Case per detenuti senza fissa dimora: ecco il regolamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 settembre 2025 È arrivato il primo regolamento organico sulle case di accoglienza per i detenuti senza fissa dimora. Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, lunedì scorso, il ministero della Giustizia ha reso operativo il D.M. 24 luglio 2025, n. 128. Il provvedimento introduce criteri uniformi per iscrizione, vigilanza, accesso e sostenibilità economica delle strutture destinate ai detenuti più vulnerabili: coloro che, non avendo un domicilio, non possono accedere alle misure alternative. Si tratta di un passaggio atteso da tempo. Il decreto attua l’articolo 8 del decreto-legge 92/2024 e punta a mettere ordine in un settore finora lasciato alla buona volontà di enti locali e associazioni. È previsto un elenco nazionale delle strutture, articolato in sezioni regionali, gestito dal Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità. Le domande di iscrizione dovranno rispettare modelli standard pubblicati dal Ministero, corredati da dichiarazioni sostitutive sui requisiti. La decisione finale spetterà alla Direzione generale per la giustizia di comunità, sentito il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il decreto stabilisce anche chi potrà gestire le strutture: enti pubblici, enti locali, organizzazioni del terzo settore registrate, strutture del servizio sanitario o forme associate tra questi soggetti. Restano esclusi amministratori e soci con condanne definitive per reati non colposi o destinatari di misure interdittive. L’iscrizione non basta: è prevista una vigilanza serrata, con controlli periodici e poteri di sospensione o cancellazione. L’aspetto più concreto riguarda i requisiti strutturali e i servizi minimi: ambienti idonei dal punto di vista abitativo e igienico, assistenza di base, programmi di reinserimento socio- lavorativo, locali per attività comuni, lavanderia e spazi accessibili a persone con disabilità. L’allegato tecnico richiama i parametri del D. M. 308/ 2001 sulla solidarietà sociale, con prescrizioni puntuali sulla capacità ricettiva e sui rapporti tra servizi e ospiti. Sul piano economico, l’Amministrazione potrà coprire le spese solo nei casi di reale bisogno, individuati sulla base di criteri di reddito e condizioni sociali. La permanenza sarà comunque limitata (massimo otto mesi) e vincolata alle disponibilità finanziarie. I rimborsi giornalieri saranno stabiliti da un successivo decreto ministeriale. Non viene azzerato quanto già fatto dalle Regioni: le strutture autorizzate o accreditate potranno essere riconosciute idonee se conformi ai nuovi requisiti. Entro 90 giorni dovrà essere adottato un decreto direttoriale sulle regole di trattamento dei dati, mentre i modelli di verbale per i controlli saranno pronti entro 60 giorni. L’entrata in vigore è immediata. Il programma prevede uno stanziamento annuo di 7 milioni di euro, ripartiti tra gli Uffici interdistrettuali di esecuzione penale esterna (Uepe). Se le domande supereranno le risorse disponibili, la priorità sarà data alle strutture con programmi di reinserimento più efficaci e risultati documentati. La novità è significativa: per la prima volta si interviene in modo organico su un tema rimasto nell’ombra dopo la mancata attuazione della “riforma Orlando”. Resta però il nodo decisivo: trasformare articoli e allegati in opportunità concrete per chi è senza fissa dimora. I detenuti più emarginati hanno ora uno strumento in più per esercitare un diritto finora negato dalla loro condizione economica. Ma la posta in gioco sarà la sua applicazione: se gli atti attuativi tardano, se le tariffe non coprono costi reali e se non arrivano risorse per la vigilanza, il regolamento rischia di restare una buona intenzione burocratica. Per i detenuti senza dimora, per gli operatori e per i Comuni la differenza la farà la capacità di tradurre le norme in posti veri, servizi reali e percorsi di lavoro. Le case di accoglienza rappresentano un anello di congiunzione essenziale, ma la vera umanizzazione della pena richiede riforme più profonde, capaci di incidere sulla qualità della vita detentiva, sull’accesso alle misure alternative e sulla riduzione della popolazione carceraria. Giustizia, la riforma mette il turbo. L’opposizione: “Camere umiliate” di Conchita Sannino La Repubblica, 18 settembre 2025 Seduta fiume alla Camera. Ora manca solo il voto al Senato. Il ministro: “Le toghe hanno impedito il dialogo”. Verso il terzo sì, in tempi record, e con beffa a sorpresa. Sulla riforma della giustizia, la destra impone l’escamotage della seduta fiume e “congela” così per le ultime ventiquattro ore i lavori in corso alla Camera, rinviando in zona comfort l’ora e il giorno del voto in aula: mezzogiorno di oggi. Tutto, inveiscono le opposizioni, per coprirsi le spalle mentre mezzo governo con deputati era alle prese, fino a ieri sera, con la missione elettorale nelle Marche. “Non vi interessa niente la giustizia, avete il disegno di attaccare i giudici, ma è antico, di Berlusconi”, accusa Elly Schlein in aula. “Il vostro è solo uno scambio di potere indecente tra giustizia, premierato e autonomia differenziata, unico collante che tiene insieme il governo”, chiosa la segretaria dem. E il leader Conte, dalla Calabria: “È la vendetta contro le indagini dei pm. Ma per dare efficienza al servizio servono finanziamenti”. Accuse delle quali, a passeggio tra aula buvette, il ministro Nordio sorride: “Tanti interventi, uguali: sembrano scritti con l’intelligenza artificiale”. Poi, a margine con Repubblica, concede: “Certo che esistono criticità in questa riforma. Lo so anch’io. Ma i magistrati, con quello sciopero, non hanno consentito mai un dialogo”. Colpa loro. Visto da Montecitorio, in ogni caso, l’effetto è grottesco. La maggioranza sparisce. Visto che la seduta fiume per norma non prevede un voto a sorpresa, i deputati hanno le spalle coperte e lasciano quasi in blocco, con Meloni e vicepremier ormai sulla via di Ancona. E sui banchi opposti, si scatena l’ira di Pd, M5s, Avs. Che vanno avanti tutta la notte a contrastare, nel vuoto, quel ddl portato avanti fin qui: tra emendamenti tutti respinti, “canguri”, forzature e tempi contingentati. L’approvazione di oggi a Montecitorio, scontata e rapida tra qualche scintilla, segna il terzo traguardo su quattro. Poi, per la riforma - che prevede non solo la separazione tra pm e giudici, ma anche l’istituzione dell’Alta Corte disciplinare e due distinti Csm, i cui membri saranno sorteggiati - mancherà solo il sì del Senato. Che la destra vuole portare a casa prima della sessione di bilancio, entro novembre. Infine, verosimilmente ad aprile, l’ultima sfida: il referendum. “Ennesimo segno di arroganza di chi non ha rispetto delle istituzioni”, è l’accusa di Chiara Braga, presidente dei deputati Pd che schiera decine di interventi nella notte. Le fa eco dal M5s il capogruppo Riccardo Ricciardi che, al mattino, sbotta: “Siamo di fronte a una torsione senza precedenti. È una buffonata, noi ci fermiamo”. Solo teatro, ribatte ieri la maggioranza. Per Giandonato La Salandra, di FdI, “non esiste scontro tra destra e giudici, Falcone e Borsellino sono le nostre guide”. E Zanettin di FI, dal Senato: “Finalmente avremo un giudice imparziale, un Csm sottratto alle correnti. E creeremo a breve i comitati del sì”. Anche l’opposizione guarda a quella battaglia, versante no. “Continueremo a lottare, saranno i cittadini a difendere la Costituzione, che non avete mai accettato fino in fondo”, segnala da Avs Elisabetta Piccolotti. Mentre critiche aspre arrivano anche da chi, inizialmente, era a favore della separazione. Per Boschi, di Iv, “una riforma che confonde i poteri e umilia il Parlamento: cucita da tre magistrati come Nordio, Mantovano e la capo di gabinetto Bartolozzi”. E Riccardo Magi: “Siamo all’ostilità esasperata del governo verso ogni livello di giurisdizione. Non la voto, questa bandierina pericolosa della destra”. Carriere separate, maratona oratoria in vista del Sì finale di Valentina Stella Il Dubbio, 18 settembre 2025 Va in scena il gioco delle parti a Montecitorio tra maggioranza e opposizione. Oggi si vota, poi l’ultimo passaggio in Senato. Una vera e propria maratona oratoria: è quello a cui stiamo assistendo in questi giorni alla Camera dei deputati. Da martedì e fino al pomeriggio di ieri, compresa la notte, i deputati sono andati avanti, salvo qualche piccola interruzione, con il dibattito sulla riforma costituzionale della separazione delle carriere. Il voto finale a Montecitorio è previsto per oggi non prima delle ore 12. Un risultato scontato quello in terza lettura che traghetterà poi la norma al Senato per il via libera finale. La sceneggiatura è ormai nota. Da un lato la maggioranza che assicura che la norma non è contro la magistratura ma a favore della parità nel processo, le minoranze che accusano gli avversari di deriva autoritaria e di voler controllare le toghe. Ben cinquantacinque gli iscritti a parlare nel Partito democratico, i soli a parlare pure nella seduta notturna. Ieri mattina verso le 11 ha preso la parola la Segretaria dem Elly Schlein per la quale saremmo davanti all’ “ennesima prova di una destra che, non sapendo dare risposte ai problemi concreti dei cittadini, offre qualcosa di più semplice: nemici, capri espiatori su cui addossare tutti i mali possibili e che in qualche modo poi vengono colpiti con insensata durezza. Oggi è il turno dei giudici”. Non poteva mancare un riferimento al fondatore di Forza Italia: “Quello contro la magistratura è un disegno antico, però. Non nasce certo oggi. È un vecchio vizio dai tempi di Berlusconi. Ha radici antiche il vostro fastidio per la giustizia e il vostro disprezzo per il controllo di legalità, visto come un limite al comando assoluto. Non siete i primi ad attaccare i giudici e le sentenze sgradite, e a gridare al complotto”. E poi, infine, un anticipo di quelli che saranno i messaggi che utilizzeranno da sinistra in campagna referendaria: “Noi ci siamo battuti in tutte le sedi parlamentari e nelle piazze e continueremo a farlo, potete starne certi. Ci impegneremo affinché al referendum prevalgano i “no’, i “no” alla vostra arroganza, i “no” a una giustizia dei potenti, i “no” alla compressione delle garanzie democratiche dei cittadini”. A schierarsi contro l’Esecutivo nei toni ma ribadendo astensione è stata anche il capogruppo di Italia Viva, Maria Elena Boschi: “Guardate i sondaggi e siete convinti della vittoria al referendum ma per esperienza vi dico che quella che credete una vittoria certa si trasformerà in una sconfitta cocente”. E lo dice a ragion veduta, considerato come si è concluso il referendum costituzionale del 2016. Per Boschi si tratta di “una riforma non di tre partiti politici” di centrodestra e della maggioranza, “ma fatta da tre toghe, la capo gabinetto del ministero della Giustizia Bartolozzi, il ministro Nordio e il sottosegretario Mantovano, che avete scritto una riforma contro altri magistrati, avete politicizzato lo scontro ed esautorato il potere legislativo”. Ad annunciare il sì, invece, sul ddl Nordio sia +Europa che Azione. “Nonostante tutto, credo che si deve dire sì a una riforma che non è di Berlusconi o di Meloni” ha dichiarato il Benedetto Della Vedova. Come lui anche il deputato del partito di Carlo Calenda, Antonio D’Alessio: “si tratta di un sì stentato e amaro per la metodologia con cui è stato portato in aula. Siamo favorevoli nel merito, perché finché esiste l’obbligatorietà dell’azione penale, come ci è stato assicurato dal ministro Nordio, non c’è una sottoposizione della pubblica accusa al ministero: se questo principio fosse stato messo in discussione, avremmo sicuramente fatto le barricate”. Maurizio Lupi, presidente di Noi Moderati, ha invece assicurato nuovamente che “la riforma della Giustizia con la separazione delle carriere è un tassello fondamentale per una giustizia più equa, più trasparente e davvero al servizio dei cittadini. Al contrario di quel che dice l’opposizione, non c’è nulla di punitivo nella riforma, nessuna intenzione di limitare l’autonomia della magistratura”. Mentre il deputato di Fratelli d’Italia Giandonato La Salandra ha ricordato in Aula “come la destra italiana mai si è posta in contrasto con la magistratura e, anzi, fu proprio la destra in Parlamento, nel maggio 1992, a propone Paolo Borsellino come Presidente della Repubblica”. Intanto il senatore di Forza Italia, Pierantonio Zanettin ha annunciato che “dopo l’approvazione del testo, creeremo i comitati del Sì per sostenerlo al referendum confermativo di primavera”. Una considerazione che può apparire ovvia ma invece è il segnale di un avvio di mobilitazione di ogni singolo parlamentare sui territori. Inizia un colonnello come Zanettin che mastica giustizia ogni giorno ma poi dovranno essere tutti a consumare le suole per spiegare ai cittadini perché votare “sì” o “no” sia in maggioranza che nelle opposizioni. Non si sa ancora se ogni partito costituirà il suo proprio comitato. Una opzione al vaglio è quella di comitati per territorio. Resta comunque la certezza che essendo la posta in gioco altissima lo sforzo sarà massimo da parte di tutti. Non a caso i primi a partire sono stati gli altri protagonisti di questa battaglia: Ucpi e Anm. “Referendum giustizia, c’è il rischio che sia per addetti ai lavori” di Franco Insardà Il Dubbio, 18 settembre 2025 Giuseppe De Rita, fondatore e presidente del Censis, da oltre mezzo secolo osserva e interpreta i profondi cambiamenti della società italiana. Con i rapporti annuali del Centro studi ha raccontato l’Italia, anticipandone spesso le trasformazioni. In un momento segnato da conflitti internazionali, tensioni commerciali alimentate dai dazi di Trump, un’Europa messa in discussione anche dal severo giudizio di Mario Draghi e una crescente polarizzazione interna, con il referendum sulla riforma della giustizia alle porte. Professore, in una intervista al Dubbio di un anno fa disse che gli italiani non si preoccupano delle guerre che sono alle nostre porte, è ancora così? Certo che è così. La mentalità italiana non cambia: anche negli anni Trenta gli italiani non avevano alcuna voglia di fare la guerra. Vi furono trascinati dall’incuria, dalla pigrizia, dall’incapacità di mettere in discussione il fascismo. Succubi della retorica, finirono in guerra pur sapendo che era l’esteriorizzazione della macchina bellica fascista. Gli ultimi episodi, come l’uccisione dell’influencer dell’ultradestra statunitense Charlie Kirk, hanno alzato il livello dello scontro, anche verbale. In Italia esiste il rischio di una escalation di violenza? Non mi pare. È normale che la politica alzi i toni, ma chi ha vissuto gli anni Settanta conosce bene la differenza. Allora l’odio lo si percepiva e lo si toccava ogni giorno. Oggi ciascun fronte politico accusa l’altro di fomentare odio, ma in realtà sanno bene che se si dovessero incontrare a una festa di partito, non dico si abbraccerebbero, ma quasi. Mario Draghi, durante una conferenza a Bruxelles a un anno dal suo Rapporto sulla competitività Ue con la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ha parlato di “inazione che minaccia la competitività europea e la nostra stessa sovranità”, è d’accordo? Sono sempre stato d’accordo con Draghi, anche per un’antica colleganza: entrambi ex allievi del Massimo, seppur in anni diversi. Però, oggi attaccare la presidente della Commissione è diventato di moda: lo fanno tutti, da Vannacci a Travaglio a Renzi. Non credo sia il modo migliore per iniziare o proseguire un percorso di crescita. Il ruolo dell’Europa in questo momento è davvero marginale nello scenario internazionale? Mi domando perché è marginale? Perché mancano leader capaci di “fare i bulli”? Io credo che sia quasi un vantaggio rispetto a chi lo fa in America, Russia o Israele. L’Europa non è forte sul piano della dialettica internazionale, ma lo è sul piano economico: siamo tra le prime economie mondiali, ma non sappiamo valorizzare questa posizione. Sui dazi siamo stati passivi, sulle guerre restiamo prudenti perché sappiamo che i cittadini europei non vogliono la guerra. Così facendo, scusi se insisto, si resta ai margini dei rapporti internazionali... Sì, ma non è un aspetto negativo. In questo clima da wrestling internazionale, essere marginali può proteggere. L’economia europea avrà momenti di debolezza, problemi di deficit e di debito, ma resta una delle grandi potenze mondiali. Draghi dovrebbe ricordare che lui stesso ne è uno dei principali rappresentanti. In un contesto dominato da bulli, come lei lo definisce, l’Europa può mantenere o riconquistare un ruolo? L’Europa di Adenauer e De Gasperi aveva un ruolo politico: pacificazione, reintegrazione della Germania, una logica nuova. Con il Trattato del 1957 prevalse invece l’idea dell’unificazione economica, che ha sopravanzato quella politica e militare. Fu una scelta dei padri fondatori, e per questo oggi l’Europa è una potenza economica, ma non politica né militare. Ritiene che sia ancora valida questa scelta o l’Europa dovrebbe cambiare indirizzo? Non sono un politico e non ho il fiuto per dire cosa fare. Ritengo però che quella scelta sia stata pagata abbastanza. Oggi si potrebbe cambiare strada, ma manca una linea condivisa e soprattutto mancano leader carismatici come quelli degli anni Cinquanta. C’è la guerra contro la Russia, ma non è un elemento decisivo per la nostra economia. Draghi ha ragione: siamo potenti, ma incapaci di far pesare questa forza. Ma Draghi potrebbe essere un leader forte e carismatico capace di far cambiare passo all’Europa? È un uomo straordinariamente intelligente, protagonista nei momenti difficili della nostra storia. Ma oggi non ci sono ruoli adatti a lui. E in Italia, va detto, non è neppure molto amato. A proposito dell’Italia in questo scenario europeo che ruolo sta giocando e quale potrebbe avere? Oggi tutto è nelle mani della presidente del Consiglio. Non ci sono ministri degli Esteri o della Difesa che possano sviluppare politiche diverse da quelle della premier. Meloni ha scelto subito di schierarsi con gli Stati Uniti, ma osservando Trump mostra qualche cautela nel seguirlo fino in fondo. Grazie al suo intuito e alla sua furbizia riesce a restare a galla tra un’ipotesi americana dell’Europa, un’ipotesi europea dell’Europa, un’ipotesi italiana dell’Europa. Non la si coglierà mai in fallo nel privilegiare apertamente una di queste visioni, perché resta sempre su tutte e tre. Come dice spesso lei è una brava surfista? Ha costruito la sua carriera sull’onda. Ha un’attenzione spietata ai sondaggi e sente istintivamente il vento che tira. Gli altri non hanno questa specie di fiuto dell’onda, hanno le loro posizioni, le loro ideologie, i loro programmi movimentisti, lei ha il fiuto dell’opportunista. È l’unico modo per restare nella realtà: non dominante, ma vitale e resistente. In questo quadro Giorgia Meloni allora durerà a lungo al potere, vista la difficoltà delle opposizioni? In Italia il potere può durare quarant’anni, come è successo con la Dc, o poco tempo, come per Renzi o Conte. È impossibile prevedere il lungo periodo. Meloni sembra strutturata per resistere alle onde di lungo periodo, ma se arrivasse una crisi come quella del 1993, gestita da Amato, come reagirebbe? Non lo sappiamo. Sappiamo solo che sulle onde dell’opinione pubblica è abilissima. A proposito del 1993, allora il sistema giudiziario travolse la politica. Oggi si discute molto della riforma della giustizia: il referendum può dividere di nuovo l’Italia? È una bella domanda, ma non ho una risposta netta. Politici e magistrati si insulteranno e drammatizzeranno il referendum, ma non ci sarà più la durezza di Mani pulite. Non vedremo pm alla Borrelli e Di Pietro o leader urlanti. Ci saranno firme, dichiarazioni, ma non la rabbia, l’odio e la voglia di cambiare di allora. Ricordiamo le monetine, le manifestazioni: quello era odio vero, magari fomentato, ma reale. E oggi? Oggi non ci si prepara a battaglie profonde. La maggioranza degli italiani conosce poco il referendum e se ne interessa ancora meno. È una questione tecnica: la divisione delle carriere non scalda il cuore dell’opinione pubblica. L’italiano medio pensa a una carriera unica dei magistrati, se non è mai capitato nelle grinfie della giustizia, per lui la distinzione tra Pubblico ministero e Gip è una cosa molto strana. Quindi convincerlo a intervenire nel referendum in base a sue convinzioni sarà difficile, serviranno campagne di alto livello. Per fortuna oggi non ci sono più le “tricoteuse” sotto la ghigliottina pronte a giudicare tutti. All’epoca di Mani pulite ci sono state ed erano a mio avviso insopportabili, ne conosco alcune e potrei fare i nomi, c’era un astio, un odio, un giudizio morale profondo: sono tutti ladri. Per fortuna quel clima non c’è più. Ma il referendum sulla giustizia rischia di restare un affare per addetti ai lavori. Professore, tornando all’economia secondo lei l’Italia ha ancora la capacità di fare sistema a livello economico? Più che “fare sistema”, l’Italia ha sempre saputo “stare nel sistema”. Non si è mai trattato di grandi strategie coordinate, ma di localismi e realtà territoriali capaci di inserirsi spontaneamente nelle filiere e nelle piattaforme globali. È questa capacità di adattamento a rappresentare la vera forza - e insieme la debolezza - del Paese: ci si adegua a regole esterne, talvolta poco chiare, ma trovando comunque il modo di sopravvivere e spesso prosperare. Lo vediamo anche oggi con il tema dei dazi: le imprese italiane osservano con attenzione, si riorganizzano, cambiano le modalità di esportazione, alcune hanno riempito i magazzini americani prima e perfino di confezionamento dei prodotti. Alcune riusciranno a trarne persino dei vantaggi. Il governo rivendica l’aumento dell’occupazione, soprattutto al Sud. È una fotografia reale o un effetto del Pnrr? L’impatto del Pnrr è stato sopravvalutato. Gran parte delle risorse si è tradotta in piccoli interventi locali - marciapiedi, asili, passeggiate - che hanno generato reddito immediato, senza però incidere davvero sulla struttura economica. Lo stesso vale per il superbonus: ha prodotto ricchezza in alcuni casi, ma non trasformazioni di fondo. Nel Mezzogiorno, piuttosto, è in corso da anni un lento processo di crescita autonoma, che procede quasi per inerzia storica più che per incentivi esterni. Almasri: giustizia e conflitti di Cesare Pinelli Corriere della Sera, 18 settembre 2025 Spetta ai giudici individuare le ipotesi di reato. E il Tribunale dei ministri potrebbe eventualmente sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri davanti alla Corte costituzionale. La scelta del Governo di far scarcerare e rimpatriare il generale libico Almasri ha portato (oltre all’apertura di un procedimento nei confronti dell’Italia davanti alla Corte penale internazionale) all’incriminazione del ministro della Giustizia Nordio per omissione di atti d’ufficio, e per favoreggiamento e peculato insieme al ministro dell’Interno Piantedosi e al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Mantovano, con conseguente richiesta di autorizzazione a procedere da parte del Tribunale dei ministri alla Camera dei deputati. La richiesta non ha compreso il capo di Gabinetto del ministro della Giustizia, Giusi Bartolozzi, pure nominata numerose volte dal Tribunale per il ruolo cruciale che avrebbe avuto nella vicenda. Successivamente, il procuratore della Repubblica ha iscritto invece Bartolozzi nel registro degli indagati per un altro reato: dichiarazioni mendaci al pubblico ministero. La Camera si deve pronunciare sull’autorizzazione a procedere per i ministri, ma nel frattempo l’attenzione si è inevitabilmente concentrata sull’anomalo trattamento giurisdizionale riservato al Capo di gabinetto Bartolozzi. L’articolo 96 della Costituzione attribuisce alla giurisdizione ordinaria la trattazione dei reati commessi dal presidente del Consiglio e dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni, previa autorizzazione a procedere del Parlamento. Che può essere negata se “l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico”. Inoltre la richiesta di autorizzazione è estensibile ad “altre persone”, ma solo per concorso nel reato ministeriale. Dal 1989 ad oggi, vi sono già stati soggetti diversi dai ministri coinvolti nelle indagini preliminari. Ma casi di corruzione come quelli del ministro dell’Agricoltura Alemanno e Calisto Tanzi, o del ministro delle Infrastrutture Lunardi e il cardinale Sepe, fanno comprendere subito la differenza col caso Bartolozzi. Non solo per il fatto di riguardare un capo di Gabinetto, sempre istituzionalmente legato al ministro da un rapporto fiduciario, ma soprattutto perché il ministro Nordio si è pubblicamente assunto la “responsabilità politica e giuridica” per gli atti e comportamenti da lei tenuti. Può a questo punto la Giunta per l’autorizzazione a procedere sollevare conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato davanti alla Corte costituzionale nei confronti del Tribunale dei ministri? Certamente. Ma non per una generica esigenza di “preservare l’equilibrio tra i poteri”, come abbiamo letto. Non funziona così. Il conflitto può essere sollevato quando uno dei poteri affermi che un altro s’è attribuito competenze che non gli spettano. Occorrerebbe dunque dimostrare la concreta violazione di un’attribuzione costituzionalmente riservata al Parlamento da parte del tribunale dei ministri. Come identificarla in questo caso? Secondo la Corte costituzionale le norme mirano a garantire all’autorità giudiziaria “il potere-dovere di perseguire i reati commessi da qualunque cittadino, indipendentemente dalla carica ricoperta” e al Parlamento “il potere-dovere di attuare in concreto la guarentigia prevista dall’art. 96 della Costituzione” (sent.n. 241 del 2009). Detto questo, la questione dirimente sembra quella di stabilire se l’eventuale concorso del capo di Gabinetto nei reati contestati, negato dal Tribunale, sia necessario al Parlamento per valutare l’ipotetica tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o del perseguimento di un preminente interesse pubblico. In questo senso non aiuta il fatto che il ministro della Giustizia abbia dichiarato di assumere come propria ogni responsabilità politica e giuridica della sua collaboratrice. Ma è soprattutto da chiedersi se il coinvolgimento di Bartolozzi quale soggetto concorrente di un reato ministeriale, più che alla valutazione della tutela dell’interesse dello Stato non abbia a che vedere con la qualificazione giuridica dei fatti, che spetta indubitabilmente all’autorità giudiziaria. Tanto che, come chiarito dalla stessa Corte costituzionale (sentenza n. 212 del 2016), ove il Parlamento fornisse una qualificazione diversa da quella del Tribunale dei ministri, toccherebbe al Tribunale promuovere ricorso per conflitto di attribuzione. *Professore di Diritto costituzionale Università La Sapienza, Roma Non solo pm, il caso Milano non è chiuso di Lucia Tozzi Il Manifesto, 18 settembre 2025 Sarebbe un grave errore da parte di chi non intende rinunciare a trasformare la società e invertire i rapporti di forza accodarsi all’esaltazione per i risultati giudiziari. La lettura delle motivazioni con cui il tribunale del riesame ha respinto l’arresto di Manfredi Catella e Alessandro Scandurra ha prodotto uno stato di esaltazione collettiva. Nelle amministrazioni regionale e cittadina, ma anche nei cda delle società immobiliari e dei fondi di gestione del risparmio, nelle redazioni dei giornali che questi controllano, tra gli avvocati d’affari, i costruttori, i soci di quelle fondazioni che hanno generosamente contribuito a dare una spolverata di sociale ai progetti urbani del lusso e della rapina dello spazio pubblico, dei servizi e del verde che ancora qua e là fa capolino nelle nostre strade. In questi circuiti il giudizio negativo dei giudici del riesame sull’impianto probatorio riguardo alle accuse di corruzione nei confronti di alcuni degli imputati è diventato la fine delle inchieste sull’urbanistica a Milano e del caso Milano in generale. Evidentemente non vedevano l’ora di archiviare tutto, di liquidare anni di battaglie, di critica, di crescente consapevolezza da parte degli abitanti del proprio disagio sociale e abitativo e delle sue cause profonde. Chiuderlo con uno sberleffo all’avventurismo della magistratura. Dunque avrebbero vinto, ancora una volta, i ricchi, ormai assurti a unico sale della terra, unici soggetti desiderabili e desiderati da attrarre come turisti e come residenti, unici titolati a decidere come cambiare il territorio, la società, l’informazione, le leggi, le istituzioni e i governi, unici a poter raccogliere i frutti materiali e simbolici di queste trasformazioni e a trasmetterli ai loro eredi. Come i signorotti medievali o i capitalisti dell’Ottocento, potrebbero sottrarre aria e spazio vitale, casa e risorse alla plebaglia senza essere giudicati da nessuno. Non solo dai giudici, ma neanche dall’opinione pubblica. Sarebbe un grave errore da parte di chi non intende rinunciare a trasformare la società e invertire i rapporti di forza accodarsi a questo coro funesto. Magari in nome del fatto che questioni del genere non sarebbero affare della magistratura ma devono essere trattate solo politicamente. Di certo la natura delle questioni è politica, ma il silenzio della politica e dei giornali è stato assordante. Se gli attivisti si sono rivolti alla magistratura è proprio a causa del muro opposto per anni dalla classe politica italiana, diversissima in questo dalle sinistre europee e persino americane. Ma la vicenda giudiziaria non esaurisce la battaglia politica e così tornare a chiudere gli occhi dopo che il clamore dell’inchiesta aveva costretto anche i più pigri ad aprirli sarebbe grave. Una forma anche questa a ben vedere di supplenza giudiziaria, nella modalità della rinuncia. Perché resta arduo considerare legittime o legali le vicende emerse in questi anni, le leggi distorte da decreti, da oscure riscritture e oscure interpretazioni, le procedure opache e antidemocratiche. Può mai essere legale svendere un bene pubblico come lo stadio Meazza e 200mila metri quadri attorno, senza neanche dichiarare come saranno trasformati e con un vincolo pendente, contro la volontà dei cittadini? O legittimo promuovere un Piano casa fondato sulla cessione di terreni pubblici a privati (tra cui Coima) per costruire ancora housing sociale invece di investire nella ristrutturazione delle case popolari? O ancora può essere legale costruire palazzoni nei cortili, trasformare magazzini in palazzi con una “scia”? È lecito che gli attori dello sviluppo immobiliare scrivano i documenti e a volte anche le leggi che riguardano i loro affari? Che esercitino una pressione così forte nei confronti di chi rappresenta l’interesse pubblico? Migliaia di attivisti e abitanti di molte città italiane stanno lottando contro questo modello di governo urbano. E centinaia di studiosi delle disuguaglianze, urbanisti, giuristi, economisti, sociologi, antropologi, filosofi, hanno preso posizione contro le norme ambigue e le proposte di legge che vorrebbero legittimare definitivamente tutto questo. Invocano uno stop alle operazioni più inique a Milano e una revisione più restrittiva del quadro legislativo. A difesa dell’interesse pubblico, il caso Milano non può essere chiuso. Non ancora. Lezioni dal Riesame di Milano: no a indagini fondate sulla presunzione di colpevolezza, sì a carriere separate di Ermes Antonucci Il Foglio, 18 settembre 2025 I giudici del Riesame smontano l’inchiesta sull’urbanistica, criticando il metodo di indagine usato dai pm per teorizzare la corruzione e l’appiattimento del gip alle tesi accusatorie. Separare le carriere serve eccome. Sono soprattutto due le lezioni che si possono trarre dalla lettura delle motivazioni con cui il tribunale del Riesame di Milano ha annullato gli arresti nei confronti di alcuni dei principali indagati dell’inchiesta sull’urbanistica, tra cui l’architetto Alessandro Scandurra (ex componente della Commissione paesaggio del comune di Milano), Manfredi Catella (amministratore delegato di Coima) e l’imprenditore Andrea Bezziccheri (ad di Bluestone). La prima lezione si trae dalle motivazioni con cui è stata bocciata la tesi sostenuta dai pm (con l’avallo del gip) sulla presunta esistenza di un patto corruttivo tra Scandurra e gli imprenditori citati. Non si è di fronte alla bocciatura di una semplice ipotesi giudiziaria, ma di un metodo di indagine che consiste nell’addebitare agli indagati una presunzione di colpevolezza a prescindere dagli elementi raccolti. Lo notano i giudici del Riesame quando definiscono “svilente” la visione che i magistrati milanesi mostrano del rapporto tra professionisti e funzionari pubblici, in cui qualsiasi passaggio di denaro si trasforma in un fatto di corruzione, e soprattutto quando bacchettano il “metodo al contrario” usato da pm e gip per teorizzare la corruzione: anziché procedere “all’accertamento preliminare del patto corruttivo (come, dove, quando) e dell’illiceità della dazione del denaro/utilità, per poi derivare da tali elementi la vendita della funzione pubblica e l’atto contrario ai doveri d’ufficio”, i pm (con l’avallo del gip) si sono mossi “dal supposto atto illegittimo per ritenere automaticamente configurata l’esistenza del patto illecito”. Una modalità di indagine che muove in una direzione opposta a quella prevista dal codice e dalla Costituzione, da tempo in voga non solo alla procura di Milano. La seconda lezione riguarda il tema della separazione delle carriere (proprio oggi la Camera darà il secondo via libera alla riforma costituzionale). Siamo sicuri che qualcuno (leggasi Anm) dirà che la bocciatura del Riesame dimostra come non ci sia bisogno di alcuna separazione delle carriere tra giudici e pm. Peccato però che prima di arrivare al Riesame il “paziente” intanto sia morto: gli indagati hanno subìto una misura cautelare ingiusta, con tutti i noti effetti negativi di contorno sulla propria vita, professione e reputazione. A ben vedere, anzi, sono le motivazioni del Riesame a confermare più che mai la necessità della separazione delle carriere. Con parole molto dure, il collegio infatti bacchetta il gip che ha accolto le richieste di arresto avanzate dai pm e il suo appiattimento al teorema accusatorio: “Il gip, nelle sue valutazioni, rimandando alla richiesta cautelare del pm, omette di considerare le risultanze probatorie nella loro dimensione dinamica riproponendole acriticamente e connotandole di autoevidenza come dimostrano le chiose finali, comuni a tutti gli indagati e ai rispettivi capi di incolpazione, ‘non sussistono dubbi alla luce dei fatti [quali?], delle tempistiche [quali?] e del decorso delle varie pratiche [quali?]’, oppure, avuto riguardo al profilo psicologico ‘stante l’inequivoco tenore delle parole proferite [quali?] e dei comportamenti tenuti [quali?]’”. Si conferma nelle motivazioni del Riesame il ruolo quasi notarile svolto - in questo caso come in tanti altri - dal gip, il vero soggetto che la riforma Nordio punta a modificare, creando un giudice che durante le indagini agisca in maniera veramente terza e imparziale, e non sia invece piegato culturalmente alle tesi dei pm. La separazione serve eccome. Campania. Emergenza salute mentale nelle carceri, il grido d’allarme del garante di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 settembre 2025 L’allarme lanciato dal Garante campano delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello, sulla drammatica situazione della salute mentale nelle carceri trova conferma, in parte, nelle recenti ammissioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Due facce della stessa medaglia che raccontano un sistema al collasso, dove le persone fragili vengono troppo spesso abbandonate al loro destino. Dopo colloqui con detenuti affetti da disturbi psichici nel carcere di Poggioreale, Ciambriello non usa mezzi termini: “L’emergenza relativa alla presenza di detenuti psichiatrici e alla mancanza di personale specializzato non può più essere ignorata”. I numeri sono impietosi: solo a Poggioreale si contano circa ottanta detenuti con disturbi psicotici, molti dei quali erano seguiti dai Centri di Salute Mentale prima dell’arresto. La denuncia riguarda anche aspetti strutturali e organizzativi preoccupanti. A Poggioreale, pur essendo stata costituita l’unità operativa semplice dipartimentale per la salute mentale, con tanto di responsabile nominato, mancano psichiatri, tecnici della riabilitazione, infermieri specializzati e assistenti sociali. Nelle province di Salerno, Caserta e Benevento la situazione non è migliore, con una presenza “statisticamente rilevante” di detenuti con patologie mentali. Grave anche la chiusura, avvenuta anni fa, delle articolazioni psichiatriche di Sant’Angelo dei Lombardi, Benevento, e della sezione femminile ex Pozzuoli. “È stato un errore non averle riaperte né lì, né altrove”, sottolinea Ciambriello, denunciando come “la malattia mentale in carcere sia una realtà complessa, spesso affrontata con l’isolamento anziché con le cure”. Il garante evidenzia una carenza strutturale rispetto agli standard minimi: “Il protocollo d’intesa della Conferenza Stato- Regioni prevede almeno uno psichiatra ogni 500 detenuti: a Poggioreale e Secondigliano questo parametro non viene rispettato”. Le visite mediche si limitano a “due volte al mese per pochi pazienti”, mentre mancano sistematicamente cure adeguate, figure socio- sanitarie di supporto e misure alternative al carcere. Significativa è la convergenza tra le denunce di Ciambriello e le risposte ministeriali sul tema delle Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems). Il garante esprime indignazione per il fatto che “pur avendo il Consiglio Regionale deliberato due anni fa l’istituzione di una terza Rems in Campania, ciò non è avvenuto”. Nella risposta parlamentare, Nordio conferma che la Campania dispone di sole due Rems: San Nicola Baronia (Asl Avellino) e Calvi Risorta (Asl Caserta). Esiste un Punto Unico Regionale per gestire le liste d’attesa, ma non sono forniti dati sui tempi di attesa, sulla reale capienza delle strutture o sui criteri di priorità. La mancanza di informazioni concrete si riflette anche nella gestione delle Articolazioni per la Tutela della Salute Mentale (Atsm). Il ministro conferma che la Campania ne ha sei, “di cui una all’interno della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, dotata di 20 posti letto, attivata nel luglio 2012”. Ma ciò si scontra con quanto denuncia Ciambriello. D’altronde, nella risposta di Nordio, non vengono forniti dati sulla reale operatività di queste sezioni, sul numero di posti occupati o sulla presenza di personale specializzato. Le proposte del garante sono chiare e concrete: assumere immediatamente nuovi psichiatri, costituire unità operative semplici dipartimentali negli istituti più affollati, riaprire le articolazioni psichiatriche chiuse e aprire la terza Rems, come già deliberato. Ciambriello chiede risposte “né ideologiche, né populiste”, ma basate sulla realtà dei fatti e sui bisogni concreti delle persone. Avellino. Francesca Pascale in visita al carcere: “Ora ridare dignità ai detenuti” di Katiuscia Guarino Il Mattino, 18 settembre 2025 L’attivista ha presentato il libro “Pucundria” della scrittrice e sceneggiatrice Maria Rosaria Selo. L’attivista per i diritti Francesca Pascale fa tappa nel carcere di Avellino per lanciare il suo appello alla politica: “Bisogna trovare subito soluzioni concrete per rendere più dignitosa la vita dei detenuti e garantire misure che evitino l’isolamento dei reclusi dalle famiglie”. Ieri mattina la visita nella casa circondariale di Bellizzi Irpino in occasione della presentazione del libro “Pucundria”, della scrittrice e sceneggiatrice Maria Rosaria Selo. L’appuntamento si è trasformato in un momento di confronto sul tema della dignità della vita detentiva. Pascale ha rivolto un appello alla politica, affinché vengano adottati provvedimenti per rendere più dignitosa la vita dei detenuti, sottolineando l’importanza di scongiurare l’allontanamento dalle famiglie. Secondo Pascale non è “necessario trasferire i reclusi in carceri lontane per scontare la pena”. “Grazie al garante regionale Samuele Ciambriello ho iniziato a conoscere meglio la realtà delle carceri spiega Francesca Pascale. La politica deve unirsi per fare proposte serie, dignitose e garantire maggiore rispetto verso il territorio meridionale. Il Sud spesso paga un prezzo più alto rispetto al Centro e al Nord Italia. I detenuti - sottolinea - devono lasciare la propria regione per scontare la pena, determinando così un disastro familiare. Questo allontanamento dalle famiglie aggiunge sofferenza a condizioni già difficili e, in certi casi, disumane. Credo che questo non sia il modo giusto per affrontare la criminalità o i problemi legati alla detenzione”. L’autrice di “Pucundria”, Maria Rosaria Selo, che ha condotto laboratori di scrittura con le detenute del carcere di Pozzuoli, ha portato la sua esperienza raccontando le storie di ciascuna di loro. Per la scrittrice, la cultura rappresenta un’occasione di riscatto e di costruzione di una vita migliore. Il suo libro entrerà a far parte della nuova biblioteca inaugurata due giorni fa nella sezione femminile del carcere. “Esiste la possibilità di un’esistenza al di fuori delle sbarre sottolinea la scrittrice di recuperare, di trovare in sé la forza per ricominciare e costruire una vita nuova e diversa”. È questo il messaggio che l’autrice affida al suo libro, che racconta la storia di due donne, un’agente e una detenuta, accomunate dall’essere state entrambe vittime di violenza. A ispirare l’autrice le storie vere delle detenute di Pozzuoli quando ha svolto i laboratori di scrittura. “Ho conosciuto tante storie, mille sofferenze rimarca Selo. Donne piene di lacrime, che vivono ai margini, al limite della società. Donne che portano il carcere dentro di sé molto prima di essere detenute, perché vivono in una realtà distopica e terribile. In certe condizioni, è facile sbagliare”. A moderare l’incontro di ieri mattina, Arcangelo Zarrella responsabile dell’area trattamentale del carcere. Sono intervenuti, oltre Pascale e Selo, anche la vicedirettrice del penitenziario Samuela Scardino, il magistrato di sorveglianza Francesca De Marinis, l’avvocato Giovanna Perna presidente del comitato per le pari opportunità del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Avellino, la direttrice dell’Uepe Marilena Guerriera e il dirigente sanitario Antonio Pierni. Intanto, il garante regionale per i diritti dei detenuti, Samuele Ciambriello, interviene sull’emergenza relativa alla presenza di detenuti psichiatrici. “Servono subito nuovi psichiatri e specialisti dice Ciambriello. E serve l’istituzione dell’unità per la salute mentale e la riapertura delle tre articolazioni psichiatriche chiuse”. Tra queste quella del penitenziario di Sant’Angelo dei Lombardi. Velletri (Rm). “Prison got talent”, detenuti in gara tra canto, danza e recitazione rainews.it, 18 settembre 2025 Nel teatro del carcere va in scena la finale del primo talent penitenziario. In giuria Rossella Brescia e Luca Guadagnini. A Velletri i detenuti sono protagonisti di “Prison Got Talent”, il primo talent show mai organizzato all’interno di un penitenziario. La finale si terrà domani, 18 settembre, alle ore 15 nel teatro “Enzo Tortora” della casa circondariale. La manifestazione è stata ideata dalla direttrice del carcere, Anna Rita Gentile, con il supporto della Polizia penitenziaria e dell’area giuridico-pedagogica dell’istituto. Alla semifinale, tenutasi a fine luglio, hanno partecipato 40 detenuti. In 15 si sono qualificati per la finale. La maggior parte dei finalisti si esibirà nel canto: Alin, Andrea, Tommaso, Luciano, Fabrizio, Roberto, Cristiano, Fabio, Elsayed, Antonio. Andrea si presenterà anche con un numero di ballo e un’esibizione di karate. Mauro e Roberto porteranno in scena la recitazione, mentre Emiliano parteciperà con un testo di scrittura creativa. In giuria, tra gli altri, ci saranno Rossella Brescia, i cantanti Lavinia Fiorani e Luca Guadagnini, e il giornalista Luciano Sciurba. Il progetto è stato reso possibile anche grazie alla copertura completa dell’organico dei funzionari giuridico-pedagogici della struttura, attualmente composta da 8 unità. Quelle lettere dal carcere e dal nostro sprofondo di Luciana Castellina Il Manifesto, 18 settembre 2025 “Perché ero ragazzo”, il libro di Alaa Faraj per Sellerio. Oggi la presentazione a Roma. Palermo, Casa di reclusione Ucciardone, 9 marzo 2024. “Carissima amica mia Ale, ti mando l’inizio del nostro libro. Mi devi dire solo la verità se va bene o no, ti prego. Ti ricordi? L’altro giorno ti dicevo che faccio sempre la stessa domanda: ‘Perché a me?’ Posso dire dopo 8 anni e 7 mesi di carcere ingiustamente, ancora io cerco il senso di questa ingiustizia. Ma tu non devi sentire la responsabilità di questo mondo così brutto e ingiusto. Non puoi salvarlo. Alessandra, io spero un giorno fuori con te e tutti gli altri potremmo portare 1% di umanità e un poco di diritti umani in Libia”. Questa che ho riportato è la prima pagina del libro (Perché ero ragazzo, Sellerio, pp. 344, euro 17.00) che Alaa Faraj ha scritto attraverso lettere inviate ad Alessandra Sciurba, docente di filosofia del diritto all’Università di Palermo e impegnata anche nei corsi destinati ai reclusi, fino al momento in cui, a seguito di questa pubblicazione, le è stata revocata l’autorizzazione all’ingresso in carcere. È lei che nella postfazione al libro racconta come più di un anno di foglietti scritti da Alaa in stampatello, via via da lei raccolti sul suo computer, siano diventati un volume così bello che il grande editore siciliano di Camilleri, Sellerio, ne ha fatto un libro che oggi verrà presentato a Roma nella sede di “Libera”. Non c’è, purtroppo, un lieto fine, perché nel frattempo Alaa Faraj, il suo giovane autore, è stato colpito dalla conferma di quella che si potrebbe chiamare una condanna a morte: la revisione del processo la cui sentenza definitiva ha già tenuto in carcere per 10 anni Alaa e i suoi compagni, e che continuerà a 2015, ne avranno 50 quando potranno tornare liberi. Ma di cosa diavolo sono stati incolpati questi 3 ragazzi libici di Bengasi, 3 ragazzi campioni di football nel loro paese e anche studenti di successo, che, amareggiati dalla guerra fratricida che spacca la Libia e che ha tutto paralizzato - il calcio, lo studio e ogni altra cosa - sono emigrati nel solo modo possibile: ricorrendo ai viaggi clandestini? Erano saliti su una barca con altre centinaia di persone. Tutti non libici i viaggiatori - asiatici e subsahariani - tranne loro tre e altri due giovani incontrati sulla spiaggia prima di partire. Con i trafficanti i bengasini condividono solo la lingua, che ovviamente usano per comunicare con loro all’inizio del viaggio, prima di vederli tornare a riva a organizzare altri traffici e abbandonare la barca senza equipaggio e pronta a diventare una bara galleggiante. Perché nel fondo dello scafo i trafficanti hanno rinchiuso decine di persone. E al momento del soccorso gli altri passeggeri scopriranno che ci sono 49 cadaveri, morti asfissiati nella stiva. Anche Alaa e i suoi amici non sapevano nulla, ma arrivati in Sicilia, per la loro origine, vengono percepiti sin dallo sbarco come parte del cosiddetto staff, e vengono automaticamente mandati in carcere anziché nei centri di accoglienza per i rifugiati, senza riscontri né confronti con i loro compagni di viaggio. Di lì, da 10 anni, non sono mai più usciti. No, non voglio raccontarvi così la storia. Alaa la racconta bene e nei dettagli. La ragione per cui ne scrivo ora con rilievo è perché non basta leggerci il libro a casa nostra, questa non è infatti una vera recensione, ma un appello: non è possibile che ci rassegniamo ad accettare una vicenda così dolorosa. Oggi 18 settembre, alla presentazione del libro che si farà a Roma nella sede di “Libera” con Don Ciotti, e col sostegno persino del vescovo di Palermo che lo presenterà la settimana successiva in Sicilia, penso dobbiamo essere presenti tutti, col corpo e con lo spirito, per richiamare l’attenzione su un fattaccio come questo, caso estremo ma rappresentativo di altri centinaia di casi in Italia, un altro dramma della migrazione. Dobbiamo profittare della presentazione del libro per dare inizio a una campagna che salvi i ragazzi ma anche la dignità della giustizia italiana. Che chiami in aiuto il presidente della Repubblica e la nostra Magistratura. Che mobiliti ogni pezzo della società perché la catena di orrori cui stiamo assistendo non diventi scenario abituale. Già è immenso il dramma di chi è costretto a scappare illegalmente e dal proprio paese per approdare in un’Europa che li tratta come invasori nemici senza neppure ragionare sul fatto che a questa fuga sono stati costretti proprio da un colonialismo occidentale (antico e neo) esercitato da secoli e che ora gli nega asilo. Cosa fare? Non lo so. So però che non possiamo voltare la testa da un’altra parte. È sulla nostra soggettività e dunque sul nostro impegno nel chiedere che si rifletta su una vicenda così drammatica che possiamo contare, su quanto ognuno di noi si impegna a fare perché si affronti con umanità questo caso-limite così come tutto il problema dell’immigrazione, perché si trovino strumenti che consentano di rivedere sentenze così ingiuste. Questo è il solo nostro potere. Dobbiamo usarlo. In un Paese civile lecite tutte le idee. Solo la violenza le rende inaccettabili di Serena Sileoni La Stampa, 18 settembre 2025 Anche se moralmente sbagliate non possono mettere in pericolo la pacifica convivenza. Pini Zorea, professore di una università israeliana ospite del Politecnico di Torino per un corso di dottorato, è stato sospeso dall’attività didattica per aver affermato in aula che l’esercito israeliano è il più corretto al mondo. Ognuno si farà da sé un’opinione su quanto possa essere sbagliata l’esternazione. È però certo che - in una Repubblica dove “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento” - essa non può essere, come l’ha definita il rettore del Politecnico, “inaccettabile”. E non lo è non per il suo valore intrinseco, ma perché, buone o cattive, tutte le idee in un Paese libero sono accettabili. La libertà di insegnamento, poi, che è attività personale e non della scuola o dell’università dove si presta servizio, è persino più grande di quella di pensiero. L’alternativa, infatti, sarebbe l’insegnamento condizionato, se non imposto, da qualcuno (il ministero, il dirigente scolastico) o qualcosa (la legge, le circolari). Un pericolo che noi figli e nipoti della democrazia nata dopo il fascismo dovremmo capire al volo e ricacciare senza tanti distinguo. Naturalmente, ci sono cattivi insegnamenti e cattivi maestri, in aula e fuori. I giudizi sull’attualità sono oltretutto un campo minato. Quello che nella storia è sedimento, nell’attualità è movimento. Più riguardano quello che ci circonda, più le nostre opinioni, simpatie, esperienze influenzano le nostre convinzioni. Ma proprio la libertà di insegnamento permette di farci più di un’idea, di sentire più di una versione, ascoltare e studiare punti di vista diversi, anche eccentrici e minoritari, evitando la tirannia del pensiero unico. Che è il modo più sano, libero e democratico di sopravvivere alle idee sbagliate. Sempre martedì, durante la sua prima lezione del nuovo anno accademico a Pisa, il prof. Rino Casella veniva interrotto dall’irruzione di un gruppo ProPal, con tanto di aggressione fisica, per aver criticato la sua università dopo la sospensione della collaborazione con due atenei israeliani. Nel mondo dell’ovvio, i due episodi sono di una differenza evidente. Nel primo caso, un docente ha subito un trattamento disciplinare per l’esternazione di un’opinione. Nel secondo caso, in nome di una “causa” un docente è stato aggredito. Non importa, qui, giudicare le due idee sulla base di quel che sostengono. Importa ricordare una delle cose più scontate della nostra civiltà, che appare oggi più in pericolo che mai: un’idea, di per sé, non può mai mettere in pericolo la pacifica convivenza. Ciò che la rende pericolosa, e quindi inaccettabile, è un elemento esterno ad essa: il grado di violenza con cui può essere diffusa. Da molti anni, la retorica dell’hate speech ha avvelenato i pozzi della libertà di espressione e di insegnamento. I discorsi odiosi saranno pure detestabili, sul piano intellettuale e morale, ma ritenerli illeciti, sul piano legale o disciplinare, vuol dire consegnare a qualcuno che ha un potere di comando su di noi l’autorità di dirci cosa è giusto o sbagliato dire. Quanta distanza c’è, allora, tra sospendere un docente per quel che ha detto e chiedergli un giuramento di fedeltà? Quanto lontane sono le forme di censura a quella reticenza che - dagli oggi, dagli domani - applichiamo più o meno consapevolmente alle nostre esternazioni? Quale differenza c’è tra una censura pubblica e istituzionalizzata e la pressione privata, esercitata dai livelli manageriali e direzionali, nel dirci cosa possiamo dire senza rischiare il posto di lavoro o per essere assunti? A queste domande, il pensiero occidentale ha dato risposte inequivocabili. Da anni, tuttavia, una degenerazione progressiva del rispetto di chi ha un’idea diversa dalla nostra, della capacità di riconoscere l’altro nella sua individualità prima che nei gruppi in cui lo identifichiamo è diventata una caccia alle streghe, un elemento di esclusione, persino di auto-esclusione. Qualche giorno fa, il professor Francesco Tuccari, presidente uscente dell’associazione italiana di storia del pensiero politico, davanti all’alternativa tra portare avanti una mozione di condanna del genocidio a Gaza col nuovo direttivo o rinunciare alla ricandidatura, ha preferito cedere comunque il passo e non strumentalizzare (o essere strumentalizzato da) qualsivoglia “causa” alla candidatura, peraltro unica, alla presidenza di un’associazione di professori. Kirk è morto per le sue idee e la sua morte per una parte dell’opinione pubblica ha un peso diverso proprio a causa di quelle idee, in quanto sbagliate. Al tempo stesso, chi vuole vendicarla è pronto, come ha detto la procuratrice generale degli USA Pam Bondi, a prendere di mira e perseguire chi si impegna in discorsi d’odio, invitando i datori di lavori a licenziare chi dice cose orribili. L’America, questa America è lontana. Eppure anche da noi, nelle culle della libertà di ricerca e insegnamento che sono le università, c’è chi di idee ferisce e in nome delle idee viene zittito. Medio Oriente. Il dossier Onu, la parola “genocidio” e gli interrogativi ineludibili di Maurizio Delli Santi Avvenire, 18 settembre 2025 La Commissione Onu fissa un punto fermo: quanto sta accadendo a Gaza si avvicina drammaticamente alla definizione di genocidio sancita dalla Convenzione del 1948. Il rapporto della Commissione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite, guidata da Navi Pillay, non è solo un documento giuridico: è uno specchio nel quale la comunità internazionale è chiamata a riconoscere la propria immagine. Settantacinque pagine fitte di testimonianze, dati e analisi che, senza avere, al momento, forza giuridica vincolante, fissano però un punto fermo: quanto sta accadendo a Gaza non può più essere ridotto a “conseguenza inevitabile” della guerra, ma si avvicina drammaticamente alla definizione di genocidio sancita dalla Convenzione del 1948. La forza del dossier sta proprio nella sua essenzialità. Non proclami, ma un elenco puntuale di atti che corrispondono ai criteri della norma internazionale: i riscontri parlano di uccisioni diffuse, inflizione di sofferenze fisiche e psicologiche, distruzione deliberata di condizioni di vita essenziali, impedimento all’accesso ad acqua, cibo e cure, devastazione di ospedali e strutture sanitarie. Il rapporto insiste poi su un aspetto che pesa quanto le prove materiali: le parole pubbliche. Le dichiarazioni di leader e comandanti che parlano di “annientamento” e “distruzione totale” non sono, per i giuristi della Commissione, semplice retorica bellica, ma indizi concreti di quell’intentio necandi che la Convenzione considera decisiva per qualificare il genocidio. Non si tratta di valutazioni astratte: la Commissione sottolinea che in presenza anche di “solo” rischio genocidio gli Stati non possono restare fermi. La Convenzione del 1948, infatti, non riconosce solo un divieto, ma impone un obbligo positivo di prevenzione. È inevitabile richiamare la figura di Raphael Lemkin, il giurista ebreo polacco che per primo coniò il termine “genocidio” per colmare il vuoto del linguaggio giuridico: quei massacri erano “crimini senza nome”. A Gaza, oggi, secondo la Commissione Onu, quel nome non può più essere eluso: il rapporto segna proprio il passaggio dall’indicibile al definito, dalla denuncia morale all’inquadramento giuridico. Il percorso che attende il rapporto è chiaro. Come previsto dalle procedure Onu, verrà discusso dal Consiglio per i diritti umani a Ginevra, che potrà approvarlo e trasmetterlo ad altri organi. L’Assemblea generale potrà adottare risoluzioni di condanna o chiedere un parere consultivo alla Corte internazionale di giustizia. Il Consiglio di sicurezza, se non bloccato dai veti, potrebbe invece decidere misure vincolanti: deferimenti alla Corte penale internazionale, sanzioni, pressioni diplomatiche. Ma, indipendentemente da questi passaggi, il dossier ha già un peso giuridico e politico concreto: costituisce un documento ufficiale, destinato a entrare nei procedimenti pendenti all’Aia, dal ricorso del Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia alle indagini della Corte penale internazionale su Hamas e sul governo israeliano. Le reazioni della comunità giuridica sono significative. William Schabas, tra i maggiori esperti di diritto penale internazionale, lo considera “un passo inevitabile verso la qualificazione giuridica del genocidio”. Philippe Sands, pur con maggiore prudenza, ammette che il materiale raccolto pone interrogativi seri che i giudici non potranno eludere. È la cifra del dibattito: da un lato chi ritiene già pienamente integrata la fattispecie, dall’altro chi richiama alla severità degli standard probatori. In mezzo resta una certezza: la questione non potrà più essere archiviata come discussione accademica. Si potrebbe pensare che nulla cambierà, che i veti incrociati al Consiglio di sicurezza paralizzeranno ogni decisione, che gli interessi geopolitici prevarranno ancora una volta. Ma la storia insegna che rapporti simili, dal Ruanda alla ex Jugoslavia, hanno finito per incidere: a volte lentamente, ma con la forza testarda del diritto. È vero: il diritto internazionale non è rapido né lineare, eppure ha la capacità di costruire memoria e di aprire processi che, nel tempo, producono giustizia. *Membro dell’International Law Association Colombia. La prima sentenza di giustizia riparativa contro ex leader delle FARC ilpost.it, 18 settembre 2025 In Colombia, per crimini commessi durante la guerriglia: non andranno in prigione ma dovranno impegnarsi in progetti a favore delle vittime. Martedì un importante tribunale colombiano, la Giurisdizione speciale per la pace (JEP), ha emesso la sua prima sentenza contro sette ex membri del segretariato militare delle FARC, una forza paramilitare che combatté contro il governo dalla metà degli anni Sessanta fino al 2016. La sentenza è relativa a crimini commessi tra il 1993 e il 2012, ed è un po’ particolare: si basa sulla giustizia riparativa, non prevede il carcere ma l’obbligo di partecipare a progetti a favore delle vittime. Le persone processate (tra i quali c’è Rodrigo Londoño Echeverri, conosciuto come Timoshenko, che fu l’ultimo comandante delle FARC) sono state dichiarate colpevoli di vari crimini, tra cui il sequestro di oltre 21mila persone, omicidi, torture e violenze sessuali. Sono crimini molto gravi, ma nonostante questo le pene sono, tutto sommato, lievi: gli ex guerriglieri dovranno partecipare a progetti di ricerca e identificazione delle persone scomparse durante il conflitto. Dovranno anche contribuire allo sminamento, a progetti di recupero ambientale e a progetti che riguardano la memoria del conflitto, per realizzarne una storia che sia il più possibile condivisa da tutti e favorire la riconciliazione. Le pene dureranno otto anni, durante i quali i condannati non potranno viaggiare liberamente e dovranno indossare un dispositivo elettronico per tracciare la loro posizione: lo svolgimento della pena verrà monitorato dalle Nazioni Unite. Saranno anche obbligati ad aiutare le altre indagini della JEP relative a crimini e fatti avvenuti durante il conflitto. Le FARC (acronimo di Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) furono una milizia di estrema sinistra che dal 1964 al 2016 combatté una violenta guerra civile contro il governo colombiano. Per finanziarsi ricorrevano spesso a sequestri di persona: uno dei casi più famosi riguardò un’importante politica colombiana, Ingrid Betancourt, che rimase prigioniera delle FARC dal 2002 al 2008. Dopo lunghi e complicati negoziati, nel 2016 conclusero infine un accordo di pace con il governo, decisero di sciogliersi e di trasformarsi in un partito, che ora si chiama Comunes. Il fatto che le pene decise dalla JEP siano così lievi è un risultato di quell’accordo, ma è anche una conseguenza della strategia seguita per processare i crimini commessi durante il conflitto, che si basa sul principio della cosiddetta “giustizia di transizione riparativa”. La “giustizia di transizione” è l’insieme dei processi e dei meccanismi, giudiziari e non, usati per occuparsi delle violenze avvenute durante un conflitto una volta che si è concluso: serve, in generale, per facilitare la riappacificazione tra le parti che si erano combattute. Semplificando un po’, l’idea della giustizia riparativa è che i responsabili dei crimini ottengano sentenze più lievi e orientate, per l’appunto, alla riparazione dei torti fatti alle vittime, in cambio della loro collaborazione per ricostruire gli eventi che sono oggetto del processo. La JEP è uno degli organi giudiziari creati a questo scopo: fu istituita con l’accordo del 2016 per processare importanti leader politici e militari per i crimini maggiori compiuti durante il conflitto, da parte delle FARC e anche del governo. Può decidere pene per una durata massima di otto anni, e generalmente non prevede il carcere, ma pene alternative che vengono decise d’accordo con le vittime. Chi si rifiuta di collaborare con la JEP viene processato dai tribunali normali e rischia pene molto più severe. Il principio della giustizia di transizione riparativa ha avuto alcune applicazioni in società che si stavano riprendendo da un conflitto, come il Ruanda dopo il genocidio del 1994 e il Sudafrica dopo la fine dell’apartheid, con risultati ancora oggi dibattuti. Alcuni esponenti di associazioni che rappresentano le vittime hanno criticato la sentenza, perché non prevede compensazioni economiche. Dopo aver processato i leader delle FARC, nei prossimi giorni la JEP dovrà emettere anche una sentenza contro diversi ufficiali militari accusati di avere ucciso almeno 6.402 civili ritenuti, a torto, guerriglieri (il cosiddetto “scandalo dei falsi positivi”).