consiglieri (sia laici sia togati) hanno espresso la loro indignazione per le parole di Maruotti, che poi in serata si è scusato con una nota peraltro poco convincente. Il problema è che, al di là dell’attacco ai partiti e ai consiglieri laici, nel corso del convegno Maruotti si è lasciato andare a una serie di considerazioni ancora più paradossali. Il segretario generale dell’Anm ha criticato la riforma Nordio usando argomentazioni che, nella sostanza, come nel caso di Davigo, delegittimano proprio la magistratura. Maruotti ha per esempio criticato la scelta di introdurre il sorteggio come metodo di elezione dei membri togati dei due futuri Csm: “Non mi si dica che novemila magistrati sono tutti capaci a fare i consiglieri, perché non è così”. A parte che non risulta che i consiglieri attualmente selezionati dalle correnti svolgano, prima di essere eletti, un corso intensivo sull’ordinamento giudiziario e sulle attività del Csm, ma - cosa ancor più paradossale - dalle parole di Maruotti dovremmo concludere che un magistrato è in grado di decidere se condannare o meno un cittadino per omicidio, ma non di sedere al Csm per decidere su promozioni, trasferimenti e incompatibilità dei colleghi. Peraltro, forse Maruotti non lo sa, attualmente al Csm siede un consigliere (Andrea Mirenda), scelto proprio tramite sorteggio, che sta dimostrando di essere capace quanto gli altri di svolgere l’incarico. Maruotti ha pure denunciato il pericolo dell’istituzione di un Csm per i pm: “Oggi nel Csm i pm sono cinque. Nel futuro Csm saranno quindici e decideranno da soli trasferimento e carriera per se stessi. Ma tu lasci a 2.500 persone un potere così forte? Sarà inevitabile il controllo della politica”. A parte, anche qui, che la presenza dei pm togati sarà attenuata dalla presenza dei consiglieri laici (un terzo, come avviene oggi), ma a colpire è il fatto che è Maruotti a dubitare in primis della capacità dei suoi colleghi pm di esercitare i poteri che saranno assegnati al Csm in linea con quanto previsto dalla legge e dalla Costituzione. Come se non bastasse, Maruotti ha pure detto che la degenerazione dell’attività delle correnti al Csm “è figlia della riforma del centrodestra del 2006”, che ha introdotto il merito come principio guida nelle procedure di promozione dei magistrati. “Torniamo all’anzianità senza demerito”, ha proposto Maruotti, mostrando anche qui scarsissima fiducia nella capacità della magistratura di selezionare al suo interno, sulla base del merito, le figure migliori per dirigere gli uffici giudiziari. Proprio un bel modo di promuovere le virtù della magistratura in vista del referendum. Nordio: “A marzo il referendum sulla giustizia”. Ma i sondaggi preoccupano il Governo di Simone Canettieri Il Foglio, 19 settembre 2025 Il ministro dopo il sì della Camera: “A ottobre l’ultimo passaggio in Senato”. Il centrodestra vuole fare la prima mossa per mobilitare gli italiani e frenare i comitati del no. Anm in testa. “Ottobre e marzo”. Dopo il penultimo sì del Parlamento alla riforma della giustizia - con tanto di bagarre in Aula fra maggioranza e opposizione - Carlo Nordio con un discreto senso dell’umorismo si fa largo fra i cronisti: “Per la cronaca di chi ritiene che sia dedito all’alcolismo, vado a festeggiare questa bellissima giornata con uno spritz”. Al bancone della buvette di Montecitorio, che è il suo Café Procope, il ministro della Giustizia indica appunto ottobre come mese per l’ultimo sì alla riforma in Senato, prima che la manovra dalle commissioni approdi in Aula, e marzo come possibile periodo per il referendum confermativo. Sempre Nordio fa capire, mentre sorseggia il suo aperitivo con il viceministro Paolo Sisto e la capo di gabinetto Giusi Bartolozzi, che sarà il governo a cavalcare la battaglia referendaria. E non a subirla. Tuttavia la faccenda non è semplice, come sembra. La scelta di caricare politicamente questo appuntamento è anche figlia dei sondaggi. L’umore degli italiani secondo i dati in possesso di Palazzo Chigi e del ministero della Giustizia sembrano essere mutati. Non sono percentuali scritte sulla pietra, ma piccoli campanelli d’allarme sì. Da Via Arenula raccontano infatti che “all’inizio dell’iter parlamentare avevamo registrato uno schiacciante 70 per cento di favorevoli. Adesso, complice anche il caso Almasri, le rilevazioni ci dicono cose diverse: i sì e i no quasi si equivalgono. Aspettiamo nuovi dati in settimana”. Occorre ripeterlo: sono sondaggi, scritti, questi sì, sulla sabbia. Ma non vanno presi sotto gamba. Ecco perché la maggioranza ha intenzione di “chiamare” il referendum, senza aspettare che lo facciano i comitati per il no, spinti dall’Anm, o le opposizioni. La consultazione popolare sarà obbligatoria: la differenza politica starà in chi farà la prima mossa. Si valutano le tre forme previste dalla costituzione: raccolta di 500 mila firme (che potrebbe arrivare anche in maniera digitale tramite Spid, per la prima volta), coinvolgimento di cinque consigli regionali o di un quinto dei deputati o senatori. Per il raffreddamento dei tempi da una camera all’altra per una riforma costituzionale dal 22 ottobre può arrivare il sì a Palazzo Madama, quello della svolta. Quello di ieri resta il giorno della baruffa tra maggioranza e opposizione, con i commessi nell’emiciclo per bloccare manate e spintoni, le invocazioni a Silvio Berlusconi da parte di tutta Forza Italia a partire dall’onorevole Marta Fascina, ultima compagna del Cav. Il Pd accusa Antonio Tajani di aver applaudito al momento del voto dai banchi del governo (cosa che non risulta dal Var) e di non rispondere su Gaza. “Da regolamento si può applaudire, ma non l’ho fatto e comunque l’opposizione, come si dice a Roma, nun ce vole sta’”. Dalle opposizioni si registrano però anche le voci favorevoli di Luigi Marattin (Partito liberaldemocratico) e Carlo Calenda (Azione). Ma questi sono dettagli perché ormai Palazzo Chigi, con Giorgia Meloni in testa, è in piena modalità campagna referendaria. Un’operazione che ha costi non banali, basti pensare che l’Anm ha stanziato in bilancio mezzo milione di euro. E dunque serviranno euro e mobilitazione da parte del centrodestra. L’idea è quella di arrivare a fine marzo (quindi niente Idi) 2026 per l’ordalia popolare. Sì o no. Una campagna elettorale si staglia all’orizzonte dopo quella delle regionali che alla fine terminerà qualche giorno prima di dicembre. Meloni è convinta di superare il test e che se dovesse andar male non inciderà sulla salute del suo governo. Ma questo si sa è un altro discorso con precedenti controversi. Nordio: “Consenso verso i magistrati in calo. Non si strumentalizzi il referendum” di Irene Famà La Stampa, 19 settembre 2025 Il ministro: “Se politicizzeranno la consultazione e vinciamo noi, per loro sarà un’umiliazione”. Il Guardasigilli è soddisfatto. Per lui, quei 243 “sì” alla riforma costituzionale della giustizia rappresentano “il coronamento di un impegno decennale” e ora la strada gli pare tutta in discesa. Forse per etichetta, forse per scaramanzia, a una possibile vittoria al referendum gira intorno. In un primo momento mormora: “La maggioranza schiacciante verrà confermata”. Dopo opta per la strada della diplomazia: “Prima c’è il voto al Senato”. Anche se l’esito è praticamente scontato e il ministro Nordio lo sa bene. Il Senato e la consultazione popolare. “Da ex magistrato - riflette - vedo con dolore che il consenso dei cittadini verso la magistratura sta calando”. Ma quando a decidere sono i cittadini, e devono scegliere chi ascoltare tra le toghe e l’esecutivo, la questione “consenso” diventa significativa. La votazione alla Camera è stata un successo per il governo e per il Guardasigilli, che nella riforma della giustizia ha investito tanto. Applausi tra i banchi della maggioranza, esultanza a tratti sguaiata. Ci si è dimenticati il contegno che un momento di guerre e fame e morte come questo richiederebbe? “Non siamo fatti con un cervello a compartimenti stagni”. Il ministro Nordio non si scompone: “Ogni giorno muoiono, non solo oggi a Gaza, decine di migliaia di bambini di fame e di malattia. La natura è leopardianamente spietata”. Esultanza “legittima”, anche se “siamo consapevoli che nel mondo si consumano tragedie immense”. Ci sono gli ostaggi israeliani, “non dimentichiamoci che Hamas è il primo responsabile di tutto quello che è successo, e il popolo palestinese e il popolo ucraino, con il quale la nostra solidarietà è totale e incondizionata”. Certo “che viviamo con dolore quello che sta accadendo, ma non credo che la maggioranza degli italiani, pur consapevoli di questo momento difficile, rinunci ai momenti di gioia”. E le istituzioni non fanno eccezione. Ministro, qualcuno ha anche inneggiato a Berlusconi. “E perché non si dovrebbe?”. Ieri è stato un giorno decisivo per la riforma. Ora la partita si giocherà al referendum e l’esecutivo, seppur con cautela, pare pronto a brindare. “Sarà sicuramente un vino italiano, magari un Vermentino”, scherza il Guardasigilli. Poi torna prudente e racconta di una pubblicità di un Brandy degli Anni 80: “Se la vostra squadra ha perso, consolatevi con lo Stock 84. Se la vostra squadra ha vinto festeggiate con lo Stock 84”. Come a dire: la partita è ancora aperta. Il clima tra governo e toghe è teso come mai prima d’ora, gli attacchi sono continui e sempre più accesi. Ma il ministro Nordio da questa bagarre cerca di tirarsi fuori. “Se si leggono i miei scritti e le mie interviste, si vede che c’è un appello ininterrotto e pacifico affinché i toni restino pacati e perché ci si soffermi sulle questioni tecniche e giuridiche”. Stesso appello dei magistrati, ma sino ad ora ogni buona intenzione sembra essere stata disattesa. Il Guardasigilli ha una preoccupazione: “Che il referendum non diventi a favore o contro il governo, il parlamento, la maggioranza”. E la magistratura. “Se discutessimo, come auspico, in modo pacato, razionale e giuridico, l’esito sarà quello che vorranno gli italiani e non avrà effetti, né positivi né negativi, né nei confronti dei vincitori né degli sconfitti”. In pratica, se il dibattito sarà garbato, nessuno ne avrà un danno d’immagine e reputazionale. “Certo, se fosse politicizzato com’è accaduto ai tempi di Renzi e come qualcuno lascia adombrare, le cose cambierebbero. Non me lo auguro, perché significherebbe che anche la magistratura intende politicizzarsi”. Se il confronto sarà educato, “che si vinca o che si perda, la magistratura manterrà intatto il suo prestigio. In caso contrario, se il referendum venisse strumentalizzato dalle toghe, un’eventuale nostra vittoria sarebbe un’umiliazione”. Nel merito della riforma, che in questi mesi tanto sta facendo discutere e arrabbiare i magistrati, il Guardasigilli non fa un passo indietro. Anzi, difende con forza ogni singolo punto. “La separazione delle carriere è nella natura del processo accusatorio”. Nordio racconta di quando è entrato in vigore il codice Vassalli, ovvero il codice di procedura penale tutt’ora in vigore, “e lo stesso ministro Vassalli, in un incontro privato con me aveva ammesso che si sarebbe dovuta fare una riforma costituzionale. Poi non si è fatta, perché era più lunga della riforma del codice penale”. Le nuove norme parlano di separazione delle carriere, doppio Consiglio superiore della magistratura, un’Alta corte con poter disciplinare. Il ministro della Giustizia sottolinea: “La separazione delle carriere esiste in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, in Nuova Zelanda, in Australia, in tutti quanti i paesi di democrazia avanzata”. Ed è vero, ci saranno due Csm: uno per la magistratura requirente, uno per quella giudicante. E ci sarà un’Alta corte con compito disciplinare. “Con il sistema attuale, i pubblici ministeri danno un voto ai giudici. Se lo spieghi ad un inglese, ti guarda in maniera strana, interrogativa, al punto che ti chiedi se ti espresso correttamente. Con la riforma questo non capiterà più”. A più voci, le toghe sottolineano: “Questa riforma non risolve i veri problemi della giustizia”. Ovvero i tempi molto lunghi, gli errori e così via. “Ci sono delle buone ragioni per essere scettici su questa riforma, ma secondo noi ci sono ragioni migliori per portarla a termine”. Separazione delle carriere, il sistema “PM-centrico” che la magistratura non vuole mollare di Gian Domenico Caiazza Il Dubbio, 19 settembre 2025 L’approvazione in terza lettura della riforma dell’ordinamento giudiziario è ovviamente una buona notizia per chi attende da essa l’allineamento dell’Italia a tutte le più importanti democrazie occidentali. Gli avversari di questa riforma sono abili nel caricarla di significati ideologici che, semplicemente, non le appartengono. Sono piuttosto loro che dovrebbero spiegare ai cittadini la ragione per la quale l’Italia dovrebbe rimanere pressoché l’unico Paese del mondo democratico con un processo penale di tipo accusatorio e un ordinamento giudiziario a carriere unificate. Siamo nella mesta compagnia di Romania, Turchia e Bulgaria; perché la Francia ha sì le carriere unificate, ma in perfetta coerenza con il suo sistema processuale di tipo inquisitorio: l’eccezione che conferma la regola. La cultura inquisitoria - Processo inquisitorio come era il nostro, d’altronde, quando fu scritta la Costituzione, che per conseguenza immaginò le carriere unificate di giudici e pubblici ministeri. Per l’ANM e l’intero fronte del NO, la Costituzione è ferma al 1945, mentre la riforma dell’art. 111 - con l’affermazione del giusto processo, appunto di rito accusatorio - sembra non riguardarli. Di qui l’ossessiva ripetizione di un altro sproposito, e cioè che questa riforma sarebbe un “attentato alla Costituzione”; e ciò per la semplice ragione che la magistratura italiana ha subìto la riforma dell’art. 111 come un oltraggio, rispetto al quale operano dunque una vera e propria rimozione freudiana. E perché questo? Ma è molto semplice. La magistratura italiana, in netta prevalenza, coltiva una cultura inquisitoria; quella per la quale la prova si forma nella fase delle indagini, con il solo vaglio da parte di quella figura ibrida che era il giudice istruttore, senza soverchie, fastidiose interlocuzioni del difensore. Chiuse le indagini, il grosso è fatto, mentre al dibattimento è riservato un compito residuale e limitato di verifica del buon lavoro fatto dagli inquirenti. Un sistema pm-centrico - Non è certo un caso, d’altronde, che la magistratura italiana sia rappresentata associativamente, culturalmente e mediaticamente dalla figura del PM, non certo da quella del giudice. È dunque un solido assetto culturale e di potere, questo “PM-centrico” e non “Giudice-centrico”, che la magistratura italiana - o per meglio dire, la sua rappresentanza politica e associativa - non vuole mollare; ecco perché strepita - mentendo - di attentato all’indipendenza del PM. In realtà, la riforma afferma solennemente l’indipendenza del PM “da ogni altro potere” (art. 104 Cost), e loro lo sanno bene. Ma con questo ossessivo allarme, il fronte del NO mostra in realtà di cogliere ciò che la riforma certamente ha come obiettivo: porre fine a quell’assetto di potere, riequilibrando il peso specifico della magistratura inquirente rispetto al potere (e dunque alla “indipendenza interna”) della magistratura giudicante. Noi non vogliamo altro che il cittadino sia garantito nei suoi diritti da un giudice più forte; da un giudice certamente indipendente dalla politica, non meno però che indipendente dalle Procure della Repubblica. Non bastano gli incentivi: le toghe snobbano la task-force anti arretrato di Giovanni Maria Jacobazzi Il Dubbio, 19 settembre 2025 Su 500 posti disponibili per smaltire l’arretrato civile, arrivate circa 200 domande. Incentivi economici insufficienti, dubbi sul giudice naturale. Sono scaduti ieri i termini per la presentazione della domanda per partecipare alla maxi ‘ task force’ chiamata a smaltire, facendo udienza solo da remoto, i processi civili pronti per la decisione ed attualmente pendenti che rischiano di non far raggiungere gli obiettivi del Pnrr. Da quanto ha potuto apprendere Il Dubbio da fonti qualificate di piazza Indipendenza, su 500 posti disponibili le domande pervenute al Consiglio superiore della magistratura sarebbero state meno della metà, circa 200. La misura era contenuta nel dl numero 117 dello scorso 8 agosto, ‘Misure urgenti in materia di giustizia’, ed era stata pensata proprio per consentire il raggiungimento degli obiettivi Pnrr nel settore giustizia entro giugno 2026. In particolare, la riduzione del “disposition time” civile del 40 percento, del penale del 25 per cento e dell’abbattimento dell’arretrato civile fino al 90 percento. Nonostante gli sforzi fatti, infatti, sono tante le criticità ancora presenti nel settore civile, soprattutto in relazione alla durata dei procedimenti. Per i magistrati che hanno accettato di far parte della task force è previsto un punteggio in più in caso di future domande di trasferimento o per un incarico direttivo. Inoltre, avranno diritto ad una indennità aggiuntiva che verrà corrisposta in base al numero delle sentenze scritte. Rispetto ai parametri previsti, l’indennità potrà essere aumentata fino al 60 percento se il magistrato riuscirà a scrivere oltre 50 sentenze nel semestre. Secondo un rapido calcolo gli importi dovrebbero oscillare dai 10mila ai 14mila euro lordi. Incentivi economici che, evidentemente, non sono stati sufficienti per convincere le toghe a presentare la domanda. Va detto che la procedura per il reclutamento di questi 500 giudici si è rivelata alquanto farraginosa. Il presidente di tribunale o di corte d’appello ‘ cedente’, ad esempio, deve verificare, prima di dare il via libera, che la produttiva del magistrato applicato non sia inferiore a quella media del suo ufficio. Il capo dell’ufficio destinatario dell’applicazione, invece, deve assegnare solo i procedimenti maturi per la decisione, assicurandosi che in sei mesi ogni magistrato ne riesca a definire almeno 30. Non è ben chiaro cosa accada poi se la produttività del magistrato applicato dovesse diminuire o se non riesca a raggiungere i numeri previsti. Il punto comunque maggiormente dibattuto è che questi magistrati dal prossimo mese decideranno procedimenti istruiti da altri, in deroga al principio costituzionale del giudice naturale. Il ricorso alla “task force” non può non far riflettere sull’apporto fornito in questi dell’Ufficio del processo che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto dare un contributo decisivo per lo smaltimento dell’arretrato e che invece non pare aver sortito gli effetti sperati. L’arretrato, come da delibera del Csm dell’inizio del mese, risulta essere ‘ a macchia di leopardo’. Uffici giudiziari simili per dimensioni, nella medesima area geografica e quindi con un contenzioso pressoché uguale, con identiche scoperture di giudici e di personale amministrativo, hanno tempi di definizione dei procedimenti molto diversi fra loro. Ed è invece stato ritirato l’emendamento, per bloccare fino al 30 giugno 2026, le autorizzazioni ad andare “fuori ruolo”, presentato da Enrico Costa, deputato di Forza Italia e componente della Commissione giustizia di Montecitorio. Stessa sorte aveva avuto l’emendamento, proposto a Palazzo Bachelet prima dell’estate del togato indipendente Andrea Mirenda e dal laico Michele Papa (M5S), affinché venissero eliminati, almeno sino al prossimo giugno, quando bisognerà rendicontare a Bruxelles l’attività svolta in questi anni, gli sgravi che hanno molti magistrati. Gli ‘esoneri’ dall’attività giurisdizionale, che vanno dal 50 percento fino al 100 percento dei carichi di lavoro, riguardano una platea molto vasta di toghe: da chi ricopre un incarico direttivo o semidirettivo, ai componenti dei Consigli giudiziari, a coloro che si occupano della formazione decentrata della Scuola superiore della magistratura, ai referenti distrettuali per l’innovazione. Filippo Turetta ora spera nella giustizia riparativa: (solo se Gino Cecchettin è d’accordo) di Andrea Pasqualetto Corriere del Veneto, 19 settembre 2025 Ieri il padre di Giulia Cecchettin ha commentato l’episodio del pestaggio in carcere: “Una cosa che non mi fa sentire felice”. Ci pensa, ci spera. È una speranza che corre su un filo sottilissimo che lega lui, Filippo Turetta, il carnefice, a Gino Cecchettin, il padre della vittima dell’atroce delitto, Giulia. Si chiama giustizia riparativa, un approccio diverso di espiazione della pena introdotto in Italia nel 2022 dalla riforma Cartabia che prevede il coinvolgimento diretto delle parti attraverso un percorso di pace e di ascolto e di riconoscimento della vittima e ha come fine la compensazione del danno causato. Ora che il processo d’Appello si avvicina, il ventitreenne padovano, condannato in primo grado all’ergastolo, potrebbe chiedere ai giudici di seguire questo percorso che, va detto, non sostituisce la pena, la integra. C’è una conditio sine qua non: il consenso di Cecchettin. Cioè, la legge non vieta a Turetta di presentare comunque istanza ma lui ha deciso che lo farà solamente nel caso di consenso preventivo del padre di Giulia. A dare impulso a questa proposta, che prevedrebbe incontri fra quest’ultimo e l’assassino di sua figlia alla presenza di un mediatore, sarebbero state le parole concilianti di Cecchettin, anche rispetto al delicato tema di questo giustizia innovativa per Turetta: “Ci vorrà del tempo ma potrebbe essere una tappa, nel momento in cui il percorso verrà fatto da entrambi, nel modo giusto. Ci deve essere un perdono sincero e un percorso riabilitativo di un certo tipo ma non lo escludo”, si era detto possibilista dopo la sentenza di primo grado, mettendo però il paletto del tempo. E anche ieri, dopo la pubblicazione della notizia del pestaggio in carcere di Turetta, Cecchettin ha avuto parole di condanna del gesto: “Non mi fa sentire felice il fatto che sia stato aggredito perché ancora una volta vuol dire che dobbiamo lavorare... condanno questo atto, noi ci muoviamo in senso opposto”. È successo che a fine agosto un detenuto di 55 anni, che sta scontando una pena definitiva per omicidio nel carcere veronese di Montorio, gli ha tirato un cazzotto in faccia. Si tratta di un recluso della stessa sezione, non un concellino. Sezione nella quale Turetta era stato spostato dopo essere rimasto a lungo nell’area protetta dell’infermeria che ospita anche detenuti a rischio. I legali di Turetta l’avevano detto: attenzione perché c’è da fare i conti con il codice d’onore degli istituti di pena che non vede di buon occhio, oltre a pedofili e collaboratori di giustizia, anche chi si macchia di gravi reati contro le donne. Pare che sia stato questo il movente dell’aggressione, che comunque Turetta non ha voluto denunciare. Il giovane padovano è detenuto dal 25 novembre del 2023, quando fu trasferito dalla Germania dove era stato arrestato ai bordi dell’autostrada Monaco-Berlino, dove si era fermato con la sua Punto Nera dopo dieci giorni di fuga solitaria. L’11 novembre aveva ucciso con 75 coltellate Giulia, la sua ex. Per la Corte d’Assise di Venezia, che lo ha condannato alla pena a vita, nessun dubbio: omicidio premeditato per aver predisposto una lista di cose da fare prima del delitto. Non sono state riconosciute però le aggravanti della crudeltà e degli atti persecutori, scelta che ha spinto la Procura di Venezia a impugnare la sentenza. Mentre, dall’altra parte, i difensori di Turetta, Giovanni Caruso e Monica Cornaviera, hanno fatto appello sostenendo l’insussistenza della premeditazione. Appuntamento al 14 novembre davanti ai nuovi giudici. L’imputato spera di poterlo incontrare. La palla passa al padre di Giulia. Spazio vitale in cella: il letto va sempre sottratto di Carmine Paul Alexander Tedesco lexced.com, 19 settembre 2025 Cassazione Penale Sez. 1 Num. 12849 Anno 2025. La Corte di Cassazione ha stabilito che, nel calcolo dello spazio vitale in cella a disposizione di un detenuto, l’area occupata dal letto singolo deve essere sempre sottratta, anche se questo è mobile e non ancorato al suolo. Tale ingombro, infatti, limita la libertà di movimento. Se lo spazio calpestabile scende sotto i 3 mq per persona, si presume una violazione dei diritti umani, che il giudice di merito dovrà valutare attentamente, considerando eventuali fattori compensativi. La questione dello spazio vitale in cella è un tema centrale nel diritto penitenziario, poiché tocca la dignità della persona e il divieto di trattamenti inumani e degradanti. Con una recente sentenza, la Corte di Cassazione è tornata sul metodo di calcolo dello spazio a disposizione di un detenuto, chiarendo un punto fondamentale: l’area occupata dal letto, anche se mobile, deve essere sottratta dalla superficie totale. Questa decisione ha importanti implicazioni pratiche per la valutazione delle condizioni detentive. I fatti del caso -Un detenuto presentava reclamo per le condizioni di detenzione subite in un carcere, sostenendo che lo spazio a sua disposizione fosse inferiore ai limiti minimi previsti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu). La cella, di 9,28 mq (bagno escluso), era condivisa con un altro detenuto e arredata con due letti singoli non ancorati al suolo. Il Tribunale di Sorveglianza aveva respinto il reclamo, argomentando che i letti erano amovibili e persino ‘incastellabili’ (sovrapponibili a castello). Secondo il Tribunale, la scelta dei detenuti di non sovrapporli, mantenendoli entrambi a terra, era una libera decisione che non poteva ricadere sull’amministrazione penitenziaria. Di conseguenza, non sottraendo l’ingombro dei letti, lo spazio pro capite risultava sufficiente. La questione del calcolo dello spazio vitale in cella -Il detenuto ha presentato ricorso in Cassazione, contestando la decisione del Tribunale. Il punto cruciale del ricorso era se, ai fini del calcolo dello spazio vitale in cella, l’area occupata da un letto singolo mobile dovesse essere considerata disponibile per il movimento o meno. La difesa sosteneva che il letto, pur non essendo fissato, costituisce un ostacolo permanente al libero movimento all’interno della cella e che, pertanto, il suo ingombro dovesse essere scomputato dalla superficie utile. La decisione della Corte di Cassazione sullo spazio vitale in cella- La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, annullando l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza e rinviando il caso per un nuovo giudizio. La Corte ha dato continuità a un orientamento giurisprudenziale consolidato, affermando un principio chiaro e netto. La Corte Suprema ha spiegato che lo spazio utile a scongiurare il rischio di trattamenti inumani e degradanti è soltanto quello che assicura il ‘normale movimento’ nella cella. Si tratta, quindi, della superficie ‘libera’ e ‘agevolmente calpestabile’. Un letto singolo, anche se non fissato al pavimento, per il suo peso e le sue dimensioni non è un oggetto che può essere spostato facilmente e continuamente per liberare spazio. Di fatto, esso occupa in modo stabile una porzione della cella, compromettendo la libertà di movimento del detenuto. La Cassazione ha ritenuto irrilevante la circostanza che i letti potessero essere sovrapposti a castello. La valutazione delle condizioni detentive deve basarsi sulla situazione effettiva e non su una possibilità astratta. La superficie da considerare è quella concretamente funzionale al movimento, non quella che potrebbe teoricamente essere liberata. Detraendo l’ingombro dei letti, lo spazio disponibile per ciascun detenuto scendeva a 5,90 mq totali, ovvero 2,95 mq a testa, al di sotto della soglia minima di 3 metri quadrati stabilita dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La sentenza stabilisce che il superamento della soglia minima di 3 mq pro capite è un requisito fondamentale. Quando lo spazio personale scende al di sotto di tale limite, scatta una forte presunzione di violazione dell’art. 3 della CEDU. Il provvedimento impugnato è stato annullato perché non ha correttamente applicato questo principio. Il giudice del rinvio dovrà ora partire da questa presunzione di trattamento inumano e verificare se, nel caso specifico, esistano fattori compensativi (come le ore trascorse fuori dalla cella, le attività trattamentali, le buone condizioni igieniche) di tale consistenza da poter superare tale presunzione. In sostanza, il calcolo dello spazio calpestabile è il primo e imprescindibile passo per garantire il rispetto della dignità del detenuto. L’aggressione dei sanitari da parte dei familiari della persona deceduta giustifica i domiciliari di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 19 settembre 2025 La misura cautelare si giustifica anche se non vi è rischio di intimidazioni alle parti offese quando l’azione per come condotta e organizzata esprime inclinazione alla violenza e mancanza di autocontrollo. Chi conduce o partecipa all’irruzione in ospedale contro i sanitari per punirli della morte di un congiunto è passibile di applicazione della misura cautelare limitativa della libertà personale perché l’azione condotta dimostra spregio verso la convivenza civile e assenza di autocontrollo anche quando il giudice non intraveda un’occasione specifica di reiterazione del reato, ma solo una potenziale tendenza alla reiterazione di condotte violente. L’affermazione invece dell’esigenza cautelare contro il rischio di inquinamento probatorio va sostenuta con elementi concreti tanto che in caso di tempo silente (tra la commissione del reato e l’applicazione della misura) se non si riscontrano fatti di intimidazione dei testimoni o di alterazione delle fonti di prova tale esigenza non è predicabile. Così la Cassazione penale - con la sentenza n. 31283/2025 - ha confermato la decisione del Tribunale del riesame che in accoglimento dell’appello del pubblico ministero contro il diniego del Gip ha imposto all’imputato in via cautelare gli arresti domiciliari con l’aggiunta del braccialetto elettronico. La vicenda cautelare - Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale pur avendo riconosciuto la sussistenza dei gravi indizi di reato, aveva rigettato la richiesta del Pm per l’assenza del rischio di reiterazione, evidenziando dopo l’aggressione l’assenza di ulteriori iniziative ritorsive verso i sanitari, l’irrilevanza delle recidive e la non concretezza del pericolo di inquinamento probatorio, Inoltre il Gip sottolineava l’effetto “contenitivo” del clamore mediatico assunto dalla vicenda. In riforma della decisione negativa del Gip il Tribunale del riesame ha applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari con dispositivo elettronico di controllo sulla base del grave quadro indiziario incontestato, ma soprattutto per pericolo di reiterazione dei reati e di inquinamento delle prove. La Cassazione conferma la misura ma riforma la decisione cautelare dove aveva affermato oltre all’attualità del pericolo di reiterazione anche il rischio di inquinamento probatorio. Rischio di reiterazione - L’attualità del pericolo di reiterazione è stata ritenuta sussistente in quanto non deve arrivare a coincidere con specifiche opportunità di ricaduta nel reato. Infatti, il giudice deve solo effettuare una compiuta valutazione prognostica sulla possibilità di condotte reiterative a partire da un’analisi accurata della fattispecie concretamente verificatasi: modalità realizzative della condotta, personalità dell’imputato e contesto socio-ambientale in cui è maturata l’ideazione e la commissione del delitto. Sul punto della rilevanza del tempo silente tra reato per cui è stata esercitata l’azione penale e giudizio cautelare per l’assenza di nuovi illeciti penali la Cassazione afferma che tale tempo silente non rileva in sé, ma impone al giudice della cautela una più approfondita analisi degli elementi che giustificano la misura. Tanto più approfondita quanto più lungo è il tempo trascorso. Nel caso concreto il Tribunale ha correttamente - secondo la Cassazione - posto in evidenza la spiccata capacità a delinquere del ricorrente e la sua marcata assenza di freni inibitori nel rivolgere la propria condotta contro il personale medico e le Forze dell’ordine intervenute, con il supporto di un elevato numero di familiari e amici. Pericolo di inquinamento delle prove - La Cassazione non ha invece ritenuto fondato su validi motivi l’asserito rischio di inquinamento probatorio che va infatti escluso nella sua concretezza e attualità se l’indagato non abbia tenuto, per un protratto lasso temporale dal momento della conoscenza delle indagini, alcuna condotta volta a pregiudicare l’integrità o la genuinità della prova. Lazio. Lavoro e formazione nelle carceri, Anastasìa: “Ancora dati bassi e sconfortanti” garantedetenutilazio.it, 19 settembre 2025 Le istituzioni non fanno abbastanza per promuovere la conoscenza dei benefici della legge Smuraglia che favorisce l’assunzione di persone in esecuzione penale. “Su 1.788 persone alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria nel 2024, a fronte di circa 6.800 persone detenute nel Lazio, sono state 69 le persone impegnate nelle lavorazioni, un centinaio nella manutenzione ordinaria dei fabbricati in tutta la regione e altrettante nei servizi extramurari. Il resto svolge attività non qualificate all’interno degli istituti penitenziari. Sappiamo comunque che si tratta di un dato viziato, perché noi sappiamo che, quando parliamo di detenuti lavoranti in carcere, esaminiamo un dato di flusso, non di stato: non è il numero delle persone che lavorano in carcere, ma quello di coloro che, a rotazione, hanno occupato un posto di lavoro nel corso dell’anno o del semestre”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, nel corso dell’incontro “Il lavoro, strumento privilegiato di reinserimento sociale”, che si è svolto martedì 16 settembre, nell’ambito del ciclo organizzato dall’Osservatorio per la giustizia di comunità della Corte d’Appello di Roma. “Poi c’è il dato delle persone lavoranti per soggetti terzi”, ha proseguito Anastasìa. “C’è stato un calo importante tra il 2021 e il 2022, causato dal Covid, da cui il sistema non si è ancora ripreso. In tutta la regione Lazio nel 2024 risultano solo sei persone dipendenti da imprese, 49 da società cooperative, Sono dati molto bassi. Il lavoro all’esterno impegna 44 persone, escludendo i 39 semiliberi”. Nel corso del suo intervento, Anastasìa ha spiegato che “purtroppo, nel lavoro in carcere ben poco è cambiato in un decennio. I dati della serie storica dal 2017 al 2024 sui detenuti presenti e sulle persone detenute lavoranti nella Regione Lazio ci dicono che, mentre c’è stata un’oscillazione dei presenti, sostanzialmente dovuta al Covid, riguardo all’attività lavorativa le oscillazioni non sono state particolarmente significative. Un dato sorprendente, però, c’è: il maggior numero di persone occupate in carcere è stato nel 2022, anno del Covid, in cui c’erano meno detenuti”. Il Garante ha illustrato anche i dati forniti dall’amministrazione penitenziaria relativi alla formazione professionale nel secondo semestre 2024: 19 corsi attivati; 12 terminati; 460 iscritti, di cui 282 nei corsi conclusi, con 276 promossi. Anastasìa ha definito “disarmante” il confronto con quanto avviene in Lombardia, dove ci sono stati il quintuplo dei corsi svolti nel Lazio, con il doppio degli iscritti. “La Regione - ha detto Anastasìa - ha una responsabilità nella formazione professionale in carcere, e allora è necessario progettare qualcosa che dia continuità, come le istituzioni scolastiche, che non sia un incidente miracoloso ma possa diventare un fatto strutturale. Inoltre, è fondamentale attivare i servizi per l’impiego all’interno del carcere, che svolgano almeno un bilancio di competenze. Occorre pensare a una presenza stabile dei centri per l’impiego, come previsto dal progetto Ama-De, condiviso dalla Regione Lazio con Sviluppo Lavoro”. “Sì, molto si è parlato della legge Smuraglia, che è uno strumento molto importante e utile, ma è affidata in gran parte all’attivazione spontanea di soggetti privati, come le cooperative. La responsabilità principale è del ministero della Giustizia, che in 25 anni non ha mai promosso azioni di sensibilizzazione nei confronti delle aziende. La Regione Lazio ha sostenuto un’associazione, Seconda Chance, che ha svolto innanzi tutto un’azione promozionale, informando gli imprenditori dell’esistenza di questo strumento. Questa responsabilità dovrebbe essere assunta soprattutto dai soggetti pubblici, prima di tutto dal ministero della Giustizia. Lo stesso ente Regione - ha concluso Anastasìa - e le sue articolazioni, le sue società partecipate, possono diventare un luogo di inserimento lavorativo per le persone detenute. Anche questo può contribuire a superare le diffidenze di soggetti terzi”. Il convegno è stato aperto dalla presidente della terza sezione penale della Corte d’Appello di Roma, Roberta Palmisano, coordinatrice dell’Osservatorio per la giustizia di comunità. Sono intervenuti anche: Gherardo Colombo, già presidente della Cassa per le Ammende; David Di Meo, vicecapo dell’Ufficio di gabinetto della Regione Lazio; Stefania Perri, dirigente del Prap Lazio, Abruzzo e Molise; Filippo Giordano, professore ordinario di economia aziendale all’Università Lumsa e membro del segretariato del Cnel; Nunzia Calascibetta, dirigente aggiunto dell’Uiepe di Roma; Luciano Pantarotto, coordinatore GdL Giustizia di Confcooperative Federsolidarietà. L’Osservatorio della giustizia di comunità, composto da rappresentanti di magistratura, avvocatura, enti locali, ASL e volontariato, si propone di affrontare le criticità attuali attraverso una serie di incontri iniziati all’inizio dell’anno e di elaborare protocolli operativi per definire procedure di intervento efficaci da monitorare nel tempo. Il prossimo incontro, previsto per il 15 ottobre, affronterà il tema della giustizia riparativa. “La giustizia di comunità - spiega la coordinatrice dell’Osservatorio, Palmisano - può sintetizzarsi nella presa in carico dell’autore di reato e della vittima, e nella organizzazione dei relativi servizi, per valorizzare i percorsi che consentono all’autore di reato di assumere consapevolezza rispetto al fatto-reato, proporre opportunità di cura e sostegno, ma anche occasioni di riparazione. Si presuppone un cambio culturale e una diversa prospettiva, che riguarda soprattutto noi magistrati, perché è a seguito delle nostre decisioni (misure cautelari e condanne) che un cittadino finisce in carcere”. Salerno. Detenuto 58enne muore nel carcere di Fuorni salernotoday.it, 19 settembre 2025 L’uomo è morto per arresto cardiocircolatorio, vano ogni tentativo di rianimarlo. Un uomo di 58 anni è morto nella mattinata di venerdì all’interno del carcere di Fuorni. L’allarme è scattato poco dopo le 10 e sul posto sono intervenute due ambulanze del Vopi. I sanitari hanno tentato di rianimare il detenuto, ma nonostante i soccorsi l’uomo è deceduto per un arresto cardiocircolatorio. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Decreto Caivano, contro un nuovo carcere minorile di Raul Lamia napolimonitor.it, 19 settembre 2025 Il Decreto Caivano e altre misure di recente approvazione hanno comportato un inasprimento del livello di criminalizzazione nei confronti di soggetti come i giovani delle classi popolari, dei territori più marginalizzati, dei migranti, nonché l’istituzione di nuovi reati atti a colpirli e un’impennata di condanne a pene detentive. Ma questi interventi normativi hanno anche fatto sì che emergesse la necessità di un piano di potenziamento delle strutture detentive per minori e l’apertura di nuove carceri. L’intervento ministeriale che prevede l’apertura di quattro nuovi Istituti penitenziari minorili (Ipm), insieme a L’Aquila, Rovigo e Lecce, individua come sede anche la piccola città campana di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. La struttura individuata come futuro penitenziario è l’Istituto Angiulli, già in passato centro di detenzione minorile, ma che a oggi ospita, oltre a un museo e una biblioteca comunale, un Centro diurno polifunzionale. Questo centro, racconta una volontaria che vi opera, offre un modello alternativo di scontare la pena, a partire da attività che permettano ai ragazzi di costruirsi strumenti di crescita attraverso corsi di formazione lavorativa e non, come la falegnameria e il laboratorio di restauro di moto d’epoca: “Abbiamo anche a disposizione impianti sportivi e un teatro, ma non abbiamo mai ricevuto i fondi destinati alla loro ristrutturazione”. Il futuro dell’Angiulli è ancora incerto. In un primo momento si era parlato di chiusura, poi di trasferimento, ma la difficoltà a trovare i locali adatti per dare continuità alle attività del centro, in una città in cui mancano gli spazi tanto per l’istruzione quanto per l’attività sociale, è enorme. Ancora più preoccupante è il silenzio delle istituzioni locali su una decisione calata dall’alto dal governo, considerando anche che, poco meno di dieci anni fa, l’attuale sindaco Mirra (eletto con una coalizione civica in quota centrosinistra) sbandierava come una vittoria la riqualifica della struttura. Come a L’Aquila, in ogni caso, dove l’inaugurazione del nuovo Ipm è stata presentata come una vittoria, il “modello Caivano” arriva a Santa Maria con l’intento di “combattere il disagio giovanile”, un disagio che ha ovviamente radici profonde, e ben radicate altrove: edifici scolastici inadeguati, un’istruzione votata unicamente alla formazione di futuri lavoratori precari e ricattabili, costante e asfissiante presenza di polizia ed esercito in tutte le scuole della provincia di Caserta, con controlli ed eventi propagandistici imbastiti con il solo fine di racimolare consenso e arruolamenti, assenza di impianti sportivi e di luoghi di socialità accessibili anche alle classi meno abbienti. E ancora: emergenza abitativa, lavoro nero e precario, una criminalità organizzata onnipresente e sempre alla ricerca di nuova manovalanza. Il risultato più evidente di tutto ciò è la fuga, per chi può permetterselo, da una gabbia a cielo aperto fatta di sfruttamento, abbandono e marginalità. E chi non può fuggire, si arrangia. In realtà, il rapporto tra marginalità e istituzioni totali è ancora più evidente su territori come questo. La situazione a Santa Maria Capua Vetere, dove già nel 2020 si consumò una mattanza di detenuti nella casa circondariale Francesco Uccella, è il riflesso di un’emergenza che attraversa l’intero paese e che riempie le carceri di “elementi di disturbo”: sovraffollamento, violenze contro i detenuti, isolamento e condizioni di vita indignitose accomunano le carceri ai lager di Stato, i cosiddetti Cpr, e sono in aumento anche negli istituti minorili. I tassi elevatissimi di recidività, i suicidi e i continui atti di autolesionismo ne sono la prova più lampante. Davanti a questa escalation, qualcosa però si muove. Lo scorso maggio a Santa Maria Capua Vetere si è tenuto un presidio proprio fuori all’istituto Angiulli con un messaggio molto chiaro: totale opposizione alla riapertura dell’Ipm e a nuove carceri minorili su tutto il territorio italiano; richiesta di fondi per il potenziamento del Centro diurno polifunzionale, delle scuole, degli ospedali e dei servizi pubblici nel casertano; denuncia dei piani securitari del governo Meloni e del silenzio dell’amministrazione locale. Naturalmente si è trattato solo di un primo passo di un percorso che tenta di rimettere sotto i riflettori il tema del carcere e la sua normalizzazione, ancora di più in aree di provincia e di periferia: un tentativo che avrà seguito con altre iniziative a partire dal prossimo autunno e che avrà bisogno di voce e supporto anche da parte di tutti gli altri territori. Foggia. “Situazione del carcere peggiorata e di molto rispetto allo scorso anno” Gazzetta del Mezzogiorno, 19 settembre 2025 A peggiorare ulteriormente il quadro è la permanente carenza di agenti e di personale medico e sanitario. “Se possibile le condizioni dei detenuti del carcere di Foggia sono peggiorate rispetto a quelle riscontrate un anno fa. Il problema principale resta il sovraffollamento che ne fa il secondo penitenziario italiano con un indice superiore al 210%. Ben 706 persone in una struttura che ne potrebbe ospitare 301; un terzo dei reclusi ha problemi di tossicodipendente”. Lo rimarca la Camera Penale di Capitanata “Achille Iannarelli” nel tracciare un bilancio dell’iniziativa “Ristretti in agosto” contrassegnata da visite di una delegazione degli avvocati penalisti foggiani nei tre penitenziari della Capitanata: capoluogo, Lucera, San Severo. Le delegazioni composte dal presidente Massimiliano Mari e dai colleghi Chiara Russo, Antonietta De Carlo, Pierluigi Favino, Giovanni Quarticelli, Francesco Americo, Emilio Liberatore hanno visitato tra il 28 agosto e il 3 settembre le 3 carceri accompagnata da direttori, comandanti della polizia penitenziaria e responsabili delle aree trattamentali. “Abbiamo constatato nel carcere di Foggia una situazione di sovraffollamento a dir poco allarmante: per la sezione maschile 672 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 367 unità, peraltro ulteriormente ridotta a 301 a causa dei lavori di ristrutturazione in corso in alcune parti dell’edificio. Tra i i 672 uomini ce ne sono 250 con problemi di tossicodipendenza e 3 con problemi psichiatrici in attesa di essere ricoverati presso Rems”, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari. “Siamo quindi di fronte” commenta la Camera Penale “a una situazione peggiorata rispetto alla visita che effettuammo un anno fa. A peggiorare ulteriormente il quadro è la permanente carenza di agenti e di personale medico e sanitario che tuttavia, seppure con notevoli difficoltà, riescono a garantire il funzionamento della struttura. Situazione invece accettabile nella sezione femminile con 34 detenute”. Lucera/San Severo - “Meno problematica rispetto a Foggia” viene definita la situazione del carcere di Lucera “dove i recenti lavori di ristrutturazione hanno migliorato notevolmente le condizioni. Ci sono 179 reclusi a fronte dei 134 posti regolamentari. Va apprezzata l’intesa attività trattamentale che si svolge ciclicamente, anche organizzando corsi scolastici, di formazione professionale e di progetti tesi alla rieducazione e al reinserimento sociale dei detenuti”. A San Severo “struttura di media sicurezza con 91 detenuti (57 definitivi, 34 in attesa di giudizio) sono state rilevate criticità sebbene meno gravi rispetto a Foggia, dovute a sovraffollamento, carenza di agenti e del personale medico-sanitario; vengono svolti corsi scolastici e di formazione professionale”. Bilancio negativo - Bilancio negativo quello tracciato dai penalisti all’esito delle visite che “hanno confermato criticità e inadeguatezza del sistema carcerario italiano, incapace di garantire ai detenuti di scontare la pena in condizioni rispettose della dignità umana; e di conseguenza inadatto a perseguire le finalità rieducative. Di fronte a questo sconfortante scenario, l’unica soluzione invocata a più riprese ma sino a oggi inascoltata, è l’adozione non più procrastinabile di interventi normativi per incrementare l’accesso a misure alternative al carcere” (domiciliari, affidamento in prova) “quantomeno per gli autori di reati meno gravi. Solo così si potrà tentare di arginare l’ormai cronico sovraffollamento e il conseguente tragico fenomeno dei suicidi: già 61 in Italia dall’inizio dell’anno, 14 anche a Foggia”. Cuneo. Detenuto obeso senza cella adatta: “Il carcere non aiuta chi soffre di disturbi alimentari” di Sandro Marotta La Stampa, 19 settembre 2025 La direttrice del Centro Disturbi dell’Asl: “La sua è una patologia che può scatenarne altre”. Il detenuto di 250 chili che da quasi un mese è in ospedale perché, in quanto obeso e diabetico, non riesce a trovare una cella adeguata in tutta Italia apre a una più ampia riflessione sul rapporto tra cibo, disturbi del comportamento alimentare e carcere. Secondo Anna Maria Pacilli, direttrice del Centro Disturbi del Comportamento alimentare dell’Asl Cn1, “il problema principale è che non si adatta il piano nutrizionale alle esigenze dei detenuti con patologie particolari, come l’obesità. La cosa più frequente è la riduzione di sale nel cibo di chi soffre di ipertensione, ma non basta, servono specialisti”. I disturbi del comportamento alimentare possono peggiorare in carcere? “La letteratura scientifica ci dice di sì. Prima bisogna precisare che l’obesità è una patologia organica, cioè che incide più sull’organismo rispetto alla mente; però è vero che ci sono dei quadri di obesità che dipendono da un DCA di binge eating (abbuffate o spiluccare di continuo). L’ambiente detentivo in sé agisce a livello psicologico, con stress o noia. Questo può portare o all’acquisto di molto cibo dall’esterno, esponendo a obesità, o alla privazione del cibo e quindi a un quadro anoressico. Anche gli scioperi della fame sono pericolosi, perché ci si abitua a ingerire poco cibo e alla lunga si rischiano quadri di anoressia”. Cos’altro dicono gli studi? “Per prima cosa gli studi sono pochi. La prima evidenza è che sono molto più frequenti i quadri di obesità nelle donne rispetto agli uomini. Questo perché gli apporti calorici dei piani nutrizionali che vengono forniti in carcere sono tarati sui maschi e non sulle femmine. Secondo uno studio multicentrico realizzato qualche anno fa in Toscana, il 35% dei detenuti maschi è in sovrappeso e il 13% è obeso, tra le donne invece le percentuali sono maggiori: c’è un 50% circa di sovrappeso e il 15% di obesità. Sono situazioni da tenere d’occhio, l’obesità favorisce patologie respiratorie e cardiovascolari”. I minori sono più a rischio? “L’età più a rischio per l’insorgenza di un DCA è tra i 15 e i 25 anni. I ragazzi hanno meno competenza alimentare degli adulti ed è probabile che in carcere inizino a ingurgitare cibo spazzatura senza freno. Per di più un’obesità sviluppata da giovani è molto più difficile da curare con il tempo”. Qual è l’elemento che servirebbe cambiare nella nutrizione in carcere? “La monotonia. Ci sono solo due menu, uno estivo e uno invernale, spesso ripetitivi. Questo porta i detenuti ad acquistare snack e merendine, che sono ipercalorici e non sani. Variare i cibi e averne di nuovi è cruciale per una relazione con il cibo”. Altre soluzioni? “Si potrebbero sperimentare dei momenti di condivisione del pasto con le altre persone, ora invece i reclusi mangiano in cella”. A Cuneo è stato organizzato “art. 27 Expo”, evento dedicato al lavoro dentro e fuori dal carcere. Avere un’occupazione può avere un impatto sulla salute mentale? “Certo, rappresenta uno stimolo maggiore rispetto alla monotonia della detenzione. Sarebbe ottimo un orario che preveda la possibilità di pranzare fuori”. Torino. La cultura che riapre il dialogo e crea ponti: arti e realtà carceraria al festival Liberazioni Corriere di Torino, 19 settembre 2025 Liberazioni torna a far dialogare arti e realtà carceraria. Lo farà nella sua quinta edizione dal 1° al 16 ottobre con un calendario fitto di film, spettacoli e laboratori a ingresso libero. Il festival organizzato dall’associazione Museo Nazionale del Cinema inaugura alle 18 alle Gallerie d’Italia con Tehachapi del fotografo JR. Tra gli eventi successivi, sabato 4 ottobre alle 20.30 al Teatro Don Orione, andrà in scena della compagnia Voci Erranti, composta dagli attori detenuti del carcere di Saluzzo. E a testimonianza della relazione osmotica “tra il dentro e il fuori del carcere” sostenuta dalla kermesse, il 7 ottobre sarà il teatro a “entrare” nella Casa circondariale Lorusso Cutugno, con uno spettacolo interpretato da Andrea Pennacchi e l’accompagnamento musicale di Giorgio Gobbo. Anche il cinema partecipa a Liberazioni, da protagonista. Per esempio con la masterclass della scenografa “David di Donatello” Paola Bizzarri a Lacumbia Film (sabato 4 ottobre); con l’anteprima di Alberto Ruffino al Cinema Massimo (6); e con la proiezione (16) di (che Ettore Scola scrisse con Diego Novelli) presso l’associazione Antonio Gramsci. “Le nostre carceri - commenta la direttrice di Amnc Valentina Noya - sono il rimosso di problemi sociali che non si vogliono affrontare. Per questo, con cura e passione e con il mezzo universale e luminoso della cultura, noi agiamo lì per riaprire il dialogo, per creare ponti”. Taranto. Carceri, Unicredit investe sui giovani: aula immersiva contro la marginalità sociale Gazzetta del Mezzogiorno, 19 settembre 2025 A Taranto nasce un nuovo strumento di inclusione sociale: un’aula immersiva che unisce tecnologia, educazione e solidarietà. Il progetto, intitolato “Immersi nel mondo”, è stato realizzato presso il Centro socio-rieducativo per minori “Noi&Voi” della cooperativa sociale Kairos, nel cuore del quartiere Paolo VI, e reso possibile grazie al contributo di UniCredit tramite il Fondo Carta Etica. Proiettori interattivi e visori Meta permettono ai ragazzi del centro di viaggiare virtualmente, scoprendo il corpo umano dall’interno o visitando i più grandi musei del mondo, in un quartiere spesso segnato da marginalità sociale e devianza precoce. Qui, ogni pomeriggio, dal lunedì al sabato, la cooperativa accoglie minori offrendo pranzo, doposcuola, attività sportive e laboratori. “Con Carta Etica trasformiamo un prodotto bancario in leva di sviluppo sociale. Non si tratta di beneficenza, ma di un meccanismo finanziario che alimenta in modo continuativo iniziative concrete nei territori. L’aula immersiva di Taranto dimostra che innovazione tecnologica e inclusione possono coesistere, offrendo ai ragazzi strumenti formativi che li preparano ad affrontare da protagonisti le sfide del futuro” dichiara Ferdinando Natali, Regional Manager Sud UniCredit “Un giorno importante per noi - commenta Donato Gigante, presidente della cooperativa Kairos - perché grazie al sostegno di UniCredit possiamo dare ai ragazzi un’esperienza educativa che unisce gioco e conoscenza, usando la tecnologia nel modo giusto e sotto la guida costante delle nostre educatrici” Il Comune di Taranto, rappresentato da Filomena Paola Angarone della Direzione Servizi Sociali, evidenzia come il progetto “restituisca senso al lavoro quotidiano sia del nostro Ente che degli operatori della Kairos per offrire ai ragazzi la possibilità di sviluppare competenze nuove e scoprire i propri talenti”. L’inaugurazione si è conclusa con un momento conviviale curato da Fieri Potest Pastry Lab, il laboratorio di pasticceria e salato della cooperativa “Noi&Voi” realizzato all’interno del carcere di Taranto: un ulteriore simbolo di come il riscatto sociale possa passare anche dalla formazione e dal lavoro. Catania. Il progetto “RigenerAzioni”: teatro e scrittura creativa per il reinserimento sociale cataniaoggi.it Unire scrittura, teatro e arti come strumenti di cambiamento. È questo l’obiettivo di “RigenerAzioni”, progetto presentato stamattina nella casa circondariale di Piazza Lanza e finanziato con fondi della Legge di bilancio 197/2022. L’iniziativa, approvata dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria della Sicilia, punta a migliorare le condizioni di vita di persone fragili - detenuti con disturbi psichiatrici o psicologici, tossicodipendenti, migranti e soggetti sottoposti a misure alternative - attraverso percorsi creativi e formativi. Grazie alla collaborazione delle carceri di Catania (Piazza Lanza e Bicocca), Giarre e Caltagirone, il programma prevede laboratori che toccheranno diversi ambiti: dal teatro alla scrittura, fino all’arte-terapia. Tra i partner figurano la Cooperativa Sociale “Prospettiva” di Catania, l’associazione “La Poltrona Rossa”, “Seconda Chance”, “Mani Tese” e “Ithaca - Scuola di Scritture ETS”. Le attività - A Piazza Lanza prenderà vita il “Laboratorio di Scrittura Creativa Teatrale”, curato dall’associazione Ithaca; a Bicocca si svolgerà il “Laboratorio di drammaturgia ForMenti”, mentre a Giarre i detenuti parteciperanno al “Laboratorio di Ortoterapia” della cooperativa Prospettiva Futuro. A Caltagirone, invece, sarà attivato un “Laboratorio di Arteterapia”, sempre a cura della cooperativa Prospettiva. Il progetto, come spiegano i promotori, non è solo un percorso culturale ma un vero strumento di inclusione, che intende ridurre la recidiva e favorire opportunità di reinserimento sociale e lavorativo. In quest’ottica, i laboratori mirano a costruire legami tra i detenuti e il territorio esterno, valorizzando competenze artistiche e professionali. Il ruolo dei partner - All’incontro di presentazione hanno preso parte, tra gli altri, Nunziella Di Falco, direttrice della casa circondariale di Piazza Lanza; Bruno Buccheri, assessore alle Politiche sociali del Comune di Catania; Enrico Florio, direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Asp di Catania; e Claudio Fava, presidente di Ithaca, che sarà anche docente nei laboratori di scrittura. Un approccio innovativo - La cooperativa Prospettiva coordinerà inoltre progetti di inclusione lavorativa come “Fuori le Mura” e “Koinè Restart”, che prevedono il coinvolgimento di esperti in politiche del lavoro, psicoterapeuti, educatori e scrittori. Attualmente, la cooperativa segue circa 500 persone con fragilità psichiche, accompagnandole in percorsi personalizzati di reinserimento. “RigenerAzioni” nasce così come una scommessa culturale e sociale: trasformare le carceri da luoghi di esclusione a spazi in cui il teatro, la scrittura e l’arte possano diventare strumenti di libertà interiore e di rinascita. Ragusa. Con il progetto “Labirinti” più intenso lo scambio affettivo tra figli e genitori detenuti percorsiconibambini.it, 19 settembre 2025 Per i minori rendere emotivamente più attraversabile lo spazio prima della visita ai genitori detenuti significa favorire una relazione di fiducia e lavorare con efficacia alla presa in carico dei bambini che si approcciano alla relazione familiare nel contesto del carcere. A Ragusa, nell’ambito del progetto “Labirinti”, hanno collaborato i Clown Dottori di “Ci Ridiamo Su” e gli operatori di “Facciamo Scuola” per supportare gli incontri tra detenuti e figli negli spazi già disponibili. “Soprattutto durante i periodi di vacanza scolastica - spiega un operatore - l’affluenza di tanti piccoli visitatori aumenta, a Ragusa dopo alcuni mesi di gestione emotiva favorita dalle attività svolte con i labirinti gialli si è creata una relazione con le famiglie e spesso i bambini vengono nell’istituto penitenziario più volentieri e spontaneamente. l momento dell’attesa è spesso carico di emozioni forti e contrastanti. Per questo, si è cercato di creare ogni volta un clima sereno e rassicurante, accogliendo i bambini giocando, parlando, condividendo pensieri e silenzi, disegnando e facendo piccoli lavoretti manuali per dare a ogni bambino e bambina la possibilità di lasciare il proprio segno. Il labirinto giallo è un luogo dove i bambini possono sentirsi visti, accolti e liberi di essere sé stessi”. “Ci Ridiamo Su” ha avviato all’interno della Casa Circondariale di Ragusa anche i Gruppi di Parola, che hanno coinvolto i papà e i figli minori nella condivisione di emozioni e verità che sono diventate parti integranti di un percorso affettivo più intenso grazie ai colloqui preliminari e motivazionali propedeutici, mentre insieme a “Crisci ranni” e “Facciamo scuola”, ha dato vita a eventi all’interno dell’Istituto Penitenziario e ad un’iniziativa esterna, che ha coinvolto 150 giovani e le loro famiglie, per sensibilizzare la comunità, anche attraverso la testimonianza di un ex detenuto e dei suoi figli. Il progetto Labirinti è coordinato a livello regionale da Officina SocialMeccanica di Catania e selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, coinvolge le Case Circondariali di Catania, Palermo, Ragusa e Sciacca, con l’obiettivo di contrastare la povertà educativa e rafforzare i legami familiari tra padri e madri detenuti/e e figli/e minori tra i 2 e i 17 anni. L’iniziativa con attività, eventi, incontri settimanali offre nuove opportunità di confronto e di crescita determinanti per la socialità dei soggetti coinvolti. Milano. Ridere fa bene, anche in carcere di Ilaria Dioguardi vita.it, 19 settembre 2025 Nel carcere di Bollate, una volta alla settimana, alcuni detenuti fanno “yoga della risata”. Angelo Ciccognani, attore, insegnante di teatro e teacher di questa pratica spiega che “anche una risata finta, recitata, produce un cocktail di ormoni che fa stare meglio, anche e soprattutto dentro il carcere. Ma la risata è contagiosa, alla fine diventa vera. Una persona mi ha detto “per un’ora dimentico dove sono”. Dalle sette alle 10 persone, a ridere di gusto per un’ora. È quello che ogni settimana succede nella casa di reclusione di Bollate grazie alle sessioni di yoga della risata che, da maggio, sono portate avanti da Angelo Ciccognani, attore, insegnante di teatro e teacher di questa pratica. “Una bellissima opportunità, potente, profonda e leggera al tempo stesso. Sono stupende le restituzioni da parte dei partecipanti alla fine di ogni incontro”. 10 minuti al giorno di risate per stare meglio - Bastano 10 minuti al giorno di risate per produrre quel “cocktail della felicità” che fa stare meglio: più serotonina, dopamina ed endorfine, ossia gli ormoni del benessere, e meno cortisolo, l’ormone dello stress. “È una realtà scientifica supportata da oltre 700 ricerche internazionali. Portare lo yoga della risata nel carcere di Bollate è stata un’idea appoggiata da Simona Gallo, funzionario giuridico pedagogico all’interno dell’istituto”, dice Ciccognani. Dopo quattro sessioni a maggio, a grande richiesta dei detenuti ne sono state aggiunte quattro a giugno e riprenderanno ad ottobre, per ora con un altro ciclo di quattro appuntamenti. “Per un’ora mi sono dimenticato di essere qui” - “A fine maggio, i partecipanti hanno detto che sarebbe stato bello continuare e siamo riusciti ad andare avanti. Alla fine di ogni incontro sono tutti molto entusiasti: il riscontro finale è ciò che mi ha convinto ancora di più a continuare”, prosegue. “Alla prima sessione, le persone detenute non conoscevano lo yoga della risata, c’era un ragazzo che non sembrava convintissimo, era dubbioso. Ma alla fine mi ha detto: “Per un’ora mi sono dimenticato di essere in questo luogo”. Per me, è stata un’emozione molto forte. Questa persona poi non ha saltato una lezione”. La risata recitata che diventa vera - In una sessione di yoga della risata “si parte da una risata recitata, finta. Questo perché il nostro corpo non distingue la differenza tra una risata vera, spontanea, e una autoindotta. La registra comunque come benessere e questo fa sì che si mettano in moto tutti i benefici che una risata porta. Si alternano esercizi, giochi di gruppo per suscitare la risata e momenti di respirazione. Dello yoga classico c’è, appunto, la respirazione”, continua Ciccognani. “Come in tutte le sessioni di yoga della risata, anche nel carcere di Bollate partiamo con il famoso clapping: si battono le mani unite, come se fosse un applauso ma con i polpastrelli che si toccano. E poi il mantra, si dicono degli “oh oh, ah ah ah” a voce alta, tutti quanti insieme: è molto liberatorio. Si associa una piccola respirazione per concentrarsi”. Il riso, si sa, è contagioso: “Partiamo da una risata recitata che però si trasforma sempre in una risata vera, spontanea. E poi alterno i giochi di gruppo, anche presi dal teatro. C’è chi ride di più e chi di meno, ma il ridere è una pratica: più rido e più imparo a ridere”. Migliaia di club nel mondo - Il movimento dello yoga della risata, che coinvolge 3 milioni di persone in 115 Paesi, conta migliaia di club gratuiti nel mondo e centinaia in Italia, che sono il cuore del movimento. “Io ho il mio club dello yoga della risata che tengo una volta al mese a Garbagnate e una volta al mese a Sesto San Giovanni (Milano)”, dice il teacher. Questa per me è la prima esperienza in un istituto penitenziario. Non avevo minimamente idea di quale sarebbe potuta essere la reazione dei partecipanti, ma non ci ho pensato più di tanto, ho voluto iniziare senza aspettative né paure”. “È bello perché stiamo insieme in un altro modo” - Ciccognani spiega che, come in tutti i gruppi di yoga della risata, ci sono persone che si lasciano andare più facilmente e altre che sono un po’ più “frenate”. “Si sono tutti divertiti sin da subito, hanno colto lo spirito dello yoga della risata. La stanza in cui facciamo le sessioni si affaccia sul corridoio, dove passano altri detenuti. Qualcuno entra ogni tanto e chiede: “Cosa avete da ridere?”. A volte qualcuno, incuriosito, si unisce al gruppo la settimana successiva”, dice. “Ridere aiuta ad affrontare le difficoltà della vita quotidiana con un altro spirito, a non farci “schiacciare” del tutto da preoccupazioni e problemi. È un aiuto molto grande, anche e soprattutto dentro il carcere”. Parecchi dei partecipanti apprezzano il fatto che fanno un’attività nella quale si fa gruppo. “È bello perché stiamo insieme in un altro modo, ci conosciamo di più. Si crea una confidenza, un legame più forte”, mi dicono molti”. “Porterò il racconto di questa mia esperienza di teacher volontario nel carcere di Bollate al V Congresso di yoga della risata, organizzato dall’Istituto italiano di yoga della risata, diretto dai master trainer Lara Lucaccioni e Matteo Ficara”, dice Ciccognani. Dal 24 al 26 ottobre l’iniziativa torna a Peschiera del Garda (Verona). Il congresso sarà anticipato da un’anteprima webinar con i fondatori della pratica, il medico indiano Madan Kataria e sua moglie Madhuri, domenica 5 ottobre alle ore 10.30. I “Figli cancellati” dei detenuti, il libro di Annalisa Senese La Repubblica, 19 settembre 2025 Attraverso la sua personale esperienza, la penalista napoletana, assieme al giornalista Antonio Vastarelli, racconta le storie di bambini che hanno conosciuto il carcere. “Vite spesso dal destino segnato per sempre”. Sono quei bambini “che hanno un destino spesso segnato per sempre dalle storie delle loro famiglie “i protagonisti del libro della penalista napoletana Annalisa Senese intitolato “Figli cancellati, storie di bambini che hanno conosciuto il carcere” (Giannini Editore) scritto con il giornalista Antonio Vastarelli. “Il libro trae spunto dalla mia esperienza professionale - racconta Senese - che mi ha fatto conoscere il mondo dei figli dei detenuti. Si tratta di bambini e bambine che finiscono dietro i cancelli nella routine dei colloqui familiari oppure addirittura negli istituti a custodia attenuata con le madri. Storie difficili ma che è indispensabile raccontare”. Senese e Vastarelli descrivono questo mondo attraverso la sensibilità del cronista e la profonda umanità dell’avvocata che molti di quei figli ha visto crescere, letteralmente, nella sala d’attesa del suo studio professionale e poi diventare adulti portandosi sulle spalle il gravoso fardello rappresentato dal vissuto dei loro genitori. Il volume è stato presentato in una sala gremita della libreria Feltrinelli di piazza dei Martiri, a Napoli, dalla magistrata Maria de Luzengerber Milnernsheim, ex procuratrice dei minorenni di Napoli e da Lucia Castellano, provveditrice delle carceri della Campania. Violenza sulle donne: il ruolo del diritto, la sfida culturale e la necessità di cambiare il linguaggio di Fabio Pinelli* Il Dubbio, 19 settembre 2025 La violenza sulle donne rappresenta una delle più gravi e diffuse violazioni dei diritti umani, addirittura oltre il tema di genere: è una questione che investe l’intera società, minando i principi di uguaglianza, rispetto e dignità della persona che sono alla base della convivenza civile. La scelta di privilegiare non solo la repressione, ma anche la prevenzione e l’educazione, testimonia una visione lungimirante e responsabile. Prevenire la violenza significa agire sulle cause profonde, promuovere il cambiamento culturale e offrire strumenti concreti per riconoscere e contrastare i segnali di disagio e rischio. Quando si parla di contrasto alla violenza sulle donne, è inevitabile interrogarsi, innanzitutto da giuristi, sull’efficacia dell’apparato normativo attuale, oggi molto ricco ed articolato. La domanda è dunque se il nostro sistema giuridico sia davvero idoneo a rispondere a questa emergenza sociale; soprattutto se fosse davvero necessaria l’introduzione di una fattispecie autonoma di reato come il “femminicidio”. Il nostro ordinamento già prevedeva strumenti e fattispecie idonee a punire severamente gli omicidi e le violenze di genere. Il rischio di una nuova etichetta potrebbe avere un effetto più simbolico che sostanziale, senza incidere realmente sulle dinamiche profonde del fenomeno. Del resto, l’inserimento di nuove norme penali, come il dato esperienziale ci insegna, non sempre si traduce in una maggiore tutela delle vittime o in una reale diminuzione dei reati. Le norme, per quanto severe o dettagliate, non sono mai risolutive da sole. La vera sfida è culturale e sociale: è la costruzione di comportamenti, di consapevolezza, di rispetto reciproco che può produrre un cambiamento duraturo. Senza un lavoro profondo sull’educazione, sulla prevenzione, sulla promozione di una cultura della parità e del rispetto, il rischio è che le norme restino lettera morta o vengano percepite come risposte emergenziali e poco incisive. La giustizia può riequilibrare un torto, ma la ricostruzione dei legami sociali lesi dalla commissione del reato non appartiene e non può appartenere alla giurisdizione. Un aspetto fondamentale è allora quello del linguaggio. Il linguaggio giuridico non è mai neutro: riflette la visione del mondo di chi lo utilizza e può, consapevolmente o meno, perpetuare stereotipi e discriminazioni, soprattutto di genere. Il processo penale è (anche) una “civiltà di parole”: le categorie e le definizioni che il diritto crea non si limitano a descrivere la realtà, ma la plasmano, la influenzano, la trasformano. La resistenza al cambiamento linguistico spesso nasconde la persistenza di pregiudizi e stereotipi che, anche in ambito giudiziario, possono tradursi in vittimizzazione secondaria e ostacolare la piena realizzazione del principio di imparzialità. In questo senso, l’introduzione del reato di femminicidio non solo richiama l’attenzione sul fenomeno, ma può anche favorire un cambiamento culturale, spingendo a una riflessione critica sul linguaggio, sulle categorie giuridiche e sulle rappresentazioni sociali della violenza di genere. È un invito a rinnovare non solo le norme, ma anche il modo in cui pensiamo e parliamo di questi temi, per costruire una giustizia davvero più equa e rispettosa della dignità di tutte le persone. La vittima dei reati è tale a seguito dell’accertamento della responsabilità individuale dell’imputato, e dunque della prova certa della sussistenza del reato. Il processo mediatico, in particolare, contribuisce a “sacralizzare” impropriamente la figura della vittima, rischiando tra l’altro di influenzare anche incoscientemente l’autorità giudiziaria e, quindi, di alterare la parità tra le parti. In questo contesto, la condanna diventa spesso un esito atteso, mentre l’assoluzione è percepita come una negazione della giustizia. Sebbene l’attenzione verso la vittima risponda a istanze legittime, essa può condurre a una deriva emotiva del processo, dove la pena non è più proporzionata al reato, ma calibrata sull’intensità del dolore, per definizione soggettivo e incommensurabile. In tale scenario, non va sottovalutato il rischio di un “wokismo giudiziario”, ovvero l’utilizzo della giustizia penale per perseguire finalità politico- sociali. La pressione sociale può indurre i magistrati a cercare di soddisfare le richieste emotive delle vittime o di affrontare ingiustizie e discriminazioni attraverso le sentenze. La violenza di genere si manifesta prevalentemente all’interno di relazioni interpersonali complesse, spesso di natura intrafamiliare, dove si intrecciano dinamiche affettive, dipendenze emotive e giochi di potere. Questi contesti, per loro natura, sono caratterizzati da una forte componente emotiva e da profili psicologici delicati, che rendono la ricostruzione della verità storica un’operazione complessa e tutt’altro che lineare. In presenza di vissuti personali così intensi, la giustizia è chiamata a muoversi con umiltà e prudenza. Sentimenti ed emozioni costituiscono un materiale umano “magmatico”, che impone attenzione alle sfumature, ascolto empatico e sospensione del giudizio. Non basta garantire diritti formali: occorre creare le condizioni affinché ogni donna possa sviluppare una coscienza libera, capace di orientarsi tra pressioni culturali, aspettative familiari e stereotipi sociali. Educare alla libertà significa insegnare a scegliere, e scegliere significa decidere secondo il proprio pensiero, non secondo modelli imposti o condizionamenti esterni. Questa è la vera sfida: rendere ogni donna libera di essere sé stessa, di pensare, di scegliere il proprio compagno ogni giorno e anche di lasciarlo nelle modalità che ritiene più opportune, e non moralisticamente sindacabili da un giudice e senza alcuna conseguenza fisica o morale. Ed è questo il compito più alto che ciascuno di noi deve assumere e sentire come una propria responsabilità. *Vicepresidente del CSM. Estratto del discorso pronunciato al Convegno “Dall’educazione alla prevenzione. Le istituzioni a confronto per un efficace contrasto alla violenza sulle donne” Figli di coppie gay: il monito della Cedu e il Certificato Ue a tutela dei minori che l’Italia rifiuta di Lorenzo D’Avack Il Dubbio, 19 settembre 2025 Nel contesto della condanna della surrogata, ritenuta un reato universale (26/ 7/ 2023) e del conseguente divieto di trascrizione in Italia dei bambini nati all’estero con lo status di figli della coppia committente, il dibattito sull’interesse del minore a conservare anche nel proprio paese analogo status filiationis, ha coinvolto anche la Cedu. Quest’ultima aveva già sollecitato l’Italia a porre rimedio al divieto della trascrizione nell’interesse del minore, nato attraverso surrogata. Un sollecito che aveva portato la Corte costituzionale e la Corte di cassazione a rimediare all’assenza di registrazione del minore attraverso l’adozione speciale, in modo da veder riconosciuto il legame tra il bambino e il genitore d’intenzione e non violare gli obblighi discendenti dalla Convenzione dei diritti dell’uomo. Il contrasto con la Cedu in realtà era già evidente se si considera che nel marzo 2023 il parlamento dell’Unione Europea ebbe a votare a maggioranza un emendamento che condannava le istruzioni impartite dal governo italiano al Comune di Milano di non registrare più i figli di coppie omogenitoriali e invitava il governo italiano a revocare la sua decisione. Il parlamento UE riteneva che la decisione del governo italiano avrebbe portato inevitabilmente alla discriminazione non solo delle coppie dello stesso sesso, ma anche e, soprattutto, dei loro figli e che tale azione costituiva una violazione diretta dei diritti dei minori, come elencati nella Convenzione delle nazioni unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989. Per rafforzare queste situazioni a favore dei minori, figli di coppie eterosessuali o omosessuali che hanno fatto ricorso eventualmente alla surrogata, viene avanzata nel dicembre del 2023 dall’Unione Europea la proposta di un Certificato europeo di filiazione che confermi in tutti gli Stati il diritto alla genitorialità già riconosciuto in altri Paesi membri. Secondo questa proposta, tutti gli Stati membri dovranno riconoscere la genitorialità, comunque, acquisita anche da single o da coppie gay in un altro Paese dell’Unione e garantire all’intero del nucleo famigliare gli stessi diritti concessi alle altre famiglie. Da Bruxelles spiegano che “la proposta è incentrata sull’interesse superiore e sui diritti del bambino. L’Unione Europea con questo regolamento specifica che il diritto di famiglia resta in mano al singolo Paese, e non impone che gli Stati siano contrari nel loro ordinamento al riconoscimento delle coppie gay o alla surroga, vuole invece ricordare che se tale riconoscimento è stato accertato in un Paese membro, questo deve valere anche nel resto dell’UE. Il certificato europeo di genitorialità potrà essere richiesto dai figli, o dai loro rappresentanti legali, allo Stato membro che ha accertato la filiazione e potrà essere utilizzato “come prova della filiazione in tutti gli altri Stati membri”. Il Regolamento, sottolinea la Commissione, è incentrato sull’interesse superiore e sui diritti del bambino. Fornirà chiarezza giuridica a tutti i tipi di famiglie che si trovano in una situazione transfrontaliera all’interno dell’UE, sia perché si spostano da uno Stato membro all’altro per viaggiare o risiedere, sia perché hanno familiari o beni in un altro Stato membro. Tuttavia, questo riconoscimento non copre altri diritti a cui hanno accesso i figli: da qui la proposta di Bruxelles che consente di beneficiare in situazioni transfrontaliere dei diritti derivanti dalla filiazione ai sensi del diritto nazionale, in materie quali la successione, i diritti alimentari o i diritti dei genitori di agire in qualità di rappresentanti legali del minore per motivi di scolarizzazione o di salute. Il Commissario Reynders chiarisce che con questa normativa non si vuole sovvertire il modo in cui alcuni Stati UE concepiscono la famiglia. Si tratta solo di mettere al primo posto i bambini e i loro diritti e se il diritto europeo non può disciplinare il diritto di famiglia, può però regolamentare il diritto di circolazione. Il nostro governo ha, comunque, assunto una decisione contraria all’ipotesi del Certificato europeo genitoriale. Secondo il documento di opposizione alcune disposizioni contenute nel Certificato, in particolare, l’obbligo di riconoscimento e di conseguente trascrizione di una decisione giudiziaria o di un atto pubblico, emessi da un altro Stato membro, che attestano la filiazione, non rispettano i principi di sussidarietà. Una lettura totalmente rovesciata arriva dal PD che ritiene che il regolamento aveva il compito di riconoscere per i minori uguaglianza e civiltà. Si accusa la maggioranza di essersi assunta la responsabilità di ledere i diritti dei bambini che, surroga o non surroga, di fatto già esistono. La scuola che ricomincia e l’educazione sessuale che non c’è (la chiede il 70% delle famiglie) di Gianna Fregonara e Orsola Riva Corriere della Sera, 19 settembre 2025 L’Italia è rimasta uno degli ultimi Paesi in Europa in cui non è una materia obbligatoria. D’accordo, la scuola non è una miniera, ma la metafora scelta dalla logopedista Rossella Grenci nel suo ultimo saggio è intrigante e suggerisce, in questo inizio di anno scolastico, più di una riflessione sulle continue occasioni perse con i nostri studenti. Il libro si intitola La scuola dei canarini, dove i canarini sono gli studenti difficili, distratti, fragili, inconcludenti, quelli che ti viene la voglia di mandarli al diavolo, dal preside e poi all’esame a settembre. Proprio loro invece, come gli uccelli canterini che i minatori si portavano sottoterra perché sentivano per primi se c’era una fuga di gas e permettevano di mettere tutti in salvo, dovrebbero far scattare l’allarme: gli alunni deboli, con i loro inciampi, il loro essere un po’ fuori dalle regole e dalla norma, segnalano agli insegnanti se la strada scelta per fare lezione è quella giusta o se invece è meglio tornare indietro e cercare altre vie, altri modi per farsi davvero capire. La scuola italiana, come sottolinea anche la ricerca di Teha Group presentata domenica scorsa al Forum di Cernobbio, diventa sempre meno efficace man mano che gli studenti procedono negli studi: la mancanza di coordinamento tra le discipline che vengono ancora proposte come isole separate e la didattica che è rimasta trasmissiva come cent’anni fa, a dispetto dei buoni propositi di tante riforme, rendono faticoso il percorso degli studenti. Non solo: manca un canale di comunicazione per riuscire a raggiungere davvero una platea di adolescenti “che vivono un periodo di grande trasformazione fisica emotiva e sociale”. “Il sistema scolastico - conclude lo studio - non è attrezzato per accompagnarla”. Ci vorrebbe uno sguardo diverso. Difficile che la nuova stretta sulla condotta o la tolleranza zero con i telefonini anche alle superiori (da quest’anno è vietato buttare un occhio allo smartphone perfino durante l’intervallo) bastino a fare il miracolo di catturare l’attenzione dei ragazzi sprofondati nel loro sguardo catatonico, come ha efficacemente detto il pedagogista Daniele Novara. La logica del divieto, poi, non sempre funziona. Premesso che l’elenco dei rischi legati all’iperconnessione digitale è pressoché infinito, ce n’è uno particolarmente delicato, che non può essere affrontato solo in questo modo. È quello legato alla pornografia e alla facilità con cui i minori riescono ad accedere a contenuti anche molto violenti. Diversi studi mostrano che gli adolescenti esposti con regolarità a questo tipo di video sono più portati ad avere atteggiamenti aggressivi e sessisti. Un problema che, a giudicare dai recenti fatti di cronaca, non riguarda solo loro (una delle due piattaforme per soli adulti chiuse nelle ultime settimane contava 700 mila iscritti). Mai come oggi l’espressione “educazione sessuale” appare piena di senso. Eppure l’Italia è rimasta uno degli ultimi Paesi in Europa (perfino Spagna e Irlanda hanno capitolato) in cui non è una materia obbligatoria. Da quest’anno, anzi, per qualsiasi tipo di attività didattica che riguardi argomenti connessi alla sfera sessuale è richiesto il consenso preventivo delle famiglie. Famiglie che invece sarebbero favorevoli a introdurla nel curriculum (al 70% secondo il sondaggio Coop-Nomisma). Che cosa stiamo aspettando? Una scuola per pochi: il Consiglio di Stato smonta le linee guida di Valditara di Albertina Sanchioni Il Manifesto, 19 settembre 2025 Per i giudici di Palazzo Spada le Indicazioni nazionali sono “per molti aspetti inadeguate allo scopo”. Per i sindacati un disastro annunciato, e rilanciano la mobilitazione per il 18 ottobre. Dopo le contestazioni sollevate nei mesi scorsi da sindacati, associazioni di genitori, studenti e docenti, anche il Consiglio di Stato ha rilevato gravi criticità nelle nuove linee guida per infanzia, primaria e medie presentate a marzo dal ministero dell’Istruzione (e del merito). Palazzo Spada ha di fatto sospeso l’espressione del parere sullo schema di regolamento delle Indicazioni nazionali, destinate a sostituire quelle introdotte nel 2012 dall’allora ministro del governo Monti, Francesco Profumo. Una scelta che non equivale a uno stop definitivo, ma che mette in luce le problematiche evidenti del testo, a partire dall’Analisi di impatto della regolamentazione (Air) - la valutazione preventiva, cioè, delle conseguenze di una proposta di legge o di una introduzione normativa, anche dal punto di vista sociale ed economico - che risulta “per molti aspetti inadeguata allo scopo”. Errori, refusi e imprecisioni si sommano a critiche strutturali: l’introduzione del latino come insegnamento facoltativo alle medie, secondo il Consiglio di Stato, rischia di “aumentare la forbice tra studenti”. Una consacrazione effettiva di quanto avevano già espresso diverse associazioni riunite sotto il “Tavolo nazionale per la scuola democratica”. Secondo la rete composta da 23 soggetti impegnati nel mondo dell’educazione, l’inserimento del latino opzionale rischierebbe di “non garantire l’eterogeneità delle classi, riproponendo una distinzione tra percorsi riservati alle élite e percorsi destinati alle masse”. Della stessa opinione il segretario generale Uil Scuola Rua, Giuseppe D’Aprile: “Si rischia di aumentare le disuguaglianze tra studenti e di creare problemi organizzativi insostenibili per le scuole”. E poi il parere mette in luce anche questioni logistiche: i docenti di lettere della secondaria di primo grado non possono insegnare latino, se non in possesso dei requisiti richiesti. Per l’insegnamento della storia non viene spiegato perché non siano state accolte le osservazioni del Consiglio superiore della pubblica istruzione. Non ci sono definizioni chiare per concetti come “dispersione digitale” o “rigenerazione del paradigma formativo” e mancano dati aggiornati sull’infanzia. Non sono state previste garanzie sulle coperture economiche: rimane il dubbio “circa l’effettiva disponibilità di mezzi e risorse”, afferma il Consiglio di Stato. Un disastro annunciato, ribadiscono i sindacati. La Flc Cgil parla di “bocciatura” delle Indicazioni Nazionali, che fin dalla prima bozza erano state valutate come “una pericolosa operazione di revisione della cultura democratica della scuola”. Anche nella sua versione finale, continua l’organizzazione sindacale, “rimaneva l’impianto ideologico identitario e anacronistico”. Si augurano quindi che avvenga nel futuro prossimo “una seria revisione del testo” e “un reale dibattito con le scuole”. Dello stesso parere anche Uil Scuola Rua, che chiama a un “percorso condiviso, che coinvolga docenti, famiglie, studenti e comunità scientifica”. DirigentiScuola preme sul lato economico: “mancano investimenti e adeguate risorse finanziarie”, denuncia Attilio Fratta, presidente nazionale del sindacato. Dichiarazioni simili anche da parte di esponenti di M5S in Commissione Cultura e di Irene Manzi, responsabile nazionale scuola del Pd. Il Ministro Valditara ha minimizzato il rinvio, respingendo l’idea di uno stop politico: “Nessuna bocciatura, solo richieste di integrazioni tecniche e di specificazioni che accoglieremo volentieri nello spirito di leale collaborazione istituzionale”, ha dichiarato. Nei prossimi mesi il ministero di viale Trastevere dovrà rispondere alle richieste e alle critiche, chiarendo coperture, obiettivi e coerenza normativa del testo. Palazzo Spada resta dunque “in attesa degli adempimenti richiesti”, ma la regressione culturale e la visione gerarchica e sovranista, a tratti nostalgica, della scuola di Valditara subisce un altro stop di livello. Intanto i sindacati rilanciano la mobilitazione: il Tavolo nazionale per la scuola democratica, a cui aderisce anche Flc Cgil, tornerà in piazza il 18 ottobre, per una scuola “capace di garantire eguaglianza, emancipazione e pensiero critico” contro un modello che esalta “identità, confini, ordine e obbedienza”. Il costo della paura di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 19 settembre 2025 La trappola della demografia: la paura è quel motore che muove la politica nel ventunesimo secolo. La paura corrode le democrazie. E ad alimentarla può essere la demografia, se vissuta come una minaccia per la convivenza civile: con la proiezione d’un futuro distopico in cui non sapremo più chi siamo e in cosa crediamo. Sta succedendo in Israele, col calvario di Gaza e le continue brutalità in Cisgiordania. Sta accadendo in America, con un clima d’odio che richiama alla mente un film tragicamente di successo dell’anno scorso, Civil War. Ma capita anche da noi, in Europa, con la crescita delle intolleranze e del discorso pubblico violento, in un assurdo ritorno degli opposti estremismi. Mesi prima dell’assassinio di Charlie Kirk, il politologo Robert Pape ha messo in fila sulla rivista Foreign Affairs qualche sondaggio che, riletto oggi, suona quale cupa profezia. A gennaio 2024, il 15% degli americani pensava che la violenza fosse accettabile per indurre parlamentari e funzionari governativi “a fare la cosa giusta”. E a giugno 2024, il 10% degli intervistati (pari a ventisei milioni di cittadini) riteneva l’uso della forza appropriato per impedire a Trump di ridiventare presidente mentre il 7% (diciotto milioni) sosteneva l’opzione violenta pur di riportarlo alla Casa Bianca. Pesava, certo, l’ombra lunga del 6 gennaio 2021, con l’assalto a Capitol Hill e la faglia profonda aperta allora nelle coscienze dei cittadini (il 40% reputava “patrioti” i rivoltosi). Ma le migrazioni strutturali di questa nostra era e l’inadeguata o strumentale risposta politica hanno alimentato un’aria da bivio esistenziale di sicuro non circoscritta agli Stati Uniti. In America l’aumento di aggressioni e attentati dal 2017 contro politici repubblicani e democratici appare generato dal panico per il mutamento identitario in atto. Nel 1990, il 76% degli americani si definiva bianco. La percentuale è scesa al 58% nel 2023, scenderà sotto il 50% nel 2045. S’è detto che latinos e neri hanno ormai cominciato a votare per Trump contro i loro “fratelli” immigrati illegali. Ma ciò non toglie che la prospettiva d’una nazione non più bianca e cristiana sia stata vissuta come un’oltraggiosa minaccia al proprio stile di vita dai conservatori, infiammati appunto dalla narrazione trumpiana ormai dal 2015, l’anno della discesa in politica del tycoon. Le politiche illiberali di Trump hanno provocato, per converso, un’ondata uguale e contraria tra i democratici, non ostili alle migrazioni o comunque preoccupati per il destino delle libertà americane. Certo, l’America è violenta da sempre. Ma, pur senza aderire all’assurda equazione di chi vorrebbe affibbiare a Trump la responsabilità morale della morte di Kirk, è difficile negare che il populismo violento dei nostri giorni sia anche il frutto avvelenato d’un investimento politico che proprio Trump ha coltivato con tenacia. Con la sua retorica contro le donne, i gay, i disabili, i migranti, i progressisti. Con l’esaltazione degli insorti contro Capitol Hill, definiti “eroi”. La trappola demografica è, in fondo, ciò che ha stravolto anche la democrazia israeliana, incapace dal 1967, dopo le conquiste della guerra dei Sei Giorni, di risolvere un rebus fondamentale: annettere Cisgiordania e Gaza, accettando la conseguenza che i loro abitanti avrebbero potuto votare alle elezioni di Israele, o liberarle, perdendo così due aree viste allora come necessario strumento di sicurezza? Nel dubbio, il governo decise di non decidere, procrastinando un regime di occupazione che ha prodotto odii, ingiustizie, contraddizioni capitali per il futuro dello Stato. E in queste ore sta ponendo la nazione con la Stella di David in una dimensione di isolamento internazionale mai sperimentata prima. E sulla demografia, con le sue varianti paranoidi e razziste quali la teoria della Grande Sostituzione (avallata imprudentemente pure da qualche politico nostrano), s’è giocata e si gioca una bella fetta delle fortune dei partiti sovranisti europei e della contrapposizione con i progressisti ai quali sempre manca, tuttavia, una chiara ricetta per affrontare il problema. Dalla notte degli stupri di Colonia, nel Capodanno del 2016, è cambiata la percezione dei migranti tra i tedeschi che, un anno prima, avevano aderito alla generosa sfida di Angela Merkel nell’accoglienza dei profughi al grido di “Wir Schaffen Das” (ce la possiamo fare!). E ha iniziato la sua ascesa Alternative für Deutschland che, a dispetto d’un Dna inquinato da parole d’ordine e reminiscenze nazistoidi, s’è piazzata al secondo posto alle ultime legislative e balla tra il primo e il secondo in tutti i sondaggi. La “remigrazione” anche di cittadini tedeschi di ascendenza islamica, e perciò ritenuti “non assimilabili”, è stata la parola d’ordine che ha procurato ad Alice Weidel e ai suoi il successo elettorale ma anche un gravissimo dossier dell’Ufficio per la protezione della Costituzione (il servizio segreto interno) che potrebbe persino condurre l’AfD al bando per incompatibilità coi valori fondamentali della Repubblica federale. Dunque, alla fine si torna sempre al motore immobile della politica nel Ventunesimo secolo: la paura. Da gestire, se si vuole smontare la trappola della demografia. Accettando una società inevitabilmente diversa. Ma senza cedimenti suicidi verso la sharia o forme di abdicazione culturale ai nostri principi e alle nostre libertà. Stando assieme nelle regole. Assimilando e rispettando. Arricchendo ciò che siamo grazie ai nuovi venuti e ottenendone lealtà costituzionale. Sembrano chiacchiere astratte finché non torna in mente Mechelen, la cittadina belga che, negli anni in cui il jihadismo imperversava in Europa, riuscì a diventare un modello d’integrazione grazie a un sindaco liberaldemocratico, Bart Somers, che seppe coniugare solidarietà e sicurezza. Certo, era un microcosmo. Ma gli ingredienti per tramutare la paura in speranza, alla fine, sono sempre gli stessi. Schiavitù, oppio e colonialismo: non possiamo ignorare come ci vedono gli altri di Giovanni Fattore* Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2025 La memoria storica pesa ancora oggi sulle relazioni internazionali: non possiamo ignorare che per molti paesi l’Occidente resta sinonimo di ipocrisia e dominio. La storia conta perché i fatti e le interpretazioni del passato perdurano nella memoria collettiva e vengono rappresentati dalle visioni dominanti. Questo dato elementare sembra mancare proprio nella nostra cultura occidentale, in cui stato di diritto e valori di eguaglianza e libertà si sono affermati. La nostra storiografia e la sua trasposizione nelle narrative politiche tralasciano sullo sfondo i grandi crimini commessi nei secoli scorsi; li riconosciamo, ma non siamo in grado di capire quanto possano avere plasmato come siamo visti dal resto del mondo. I tre casi più simbolici ma anche molto rilevanti in termini di impatto sociale sono la tratta degli schiavi, le due guerre dell’oppio in Cina e la colonizzazione dell’India. Gli schiavi sono sempre esistiti e lo schiavismo ha avuto forme e brutalità diverse. Ma la costruzione sistematica di una filiera industriale che andava dalla cattura, al trasporto e alla vendita degli schiavi nelle Americhe ha avuto una dimensione e brutalità senza precedenti. Nel solo periodo tra il 1700 e il 1860 circa 8,5 milioni di africani furono strappati dai loro villaggi per essere venduti come cose a proprietari terrieri francesi, inglesi e americani. Il trauma di questo crimine di massa ha implicazioni evidenti nell’America di oggi e nella diffidenza dei paesi africani per l’Europa e gli Stati Uniti, aspetto che potrebbe avere favorito l’espansione cinese nel continente. Il commercio tra l’Europa e la Cina ha origini lontane ma nel diciannovesimo secolo fu stravolto dall’Inghilterra che, non avendo niente da vendere ai cinesi, convertì ampie aree rurali dell’India in coltivazioni di oppio per poi portarle nel mercato cinese. Al divieto di commercio deciso dall’Imperatore cinese, gli inglesi ricorsero alla guerra e imposero due trattati “ineguali” in cui la Cina accettava il commercio della droga, autorizzava gli inglesi a controllare Hong Kong e altri porti e indennizzava i mercanti di droga per la merce distrutta. L’Imperatore, tramite un suo alto funzionario, considerato un grande eroe nazionale, scrisse alla Regina Vittoria, notoriamente moralista, chiedendo di fermare i mercanti inglesi facendo tra l’altro presente che in Inghilterra l’oppio era proibito. Le guerre dell’oppio furono vinte con anche il supporto dagli intellettuali liberali in base al principio della libertà di commercio. Sempre gli inglesi, campioni della civilizzazione democratica, riuscirono a colonizzare l’intero continente indiano con un rapporto tra dominatori e nativi stimato in circa uno su mille. Come? Sicuramente per mezzo di una forte superiorità militare e tecnologica, ma non era sufficiente. La Compagnia delle Indie prima e il governo inglese dopo rafforzarono il sistema delle caste che era in declino da secoli, ad esempio classificando tutta la popolazione e rafforzando prerogative e privilegi di alcune caste secondo il loro disegno di potere. La diseguaglianza ereditaria fu così promossa, proprio quando in Inghilterra si teorizzava e praticava il contrario. La memoria storica pesa ancora oggi sulle relazioni internazionali: non possiamo ignorare che per molti paesi l’Occidente resta sinonimo di ipocrisia e dominio. Se vogliamo che il multilateralismo sia credibile, dobbiamo abbandonare ogni atteggiamento di superiorità morale e smettere di raccontarci come i soli custodi di libertà e diritti. Non si tratta di rinunciare ai nostri valori, ma di riconoscere che essi hanno spesso camminato accanto a interessi di potenza e diseguaglianze imposte. Solo accettando questa contraddizione e imparando a guardare la storia anche dal punto di vista dei “vinti” possiamo conquistare fiducia e rispetto. In caso contrario, continueremo a parlare di principi universali mentre il resto del mondo ci ascolterà con diffidenza o con aperto risentimento. *Professore di Economia e Management Grandi (Unhcr): “C’è una violazione sistematica del diritto umanitario” di Paolo Lambruschi Avvenire, 19 settembre 2025 I tagli agli aiuti, le crisi a Gaza e In Ucraina e quelle dimenticate in Myanmar e in Africa e tra i temi al centro dell’udienza dell’Alto commissario Onu per i rifugiati con il Papa. Orrore e sgomento per quanto sta accadendo a Gaza, le preoccupazioni per il futuro del Medio oriente, le principali crisi mondiali e per i tagli agli aiuti umanitari del governo americano. E un grazie alla Chiesa per essere la voce spesso unica che ricorda le tante crisi dimenticate, per la collaborazione sul campo e per i corridoi umanitari. Temi al centro dell’udienza di Papa Leone all’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati Filippo Grandi e degli incontri con il presidente della Cei cardinale Zuppi e con il cardinale Segretario di Stato Parolin. Grandi, alla fine del suo mandato decennale, parla con Avvenire del quadro umanitario globale sempre più drammatico. Lei ha espresso forte preoccupazione per l’aumento costante delle crisi umanitarie dovuto anche all’indebolimento dei meccanismi multilaterali di gestione dei conflitti e al calpestamento sistematico del diritto internazionale. Ha condiviso queste preoccupazioni con papa Leone? Sì, è stato un argomento molto centrale del nostro dialogo, perché è chiaro che stiamo assistendo a un’erosione delle norme che dalla Seconda Guerra Mondiale in poi hanno sorretto le relazioni internazionali. La violazione sistematica del diritto internazionale umanitario in Ucraina o Palestina da parte anche di paesi potenti come Israele e Russia sta legittimando la licenza di violare i diritti dei civili in tutte le situazioni di conflitto. Lei ha anche denunciato il taglio drastico degli aiuti umanitari da parte degli Usae di altri grandi donatori e gli effetti devastanti sulle operazioni dell’Alto Commissariato. Com’è oggi la situazione? Si è confrontato su questo anche con la Santa Sede? È stato un altro importante argomento di conversazione con il Santo Padre e i suoi collaboratori per sensibilizzarli ulteriormente sull’impatto dei tagli di bilancio non solo sul lavoro dell’Unhcr, ma su tutto il sistema degli aiuti. Penso al danno profondissimo che i tagli ai programmi di sanità in Africa da parte degli Stati Uniti stanno causando a centinaia di milioni di persone. L’Unhcr dipendeva per il 40% dagli aiuti americani, poi sono stati ridotti di circa due terzi. Anche paesi europei come Germania, Francia, Gran Bretagna e altri donatori importanti hanno tagliato gli aiuti. Voglio sottolineare che l’Italia è rimasta un donatore stabile. La diminuzione degli aiuti non è soltanto un fattore moralmente dannoso e pericoloso per la tenuta del sistema umanitario, ma crea anche moltissima instabilità e vuoti in paesi che ospitano molti rifugiati. Vuoti occupati dai trafficanti e che creano movimenti ulteriori di popolazione. Quindi per un mondo occidentale ossessionato dagli arrivi di rifugiati e migranti, tagliare gli aiuti là dove sono necessari aumenta la probabilità che i movimenti vengano incrementati. È una contraddizione. Ma c’è il reale pericolo di invasione di profughi africani in Europa? Assolutamente no. C’è invece una retorica creata ad arte da una certa politica per la quale tutte le persone vogliono andare nei paesi ricchi. La verità è che la stragrande maggioranza fugge nel paese vicino e poi vuole tornare a casa. Il problema è quando non trovano appoggio immediato, allora cercheranno di muoversi. Ma non parliamo di invasione, che presuppone una specie di disegno strategico. Sono persone che fuggono per disperazione. I flussi vanno gestiti bene distribuendo la risposta lungo le rotte migratorie Come valuta il ruolo della Chiesa Cattolica in questo quadro? Molto importante. Questa è molto probabilmente la mia ultima visita alla Santa Sede da Alto commissario per i rifugiati perché il mio mandato scade a fine dicembre, quindi sono venuto anche a ringraziare la Chiesa cattolica per la straordinaria partnership con le sue organizzazioni e istituzioni di cui beneficiamo in moltissimi paesi del mondo. E poi il ruolo centrale della Santa Sede è creare consapevolezza soprattutto delle crisi dimenticate. Tutti seguiamo la situazione di Gaza o dell’Ucraina, ma ci sono situazioni altrettanto catastrofiche per i civili in Myanmar oppure in Sudan o in Congo. La Chiesa è una delle poche istituzioni che parla di queste crisi e una delle poche che continua a promuovere il valore della solidarietà in un mondo che invece tende a sottovalutarla, a marginalizzarla e a demonizzarla. Gaza non rientra nelle competenze dell’Unhcr, ma lei è stato commissario generale dell’Unrwa. Come giudica la situazione? Difficile aggiungere commenti alla situazione spaventosa di Gaza e Cisgiordania negli ultimi mesi. Orrore e sgomento sono i termini per descrivere i sentimenti che molti di noi provano di fronte a quello che sta succedendo, che prefigura un futuro disperato per i palestinesi come nazione e un futuro molto incerto e molto pericoloso per lo Stato d’Israele. Questa situazione comunque vada finire - e purtroppo vediamo che sta andando molto male, con 450 mila persone evacuate negli ultimi giorni, una cosa mai vista negli ultimi decenni - lascerà uno strascico di instabilità, odio, tensioni irrisolte ed esasperate che affliggeranno tutta la regione e oltre. Non so se c’è ancora spazio per fare appello alla pace sepolta sotto molti metri di terra e cadaveri in Medio Oriente, però dobbiamo continuare a farlo. Gli stati ricchi accolgono ancora i rifugiati con i ricollocamenti? C’è stato un taglio quasi totale dei programmi di reinsediamento. L’amministrazione Biden era arrivata a circa 100.000 persone e più. L’amministrazione Trump ha dichiarato che questo programma non ci sarà più, sostituito da programmi specifici per alcune popolazioni. Ma non sappiamo altro. Perciò è molto importante che i programmi di altri paesi come Canada, Australia e l’Italia attraverso i corridoi umanitari continuino. Sono molto grato alla Chiesa cattolica per essere uno dei grandi sponsor dei corridoi umanitari. Comunità di Sant’Egidio, Caritas e altre organizzazioni in Italia hanno giocato un ruolo fondamentale. Le grandi crisi dimenticate in Sudan, Etiopia e Repubblica Democratica del Congo cui ha accennato, hanno un grande impatto anche sui paesi confinanti, che molto spesso non chiudono i confini e continuano ad accogliere. Una lezione interessante... Vero. Prendiamo il Sudan, i cui rifugiati sono in Ciad, Egitto, Etiopia, Sud Sudan, che hanno di per sé fragilità immense e che pure tengono le frontiere aperte e accolgono queste persone, Però senza aiuti internazionali non possono farlo efficacemente. La situazione sudanese secondo me è molto indicativa delle contraddizioni e delle difficoltà che affrontiamo, perché le operazioni umanitarie in Sudan e nei paesi vicini sono fra le più colpite dai tagli di bilancio e dalla violenza dei combattimenti, quindi ci troviamo di fronte a quello che gli americani chiamano perfect storm, la tempesta perfetta. In Ciad i trafficanti stanno allerta, approfittano di questa situazione di miseria estrema da parte dei rifugiati per manipolarli a muoversi verso la Libia dove noi stimiamo ci siano 350 mila sudanesi. Per noi è diventato molto difficile operare nei paesi dell’Africa del Nord, come la Libia dove continua a esserci un conflitto e in Tunisia dove il governo ci impedisce di accedere alle persone che hanno bisogno di protezione con nuove leggi molto restrittive. Quindi anche l’alibi dell’Europa che la sua cintura esterna può gestire i flussi si sta frantumando. La situazione è sempre più drammatica e aperta a movimenti disordinati e pericolosi di popolazione. Questi sono i risultati delle crisi irrisolte che il taglio dei fondi rende ancora più difficili da gestire. Gli osservatori segnalano l’età in diminuzione dei minori stranieri non accompagnati in arrivo sulle coste italiane e dalla rotta balcanica. Come si spiega? Sono fenomeni difficili da analizzare perché le statistiche non sono del tutto affidabili. La determinazione dell’età per le persone in movimento non è sempre facile. Ci sono molti criteri da seguire, non è sempre facile farlo, però è vero che tendenzialmente abbiamo visto un abbassamento dell’età dei minori, nonostante la maggioranza continuino ad essere adolescenti. Sono situazioni sintomo di disperazione crescente. Oltre alle guerre, quando i tagli ai programmi di sviluppo aumentano i rischi di povertà, di privazione dell’essenziale in molti paesi, quando i cambiamenti climatici hanno un impatto sempre più forte sulle popolazioni civili, è chiaro che molte volte le famiglie per disperazione mandano i bambini su queste rotte, a gravissimo rischio della loro vita e con un futuro incerto.